WILDERNESS Traduzione di Gabriella Tonoli
Keller editore
A Kathryn
Rialzarsi
S
i sveglia con una sensazione di urgenza che all’inizio non capisce, abbandonando il bagliore delle rive del sogno per le tenebre cieche della sua giornata che comincia. Ha sognato un fuoco da campo su una spiaggia dalle ombre lucide. Un cumulo di legna, fiamme arancioni. E a occidente, all’estremità del mondo, un’unghia di sole a imporporare l’oceano. Le creste infuocate di onde rutilanti sotto un cielo cupo, sfiorato da una pallida luce che illuminava la pancia di nuvole cariche di pioggia. Sabbia nera bagnata e una ghirlanda frastagliata di schiuma giallognola a segnare il brontolio della marea sugli scogli modellati dalle onde. Dal fuoco sprizzavano scintille che si posavano sulla riva come piccoli gioielli luccicanti. Divampavano, si spegnevano e divampavano di nuovo negli occhi selvaggi e gialli del lupo che la guardava dalla foresta buia e silenziosa, oltre le basse scogliere dietro di lei. Questo il paesaggio onirico che ha lasciato per svegliarsi. Jane Dao-ming Poole si sveglia presto, quando fa ancora freddo e sente le ultime tenebre della notte accarezzarle lente il viso placato dal sonno. Ombre tinte di alba riempiono i dolci incavi dai quali un tempo i suoi occhi guardavano il mondo e ne gioivano. È distesa, in preda ai tremori, perché
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a svegliarla è stato l’ululato di un lupo nelle foreste che precipitano giù dai pendii di Hurricane Ridge, sopra la casa di riposo. Adesso non c’è più, se mai c’è stato. Rimane tranquilla ancora un momento, poi con un sospiro scosta le coperte per liberare verso l’alto il forte calore del suo corpo. Come a voler prestare un po’ del suo carattere alla stanza fredda e ordinaria. Nel respirare gusta l’odore fecondo della foresta oltre il giardino, entrato dalla fessura aperta della finestra; gusta la luce del sole e, oltre la luce del sole, un freddo pungente. Così si sveglia del tutto. Vecchia ormai, è diventata grigia e fragile più di quanto avesse immaginato da piccola. Per forza di cose si alza lentamente, si muove cauta nello spazio della cucina del piccolo monolocale. A memoria, tastando, misurando i passi dal bancone al frigorifero, al cassetto e di nuovo al bancone, Dao-ming svolge in modo meccanico il rituale quotidiano del caffè del mattino. Seduta al tavolo di formica accanto alla finestra, attende la luce del giorno, immaginando, nel modo in cui le è stato insegnato di immaginare, il sole che indora la coltre delle nuvole – strati alti e luminosi di meraviglia eterea – e si adagia sulla foresta sottostante e brilla come uno strano fuoco sui picchi delle montagne a est e a ovest. Lì vede cavità create dal sole in alti nevai che non si sciolgono mai e le striature rosse delle alghe della neve che non si muovono, si nutrono della luce del sole e sono sempre abbondanti. La notte si ritira oltre il mare, e l’oscurità del paesaggio viene piano piano conquistata dall’avanzare della luce. Aprendo le dita irrigidite attorno alla tazza calda del caffè, le distende sul tavolo in un riquadro di sole. Il calore le penetra nelle mani per gradi, scioglie le giunture delle dita attenuando i vecchi dolori per i geloni alla parte terminale del palmo e alle
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articolazioni. Le orbite morbide e color melanzana dei suoi occhi sono scoperte per riuscire a sentire la qualità della luce e rendersi conto che è giorno. Nel frattempo, fa scivolare lungo una delle due catenelle che tiene al collo un pezzo di pallottola appiattita, impressa da ossa fracassate, solcata dalle fibre muscolari che l’avevano incontrata nel punto in cui era penetrata arroventata nel corpo vivo dell’uomo, un corpo secco, leggero e vecchio come la Guerra civile americana. Tutte le mattine, alle sette, l’infermiere bussa piano alla sua porta con le nocche delle dita, e tutte le mattine, quando vede Dao-ming seduta a tavola con il caffè le porge un leggero rimprovero. A quel punto si è già ricordata di mettere gli occhiali scuri, perché sa quanto lo turbi vedere il suo viso scoperto, quanto lo feriscano le vecchie rovine dei suoi occhi melanzana, testimonianze dell’atroce violenza della sua infanzia. Si ricorda ancora di quella volta che se n’era dimenticata, il tono acuto e spaventato della voce del ragazzo quando l’aveva vista. Si era messo a balbettare e farfugliare, inciampando