CLAUDIA SCHREIBER, La felicità di Emma, Keller

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CLAUDIA SCHREIBER

LA FELICITÀ DI EMMA Traduzione di Angela Lorenzini

Keller editore


L

a stanza da letto di Emma era un porcile: la biancheria sbucava fuori dall’armadio e dai cassetti, pile di giornali e di fatture non pagate le facevano da comodino e da sgabello, e gomitoli di polvere grossi come gatti rotolavano sotto il letto impigliandosi in resti di pane mangiucchiato. Fuori il sole nascente tingeva i campi di rosso e la rugiada si posava sui prati. Emma si avvolse stretta stretta nel piumino, godendosi il calore di quell’abbraccio. Provava invidia per i suoi maiali, che se ne stavano sdraiati sulla paglia fresca uno addosso all’altro, respirando tutti allo stesso ritmo. Riempivano le loro giornate di uno splendido far niente. Di mattina e di sera, di giorno e di notte – i suoi maiali passavano il tempo a mangiare, a rotolarsi nella melma, a grattarsi voluttuosamente la schiena contro lo steccato o anche solo a starsene stravaccati uno contro l’altro, pelle contro pelle. E quando questo invidiabile stile di vita li aveva forniti di una bella cotica di lardo, ecco che Emma procurava loro una magnifica uscita di scena, rapida e indolore. Il senso di quella vita suina raggiungeva la sua espressione più piena in un insaccato celestiale. Agli occhi di Emma, nessuna esistenza terrena era più

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magnifica, semplice, significativa e riuscita di quella dei maiali che lei stessa allevava nella sua fattoria. Emma si alzò e uscì, scalza, con addosso la sua vecchia camicia da notte. Le venne incontro il gallo, impettito come un ufficiale in servizio. Emma salutò alla militare. Sembrava proprio che il pennuto le stesse facendo uno zelante rapporto: “Niente da segnalare, tutto in perfetto ordine”. Poi fu la volta del gatto, che venne a strofinarsi sulle gambe di Emma mendicando qualche coccola e quindi la seguì in giardino. C’erano fiori ovunque e vigorosi cespugli fiancheggiavano lo steccato. Zucchine, peperoni, aglio, pomodori – tutto era in lussureggiante rigoglio; niente rosicchiature di lumaca, nessuna traccia di pidocchi. Emma raccolse un paio di lamponi e se li infilò in bocca. Sentire il calore della terra umida sotto i piedi nudi era una vera goduria. Soddisfatta, inspirò a fondo l’aria estiva e osservò un’allodola che cantava proprio sopra di lei. Andò in stalla e salutò la vacca con alcune vigorose pacche sul dorso. Per placare la sete mattutina, Emma si sdraiò sotto la pancia dell’animale e iniziò a mungerlo, spruzzandosi il latte direttamente in bocca. Non tutti i getti però colpivano nel segno: il latte le colava negli occhi e lungo il collo, insinuandosi nella scollatura della camicia. Emma si asciugò la bocca con la manica come fanno i bambini, beata e soddisfatta. Infine si intrufolò nel pollaio e prese tre uova.

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Come ogni giorno, mise sul fuoco un tegamino e accese la TV. Il suo presentatore preferito disse: “Buongiorno, gentili telespettatori”. Ma Emma poté udire con chiarezza il solito amorevole “Buongiorno, Emma!” destinato a lei personalmente. Ricambiò il saluto, quindi si girò sorridendo, fece friggere le uova e tagliò il pane. In quel momento sentì un’auto che entrava nel cortile. Dal rumore di ferraglia capì che si trattava del maggiolino sgangherato di Henner, il poliziotto. Emma andò alla finestra e pulì il sudiciume da un angolino del vetro per controllare se Henner portasse o no il cappello. Se era senza veniva in pace, col cappello invece veniva a piantar grane. Aveva il cappello! Emma afferrò imprecando il fucile che teneva sempre carico accanto ai fornelli e corse fuori, scalza e con addosso solo le mutande e la camicia da notte macchiata di latte. Henner se ne stava in piedi davanti alla macchina bianca e verde con una voluminosa busta tra le mani. Sapeva di portare brutte notizie e sapeva anche che Emma lo sapeva, perciò fu comprensivo quando lei gli andò incontro col fucile carico e muggì: «Cosa sei venuto a fare qui, vecchio scorreggione!» Il povero Henner era tra l’incudine e il martello: alle sue spalle si levavano infatti altre orribili grida. Era venuta anche sua madre. La donna sedeva sul sedile posteriore e adesso stava cercando con grande sforzo di uscire dal maggiolino in retromarcia, cavandone innanzitutto il suo enor-

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me didietro. Era ancora incastrata tra il sedile e lo sportello e già sbraitava a beneficio di Emma: «Il mio Henner è un pubblico ufficiale, può querelarti, può sbatterti in galera, se vuole, per offesa a pubblico ufficiale, vecchia scorreggiona!» Solo a questo punto la vecchia riuscì a raddrizzarsi del tutto ed emerse da una nuvola di fumo grigio. Da un angolo delle sue labbra flaccide pendevano contemporaneamente un filo di bava e una cicca arrotolata a mano. La donna succhiò una dose di nicotina dalla sigaretta, socchiuse le palpebre per via del fumo che le irritava la congiuntiva e disse, lanciando un’occhiata di disprezzo alla camicia lurida di Emma: «Dio, com’è conciato quel coso!» E con “quel coso” non intendeva dire la camicia, ma proprio Emma; le donne da quelle parti appartenevano al genere neutro. Sul punto di scoppiare dalla rabbia, Emma non trovò di meglio da fare che sparare un colpo in aria. La cosa non parve risultare affatto nuova a Henner, che non fece neanche una piega. Sembrava solo triste. Assunse uno sguardo da cane con la congiuntivite e implorò sua madre: «Torna in macchina, se no è l’ultima volta che vieni con me». E poi aggiunse, rivolto a Emma: «Per favore, non rendermi le cose ancora più difficili». E accennò alla busta che aveva in mano.

