andreas latzko
UOMINI IN GUERRA Traduzione di Melissa Maggioni
Keller editore
All’amico e al nemico “Io certo so che tempo verrà che ognuno pensi come me”.
La partenza per la guerra
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ra il tardo autunno del secondo anno di guerra nel cortile del lazzaretto di una piccola città austriaca che, ai piedi di una collina boscosa, come se si fosse rifugiata dietro a un paravento, ancora non si era levata l’aspetto assonnato e pacifico. Giorno e notte fischiavano le locomotive, avanzavano verso il fronte i treni gremiti di soldati che cantavano vestiti di tutto punto, di balle di fieno accatastate, dei lamenti del bestiame da macello, vagoni con le munizioni, ben sprangati, bui; nel senso opposto gli altri strisciavano adagio verso casa, segnati dalla croce di sangue che la guerra aveva gettato su pareti e passeggeri. A passi irruenti la grande furia attraversava la cittadina senza riuscire a cacciarne la quiete, come se le case basse, intonacate di chiaro, con le facciate dalle decorazioni a treccia avessero tacitamente preso il saggio accordo di ignorare con raffinatezza il compagno prepotente e chiassoso che metteva tutto sottosopra. Sugli spiazzi i bambini giocavano indisturbati con le foglie grandi e color ruggine dei vecchi castagni, le donne se ne stavano in piedi davanti alle porte dei negozi a chiacchierare, in ogni vicolo correva qua e là una ragazzina con un fazzoletto sulla testa che si fermava alle finestre a lustrarne
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i vetri. Malgrado le bandiere dell’ospedale che sventolavano dagli edifici a ogni piè sospinto, malgrado le tante iscrizioni, i cartelli e i segnavia che l’invasore aveva messo al volto della cittadina inerme, lì, a nemmeno cinquanta chilometri dietro la carneficina, il cui bagliore, nelle notti chiare, sussultava all’orizzonte come il fuoco di scena, sembrava che la pace fosse ancora preservata. Quando, per qualche momento, il flusso dello sbuffare dei veicoli grevi e dello sferragliare dei carri si esauriva, nessun treno passava con fragore sul ponte della ferrovia e per puro caso non v’era alcun segnale di tromba e alcun tintinnio di sciabola a risuonare bellicosi, il piccolo nido caparbio assumeva in un baleno la sua espressione di provincia bonaria e indolente per nascondersi rassegnato dall’ennesima auto dello Stato Maggiore che ad alta velocità e con fare tracotante avrebbe svoltato all’angolo dietro la maschera malferma del soldato. In lontananza si sentiva chiaramente il rombo dei cannoni, come se un alano enorme stesse accovacciato nella profondità della terra, ringhiando al cielo e pronto al balzo. L’abbaiare sordo del grande mortaio arrivava, come la tosse forte proveniente dalla stanza dei malati che fa trasalire dallo spavento chi è di guardia e con gli occhi rossi dal pianto ascolta in direzione di coloro che stanno per morire. Anche le lunghe e basse schiere di case sussultavano in un fremito, tendevano l’orecchio ogni volta che la tosse contraeva il suolo, come se l’emergenza della guerra, alla maniera di un incubo, si trovasse sul seno del mondo pronta a strangolarlo. Meravigliate, le vie si guardavano l’un l’altra negli occhi,
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strizzandoli assonnate nel riverbero delle lampade, che dentro scacciavano allegramente le loro ombre guizzanti sopra i letti allineati vicini uno accanto all’altro. Le stanze stipate di disperazione mandavano fuori nella notte grida stridule, gemiti, lamenti. Ogni rumore umano che penetrava dalle finestre aperte aggrediva il silenzio come un assalto furente, era un’accusa violenta contro la guerra che là davanti faceva il suo dovere e gettava dietro di sé corpi umani dilaniati a mo’ di rifiuti riempiendo tutte le case con la sua spazzatura sporca di sangue. Eppure le belle fontane di ferro battuto nelle piazze continuavano imperturbabili a scrosciare, chiacchieravano con la perseveranza rassicurante dei giorni della giovinezza, poiché le persone avevano ancora tempo e riguardo per le linee preziosamente arcuate, allora la guerra era un fatto di principi e avventurieri. Da ogni ghirigoro e da