nei propri passi fino a quando non le aveva trovato gli occhiali per farle coprire le pieghe morbide e rugose delle sue palpebre devastate. Cavità livide e cieche dall’inverno del , quando il mondo era cambiato. Per non tornare più come prima. L’infermiere si chiama Michael, e lei non ne conosce il viso, l’età o la razza, ma immagina che sia giovane e si sente arrossire quando flirta con lei. Oltre al personale della casa di riposo – l’infermiere diurno, un dottore o l’altro una volta al mese, i degenti che si aggirano impazienti negli atri – non molti vengono a farle visita di questi tempi. Il marito, Edward Poole, perduto in mare ormai da cinquant’anni mentre cacciava le balene alla vecchia maniera dei makah, ha iniziato a svanire dai suoi sogni. Sa esattamente
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dove si trova la sua foto sul cassettone accanto al letto e, tutte le sere, prima di andare a dormire, le sue dita tastano fino a toccare la fredda cornice d’argento, inclinata lì dove, nella sua immaginazione, c’è la luce della luna. Dao-Ming era diventata cieca prima di incontrarlo, eppure c’era stato un tempo, in seguito, in cui riusciva a capire dov’era in una stanza affollata grazie al lieve fremito d’aria che spostava, un tempo in cui ricordava con una chiarezza sorprendente la voce, l’odore, la punta arrotondata e ruvida delle dita del marito che tracciavano disegni di piacere sulla parte superiore delle sue braccia. Tutto questo adesso scema dalla sua mente come le increspature sempre più deboli propagate da una sola goccia di pioggia caduta in un grande lago, come la cavitazione argentea delle bolle nell’acqua del mare provocata dalla pala di un remo. Non ne parla con nessuno, ma perderlo di nuovo è la grande tragedia di questi ultimi giorni della sua vita. Certo, ci sono i figli, e i figli dei figli. E anche i pronipoti di cui non riesce a ricordare i nomi nell’ordine giusto, ma sa che per lo più non li incontrerà mai. Quasi tutti le mandano biglietti di auguri a Natale e, quando si ricordano, al suo compleanno e al suo anniversario di matrimonio. Forse vanno a trovarla una o due volte all’anno, ma non si fermano mai molto perché, per quanto il personale si spenda per decorare e rallegrare quel luogo, la casa di riposo rimane una struttura sanitaria dove i vecchi vanno a morire nel modo più tranquillo, sobrio e comodo possibile. Così, a volte, in mancanza di un marito, una famiglia o un amico, Dao-ming apre la bocca come a voler parlare ai muri delle cose che le si agitano in testa, alla voragine delle tenebre del suo mondo, o persino a Michael l’infermiere, che tutte le mattine viene a bussare alla sua porta. Questa mattina però,
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nella luce fredda e progressiva, percepisce che le cose stanno cambiando, a parte l’ululato del lupo che l’ha svegliata – un sapore nell’aria, qualcosa di inafferrabile, ma con una punta dura come il metallo. Il caffè ha un odore più ricco e forte. La luce del sole non rimane a lungo, eppure non si mette a piovere. Quando Michael bussa e va in cucina, Dao-ming ha indosso gli occhiali scuri e sta sfiorando il vetro appannato della finestra con le tre dita che le rimangono alla mano destra. Inclinando il viso verso di lui chiede: «Ha nevicato, vero?» Sente il suono morbido e umido delle labbra del ragazzo che si dischiudono in un sorriso e lo sente accendere la luce appesa al soffitto. «Sì» risponde. «La notte scorsa. Più o meno prima di mezzanotte, credo, e adesso ci saranno… boh, una decina di centimetri». Dallo scricchiolio delle sue scarpe e il fruscio dei vestiti che indossa, Dao-ming capisce che è appoggiato al bancone della cucina, a guardarla. «Lei è davvero un asso, complimenti!» «Certo» dice lei con un sorriso, poi aggiunge: «sono attenta, tutto qui». Toglie la mano destra dalla finestra e la copre con le dita sane e forti della sinistra. «Bene» dice Michael. Va al frigorifero e apre lo sportello, con il sospiro pneumatico delle guarnizioni di gomma. La donna sente una folata di aria fredda arrivare fino a dove è seduta. «Prepariamoci. Mais o piselli per cena?» «Bistecca. Balena». Il ragazzo sospira, e lei volta il viso verso di lui. «Cervo» insiste. «Basta una scottata sul fuoco e poi subito nel piatto. Mi piace molto al sangue, mi è sempre piaciuto così». «Jane Dao-ming!» urla lui in finto allarme. «Ma che idea! L’ammazzerebbe!»
