Una terra senza fine

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JO LENDLE

UNA TERRA SENZA FINE Traduzione di Franco Filice

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Doubt not, go forward; if thou doubt, the beasts will tear thee piecemeal. Alfred Tennyson


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L’orizzonte è cancellato. Il vento spazza la neve dal suolo come un nugolo di animaletti che si susseguono l’uno dietro l’altro prima di dissolversi nel bianco opaco, vuoto, del cielo. A noi la neve non dà fastidio, i bastoni da sci spuntano fuori dalla bufera, ma per i cani è una sofferenza indicibile. Con il pelo ormai irrimediabilmente bianco di ghiaccio, mentre corrono si addentano a vicenda mordicchiando anche le corde delle slitte e mostrando così i loro musi e gli occhi impastati di neve. Il vento soffia forte da sud-ovest. Per fortuna, avendolo alle spalle, ci spinge. Nell’aria turbinano i fiocchi intorno alla slitta e ai cani, prima di ricongiungersi davanti a noi. Non siamo un ostacolo per loro. I fiocchi hanno una tale fretta che sembrano dover raggiungere una meta. Ci arriveranno prima di noi. Il terreno è scomparso sotto la neve portata dal vento, forse non esiste più. Meglio non pensare ai crepacci. Siamo partiti ventotto ore fa ed è ancora chiaro. Da allora ci muoviamo sulla calotta glaciale dove albergano gli spiriti maligni, come dicono i groenlandesi. Cosa troveremo? Mentre aspettavamo sulla nave, Wegener ci ha parlato di Scott, del ritrovamento del suo corpo e di quello dei suoi uomini a un giorno di viaggio dal deposito che li avrebbe salvati. Gli uomini si erano portati dietro fino alla fine i campioni di roccia e il carbon fossile con le impronte delle piante, tutto rinvenuto al riparo dei loro corpi.

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In un posto come questo, chi non è determinato fino in fondo a voler tornare a casa sano e salvo, rischia di impazzire. Procediamo senza sosta, nessuno ha voglia di dormire. Le ultime rocce non si vedono più. Sotto di noi solo ghiaccio profondo centinaia e centinaia di metri, lo stesso Wegener lo ha misurato. Senza dubbio questo è il luogo più sperduto al mondo. Poi a un certo punto si vede, in lontananza, una macchia scura. Man mano che ci avviciniamo ci rendiamo conto che si tratta di un’ombra, un’ombra distesa sulla bufera di neve come fosse terraferma. Adesso le slitte procedono accostate l’una accanto all’altra. Per un bel po’ di tempo non riusciamo a spiegarci il perché di quell’ombra. Nessuno dice una parola. Solo dopo aver rallentato vediamo due sci incrociati conficcati nel firn*, in mezzo c’è un bastone frantumato. Non appena ci fermiamo, i cani si avventano sul cuoio delle fibbie e lo sbranano.

*Stratificazione di neve compattata, N.d.T

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una massa di nubi spiegando tutto, mentre Else taceva. Forse perché non riusciva a vedere bene le cose a causa della velatura oculare? Forse si aspettava qualcosa da lui? Una spiegazione, un atto? Wegener fumò una pipa intera, cosa non facile a quell’altitudine. Poi ripulì con cura gli accessori e li risistemò nella busta. Nel farlo, scorse il fagotto con le provviste che la locandiera gli aveva preparato la mattina e lo spacchettò con aria trionfante. Else bevve solo un sorso di sidro. Dopo la merenda Wegener tolse un po’ di sabbia per salire un po’ più su. Si rimisero l’uno accanto all’altra guardando davanti a sé, il volto nascosto dalle falde dei cappelli. Else si reggeva forte al bordo del cesto. Stavano sorvolando le propaggini della foresta di Teutoburgo, il vento era cessato. Ci sarebbe voluto un altro po’ prima di avere campo libero. Wegener aveva lo sguardo perso in lontananza. Solo quando erano in procinto di scendere, con la zavorra ormai esaurita e l’atterraggio inarrestabile, Else riprese a parlare. «Ti dispiace partire lasciandomi sola?» Wegener si rammaricò di non avere in mano la pipa. Visto che non rispose, lei proseguì: «Ho riflettuto un po’ su come organizzarmi. Per non restare del tutto inoperosa ho pensato di andare per un po’ di tempo all’estero. Così potrei conoscere altre realtà». Continuava a reggersi al bordo del cesto. «Tu saresti d’accordo? Ho pensato alla Scandinavia, così saremmo un po’ più vicini». Wegener aveva già l’ancora in mano e non sapeva cosa ribattere. Cosa c’era da scoprire in Scandinavia che non esistesse nel proprio paese? A cosa sarebbe servito essere più

