Olga Grjasnowa, Tutti i russi amano le betulle

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olga grjasnowa

TUTTI I RUSSI AMANO LE BETULLE Traduzione di Fabio Cremonesi

Keller editore



Veršinin: Ma cosa dite! Qui c’è un clima così salubre, sano, autenticamente slavo. Il bosco, il fiume… persino le betulle. Care, modeste betulle, le amo più di ogni altro albero. Si vive bene qui. L’unica cosa strana è che la stazione ferroviaria sia a venti verste… E nessuno sa spiegare il perché. anton čechov Tre sorelle



Parte prima



I.

N

on volevo che quella giornata iniziasse. Avrei preferito starmene sdraiata e continuare a dormire, ma dalle finestre spalancate entravano in camera da letto le risate dei fruttivendoli e lo sferragliare del tram. Il nostro appartamento non era lontano dalla stazione centrale, questo faceva sì che nel quartiere ci fossero vie intere che la gente preferiva evitare, piene com’erano di supermercati a basso prezzo e giganteschi cinema porno. Noi vivevamo lì, tra una lavanderia cinese e un centro sociale frequentato da giovani alternativi che urinavano regolarmente nel nostro androne. L’appartamento era cadente e malridotto, ma economico. Ogni mattina verso le cinque i padri, fratelli e cugini scaricavano i furgoni, sbattevano le portiere, montavano le bancarelle, bevevano il tè, facevano bollire delle pannocchie e aspettavano che la strada si riempisse per mettersi a elogiare la loro frutta con una cantilena automatica. Io mi sforzavo di seguire le loro conversazioni, ma il più delle volte ne afferravo soltanto qualche brandello oppure mi riaddormentavo. Elias era accanto a me: irrequieto, le labbra semiaperte, i rapidi movimenti delle palpebre, il ventre che andava su e giù in modo irregolare. «Sbirro frocio, segaiolo, ti ammazzo!» gridò un ubriaco sotto il nostro balcone. I fruttivendoli risero di lui, sputando semi di zucca per terra. Elias si svegliò, si girò verso di me e mi appoggiò la testa sul 13


ventre senza aprire gli occhi. Le sue mani si posarono sulle mie. Restammo aggrovigliati insieme, finché la sveglia di qualcun altro si mise a ronzare al di là della parete e la mia mano cominciò a intorpidirsi sotto il suo peso. Quando non la sentii più, mi alzai e andai a fare la doccia. La cucina era tutta in disordine dal giorno prima, sui fornelli c’erano pentole e tegami con i bordi incrostati, sul piano di lavoro si accatastavano piatti e bicchieri mezzi pieni di vino. L’aria puzzava di gas di scarico ed era appiccicosa come sciroppo. Stava iniziando il giorno più caldo dell’anno. Elias sedette al tavolo della cucina, nella mano destra un cucchiaio di muesli, nel piatto di fronte a lui delle briciole e mezzo panino bianco ricoperto da uno strato di marmellata rosso scuro. Mi sedetti di fronte a lui, afferrai il giornale e, anziché leggerlo, osservai il suo viso. Aveva gli zigomi alti, occhi grigiazzurri e ciglia scure, che risultavano un pochino troppo corte. Elias era grazioso come un ragazzino. La sua bellezza lo faceva arrabbiare, non restava nella memoria del prossimo come individuo, ma come uno che somiglia a un attore di cui proprio non si riesce a ricordare il nome. Ma era la sua cortesia istintiva più che la bellezza a fare quell’effetto: sulle commesse impazienti, che di colpo smettevano di guardare l’orologio, sulle scolarette, che ridacchiavano, sulle infermiere, sulle bibliotecarie e su di me. Faccia da mascalzone, diceva mia madre. Ma a lei Elias piaceva proprio per la sua faccia, e perché per qualche motivo sapeva come ci si comporta con una famiglia orientale. Versò il caffè sul muesli. Il bianco si sciolse nel marrone, l’uvetta nuotava in superficie. Sul tavolo, sotto il giornale, c’era un libro di cucina aperto da cui una testa di pesce mi fissava con aria interrogativa. Chiusi il libro. «Tu sei vegetariano! Te lo sei già scordato?» dissi in tono scherzoso.

