omaggio
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Novembre-Dicembre 2009 ANNO I - N. 2
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06 5896852
EURO 4,00
GIUSTIZIA ALTERNATIVA
ACCORDI CAUSE RAPIDE
Da mihi factum, dabo tibi ius
Angelino Alfano
Giorgio Santacroce
L’INCONTRO DEI CAPI DELLE CORTI D’APPELLO DELLE CAPITALI UE pagine 9-16
MEDIAZIONE E CONCILIAZIONE
COSTRUIRE DEI CONCETTI COMUNI Proiettarsi verso la realtà europea per trovare insieme dei rimedi pagina 16
LA CITTADINANZA EUROPEA Sono i diritti che fanno nascere il sentimento comunitario pagina 9
pagina 7 Filippo de Jorio
Ferdinando Carbone
RIFORMA DELLE SOCIETA’ PATTI DI INTEGRITA’ Autonomia privata Correttezza, lealtà e e flessibilità pagina 18 trasparenza nelle gare
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IL CROCIFISSO A SCUOLA Il testo integrale della sentenza di Strasburgo pagine 21-24
Justice Delayed is Justice Denied by Peter J. Nickles, Attorney General for the District of Columbia
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o understand the statement “Justice delayed is justice denied”, one must first distinguish between civil and criminal cases. Focusing first on criminal trials and specifically trials involving homicide charges, there is no question but that our system here in the United States has been paralyzed by delays that sometimes range up to 20 years or more. That kind of justice is not certain, nor is it final. Trial following arrest is not the problem. Complicated trial proceedings generally take a couple of years. The state has to
find material witnesses, proceed through various pretrial motions, and make available to the defense what are called Brady materials, that is, materials that might contain exculpatory evidence or lead to exculpatory evidence that would be important to the defense. Once a trial has commenced, however, it is rare that the trial ends in a mistrial — a result that reflects the inability of a jury to reach a verdict. In such a case the state will very often decide to retry the charged individual. Where there is a conviction, in a state that authorizes the Conclude pagina 5
Intervista a Alessandro Cassiani, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma
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Peter J. Nickles addressing the press; on the right, Adrian M. Fenty, Mayor of the City of the District of Columbia; immediately behind Nickles, Cathy Lanier, Chief of the Metropolitan Police Department in Washington, D.C.
Upskilling: valore aggiunto della mediazione-conciliazione I metodi di composizione del conflitto, tutti insieme, e dunque il giudizio, l’arbitrato, la mediazione ed ogni loro evoluzione, contribuiscano a debellare il rischio che si regredisca verso forme ricompositive che poggino sulla violenza di Alessandro Diotallevi
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Alessandro Cassiani
LA GIUSTIZIA E IL DIRITTO di Lillo S. Bruccoleri Sappiamo che il diritto vive nel momento in cui è applicato, mentre la norma nella sua astratta formulazione è il modello di riferimento al quale bisogna attenersi. segue pagina 8
rendo in prestito il questo concetto di upskilling non tanto per il suo significato letterale (di leva politica che punta sull'accrescimento della qualificazione dei lavoratori per fronteggiare le sfide della competizione globale) quanto, piuttosto, perché riassume e suggerisce il bisogno permanente e generalissimo di mantenere la competitività di sistema mediante processi permanenti di sublimazione degli ordinamenti sociali. Trasferito in un contesto delicato e complesso, quello delle controversie in materia civile e commerciale, e più in generale del funzionamento della giurisdizione, l’upskilling conferma la sua valenza politica e sociale: non più leva individuale o aziendale, bensì di sistema. Il principio di un agevole accesso alla giustizia è da considerarsi fondamentale; ed è principio insuscettibile di appropriazione. È principio e al con-
tempo diritto; gli stati e le organizzazioni di stati, cui compete la responsabilità funzionale di assicurare le condizioni di un libero e soddisfacente