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vicini? D’altro canto, tuttavia, quei paesi avevano determinati vantaggi. E la massa di terra scandinava si stava sollevando. Certo, lentamente, ma era comunque un buon segno. Le chiese se conoscesse Oslo. Lei fece spallucce. Sotto di loro si aprì all’improvviso una piccola radura, Wegener gettò svelto l’ancora sollecitando Else a fissare l’estremità della fune. Per lei però quello era il primo volo e non la strinse abbastanza, la corda le scivolò via dalle mani. Wegener vide l’ancora sprofondare nell’oscurità del bosco, la fune si divincolò ancora per un attimo sui rami più alti prima di sparire nel fogliame come un serpente. Ormai potevano contare solo sull’aerostato e su se stessi. Mentre Wegener cercava di capire quale sarebbe stato il modo migliore di affrontare quella situazione, alle sue spalle Else gli chiese: «E al tuo ritorno?» Lassù, davvero non sapeva cosa rispondere. Dal bordo del cesto Wegener vedeva le chiome degli alberi sfilare vicinissime sotto di loro. Pensare a un atterraggio era impossibile. Raccolse in fretta e furia tutti gli oggetti più pesanti, le residue provviste, gli indumenti non indispensabili, un ombrello, e li buttò giù. Guadagnarono così qualche metro di quota, ma non per molto. Doveva scegliere tra il pallone e la sua compagna. Quando si girò verso Else il suo pallore lo spaventò. Stava sorridendo di nuovo, ma questa volta gli sembrò che lo facesse per ingraziarsi le simpatie di qualcuno che temeva. Wegener le chiese perdono, la sollevò sull’orlo del cesto, lanciò l’estremità della fune portante oltre il bordo e le fece vedere come doveva calarsi giù. Non la guardò negli occhi. Cos’altro avrebbe potuto fare? Scivolò giù con una lentezza esasperante. Una zavorra titu-

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bante. Wegener si sentì sollevato perché il vento non soffiava più e la velocità si era notevolmente ridotta. Anche gli alberi erano meno agitati. Else si calò un po’ giù ma poi si aggrappò di nuovo alla fune, restò penzoloni per un attimo e poi riprese a scivolare. Wegener immaginava quanto doveva essere agitata. Alla fine raggiunse le chiome degli alberi, sprofondò fra i tronchi e la corda si rivelò di un metro troppo corta, per cui fu costretta a saltare l’ultimo pezzo; la vide cadere per terra e rotolare di lato. Wegener aveva il cuore in gola, ma nel momento in cui Else mollò, il pallone riprese quota e lui la perse di vista. Sorvolò un cocuzzolo oltre il quale nel bosco si apriva una radura, un viale sfrecciò sotto di lui, quasi urtò contro i fili del telegrafo prima di riuscire finalmente a toccare terra in un campo incolto. Corse con le gambe tremanti nel bosco, ansimando e rimproverandosi di aver coinvolto la sua fidanzata in quella brutta disavventura. La vide andargli incontro, nel bosco, la riconobbe a stento. La gonna lacerata, i capelli arruffati, non l’aveva mai vista così. Già in lontananza tese le braccia verso di lui, le mani escoriate e insanguinate. Le brillavano gli occhi, aveva un aspetto straordinariamente bello nonostante lo spavento. La sentì ridere. Wegener la raggiunse, lei si tolse un po’ di fogliame che le era rimasto appiccicato addosso, alzò lo sguardo e con fare birichino esclamò: «Riconoscerai che non è stato proprio un atterraggio morbido come si converrebbe a una signora, vero?» Wegener si sentì così sollevato per il fatto che non avesse riportato ferite e che non se la fosse presa, le si avvicinò e la

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strinse a sé. Le sussurrò qualcosa all’orecchio senza nemmeno sapere cosa. Chiuse gli occhi e continuò a parlarle con la bocca tra i capelli. Certo che lei si era rivelata proprio una compagna in gamba. Lui aveva la sensazione di essersi tolto un peso dallo stomaco, come se qualcuno avesse portato via, uno dopo l’altro, tutti i sacchi di zavorra disperdendo la sabbia al vento. Anche Else era più leggera tra le sue braccia, un po’ la sollevava in aria e un po’ l’attirava a sé, poi finirono entrambi per terra rotolandosi sulle foglie di quel tardo autunno, benché a Else fosse già toccato prima. Rimasero a lungo distesi per terra, stretti l’uno all’altra. Lui la cinse forte da dietro con le braccia deciso a non mollarla mai più. Che armonia c’era in quella scena. Erano sdraiati vicini come i continenti che si erano staccati pur sapendo di appartenersi. Spinti a riunirsi, a tornare a un’unità indivisibile precedente gli albori del tempo, alla sensazione di essere tutto ciò che esisteva al mondo. Ma a Wegener non venne in mente nessun percorso che li avrebbe riportati indietro. A un certo punto Else si girò verso di lui. Gli posò l’indice sulla bocca mentre con l’altra mano tirava il nodo della cravatta guardandolo negli occhi. Il nodo era stretto e Wegener dovette inghiottire più volte. Era una lotta impegnativa che a momenti gli mozzava il fiato, ma sopportò in silenzio. Tutto sommato non gli dispiaceva il fatto che gli avesse messo il dito sulle labbra, e continuò a rispettare il divieto di parlare anche dopo che lei aveva tolto la mano. Era comunque perplesso riguardo al commentare il suo trafficare su di lui. E mentre intorno a loro volteggiavano le foglie che cadevano dagli alberi, con la stessa tranquillità con cui il sole calava piano in mezzo ai tronchi, lì, nelle propaggini della foresta di

