LA STRADA DEL NORD, Anila Wilms

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LA STRADA DEL NORD Traduzione di Franco Filice

Keller editore



1 LA STRADA DEL NORD

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a sempre si raccontano storie bizzarre sulla zona montuosa del Nord; d’altronde, per gli altri cittadini albanesi, i singolari e scorbutici abitanti di quell’area contribuivano non poco ad alimentare quelle voci. Con queste premesse, non stupisce che all’inizio della Grande Guerra, quando l’esercito austriaco aveva invaso il Nord del Paese, i montanari si fossero scontrati con i soldati occupanti. Questi ultimi erano intenzionati a trasformare la vecchia carovaniera in una vera e propria carreggiata destinata al transito delle automobili, ma gli abitanti del posto non vedevano di buon occhio quel progetto. Nel Kanun, l’antica legge della montagna, era scritto: “La strada provinciale ha una larghezza ben precisa: una volta e mezza la lunghezza dell’asta di una bandiera. Deve essere larga a sufficienza per consentire il transito a un cavallo con il suo carico o a un carro trainato dai buoi”. E adesso c’era qualcuno che voleva costruire una strada tre volte più larga? «A cosa vi serve una strada larga cinque aste di bandiera?» domandarono i più anziani dei clan, quelli che vegliavano sull’osservanza del sacro Kanun. La delegazione austriaca incaricata di far cambiare idea ai montanari spiegò che la strada era necessaria per il passaggio dei mezzi militari. «Ma quando la guerra sarà finita e avremo sconfitto il nemico, questa strada vi porterà tanti vantaggi, una vita migliore».

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«Non vogliamo nessun vantaggio e neanche una vita migliore. Ci accontentiamo di ciò che Dio ci ha concesso» avevano risposto imperturbabili i vecchi. Ribadirono che sulla questione le indicazioni del Kanun erano inequivocabili: la strada ha una larghezza ben precisa. Nessun veicolo, più grande e più veloce di un carro da buoi, era autorizzato a transitare su quella strada. Temevano che con una carreggiata allargata il mondo avrebbe travolto la gente della montagna come una valanga di sassi che in primavera si abbatte sulla valle, e visto che al mondo il male prevale sul bene, sarebbe stata una sciagura. E così i messaggeri erano tornati indietro a mani vuote. Gli austriaci, tuttavia, di solito attenti a non passare per occupanti ma per liberatori, questa volta non fecero tanti complimenti. Non chiesero più il permesso, si misero semplicemente all’opera. Presto arrivarono gli ingegneri con ruspe, escavatrici, rulli a vapore e barili di catrame. Per due anni tra i monti rimbombò il fragore delle esplosioni che sbriciolavano le rocce. Nuvole di polvere e di vapore erano sospese sulle valli. Il tracciato ampliato fu quindi ricoperto di ghiaia e catrame. Solo verso la fine della guerra la strada era stata completata e aperta al transito con il nome “Strada del Nord”. L’artiglieria pesante la percorreva in direzione sud, verso il fronte, facendo tremare le montagne. Ma poco tempo dopo il senso di marcia cambiò. Gli austriaci, piantati in asso dal Dio della guerra, scapparono a rotta di collo verso il Nord inseguiti dai francesi e dagli italiani che avevano ormai preso il sopravvento. Durante la ritirata fecero saltare tutti i ponti alle loro spalle. E proprio alla fine ci fu un’ultima battaglia con tanti, tanti morti. E anche questa guerra cruenta, fragorosa, non a torto denominata “Grande”, era finita. Gli eserciti stranieri si ritirarono,

