SASSI VIVI, Anna Rottensteiner

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SASSI VIVI Traduzione di Carla Festi

Keller editore



Dentro resti sempre il bambino che sei quando vieni al mondo. Quel bambino che vuole uscire fuori, protendersi e slanciarsi nel mondo, raggomitolarvisi dentro, tenerlo stretto, assaporarlo, accarezzarlo, abbracciarlo. Eterno presentimento di felicitĂ . Il bambino sta nascosto a lungo, si chiude in sĂŠ. Si contrae, si rannicchia, in attesa che qualcuno lo faccia crescere. Quando incontriamo la persona che riconosce dentro di noi quel bambino, che ci riconosce nel nostro essere bambini, solo in quel momento diventiamo veramente noi stessi.

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ll’inizio erano solo piccoli sassi che Dora si portava a casa dai nostri vagabondaggi nei boschi in cerca di bacche o di erbe. Camminava per il bosco, protesa leggermente in avanti, scrutando il terreno, sollevava con precauzione l’un o l’altro sasso da terra, stando attenta a non staccarlo con troppa forza dalla sua nicchia. Lo ripuliva bene dal terriccio e dai piccoli insetti, lo teneva stretto tra le mani e lo tastava. Sento il suo calore, mi diceva, dai, tocca anche tu. Nei primi giorni d’estate Dora faceva sonni inquieti. Quasi pregustasse la gioia dei giorni che si allungavano e che poi sarebbero diventati infinitamente lunghi. Mi svegliavo quando sentivo i suoi piedi cercare i miei, le sue gambe che si allacciavano attorno alle mie e lei che ancora nel sonno faceva scivolare piano il piede lungo la mia gamba. Allora mi giravo verso la finestra per vedere se il sole si era già alzato. Non oscuravamo la camera come facevano quasi tutti da queste parti e così, col passare degli anni, avevamo adattato il ritmo delle nostre giornate al corso del sole. Alle quattro e mezzo i gabbiani cominciavano a stridere per tutta l’isola, strida aspre e acute, dapprima pochi versi, 11


isolati, poi sempre di più, in un crescendo impenetrabile. Uno staccato altalenante di voci e controvoci, che si gonfiava e sgonfiava in un dialogo ermetico. A noi sembrava un’invocazione al sole, all’alba e al tramonto, ogni giorno. Le prime volte non capivo cosa spingesse Dora a uscire tanto presto al mattino. Avevamo appena bevuto il nostro tè e mangiato del pane che lei già mi incitava a raggiungere un posto dove dei massi lisci ed erosi dalle maree, piatti come balenottere spiaggiate, formavano una baia. I fusti delle betulle isolate tra i massi si stagliavano contro le rocce grigie e brillavano di un rosa tenue nella luce del mattino; una cintura di canneti si muoveva appena nel vento leggero. Erano momenti di quiete, il sole non splendeva ancora con tutta la sua forza, ogni cosa era nell’attesa trepidante di un prossimo accadere. Dimenticate ormai le lunghe giornate invernali, un ricordo lontano, rimasto dentro, come le strie glaciali dei graniti che con la spinta dei ghiacciai si erano impresse nel substrato roccioso. Ogni sasso era diverso e le strappava grida di entusiasmo per la forma, la colorazione particolare, la grana grossa o fine, la regolarità delle inclusioni, ovali o rotonde, di un altro colore. C’erano soprattutto graniti e gneis, rocce metamorfiche, che esistevano molto prima della comparsa dell’uomo. I sassi che ci portavamo a casa dai boschi divennero sempre più grossi e pesanti per uno zaino, infine, troppo piccolo. Dora li allineava uno accanto all’al-

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tro dietro casa, senza dividerli per tipo. Il granito rosso con le inclusioni scure vicino a quello brunastro con le sue ombreggiature, costellato di regolari filamenti chiari; sassi di un grigio tenue chiazzati di bianco e verde. Forme perfette, rotonde e piatte, ma prendendole in mano si sentivano delle scalfitture, piccole tacche e solchi impercettibili a occhio nudo. Gneis granuloso, pieno di spigoli, come lavorato a piccone e scalpello; lastre che a sollevarle si rivelavano tridimensionali, scavate e levigate dai millenni, sgranate e porose all’interno, perfettamente lisce all’esterno. Anche di sera qualcosa spingeva Dora verso quella baia aperta a ovest, immersa nella luce del sole che a seconda del tempo e delle nuvole era appeso in cielo come una palla infuocata. La luce s’infrangeva nelle nuvole, sfumando tra l’oro e il rosso scuro, i fusti degli alberi sembravano incendiarsi. L’acqua, un telo teso tra le isole. La roccia espirava il calore del giorno. Qui va bene, disse, dopo aver osservato per qualche settimana i movimenti del vento nella baia. Questo è il posto giusto.