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Teutoburgo, per la prima volta dopo molto tempo i due innamorati approfittarono dell’occasione per lasciarsi andare indisturbati. * Rimasero distesi lì, con il fiato grosso. Questa volta supini, uno accanto all’altra, con lo sguardo alzato verso l’ultima luce del giorno che non permetteva di stabilire se fossero le cime degli alberi a oscillare o il cielo. Wegener si tolse una foglia dalla guancia, ma ne era pieno. Tutto sapeva di foglie, di lombrichi e di terra, di putrefazione. Wegener ebbe la sensazione di poter sentire l’odore delle foglie che si sgretolavano sotto di lui, immaginando gli innumerevoli animaletti all’opera tra il fogliame che marciva e si dissolveva fino a trasformarsi in nuova terra che avrebbe generato altra vita. Sentì il gusto del sego sulla lingua ma si accorse che era un capello. Stese la mano per tirarlo fuori dalla bocca stupendosi di quanto fosse lungo. Era senza dubbio un capello di Else. Come erano strane le donne. Tutte quelle maglie e bottoni, giarrettiere, fermagli per capelli, fasce, gancetti e occhielli, ma anche in questo campo quel giorno aveva imparato un po’ di cose.

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quella pelle nerissima sotto la pelliccia bianca era infinito. Avevano la sensazione di aver scoperto, nella morte, un piccolo segreto. Il tentativo successivo non fu più felice. Larsen e Wegener partirono presto alla ricerca di un passaggio per l’ascesa lungo l’estremità meridionale del Jøkelbugten. Larsen procedeva con un bastone, seguito da Wegener che aveva solo il teodolite. Dopo un’ora abbondante raggiunsero il ghiacciaio. Camminarono lungo la parete a strapiombo della calotta glaciale sempre più imponente, fino a che non individuarono un punto da cui iniziare la scalata. Già nel primo crepaccio caddero, senza tuttavia riportare ferite. Il secondo crepaccio, anch’esso ricoperto di neve, si presentava in posizione avvallata sotto un barlume d’ombra che faceva pensare a occhiaie scure sotto occhi stanchi. Larsen vi si avvicinò lentamente, senza sprofondare. Wegener lo seguì con prudenza. Secondo le stime degli altri, era precipitato per otto metri. Secondo la valutazione dello stesso Wegener, invece, erano molti di più. Durante la caduta gli era sembrato che il tempo si fosse fermato. Mentre la parete di ghiaccio gli scivolava davanti agli occhi, linda e luccicante come la porcellana, trovò il tempo di formulare una lettera d’addio a Else. Niente di importante, solo la notizia di quanto fosse triste dover morire senza averla presa in sposa. Nell’ultimo tratto ebbe ancora il tempo di meravigliarsi di aver ritenuto più importante lasciare un messaggio a Else piuttosto che integrare mentalmente il suo manoscritto sul continente primordiale. Aveva battuto la testa contro una sporgenza della parete di ghiaccio e si era lacerato un fianco prima di finire su un crinale a forma di foglia staccatosi dalla parete, si era fatto male