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Dao-ming soffia forte dal naso e incrocia le braccia. «Jane Dao-ming, Jane Dao-ming» dice con voce affettata. «Che sfacciataggine! Chiamarmi per nome come se mi stessi corteggiando». Il ragazzo fa una pausa per respirare e riprendersi. «Va bene. Ok. Crema di mais? Su, avanti». «Non la mangio. Cibo per neonati». Lo sente di nuovo sospirare. «Vuoi forse dirmi che non è così?» «Sì» dice lui. «Come ieri». Si ferma un attimo. «E l’altro ieri». «Piselli, allora». «Piselli» ripete lui. La donna sente i contenitori di plastica che vengono spostati da scaffale a scaffale, e quando gli sportelli si richiudono in un soffio, chiede: «Hai detto che era un abete di Douglas? Quello fuori dalla mia finestra?» «Non ricordo di averlo detto, ma penso di sì». «Non lo sai?» chiede brusca. «Be’, sì. Cioè, penso che sia un abete…» «Che razza di uomo sei se non sai dire che albero hai davanti?» «Be’…» «Potrebbe esserci un pino delle dune per quanto ne sai tu, no? Santo cielo, potrebbe esserci un salice piangente là fuori e tu non lo sapresti, vero?» «Mrs Poole…» «Ah, adesso sono Mrs Poole? Che cosa ne hai fatto di Jane Dao-ming?» Il ragazzo sospira, e Dao-ming segue il suo esempio, poi dice: «Devi scoprirlo. Per te, se non per me. I dettagli. Sono importanti. Le cose più piccole» dice, con il tono disperato e
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ansimante di una mistica da baraccone, agitando le dita in aria «sono quelle che predominano». «Va bene, lo scoprirò» risponde lui, poi si ferma. «Come faccio a…» La donna sospira di nuovo. «Per prima cosa guarda la corteccia» gli dice. «Guarda se ci sono bolle resinose. L’abete di Douglas le ha, se è giovane. Sono appiccicose. Dure. Forse un po’ calde. Poi guarda le pigne. Se è un abete di Douglas, gli aghi intorno sono a forma di forca. Li senti al tatto». «Va bene» dice Michael. «Oggi pomeriggio cercherò di scoprirlo». «È stato il mio secondo padre a insegnarmelo». All’improvviso la voce di Jane Dao-ming si ammorbidisce, diventa distante, un mormorio immerso nei ricordi. Incrocia le mani in grembo, come se ci tenesse qualcosa di prezioso che sta andando via o è già andato via. «Mi stava trasportando nella neve. Ricordo il bianco. Il freddo. Mi aveva avvolto nel suo cappotto perché ci trovavamo in una tempesta. Sulle montagne, lontani da un riparo. Avevo cinque o sei anni, e non avevo due nomi, figuriamoci tre. Solo uno. Mia madre mi parlava in inglese e mi chiamava Dao-ming». Volta il viso come a rivolgersi alla luce spenta dell’inverno che raffreddava l’aria sopra il tavolo. «Stava cercando un posto dove fermarsi a riposare. Il mio secondo padre. Aveva un braccio storpio, ed era tanto malato. Tanto stanco. Mi ha detto che i rami dei pini erano troppo deboli, troppo inclinati e alti per proteggerci dalla neve. Che sarebbe caduta giù a grandi blocchi e che lui non pensava di essere in grado di estrarci se ne fossimo stati sommersi. Incespicava giù per la collina, e io mi sono scoperta il viso per cercare di vederlo nell’oscurità – non ero ancora cieca, ma gli occhi avevano cominciato a congelarsi – e ho visto