IL MEDIATORE È l’architrave su cui si scaricano le forze del conflitto. Egli sarà imparziale e competente e, auspicabilmente, sarà un giurista accesso alla giustizia, non possono disporne limitandolo senza incorrere nella violazione dei loro statuti fondativi, delle loro costituzioni. Al contrario, debbono non impe-
dirne l'evoluzione o meglio favorirne le condizioni di sviluppo, nel quadro naturale delle garanzie formali dell'ordinamento giuridico. Tradizionalmente, e vorrei dire istintivamente, per certo in consonanza con lo sviluppo conosciuto degli ordinamenti giuridici, integrato da robusta riflessione dottrinale e da una naturale tendenza adattativa, nonché da un predominante assetto degli interessi professionali, tra loro bilanciati, una controversia che riguardi diritti disponibili si compone in tribunale, con il ministero essenziale del giudice. Molto meno frequentemente, anzi molto raramente nei conflitti interindividuali, si ricorre alla giustizia arbitrale, considerata come l'area di confronto di interessi aggregati, di soggetti complessi, in ogni caso rarefatta negli interpreti e nei riti di officiazione. segue pagina 2
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Upskilling: valore aggiunto della mediazione-conciliazione dalla prima pagina
Con l'eccezione dei tempi più vicini, e con il limite della carenza di principi fondamentali positivamente posti nella legislazione, salva la ricorribilità a quelli del diritto naturale, una modalità alternativa di risoluzione delle controversie non solo non è stata coltivata sul piano delle politiche di rafforzamento dei diritti dei cittadini, ma neppure è stata considerata proficuamente ricorribile per migliorare l'offerta di giustizia. Molto, anzi troppo semplificando, e senza nulla togliere all'ispirazione dichiarata nei documenti comunitari per cui il principio di un migliore accesso alla giustizia è fondamentale (e in questa luce è utile l'appropriato sviluppo di procedimenti stragiudiziali), la ragione ispiratrice della promozione di modalità alternative di composizione dei conflitti, imperniate sulla responsabilità diretta delle parti in conflitto, si può ritenere, in prima approssimazione, che risieda nel dovere metagiuridico di valorizzare socialmente il ruolo protagonistico di ogni cittadino. Se, insomma, l'accesso alla giustizia è un valore derivato e va salvaguardato e implementato, ciò che caratterizza la mediazioneconciliazione è il fatto di costituire essa stessa, la fonte di legittimità dell'accordo che pone fine al conflitto cui è applicata. I metodi di composizione del conflitto, tutti insieme, e dunque il giudizio, l'arbitrato, la mediazione ed ogni loro evoluzione, cooperano a debellare il rischio che si regredisca verso forme ricompositive che poggino sulla violenza, nelle quali il paradigma di riferimento non sia né win-lose, né win-win, bensì lose-lose. Se si vuole enfatizzare la caratteristica dell'alternatività, allora processo, arbitrato e mediazione seggono dalla stessa parte del tavolo della stabilità sociale, della pace civile, della pacificazione commerciale a fronteggiare l'avversario loro alternativo: la composizione del conflitto mediante l'uso della forza. Che non può essere esclusa, se si avvera la previsione tutt'altro che visionaria di una imminente, se non è immanente, crisi della regolazione della vita sociale mediante la legge. È noto come sia stata in dottrina isolata una tendenza alla degiuridificazione come conseguenza dell’impossibilità materiale delle norme di inseguire ogni singola situazione sociale meritevole, o bisognosa, di regolazione. Ma, per un principio di horror vacui, tipico dell'ambito giuridico, si è registrata una risposta di giuridificazione, sfociata in una proliferazione delle fonti autorizzate di produzione e delle regole. Molti anni fa, Sergio Cotta aveva preannunziato l'avvento di una condizione di «pluralismo nella produzione del diritto» come risposta soddisfacente alla perdurante esigenza di governo giuridico della vita sociale, indicando la via della «creazione giurisdizionale di norme di portata generale sulla base del caso concreto», avendo