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n tempo mia madre poteva dirsi bella. La pelle chiara, poche le rughe anche più avanti negli anni, gli occhi celesti e sopracciglia regolari. Gli zigomi alti, le labbra un po’ sottili e serrate. Alta e fiera. Una volta, durante un soggiorno a Maria Lichtmoos, il paese in cui sono nato, mi capitò di visitare una mostra di disegni e acqueforti a cui l’artista aveva dato il titolo A mia madre. Riconobbi in quella madre la mia: il riserbo delle braccia conserte, il viso rivolto a una luce lontana che da fuori sembrava illuminare il disegno. Il portamento eretto e inflessibile. Era una contadina, mia madre, ma non portava il fazzoletto, se non per andare in stalla. Era orgogliosa dei suoi capelli, che teneva raccolti in corone di trecce girate intorno alla testa. Mi ricordo come il sabato sera, dopo che in ginocchioni aveva strofinato le assi della cucina, della stube, della camera e del balcone, si scioglieva le trecce, il viso caldo e arrossato, e si lavava i capelli con l’acqua bollente rimasta nella vaschetta del fornello che prima aveva mescolato con quella fredda del mastello. Seduto sulla panca accanto alla stufa, attraverso lo spiraglio della porta aperta la guardavo strizzarsi i capelli, proprio come poco prima aveva fatto con lo strofinaccio, e poi intrecciarli di nuovo. Per un attimo riuscivo a intravederli, lunghi, sciol15


ti, a onde regolari. Poi lo spiraglio si chiudeva: mia madre si lavava. Conservo da decenni dentro di me il ricordo di quei rari momenti d’intimità condivisa e inosservata. Ricordi preziosi sui quali vigilo, come da bambino vigilavo sul primo Kirchtagskrapfen che mia madre estraeva dal grasso sfrigolante e metteva su un piatto e che io potevo solo mangiare con gli occhi, per non scottarmi subito la bocca con la marmellata calda. Non parlavamo molto, esisteva una specie di muta intesa tra lei e me, che ero il suo unico figlio. In paese la consideravano una donna caparbia, una che non si faceva dire niente da nessuno. Decideva come pareva giusto a lei, senza curarsi di ciò che gli altri pensassero della sua intransigenza. E non poche volte avevano scosso la testa, come quando, dopo la morte del marito, mio padre, aveva deciso di occuparsi del maso da sola, senza assumere braccianti perché con i soldi non ce l’avrebbe fatta. Un maso piccolo, pochi ettari di prato attorno alla casa, una stalla con tre mucche, quattro maiali e una buona dozzina di galline. Ma era molto lavoro per una persona sola. Anch’io fin da bambino avevo compiti e responsabilità, le galline, la pastura dei maiali, l’orto da annaffiare. Caparbia e cocciuta sì, ma in paese non la piantarono mai in asso quando c’era da portare dentro il fieno, macellare le bestie o svuotare i favi. Nella nostra piccola comunità, in fondo, era una donna “onorata”. Non voleva favori da

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nessuno, contraccambiava ogni aiuto nel limite delle sue possibilità. Quando il maestro venne ad abitare nel piccolo appartamento ricavato all’interno del maso, l’equilibrio tra mia madre e i paesani iniziò a sgretolarsi; lentamente prima, poi con aspra e malcelata cattiveria. Lei non era contraria ma neppure d’accordo che il signor Armando venisse a vivere da noi, era successo senza che lo volesse, ma anche senza alcuna resistenza da parte sua. Era stato deciso in tutt’altro luogo. Un giorno si era presentato alla porta il podestà. Uno che era tristemente noto per la sua inclinazione a gioire di situazioni che per altri erano sgradevoli. Accanto a lui un uomo piccolo e fine, con un viso dai lineamenti morbidi, occhi chiari e vivaci, le sopracciglia spesse, i capelli scuri e mossi, pettinati all’indietro. Pioveva e l’autunno era alle porte. Il signor Armando restò a fare scuola ai bambini del paese.

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