ogni angolo sgorgava la favola, camminava sulle suole silenziose mentre sussurrava di pace e spensieratezza, come una pettegola invisibile in ogni vicolo, e i castagni secolari oscillavano in segno di consenso, accarezzavano le facciate impaurite lasciando il loro effetto mitigante con l’ombra delle loro dita spiegate. A tal punto lussureggiava il passato dai muri attraversati dalle crepe che per chiunque entrasse nel suo cerchio lo scrosciare delle fontane soverchiava le cannonate; nel giaciglio caldo i malati e i feriti stavano in mite ascolto della notte loquace, uomini pallidi che venivano trasportati su lettighe dondolanti attraverso la cittadina dimenticavano l’inferno da cui erano arrivati, e persino le vittime affaticate
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dai carichi pesanti, che passavano nella loro marcia forzata notturna lasciando l’eco, si quietavano per un tratto, come se avessero incontrato la pace e il loro Io disarmato all’ombra dei pilastri e dei bovindi ornati di fiori. La guerra si comportava come il fiume che da nord scendeva con una fretta irosa dalle montagne, schiumante di rabbia su ogni pietruzza che incontrava sul suo corso; e che dall’altro lato, dove c’erano le ultime case, si accomiatava dolcemente dalla città, tutto mansueto, tutto un gorgoglio sommesso, come in punta di piedi, come assopito dal trasognamento che rispecchiava. Ampio si spingeva fuori sul vasto prato e circondava l’ospedale militare che se ne stava all’ombra dei rigogliosi platani come fosse su di un’isola. Su tre lati il mormorio dei flutti pigri si mischiava al fruscio delle foglie, come se il giardino, quando il crepuscolo cadeva su di lui, intonasse compassionevole una ninna nanna per i tormentati che là in fila avevano da soffrire, oppressi fin dentro alla morte, fino alla fossa, in cui loro, i feriti – calzolai, aiutanti di idraulici e contadini e piccoli burocrati pedanti – venivano sotterrati con infiniti colpi di salva. La ritirata si era appena smorzata; la guardia che faceva la ronda, nell’ombra del grande viale alberato stanò tre ritardatari e li cacciò dentro. «Non sarete mica ufficiali voi?» borbottò con voce fragorosa ma affabile il comandante, un robusto caporale del Landsturm* dalle tempie incanutite. «Alle nove il posto * Landsturm, in italiano milizia territoriale, indica un corpo militare composto da tutti gli uomini idonei alle armi, non in servizio nell’esercito, chiamati in caso di attacco nemico. Nell’Impero austro-ungarico si distinguevano due con-
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delle truppe è a letto!» E solo per conservare la sua dignità aggiunse con una mal simulata ruvidezza la minaccia: «Allora, capito o no?» Per poco non aveva pronunciato all’uno o all’altro l’intimidazione che di solito usava in quei casi di “darsela a gambe”; all’ultimo era riuscito a reprimere la frase e assunse un’espressione come se gli fosse andato qualcosa di traverso. Perché i tre, che ora si approssimavano zoppicanti all’ingresso delle truppe, non avrebbero di certo avuto nulla da ridire contro il darsela a gambe. Arrancavano in tre su due piedi e sei grucce picchiettanti. Come se le mani di un regista, angosciate alla ricerca della simmetria, avessero disposto l’immagine vivente, a destra si trovava colui che aveva ancora la gamba destra, a sinistra la sua controparte, saltellante sul piede sinistro, e in mezzo traballava tra due alte grucce ciò che miseramente restava del corpo di un uomo, le gambe vuote dei pantaloni fatte passare sulla schiena e fissate al petto, così corto che l’uomo intero sarebbe potuto stare in una culla. Con la testa abbassata e i pugni serrati, come chino sotto il peso dello sguardo, il caporale osservava il gruppo, ringhiò un’imprecazione non proprio patriottica e sputò descrivendo un ampio arco accompagnato da un sibilo dei denti davanti. Quando si incamminò, dall’altra parte del cortile, dall’ala degli ufficiali, gli risuonò all’orecchio una risata sonora. Pietrificato, rimase dov’era, ritrasse il capo come se fosse tingenti in base all’età: il primo comprendeva gli uomini tra i 19 e i 37 anni e il secondo quelli tra i 38 e i 42 anni. n.d.t.