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a un dito della mano destra. Sentiva un forte dolore anche ai piedi. Stringeva tuttavia a sé, con entrambe le mani, il teodolite. Alto sopra di sé vide il viso di Larsen che si sporgeva dall’apertura. Gli sembrava un’immagine incorniciata in un quadro di luce. Wegener si sentì chiamare per nome, con fare interrogativo e con un tono di voce molto più alto del necessario. Una caduta di otto metri non era naturalmente roba di poco conto, ma ai fini della mera comunicazione quella distanza non costituiva di certo un ostacolo insormontabile. Wegener voleva dirgli che era tutto in ordine, ma quando aprì bocca si accorse che emetteva solo un suono rauco. Si schiarì la voce e poi fece rapporto esaminando una per una le parti del corpo e riferendo a Larsen le relative condizioni. Cercarono di mettersi d’accordo sul da farsi. Larsen gli buttò giù il berretto e i guanti, poi tornò indietro per avvisare gli altri. Koch era impegnato a cercare di riacciuffare i cavalli che se l’erano data a gambe durante la notte, quando giunse Larsen con il messaggio di sventura. Stabilirono che Koch e Vigfus si sarebbero avviati subito, sugli sci, con una scala di corda, una fune e l’accetta da ghiaccio, mentre Larsen li avrebbe seguiti con la slitta a mano e il sacco a pelo di Wegener. Si rimproverò di non aver lasciato al ferito anche il suo cappotto. Nella luce crepuscolare non era facile per i due mantenere il controllo degli sci, e l’apprensione non migliorava di certo le cose. Era possibile che Wegener, immobilizzato, resistesse due ore nel gelo di un crepaccio senza morire assiderato? Wegener, invece, non era rimasto immobile. Nel fondo del buco in cui era precipitato si era ripreso, aveva fatto sciogliere in bocca alcune pastiglie di cola, aveva canticchiato un po’

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e fatto ciò che gli riusciva meglio: mantenersi mentalmente attivo. Nella scarsa luce che filtrava dall’alto, esaminò le pareti di ghiaccio intorno a sé. Era chiaro che si trovava ancora al di sopra della morena frontale fangosa, in quanto le pareti mostravano una frattura liscia, pulita, da cui in alcuni punti si stagliavano delle colonne dal materiale simile al basalto, in altri correvano grandi linee a forma di conchiglia o di guscio. Wegener cercò la parola giusta per definire quella forma concava, ma non gliene venne in mente nessuna e di colpo temé di aver subito qualche danno cerebrale nella caduta, di scoprire, qualora avesse approfondito la riflessione, che il cervello l’aveva abbandonato. Stese la mano per rilevare almeno la temperatura approssimativa del ghiacciaio a quella profondità, ma non gli riuscì. Dopo un po’ si rese conto che per compiere quell’operazione doveva togliersi prima il guanto. Ma anche con le dita scoperte, ormai del tutto prive di sensibilità, non andò meglio. Dopo quel tentativo fallito non poté fare altro che affrontare la sfida, della durata di non pochi minuti, di infilare di nuovo faticosamente il guanto. Per fortuna gli occhi si abituarono alla luce crepuscolare. All’altezza del ginocchio si era formato un buco di ghiaccio sciolto, forse per effetto dell’acqua che gocciolava dal bordo del crepaccio. Wegener si dilettò a studiarne in tutta tranquillità la forma, evidentemente non ancora alterata dall’evaporazione. Sul fondo di quel buco era già visibile della polvere dai disegni incredibili che davano adito a una lettura molto variegata, se solo ci si fosse soffermati a osservarli abbastanza a lungo. Wegener cercò di fissare nella mente quell’immagine a cui si proponeva di dedicare un piccolo saggio.

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Anche le pubblicazioni più smilze erano funzionali al progetto generale. Doveva solo trovare un titolo adatto. Una formulazione che fosse in grado di dare un’idea precisa dell’unicità di quella scoperta senza tuttavia risultare troppo eccentrica. Peccato che in quel momento i titoli che gli venivano in mente fossero troppo stravaganti. Solo quando si accorse che a ogni battito di ciglia quel disegno cambiava come un caleidoscopio scosso ripetutamente, decise di limitarsi ad aspettare. Forse era più provato di quanto gli era sembrato all’inizio. Stare con le mani in mano, tuttavia, lasciava inopportunamente troppo spazio alla sensazione di freddo. E nel bagagliaio del freddo c’era la paura. E Wegener era ben poco entusiasta, sia dell’uno che dell’altra. Si diede una scossa. Non poteva andare avanti in quel modo. Doveva restare in vita, mantenersi caldo e non perdersi d’animo. Aveva promesso alla fidanzata che avrebbe fatto attenzione. Non poteva disattendere quella promessa. Solo che non aveva proprio idea di come tenersi attivo, laggiù, per salvarsi. Rigettò l’ipotesi della preghiera. Ogni sua riflessione sfociava alla fine nel proposito di accendere il più presto possibile un grande fuoco. Ma la sua esultanza per quell’idea venne ben presto smorzata dalla consapevolezza che l’acqua del ghiaccio sciolto avrebbe subito spento le fiamme. Wegener era troppo debole per decidere se essere fiero o disperato di essere giunto a quella conclusione. Magari era la temperatura corporea, già calante, a ordinargli di concentrare le forze residue sullo stretto necessario: sopportare il freddo, tremare, respirare. Ormai ridotto al puro istinto di sopravvivenza animale, gli venne in mente un’altra possibilità per mantenersi caldo. Rie-

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