Klaus Modick, SUNSET

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klaus modick

SUNSET Traduzione di Enrico Paventi

Keller editore


Titolo originale: Sunset Traduzione dal tedesco di Enrico Paventi Originally published in 2011 under the title “Sunset” by Eichborn A Division of Bastei Lübbe Publishing Group Copyright © 2011 by Bastei Lübbe AG. immagini utilizzate per la copertina © shutterstock | Mikhail Bakunovich | mamanamsai | Transia Design © 2015 Keller editore via della Roggia, 26 38068 Rovereto (Tn) t|f 0464 423691 www.kellereditore.it redazione@kellereditore.it prima edizione, marzo duemilaquindici


Sunset



Pensate a noi con indulgenza bertolt brecht, Ai posteri



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T

ra il cielo e il mare si estende la nebbia del mattino, trascina nel suo abisso argentato la spiaggia e la litoranea, ma dà l’impressione di arretrare davanti alle palme. Gli scarni tronchi si stagliano come creature di epoche leggendarie, arcaiche custodi del territorio che, con le loro lance aguzze e pennute, tengono a bada la nebbia. Il sole, dapprima una macchia lattea a oriente, squarcerà ben presto il sipario, ne dissolverà i brandelli in foschia e consentirà allo sguardo di spaziare sul palcoscenico del mare, sull’immutabile spettacolo fornito dall’acqua, dalla luce e dall’aria. La linea dell’orizzonte arriverà allora nel punto indicato adesso dalle dita dell’uomo che, braccia protese in avanti e reni inarcate, piega lentamente le ginocchia e si riporta in posizione eretta. Comincia a contare, in silenzio. Dopo la decima flessione sulle gambe aumenta il ritmo, dopo la ventesima avverte un appesantirsi della muscolatura e delle articolazioni che lottano contro la forza di gravità, dopo la trentesima respira affannosamente come se camminasse ad alta quota. È la logica dell’esercizio, e cinquanta flessioni sulle gambe costituiscono l’obiettivo di colui che lo sta praticando. Alla trentatreesima il suo corpo avverte una leggera fitta. Di che si tratta? È 11


qualcosa che non ha mai avvertito prima. Qual è l’organo che si trova in quel punto? I reni? La milza? Alla quarantaduesima la fitta si fa più acuta. Ignora il dolore, raggiunge la cinquantesima ansimando, scrolla le braccia e le gambe. Si stende bocconi sulla stuoia, respira profondamente e con maggior calma. Nell’intreccio delle canne, in quella sobria artisticità, riconosce qualcosa di familiare. Ha a che vedere con il suo lavoro. Gli verrà in mente di nuovo. Saprà trovare le parole. Comincia con le flessioni sulle braccia. Conta, lotta contro la propria debolezza, contro la palude della vecchiaia che diventa di giorno in giorno più tenace. E quanto più tenacemente l’acquitrino lo soffoca, tanto più sovente e vivo torna l’orrore, quel panico provato dal bambino che durante una passeggiata rimase impantanato nella palude, chiese aiuto, mendicò soccorso piagnucolando, ma ebbe in riposta solo canzonature e risate maligne mentre, attraverso i tetri alberi delle montagne bavaresi che circondavano la palude, iniziava già a filtrare il piovoso crepuscolo. Il bambino, che era lui, riuscì a liberarsi con le proprie forze. Lo shock gli era penetrato fino al midollo, si è annidato nella memoria delle membra e gli arriva talvolta alla testa mediante immagini impressionate da un dolore intenso. E tra le panciute, tozze colonne della balaustra la nebbia sembra ormai un filo più chiara. Alla ventinovesima flessione avverte di nuovo la fitta. Dipenderà magari dal problema alla prostata che per la verità viene considerato superato? Eppure superato a scapito della potenza sessuale, aveva spiegato il chirurgo con un ghigno colmo di imbarazzo. L’uomo fa una smorfia di dolore. La sua capacità lavorativa, perlomeno, è rimasta inalterata. È davvero così? Da allora è venuto a mancare qualcosa. La sua voglia di lavorare è stata sempre sollecitata dalle donne, dalla loro am-