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il frastuono e il tumulto si placarono e l’eterno silenzio tornò nelle montagne. Questa, tuttavia, non sarebbe stata la fine della storia, ma l’inizio di una lunga catena di eventi drammatici che avrebbero scosso il Paese per molti anni. Perché dopo la guerra il mondo era profondamente cambiato. La capitale non era più Istanbul, come nei cinquecento anni precedenti, ma Tirana, il modesto borgo in cui in passato si vendevano miele e formaggio caprino. Un bel giorno, dei gendarmi di Tirana si presentarono tra le montagne costringendo la gente a ricostruire i ponti danneggiati. Neanche gli austriaci si erano permessi di chiedere la corvée alle persone, le avevano retribuite con quattro corone al giorno. E ora le nuove autorità volevano fare un censimento, arruolare senza paga i giovani maschi nel nuovo esercito, riscuotere tasse salate esigendo addirittura la mora su quelle del periodo bellico e cercando di imporre ai montanari la loro giurisdizione. Avevano preso di mira il sacro Kanun, si comportavano esattamente come avevano fatto in passato gli occupanti stranieri! Di questi se ne erano visti fin troppi nel corso dei secoli. Vi erano penetrati da ogni parte del mondo, con le loro lingue, gesti, costumi e gli abiti più disparati. Che si muovessero in direzione est-ovest, o viceversa, che combattessero all’insegna della croce o della mezzaluna o addirittura venerassero dèi della steppa della Mongolia, il popolo delle montagne ha sempre imbracciato le armi per difendersi dagli invasori. Tuttavia, i forestieri che si fermavano, di solito si insediavano nelle valli. Non si inoltravano mai fin dentro al cuore della montagna. C’erano località in cui un soldato o un funzionario non avevano mai messo piede. E prima o poi battevano tutti in

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ritirata. La montagna li respingeva: ottomani, serbi, austriaci. Alla fine rimanevano solo le loro tombe, gli scheletri dei cavalli, oppure, come dopo l’ultima guerra, i rottami arrugginiti che ora, con i cespugli di more, delimitavano i margini della strada di montagna. Quando i gendarmi, albanesi come loro, sequestrarono le armi, l’esasperazione raggiunse il culmine. Tutta la gente della montagna si riunì in una grande assemblea e decise di inviare un avvertimento a Tirana: Rispettate il nostro Kanun e la nostra libertà e rimarremo amici. Se non lo farete, se insisterete nella vostra condotta, faremo guerra anche a voi, senza pietà, come è successo in passato contro gli occupanti. Ma Tirana fu irremovibile: ribadì che la nuova legge era in vigore in tutto il Paese, unito e liberato, e a maggior ragione nel territorio del Kanun! Nella primavera successiva i montanari insorsero. Tirana dichiarò i ribelli nemici del popolo e li respinse nelle montagne dopo aver messo a ferro e fuoco il territorio. Due anni dopo i clan delle montagne tentarono una nuova sommossa popolare. Questa volta la risposta dello Stato fu ancora più dura, i sobillatori furono impiccati, i loro villaggi ridotti in cenere. Da quel momento in poi i montanari meditarono vendetta contro lo Stato. Erano fermamente decisi a portare avanti la loro resistenza. I capi della rivolta che non erano stati fatti prigionieri si erano dati alla fuga aggirandosi tra i boschi come comitagi, guerriglieri. Ciononostante, quella terribile notizia che giungeva dalla strada del Nord colse tutti di sorpresa, gli abitanti della montagna come il resto della popolazione albanese. Nessuno avrebbe mai ritenuto capace di un tale reato un

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abitante del Paese, non importa se del Nord o del Sud, delle montagne o delle valli; né un ribelle né un gendarme – nemmeno il più cruento dei banditi.

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2 L’OMICIDIO

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l ponte sul fiume Droja era stato riparato alla bell’e meglio e a titolo gratuito dagli abitanti del vicino villaggio di Mamurras. In fretta e furia avevano gettato delle travi sui punti squarciati dalle mine. Era ancora pericoloso attraversarlo. Correva spesso voce che un bambino, un asino o un tizio fossero precipitati nel vuoto. In estate, quando il greto del fiume si prosciugava, ci si poteva spezzare l’osso del collo; in autunno, durante le piogge, o in primavera, quando la neve si scioglieva sulle montagne, si rischiava di essere trascinati via dai flutti impetuosi finendo dritti nell’Adriatico. Insomma, quel ponte aveva un che di sinistro. Un luogo da sempre al centro di apparizioni inquietanti. Secondo la leggenda era abitato da terribili ondine e da altri esseri del fiume e del bosco che aggredivano i viandanti. E da quando un reparto militare francese era stato fatto saltare in aria vi si aggiravano, di notte, i fantasmi dei morti che emettevano urla dagli echi raccapriccianti. Immerso dietro due curve a gomito nel fitto bosco di frassini intorno a Mamurras, il ponte si svelava solo da vicino, sia a chi proveniva da nord che da sud. Il posto ideale per malfattori e banditi. Cavalieri e automobilisti, pellegrini e mandriani con animali da soma si facevano sempre il segno della croce e levavano giaculatorie al cielo prima di avventurarsi sul ponte. Il 6 aprile del 1924 – era una limpida domenica mattina – lungo la gola della Droja salì fin su negli ovili non solo il