in mente i sistemi di common law. Dal il principio secondo il quale nel processo, sostanzialmente, si sottopone la norma alla prova di resistenza della sua efficacia ai fini della composizione degli interessi in conflitto si fa discendere la legittimità della creazione (e applicazione) di una norma di carattere generale desumibile da un caso concreto. Ma proprio in un sistema di common law, quello che ha davanti a sé Ronald Dworkin, si discute del cosiddetto «problema del rimedio» al riguardo di situazioni di fatto, agite in contenzioso, quindi prodotte da un conflitto di interessi e bisognose di composizione, per le quali si versa in una situazione di «assenza di diritto». Secondo Dworkin «i giudici non hanno altre scelte se non quella di creare un nuovo diritto»: ma in quali forme, con quali limiti, sotto quali controlli? Con approccio interpretativo, ovvero giurisprudenziale, ovvero legislativo (da nomoteti), ovvero equitativo (che tanto ricorda la giurisdizione equitativa dapprima temuta e poi invocata da Calamandrei)? Quesiti inseguiti da un ulteriore interrogativo: nella logica del pluralismo nella produzione del diritto, pur nel circoscritto ambito della risoluzione delle controversie, sotto
quali condizioni è conveniente per l'ordinamento sociale e giustificato giuridicamente che le regole siano poste dai protagonisti del conflitto per il quale si controverte, cioè dalle parti del conflitto? Una risposta va ricercata in chiave istituzionale. Vestendo i panni di Condorcet nel suo progetto di Costituzione, verrebbe facile modellare il ruolo preminente dei cittadini su quello dei giudici e degli avvocati. Nel contesto costituzionale che regge il nostro paese i principi di sussidiarietà e solidarietà possono legittimamente invocarsi per sostenere che la regolazione di conflitti per i quali il diritto debba essere costruito o ricostruito può determinarsi nel quadro di una procedura formalizzata denominata mediazione. Lo stato, regolandola, riconosce alla persona una funzione pubblica esercitabile con l'assunzione di una responsabilità diretta, consistente nella composizione delle controversie in ambito civile e commerciale, purché l'accordo di mediazione corrisponda ai principi legali positivamente posti dalla legge.
UN NUOVO DIRITTO «I giudici non hanno altre scelte se non quella di creare un nuovo diritto», dice Ronald Dworkin. Ma in quali forme, con quali limiti, sotto quali controlli? Con approccio interpretativo, ovvero giurisprudenziale, ovvero legislativo, ovvero equitativo?
In chiave antropologica e sociologica, subito dopo, mutuando il sintagma da altro contesto, la mediazione realizza l'attesa di «un'analisi in ascolto», cioè di una ricerca e della conseguente giustificazione, della quale le parti nel processo avvertono il bisogno nel corso del suo svolgimento e l'assenza subito dopo la sentenza, poiché, comunque, all'esito di una controversia deve risultare soddisfatta l'attesa del senso della decisione. Il punto è che nella procedura di mediazione non c'è decisione che si sovrapponga alla volontà delle parti; essa si conclude con un accordo, con la regolazione su basi rinnovate (ma, in ipotesi, le stesse basi rilette alla luce delle intervenute dinamiche conflittuali) degli interessi originariamente dedotti nel rapporto. Nella mediazione l'intenzionalità dei comportamenti connota l'accordo, come non può fare il processo. Adottando, per convenienza di esposizione, la definizione data nella recente direttiva comunitaria («La mediazione è un procedimento strutturato, indipendentemente dalla denominazione, dove due o più parti di una controversia tentano esse stesse, su base volontaria, di raggiungere un accordo sulla risoluzione della medesima, con l'assistenza di un mediatore») si può ben ritenere che trovi massima soddisfazione l'auspicio hegeliano che le parti della controversia ne conservino la direzione per non negare la relazionalità e la normatività del diritto. Ecco, nella mediazione, le competenze giuridiche accompagnano, e forse assecondano, avendo le parti facoltà di farsi assistere, il primato dell'autonomia interpretativa del fatto in capo alle