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mirazione, dal loro appassionato entusiasmo per la sua opera. Oppure, se non per l’opera, almeno per il successo e la fama. Successo e fama l’hanno reso attraente, proprio lui che era l’ebreo più piccolo e brutto di Monaco. Era stato lui stesso a definirsi così quando aveva conquistato Marta, una delle donne più belle della città. Anche allora l’ammirazione aveva già avuto la sua importanza dato che, per quanto fosse piccolo e brutto, era comunque intelligente, più intelligente della maggior parte delle persone. E nel lavoro era tenace e diligente, sicuro di sé ed energico, come nell’amore. Acqua passata. È rimasto solo il lavoro, mentre la fama e il successo non hanno mai cessato di crescere. È rimasta però anche Marta che, da amante, è diventata moglie e compagna. Lui ne ha ammirato e desiderato ardentemente l’avvenenza, ma dopo tutti gli anni vissuti insieme non è quasi più sensibile al fascino del suo corpo. Adesso vede solo l’essere umano, la donna con la quale vive e non bada più alle sue mani e ai suoi occhi, alle gambe e ai seni: è come se quel corpo avesse perso le proprie peculiarità. Qualcosa di simile, nei suoi confronti, capiterà anche a lei, meglio non farsi illusioni. L’amore nutrito da Marta ha però superato tutte le tempeste e continua a essere una creatura solida, forse più che mai. Può darsi che altre creature continuino a essere incantevoli, ma non seducono più. Addominali, spalle e avambracci cominciano a far male, ma nel programma è previsto anche il dolore che si dissolverà ben presto in un rilassato piacere, come nebbia al sole. Per aspera ad astra. Succede lo stesso anche nel lavoro. Senza la faticaccia delle indagini, che costituiscono qualche volta uno stimolo nella nebbia delle possibilità, senza la penosa, balbettante ricerca delle parole e delle frasi giuste durante il dettato, senza i

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dubbi che emergono nel corso delle correzioni non ci sarebbe il senso di felicità donato dall’opera compiuta, non il trionfo riportato su una montagna domata, non il dolce sapore del successo, non l’acclamazione del mondo. E senza flessioni sulle gambe, esercizi di stretching, appoggi frontali tesi e corse, il corpo non sarebbe in buona salute e non saprebbe ospitare una mente lucida. L’uomo conta. Mens sana. La fitta. In corpore sano. Saggezza? O un pio desiderio? Come se il suo basso ventre contenesse dei chiodi. I medici gli avranno nascosto qualcosa? Il dolore viene meno non appena torna a distendersi. Passa le mani sul ruvido intreccio di canne. La stuoia viene dal Messico. Le stuoie sulle quali fa riposare, amare, soffrire e morire i suoi ebrei del mondo antico, nel manoscritto che lo sta aspettando nello studio, non dovrebbero essere state molto diverse. Attraverso il silenzio del mattino, ovattato per la nebbia, percepisce voci, mormorii, sussurri provenienti da molto lontano, una nuova forza spettrale ma non irrazionale né inesplicabile ha fatto il proprio ingresso nel pensiero, il tempo come dimensione dello spazio. Durante il loro ultimo incontro Einstein gli ha spiegato con tanta arguzia, con il gusto per la congettura e con una raffinata sensibilità per l’attività letteraria che il passato non è presente soltanto nei libri, negli oggetti o nella memoria, ma anche nella sfera del tempo e dunque anche nello spazio infinito, difficilmente determinabile. Da questo punto di vista non è affatto escluso che, su una qualsiasi lunghezza d’onda della percezione sensoriale, proveniente dal passato, risuoni all’improvviso la rauca voce di Jefte, il capobanda, e il canto di Ja’ala, la sua leggiadra figliola. Perché no? Se è possibile fotografare la luce di alcune stelle, di alcune stelle che nel cosmo si sono spente da un pez-