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solo la sua sagoma sullo sfondo della neve che cadeva. Faceva molto freddo e tutto era bianchissimo e quando la neve mi ha toccato il viso mi sono messa a piangere perché non avevo la forza di scrollarmela di dosso. Né la prontezza di chiederlo a lui. Era così ghiacciata sui miei occhi e già c’era qualcosa che non andava. Mi facevano male dalla notte in cui il lupo era venuto sulla porta. Venuto come il vento. Ricordo i suoi occhi e il suono grasso del suo ringhio. Ricordo la sua pelliccia scura, come se fosse un’ombra, come se fosse fatto tutto di notte. Se n’era stato lì immobile, a guardarmi dalla porta spalancata. Poi aveva aperto la bocca, la lingua era scivolata fuori e, per un solo istante, era sembrato contento, e allora avevo visto che portava un collare, uno semplice di metallo, fatto a mano, e mi ero chiesta se fosse un incrocio con un cane. Poi non c’era più, ed era rimasta solo la notte, come la cosa più fredda che fosse mai esistita e…» L’infermiere la interrompe, garbato, per chiederle se sta bene, poi le dice che deve finire il giro. Le dice che se vuole può tornare più tardi per fare due chiacchiere. La donna volta il viso vecchio e cieco verso di lui, chiude la bocca e non risponde. Dopo qualche istante sente la porta aprirsi e richiudersi, ed è di nuovo sola. Jane Dao-ming Poole è seduta al tavolino accanto alla finestra, con una tazza di caffè fumante vicino alla sua mano destra monca, le dita perdute per congelamento insieme agli occhi in quel lontano inverno. La mano sinistra impugna la pallottola. Persa in ricordi profondi come il mare, freddo e grigio. Per la prima volta da anni pensa al suo primo padre, ma le è rimasto poco, a parte l’immagine della sua carnagione giallastra e del suo petto incavato alla luce tremolante della lampada. L’uomo che è stato suo padre per cinque anni e che
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è stato ucciso insieme a sua madre sulle montagne. Jane Daoming rivede anche il suo secondo padre, Abel Truman, che l’ha trovata lassù e l’ha portata giù, che lei ha conosciuto solo per due giorni e che le ha dato avvedutezza a rimpiazzare la vista. Alla finestra del suo appartamento, il respiro si fa caldo e fatica a uscirle dal petto pensando a lui e al suo terzo e ultimo padre, che l’ha cresciuta insieme alla sua seconda e ultima madre. Il suo terzo padre, Glenn Makers, che l’ha adottata e le ha insegnato quello che doveva sapere per sopravvivere in un mondo che vede – l’aritmetica, com’è una mela al tatto quando è dolce e matura, come cambia la qualità della luce a seconda della stagione e della temperatura – e che è morto appeso ai rami di un pioppo americano sulle sponde del Little Sugar Creek, impiccato da un uomo chiamato Farley, per la semplice ragione che era un nero sposato con una bianca. Il caffè diventa freddo. Il ghiaccio si arrampica lentamente sulla finestra accanto a lei. Dopo un po’, la neve viene a tamburellare piano sui vetri e a inzuccherare l’abete di Douglas fuori. Continua a cadere, ricopre il giardino, ammanta la città in fondo alla lunga collina. Piano piano si accumula sull’abete, ramo dopo ramo, l’albero intero diventa una cosa morbida e tonda che cigola e trema appena, fino a liberare tutto quel peso con un lungo e secco rumore sordo di neve che cade su altra neve in un soffio. La finestra accanto a Dao-ming tintinna leggermente per l’impatto. Jane Dao-ming Poole quasi non si muove per tutto il lungo pomeriggio. Vedova di un pescatore, è ben abituata ad aspettare. È seduta, i capelli ferrigni le ricadono sulle spalle e adesso sfiora con una mano un piccolo crocifisso – in osso o qualcosa di simile – appeso al collo a una cordicella, accanto alla pallottola. Due dei pochi oggetti rimasti del secondo padre,
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