parti. È legittima, a questo punto, la perplessità di chi legga queste poche righe circa il significato ed eventualmente l'obiettivo della riflessione. Ebbene, a me pare che il modo con il quale è presentato il ruolo della mediazione, a seguito della sua introduzione in forma organica nell'ordinamento italiano, non renda giustizia né all'istituto in sé, né alla volontà del legislatore, né, infine, al suo potenziale applicativo ed evolutivo. Che la mediazione abbia a principale giustificazione il compito di sovvenire ai problemi di funzionamento della giustizia è a dir poco deludente. Non se ne nega l'efficacia indiretta in questa direzione, ma la sua natura è
decisamente più complessa. Pieno di dubbi, e certo non in stato di aponia, ritengo tuttavia che la mediazione debba essere inquadrata alla luce del suo complesso rapporto con la giurisdizione e la legislazione. Che non sia un succedaneo della giurisdizione, mi pare, è agevolmente dimostrabile. «Quell'insostituibile congegno di pacificazione intersoggettiva» (se non ancora interiore, come aggiunge generosamente Sergio Cotta) che è il processo ottiene i suoi risultati sul piano della forza assegnata dalla costituzione alla giurisdizione. Il giudice esercita una forza né animosa né violenta, una forza interpretata imparzialmente ma sostitutiva della volontà delle parti. La mediazione presuppone che l'animosità delle parti sia già superata. Con il ricorso ad essa, originario per previsione contrattuale o successivo, su base volontaria o per l'indicazione del giudice, l’animus confligendi s’è mutato in animus componendi o conciliandi e il ricorso alla forza del giudice cede il passo alla volontà delle parti per ricercare e conseguire il risultato della pacificazione intersoggettiva. È questo un passaggio cruciale per capire la mediazione. La maggior parte delle obiezioni verso questo istituto, visto anche come insidia professionale, forse come concorrenza indesiderata, forse, in buona fede, come modalità ingenua di ottenere soddisfazione in una controversia, deriva dalla incredulità che un conflitto in atto, prima ancora che siano schierate le truppe, possa essere ospitato in una sede di pacificazione. Obiezioni del tipo «ma noi siamo litigiosi per natura», oppure, «la sentenza civile risarcisce più e meglio di un accordo» ed altre consimili affermazioni provano poco o nulla. Ogni conflitto, ogni controversia tende alla pacificazione. È ragionevole domandarsi se questo obiettivo possa essere anticipato e guidato sotto la propria diretta responsabilità.
IL DIRITTO GLOBALE Non si è formato un diritto globale. Il diritto degli stati si arresta al confine di ciascuno di essi, mentre l’economia globale genera conflitti e dà vita a controversie di uguale estensione L'individuo, nella mediazione, non affida a terzi soggetti la realizzazione della propria volontà e coopera attivamente, assumendone appunto la responsabilità, a rendere effettiva la funzione regolatrice della giustizia che consiste essenzialmente in un vantaggio immediato e personale, quello della composizione del conflitto, e in un vantaggio aggregato, generale e comune, quello della stabilità dell'ordinamento sociale, pur nel riprodursi incessante del conflitto intersoggettivo. Perché non sembri una difesa tutta astratta della mediazione, o addirittura una esaltazione irriflessa del nuovo, proverò a sottoporre la questione alla prova del giudizio della contemporaneità. Su un punto si può essere d'accordo: che viviamo il tempo della globalizzazione. Molteplici gli indici elaborati per valutarne vantaggi e svantaggi: ai miei fini ne prendo in considerazione uno, proposto da Joseph Stiglitz. Esso consiste nella rilevazione che «la globalizzazione dell'economia corre più veloce di quella politica e che le sue conseguenze economiche superano le nostre capacità...di affrontarne gli effetti attraverso la politica». Se ciò è vero, e tutto lascia credere che lo sia, la traduzione di questa affermazione può essere la seguente: l'attività regolatrice assegnata alle istituzioni formali della politica subisce una riduzione di efficacia di fronte ad un contesto, quello dell'economia globale, che non può essere dominato compiutamente dalle stesse istituzioni formali, salvo che esse non subiscano una trasformazione di tipo globale. La struttura logica sovrastante il princi-