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solito fragore dell’acqua, ma anche il rombo di un’automobile. I pastori drizzarono le orecchie. Le macchine sulla strada del Nord erano rare, e il più delle volte il loro arrivo non prometteva nulla di buono. Quando una violenta sparatoria riecheggiò nella gola, le loro mani si irrigidirono sui bastoni. Dopo l’ultima tregua, infatti, nelle montagne era tornata la calma, benché non del tutto priva di tensioni. Gli abitanti avevano rimesso a posto i tetti bruciati e si erano leccati le ferite come l’orso nella tana. E ora, cos’altro era successo? Un agguato sul ponte? Avevano sparato a un veicolo delle autorità? Chi era stato questa volta? Erano banditi? Ribelli? Era forse qualcuno che voleva vendicarsi dei propri famigliari morti, del raccolto finito in cenere, qualcuno che, a parte il senno, non aveva più niente da perdere? Spari sulla strada del Nord – di certo ci aveva messo lo zampino il diavolo. Quando la sparatoria finì, i pastori corsero giù lungo la mulattiera. Si fermarono ansimanti presso i cespugli di canapa, da quel punto riuscivano a adocchiare bene la ripida riva del fiume e il ponte semidistrutto. In mezzo al ponte era ferma un’auto con gli sportelli aperti; davanti c’era uno sbarramento con delle grosse pietre. All’interno dell’abitacolo, due uomini; uno aveva la testa china sul volante, l’altro si era accasciato sul sedile posteriore. Un terzo giaceva bocconi a pochi passi dalla vettura. Tutti e tre erano coperti di sangue. «Li… li hanno crivellati di colpi» balbettò uno dei pastori, il più giovane, vomitando sulle foglie di canapa. Gli altri due erano attoniti. «Sono stranieri?» domandò il più giovane passandosi il dorso della mano sulla bocca.

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«Che l’ondina ti faccia a pezzi» lo apostrofò il più grande. «Ma cosa ti passa per la testa? C’è la pace, la guerra è finita». Per un po’ rimasero immobili, lo sguardo incollato sul ponte. «Sono austriaci?» chiese di nuovo il più giovane. «Non dire sciocchezze, gli austriaci sono andati via da un pezzo» brontolò il più grande. L’altro rimase zitto. «Ha delle belle scarpe» osservò il più giovane. «Guardate!» Indicò l’uomo che giaceva sul ponte. «Voi le scarpe le avete, io no». Il suo sguardo vagava tra le sue opanche e le scarpe dell’uomo sul ponte. «Me le vado a prendere? Tanto a lui non serviranno più». «Chiudi il becco» ringhiò il più grande. Da lontano si udiva il familiare rombo di un motore. Era la macchina dei tedeschi che gestivano una segheria su nel bosco. Probabilmente anche loro avevano sentito gli spari ed erano scesi per vedere cosa fosse successo. «Andiamo via» disse il più grande tirandosi su. «Sarà meglio occuparci delle nostre pecore. Via di qui!» I due più grandi si incamminarono. Quello più giovane rimase fermo lì come vi fosse appiccicato, senza distogliere un attimo lo sguardo da quelle scarpe tanto desiderate. Ancora qualche minuto e la macchina dei tedeschi sarebbe spuntata dalla curva. Era il caso di… lesto lesto… o forse no…

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