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«Per lo meno io guardo, prima di mettere qualcosa nel forno» rispose irritato. Si riferiva alla sera prima: avevo cercato di fare una quiche, perché volevo introdurre la parola quiche nel mio lessico. Come se fossi un’attrice francese che interpreta una casalinga francese in attesa del suo amante francese che ritorna invalido dalla guerra, e gli prepara una quiche senza sapere quale arto abbia perso. Quiche mi suonava bene e mi piaceva che fosse di genere femminile. Avevo comprato della pasta frolla surgelata che in seguito avevo scoperto essere dolce, e la quiche era immangiabile. In Francia quella pasta non era né dolce né salata. Sebbene si trattasse di un gesto di cortesia per il quale non avevo insistito, Elias aveva comunque mangiato la mia quiche, la sua educazione continuava a opprimerlo. Ogni volta che ne prendeva un boccone, lo mandava giù con un bicchiere d’acqua. «Hai visto le mie ginocchiere?» chiese Elias, mentre io rovistavo in frigorifero in cerca della quiche. «Hai visto la cena?» chiesi io. «L’ho congelata». «Cosa?» «Non pensavo che volessi mangiarne ancora». «E io non pensavo che tu volessi sempre fare il tedesco compassionevole» dissi io, al che Elias rise, mi porse il latte e il muesli e prese dalla mensola una scodella per me. Mi sedetti e impilai il mio materiale didattico – bloc-notes, liste di vocaboli, schede e dizionari, che studiavo a memoria dalla a alla z. Quando Elias tornò al tavolo, mi diede un bacio leggero sull’attaccatura dei capelli e ripeté: «Hai visto le mie ginocchiere?» «Te l’ho appena detto». «Tu però metti sempre tutto fuori posto». «Non ho idea di dove siano» dissi.

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Mise con cura le stoviglie nel lavandino, facendo attenzione che i piatti non cozzassero tra loro. «Da quando in qua giochi sul serio a pallone? E con chi?» gli domandai. «Ci giocavo già prima». «Di sicuro ti romperai qualcosa». «Devo per forza avere una storia di immigrazione alle spalle per giocare a calcio?» mi chiese, fissandomi negli occhi. «Ancora con quell’espressione?» Cercai di risultare molto ironica, senza riuscirci. Ogni volta che udivo o leggevo l’espressione “storia di immigrazione alle spalle” mi veniva un travaso di bile. E con l’aggettivo “postmigratorio” andava ancora peggio. Odiavo soprattutto le discussioni in proposito, non solo quelle pubbliche, ma anche quelle tra me e Elias. In quelle conversazioni non si diceva mai niente di nuovo, ma il tono era didascalico e impetuoso. Uno dei due innescava la polemica e tutti e due ci impelagavamo in asserzioni e rimproveri. Elias mi rimproverava di essere troppo riservata, io lo accusavo di essere troppo insistente, la maggior parte delle volte a quel punto si passava dal generale al personale. Elias assunse un’aria offesa, allora mi avvicinai a lui, che mi mise le mani sui fianchi. Sul suo mento c’era un unico pelo biondo scuro. Glielo strappai. Lui mi appoggiò la testa su una spalla, io lo baciai sul collo, infilai il mio ginocchio destro tra le sue gambe e iniziai a slacciarmi il vestito estivo, ma Elias scosse la testa e mi sussurrò all’orecchio: «Sono in ritardo». Con la mano aperta diedi un colpo al piano del tavolo, Elias mi guardò con aria di rimprovero e disse: «Non volevo farti arrabbiare». «Mia nonna diceva che bisogna sempre avere con sé delle mutande pulite». «Come mai?»

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«Non si sa mai». «Sei pazza. Ora devo andare». Lo accompagnai fin sul pianerottolo e restai a osservare il modo in cui correva giù dalle scale. Spesso faceva due gradini alla volta, ogni tanto anche tre. Non camminava mai, correva e saltava. Mi versai un caffè e iniziai a studiare.

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