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«Hai tre mesi di tempo a partire da domani. Entro allora devi aver sloggiato. Gli animali devono restare qui, verranno messi all’asta insieme all’immobile. Hai una sporta di debiti». Emma alzò il pugno come se avesse avuto in mano un coltello: «Vieni qui, che te la do io la sporta! Se qualcuno prova a mettere le mani sulla fattoria, lo squarto come un maiale. Te lo giuro». Henner sapeva che era vero. Quella donna era abituata a uccidere. La ammonì col dito, in modo piuttosto patetico: «Emma, voglio far finta di non aver sentito». Lei gli puntò il fucile dritto sulla patta dei pantaloni: «Sparisci, Henner, sparisci subito o ti sparo». L’uomo fece un timido sorriso e si concentrò un momento sulla camicia umida di Emma, sotto alla quale si poteva indovinare senza sforzo il seno nudo. Quindi si tolse umilmente il cappello e fece la sua proposta. Le parole che scelse potevano funzionare solo da quelle parti, infatti disse: «Stupida vacca! Ma perché non ti decidi a venire da me, una buona volta?» Emma abbassò il fucile. Le sue labbra si distesero in un dolcissimo sorriso. Henner l’aveva colpita dritta al cuore. Il vecchio Henner! Basso, ciccio e brutto, debole e sottomesso com’era, restava pur sempre l’unico che l’avesse mai voluta. La prima volta lui aveva sette anni. Emma, sei. Nessuno dei due sapeva bene come funzionasse la fac-

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cenda. Ciononostante, lui la portò nel campo di mais, tutto il paese andava a farlo là. Il mais laggiù si coltivava unicamente per quello. Lei si tirò giù i pantaloni, si sdraiò tra due file di piante belle alte e allargò le gambe. Henner guardò e… non fece nulla. «Adesso devi infilare dentro il tuo coso, Henner» suggerì la bambina. Entrambi pensarono “Dentro, dove?”, ma ciascuno si tenne per sé la propria ignoranza. Poi anche Henner si tirò giù i pantaloni. Ed eccolo appeso lì, il suo coso, piccolo e tondo come un rapanello. E tutto rosso! Emma raccolse una pannocchia ancora acerba. La sbucciò finché non ebbe le dimensioni adatte, quindi la diede a lui. Il giovane Henner la infilò nel culetto di lei, e fu così che lo fecero per la prima volta. Poi si tirarono su i pantaloni. Emma gli fece la lingua e se ne andò. Diventarono grandi ma il rapanello di Henner non si sviluppò, rimanendo per sempre piccolo, tondo e rosso. Eppure Henner la prese di nuovo. Con una pannocchia bella matura, stavolta. Si volevano bene, quei due. Erano in confidenza da una vita, ma a sposarlo Emma non ci pensava proprio. Ma se adesso le portavano via la fattoria? Il discorso allora cambiava. Se solo non ci fosse stata quella mamma che non voleva saperne di togliersi dai piedi, che non vole-

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va dividere il suo bambino con nessuno e che ancora adesso si sputava sulla mano per pulirgli la faccia con la saliva, come a un moccioso, senza che lui avesse il coraggio di reagire! Intanto la vecchia era tornata in macchina e aveva acceso un’altra sigaretta. Emma le lanciò un’occhiata e disse con calma: «Se quella si leva dalle scatole, vengo». Henner iniziò a tartagliare, ma Emma capì perfettamente. Il viso le si fece affilato, le labbra ripresero la piega amara di prima. Rialzò il fucile e sparò due colpi senza preavviso, uno a destra e uno a sinistra dei piedi dell’amico. Henner scosse la testa con tristezza e appoggiò i documenti sul ceppo che Emma usava per decapitare le galline. Era tutto lordo di sangue. Senza aggiungere neanche una parola Henner salì sul maggiolino scassato e se ne andò. Emma gli gridò dietro: «Ehi, rapanello, non sei un vero uomo! Alla tua età, ancora attaccato alle gonne della mamma… vergogna!» Ma non appena la macchina scomparve dietro alla collina, la bocca di Emma si contrasse e grosse lacrime iniziarono a scorrerle lungo le guance. Gettò un rapido sguardo alla busta voluminosa. Non l’avrebbe nemmeno aperta, non avrebbe letto niente, non voleva sapere cosa le comunicavano, lì, in burocratese. Emma gemette come per cacciar via i brutti pensieri. Erano due anni ormai che non saldava nessun tipo di fat-

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tura. I prezzi della carne erano crollati. Poteva allevare e macellare tutti gli animali che voleva. Intere generazioni erano vissute in quella fattoria, ma ciò che a loro era bastato adesso era poco perfino per mantenere lei sola. Un porcellino da latte venne avanti dondolando e le si appoggiò contro le gambe. Emma si accovacciò e lo prese in braccio. Affondò il viso tra le sue setoline morbide e, col lattonzolo in braccio, rientrò in casa.

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