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stato colpito alla nuca e sull’ampio viso bonario da contadino guizzò un’ombra di odio indomabile. Sputò ancora una volta, per calmarsi, si ricompose e passò davanti all’allegra compagnia facendo un energico saluto militare. I signori ringraziarono rilassati. Contagiati dalla spensieratezza che fluttuava come una nuvola sulla cittadina, erano seduti a chiacchierare allegri su quattro panchine disposte davanti alla casa a forma di quadrato, parlavano della guerra e ridevano come scolari divertiti che cianciano gioiosamente delle paure degli esami ormai superate. Ciascuno aveva fatto il proprio dovere, ricevuto la propria parte e ora, protetto dalle ferite, sedeva nella morbida attesa della licenza per andare a casa, rivedere i suoi, godersi i festeggiamenti e trascorrere almeno due settimane intere da uomo non numerato. Chi rideva più forte era il giovane sottotenente, che chiamavano “musulmano” per via del suo copricapo maomettano da ufficiale di un reggimento di bosgnacchi. Un bossolo ronzante che era sfrecciato dall’alto gli aveva fracassato la gamba sinistra, ma per bene, considerato che da settimane era steccata e avvolta nel gesso, custodita con accuratezza dal proprietario che, appoggiato alle grucce, la portava con sé come se qualcuno gli avesse affidato un oggetto di valore. Sulla panchina di fronte al musulmano sedevano due signori: un capitano di cavalleria, l’unico attivo della compagnia, con un colpo di sbieco nel braccio destro, e un ufficiale di artiglieria, in civile insegnante privato di filosofia, per questo chiamato in breve “il filosofo”, con un labbro
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leporino già del tutto guarito, procuratogli da una scheggia di granata nel labbro superiore. Questi tre, insieme alle due signore sulla panchina accostata al muro, portavano avanti da soli la conversazione; poiché il quarto, sottotenente del Landsturm, con i capelli diradati sull’occipite, nella vita civile un noto compositore d’opera, sedeva assorto con le membra sussultanti e gli occhi inquieti e confusi fissi sulla panchina senza partecipare al discorso. Era stato ricoverato da appena una settimana con una grave crisi nervosa che gli era venuta sull’altopiano di Doberdò. Nel suo sguardo stava ancora accovacciato l’orrore. Nel suo rimuginare oscuro lasciava che le cose gli succedessero senza opporre resistenza, andava a letto, oppure sedeva nel cortile, separato dagli altri come da una parete invisibile che guardava fisso. Persino l’insperato arrivo della graziosa moglie bionda non era riuscito a scacciare neanche per un momento la visione dell’esperienza orribile che gli aveva fatto perdere l’equilibrio. Il mento sul petto, si faceva scivolare addosso senza alcun sorriso le parole tenere sussurrate dalla moglie, si spostava di lato come in preda a un crampo, come tormentato, tutte le volte che lei, con infinito amore sulla punta delle dita, cercava timorosa un contatto con le povere mani tremanti di lui. Lacrime pesanti scorrevano lungo le guance assetate di affetto della piccola donna, che impavida si era fatta strada attraverso tutte le zone interdette fino ad arrivare all’ospedale di guerra, e ora, dopo la gioia liberatrice di aver trovato suo marito in vita, non mutilato, avvertiva un’enigmatica