pio della concreta partecipazione dei cittadini, direttamente o per via di rappresentanza, ai vari livelli del processo regolativo è costretta a lasciare il passo alla constatazione che un'insidia deregolativa generalizzata espone paesi ed istituzioni di paesi alla minaccia di una condizione sottodemocratica, talvolta indicata come caratteristica della postdemocrazia. Ciò che viene reso superbamente con le parole di Stiglitz: «a livello internazionale non siamo riusciti a dar vita alle istituzioni politiche democratiche necessarie per far funzionare davvero la globalizzazione… e come conseguenza del deficit di democrazia nella sua gestione non è stato possibile moderarne gli eccessi». Traducendo ai nostri fini, possiamo dire che non si è formato un diritto globale. Il diritto degli stati si arresta al confine di ciascuno di essi mentre l'economia globale genera conflitti e dà vita a controversie di eguale estensione. Se Stiglitz può affermare che «la depoliticizzazione del processo decisionale spiana la strada a decisioni che non tengono conto degli interessi sociali generali» (dobbiamo intendere globali), ciò può voler dire che le controversie accese a causa dei commerci globali trovano due possibili interlocuzioni: quella dei giudici nel processo, con i giudici nella condizione di dover creare diritto, cioè il nuovo diritto globale che non deriva da un legislatore globale e quella della mediazione con le parti in conflitto che in autonomia rideterminano le regole della sua composizione, con i limiti e il potenziale costituito dalla volontà di accordo. Dilatando il pensiero di Dicey nel suo Conflict of laws e di Schmitthoff nel suo English conflict of laws, si può affermare che in assenza di leggi applicabili può valere quanto stabilito nel caso di conflitto di leggi, potendo le parti in mediazione, con minore o assente rischio di violazione dell'incontrastato principio della separazione dei poteri, anche quando il giudice sia chiamato a creare nuovo diritto, affidare la composizione della loro controversia a criteri del tutto estranei alle prassi processuali come la loro personalità, la disposizione alla conciliazione, la storia dei loro rapporti contrattuali, le forme verbali impiegate, gli usi del luogo di conclusione dell'accordo o del contratto e quelli del luogo di esecuzione. Tutte circostanze reinterpretabili nell'ottica ricompositiva della mediazione che alla luce della ragionevolezza, diviene canone di interpretazione degli interessi contrapposti, anziché di valutazione di congruenza con un principio generale ed astratto. Mentre si ricerca un nuovo paradigma politico, adatto all'epoca globale, e i tempi della ricerca dipendono dalla capacità relazionale degli stati e delle organizzazioni di stati, un nuovo paradigma della giustizia, quello della giustizia riconciliativa o ricostituiva (così Revelli nella Politica perduta) attento ai tempi stretti dettati dei ritmi dell'economia globale, trova la sua prima incarnazione nelle istituzioni della mediazione. A questo punto, tuttavia, nonostante la direttiva comunitaria in materia di mediazione, della metà del 2008, nonostante la legge delega del giugno 2009, nonostante il recentissimo schema di decreto legislativo, nonostante i preesistenti spunti e frammenti legislativi in materia di mediazione e conciliazione, sintomo di una cultura immanente di ricomposizione del conflitto, è necessario, al di là di pur plausibili trasfigurazioni idealistiche, dare radici alla mediazione, nel senso, non già di inventarle, ma di ricercarle nella profondità del diritto e della storia del diritto. Un'ipotesi di lavoro è rappresentata da un passaggio del pensiero di Dworkin, peraltro dall'autore orientato suffragare la propria favorita tesi dell'integrità del diritto. Ebbene, Dworkin espone il seguente principio: «se gli individui accettano di essere governati non solo da disposizioni esplicite stabilite dalle scelte politiche precedenti» (in teoria potrebbero mancare nelle accennate rappresentazioni della globalizzazione. «Ma da qualsiasi altro criterio che derivi dai principi sottesi a queste decisioni, l’insieme di criteri pubblici Conclude pagina 3