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zo ma il cui irraggiamento continua a essere documentabile su una lastra, perché non si dovrebbe riuscire a immergersi anche in qualche avvenimento di epoche passate? Si tratterà solo di trovare lo strumento adatto. Il suo strumento è l’immedesimazione, il mezzo il romanzo storico e il presupposto l’indagine scrupolosa. Nella sua immaginazione richiama in vita eventi ormai remoti, attualizza la storia. Pensa al messaggio relativo alla morte di Einstein, ricevuto da più di un anno, e sorride in preda alla tristezza. Il prezzo della vecchiaia è la solitudine. Socchiude gli occhi guardando la nebbia, inspira ed espira profondamente, ravviva le braci sotto la cenere. Il campanello al piano di sopra, accanto al portone, squilla attraverso la porta della terrazza rimasta aperta. L’uomo sobbalza. Chi può essere, così di buon’ora? Il postino di solito viene più tardi. Non si sono annunciati visitatori. Il campanello suona di nuovo. Finora non si era accorto che si tratta di un rumore fastidiosissimo, penetrante, pungente quasi come quel dolore avvertito prima. Andrebbe installato un campanello diverso, uno che suoni come un benvenuto, alla terra d’origine o, perlomeno, in un rifugio. Trilla una terza volta: adesso in maniera continua, assillante. Ad aprire dovrà andare lui. In casa non c’è nessun altro. Marta è partita ieri per San Diego, si è recata da un avvocato a causa dell’infinita, penosa pratica di naturalizzazione e tornerà solo domani. E Hilde, la segretaria, si è presa una settimana di vacanza per sistemare qualche faccenda famigliare a New York. Si alza da terra a fatica, avverte un leggero, diffuso giramento di testa, attraversa lo sterminato salotto nel quale, come ha notato una volta Alma Mahler-Werfel, si potrebbe giocare a pallacanestro. No, non è stata la Werfel a dirlo, il suo senso dell’umorismo era di tutt’altro genere. Probabilmente la si-

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gnora non sa neanche cos’è, la pallacanestro. Chi è stato a dirlo, dunque? Forse Eisler, quel noto avvinazzato? Una corrente d’aria irrompe nell’ambiente. Sente freddo. Da qualche parte, al piano di sopra, sbatte una porta. Nel cortile interno le rose, in uno stanco rigoglio, stanno sfiorendo. Sembra quasi che muoiano dissanguate. Il campanello torna a squillare, stavolta continua a suonare come in preda alla rassegnazione, eppure minaccioso. Forse, davanti al portone, c’è qualcuno dell’ufficio immigrazione, uno di quegli individui sempre irreprensibili, dal sorriso sinistramente cortese, che indossano un abito blu o grigio e si stringono la cravatta al collo, individui dei quali non si sa mai chi siano e cosa facciano davvero. Laureati in legge? Burocrati dell’ins? Gente dell’fbi? Agenti della cia? Esita. Magari, alla fine, sarà arrivato un altro incaricato del Congresso con quella convocazione che gli fa paura da oltre un decennio? Ai piedi della scalinata che sale ripida dal patio al portone, si ferma. Certo, nel frattempo il presidente Eisenhower ha messo fuori gioco il Grande Inquisitore McCarthy e cagnacci come Stripling sono finiti addirittura in prigione. Persecutori fanatici come il senatore Nixon continuano però a coltivare il loro disgustoso orticello al sole dell’anticomunismo, cercano di trasformare la loro paranoia in dottrina di Stato. L’incaricato dovrebbe consegnargli la convocazione personalmente, dovrebbe coinvolgerlo in un arcaico rituale relativo al documento. Se non gli verrà aperto adesso, l’incaricato tornerà domani. O dopodomani. O nel giro di un mese. Quei personaggi tornano sempre. Incaricati del genere non danno scampo, via d’uscita, riparo. Crescerà solo l’ansia che gli pesa sullo stomaco. Che sia provocato dall’ansia persino quello strano dolore lancinante? Quell’ansia che va

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