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resistenza, un ultimo, imprevisto ostacolo, che questa volta non poteva far scomparire con le suppliche o il pianto, che era lì e la separava senza pietà dalla persona agognata. In uno smarrimento straziante sedeva come in agguato accanto a lui, si tormentava il cervello senza riuscire a spiegarsi l’ostilità che lui emanava. Gli occhi di lei penetravano il buio, le mani ripetevano sempre lo stesso percorso avanzando timidamente tastoni per poi sussultare indietro, come se si fossero scottate, quando il suo astioso schivare la gettava di nuovo nella disperazione. Era duro reprimere il dolore di non poter strappare a suo marito con un grido di rimprovero il segreto che lui, nella sua condizione misera, metteva testardamente tra sé e il suo unico sostegno. Duro era anche partecipare alla conversazione fatua con un’allegria simulata per il “felice” ritrovarsi; dover sempre rispondere qualcosa e non perdere mai la pazienza per il continuo ridacchiare degli altri. Per quella sì che le cose erano facili! Sapeva il marito al sicuro in un commando superiore dietro il fronte ed era sfuggita alla noia della sua casa senza bambini venendo qui nella vita piena di accadimenti dell’ospedale. Dalle sette di sera se ne stava seduta pronta ad andarsene, con giacca e cappello, si lasciava sempre convincere a rimanere e scherzava, come se non ricordasse più nulla di tutte le torture che aveva visto di giorno nella casa a cui era appoggiata con la schiena. La piccola donna triste sospirò quando l’oscurità divenne tanto fitta da permetterle di allontanarsi senza farsi notare dalla pettegola frivola.
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E tuttavia, la moglie del maggiore, malgrado il modo provocatorio, l’aria di importanza con cui parlava dei suoi “doveri da infermiera”, era pervasa da un sentimento che, senza saperlo, la poneva sopra di sé. La grande onda di maternità, che colpiva tutto ciò che era femminile, quando l’ora grave si abbatteva sugli uomini, aveva investito anche lei. I tre uomini con cui ora chiacchierava gradevolmente a suon di modi di dire li aveva visti, come mille altri, ricoperti di sangue, impacciati, lamentarsi per il dolore; e un qualcosa della gioia che prova la gallina quando i suoi pulcini imparano a volare riscaldava la sua civetteria. Da quando gli uomini accoccolati, striscianti, affamati portano dentro di sé la morte mese dopo mese, come le donne i loro figli; da quando la tolleranza e l’attesa, e la passiva rassegnazione al pericolo e al dolore hanno cambiato sesso, le donne si sentono forti e perfino nella loro sensualità arde fievole un poco della nuova passione del ruolo di madre. La donna bionda e triste, appena arrivata da una zona in cui la guerra vive solo nelle parole, dipendente in tutto e per tutto dal suo unico uomo, soffriva per la confidenza asessuata che si faceva strada all’ombra della morte e dei tormenti, nel cortile del lazzaretto che l’oscurità fagocitava sempre più. Gli altri, però, si sentivano a casa in guerra, parlavano la sua lingua, un misto di ostinata ingordigia di vita, una benevolenza paradossale degli uomini, nata da una saturazione di crudezza, e un’insensibilità strana, loquace della donna, che di sangue e di morte aveva sentito così tanto che la sua continua curiosità risuonava come durezza e crudeltà isterica.
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Il musulmano e il capitano di cavalleria spettegolavano sul filosofo, canzonavano in tono di disprezzo i pignoli, i cavillatori e altri perdigiorno simili ed erano contenti di vedere l’imbarazzo di lui palesarsi in un largo sorriso davanti alla moglie del maggiore, che, per creanza femminile, aveva dato il suo sostegno alla benevolenza indifesa del filosofo, mentre gli occhi di lei colmi di affetto appassionato scattavano come un fulmine verso gli altri, che si riempivano la bocca di insulti. «Ma lasciate in pace il povero signor tenente» replicò lei con una risata dolce. «Ha ragione. La guerra è ripugnante. Quei due la prendono solo un po’ in giro!» lo guardò strizzando l’occhio in modo benevolo. Il filosofo, con flemma, fece una smorfia e tacque. Il musulmano, facendo stridere piano i denti appoggiò meglio alla panca su cui era seduto la gamba, che luccicante di bianco era ormai l’unica cosa che si riusciva a vedere nell’oscurità, e ad alta voce sghignazzò: «Il filosofo? Che cosa ne sa il filosofo della guerra, signora? È un artigliere! La guerra la combatte solo la fanteria. Sa, signora…» «Qui mi chiamo ‘infermiera Engelberta’» precisò, e per un momento il viso assunse un aspetto quasi serio. «Chiedo scusa, infermiera Engelberta! Artiglieria e fanteria sono come uomo e donna. Noi soldati di fanteria dobbiamo far venire al mondo il bambino, quando deve nascere una vittoria. All’artiglieria spetta solo il piacere, come all’uomo nell’amore; si dà le arie una volta che il bambino è
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stato già battezzato. Non ho mica ragione, signor capitano? Ora sei anche tu un cavaliere a piedi». Il capitano di cavalleria rumoreggiò il suo consenso. Secondo la sua visione sommaria, i deputati che non accordavano abbastanza denaro all’esercito, i socialisti e i pacifisti, in sostanza tutti quelli che parlavano, scrivevano, tiravano fuori parole inutili e che “vivevano di intelligenza” facevano parte dello stesso capitolo “topi di biblioteca” del filosofo. «Sì, sì,» disse con voce rauca per il troppo gridare «per l’artiglieria un filosofo è proprio quello che ci vuole. Stare in montagna a guardarsi intorno e basta. Almeno non sparassero sui nostri! Quelli dall’altra parte, i Katzlmacher*, mi è sempre stato facile farli fuori, ma per voi assassini che state alle mie spalle ho sempre avuto un gran rispetto. Ma adesso basta parlare di guerra, se no me ne vado a dormire. Per una buona volta che si ha la compagnia di due signore squisite, che dopo tanto tempo si vede una faccia senza i peli ispidi della barba, voi siete ancora lì a parlare di fucilate. Buon Dio, quando nel treno del lazzaretto entrò la prima ragazza bionda con una cuffietta bianca sulla testa dai capelli riccioli, l’avrei presa per mano e non avrei fatto altro che guardarla. Parola d’onore, signora: sparare, con il tempo, diventa insulso. I pidocchi e i parassiti sono peggio, * Katzlmacher è un’espressione bavarese spregiativa con cui venivano generalmente chiamati i lavoratori provenienti dai paesi mediterranei. Si trovano varie spiegazioni sul significato del termine, tra cui “riproduttore di gattini”, con allusione all’intensa prolificità degli emigrati, e “fabbricante di cazze”, gli utensili in legno e rame che gli emigrati vendevano all’estero. n.d.t.
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ma la cosa peggiore è la completa mancanza della grazia femminile. Per cinque mesi non si vedono nient’altro che uomini, e poi all’improvviso si sente una vocina femminile limpida e gentile!… Cosa c’è di più bello? Per questo sì che vale la pena andare in guerra». Il musulmano storse il suo viso agile, scintillante di gioventù, e fece una smorfia: «Cosa c’è di più bello?… No, be’, signor capitano, se devo essere sincero… essere lavato, bendato di nuovo, messo in un letto pulito, bianco e sapere di poter starsene in pace per qualche settimana… è come… no, non c’è paragone. Ma anche rivedere delle signore è certamente molto bello». Il filosofo aveva inclinato la testa epicurea tonda e carnosa verso la spalla; negli occhi piccoli e astuti comparve una lucentezza umida. Guardò là, dove una macchia chiara nell’oscurità ormai quasi palpabile faceva supporre il vestito bianco della moglie del maggiore e, molto adagio, quasi canticchiando, cominciò a raccontare: «La cosa più bella, secondo me, è il silenzio. Quando si è di stanza là sulle montagne, dove ogni sparo viene buttato cinque volte di qua e di là, e poi all’improvviso arriva il silenzio, non un fischio, non un gemito, non un tuono, nient’altro che il magnifico silenzio, che si può ascoltare come un brano di musica… Le prime notti le ho trascorse seduto a vegliare e aguzzavo le orecchie per ascoltare quel silenzio, come fosse una melodia che si vuole catturare da lontano. Credo di avere anche pianto un po’, tanto era bello ascoltare al punto di non sentire più niente!»
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