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3 International Conference Moving Mediation
AVVOCATURA E RIFORMA DELLA GIUSTIZIA
From mediation to customized approach
19 November 2009 Kurhaus, The Hague, Netherlands
NELLA COSTITUZIONE E NELL’ORDINAMENTO «È urgente aprire una nuova fase di riforme. La professione di avvocato ha bisogno dopo settanta anni di attesa di una legge forense condivisa e che parta dalle esigenze reali della categoria e del paese. Si può fare: basta recepire i principi avanzati dall’Oua e il decalogo presentato nelle settimane scorse al governo e al parlamento da tutta l’avvocatura. Nell’assise di Roma si attendono risposte concrete, anzi fatti». Questo è il messaggio che lancia Maurizio de Tilla, presidente dell’Oua, alla vigilia della sesta conferenza nazionale dell’avvocatura, la manifestazione promossa dall’Organismo unitario dell’avvocatura, che si terrà a Roma il 20 e 21 novembre prossimi. «La piattaforma proposta dall’avvocatura è già stata definita» – continua Maurizio de Tilla – «e si articola su elementi ben precisi: ristabilire l’inderogabilità dei minimi tariffari, ripristinare il divieto di patto quota-lite, prevedere l’esclusività della consulenza legale e non ammettere le società di capitale e con soci di solo capitale».
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«È, inoltre, importante stabilire l’introduzione del numero chiuso all’università e l’accesso programmato alle scuole di formazione forense» – aggiunge il presidente Oua - «ma anche definire con rigore i criteri della formazione continua e dell’aggiornamento permanente. È necessaria la previsione di titoli di specializzazione come elemento di ulteriore qualificazione e sicurezza del servizio dell’avvocato. Per l’iscrizione all’albo, inoltre, si deve fissare il limite massimo di 50 anni d’età e si deve possedere il certificato di abilitazione valido entro i cinque anni. Serve, inoltre, che ci sia continuità ed effettività nell’esercizio dell’attività e nell’applicazione dei criteri stabiliti dalla cassa forense». La prossima conferenza nazionale dell’avvocatura vuole essere la sede di un confronto diretto dell’avvocatura italiana con il governo, i partiti di maggioranza e di opposizione, con le forze politiche, con i parlamentari, le istituzioni, il Csm, la magistratura».
Upskilling: valore aggiunto della mediazione-conciliazione
riconosciuti può svilupparsi o restringersi in modo organico mentre gli individui perfezionano i metodi di analisi e di esplorazione di quanto richiesto da questi principi in circostanze nuove, senza che vi sia bisogno di ricorrere ad una legislazione minuziosa o ad una decisione giudiziaria su ogni possibile punto di conflitto».
ALLA RICERCA DELLE RADICI DELLA MEDIAZIONE Conviene abbandonare il richiamo ai ritardi nella definizione dei procedimenti e richiamare invece l’ispirazione contrattualistica della mediazione come alternativa alla giurisdizione
Provo a riscrivere, indegnamente, questo passaggio del pensiero di Dworkin. La mediazione è lo strumento di risoluzione delle controversie che, nell'ambito dei principi fondamentali stabiliti dalla legge, può fornire una composizione del conflitto, conveniente e rapida, consentendo alle parti nel loro reciproco interesse di valutare tutti gli elementi sottostanti il conflitto, dettando la legge della sua soluzione e del nuovo accordo, e quindi perseguendo e raggiungendo, congiuntamente, il risultato di una valutazione su nuove basi dei principi di diritto e delle circostanze di fatto, senza la necessità che gli uni e le altre abbiano una copertura legislativa o giurisprudenziale. Se la mediazione costituisce la traduzione di diritti e doveri solidaristici, costituzionalmente protetti, le parti in mediazione assumono nello stesso tempo la veste e di giudici e di legislatori del loro rapporto. Se, tenendo dietro a certe interpretazioni, si vuole stabilire una relazione tra mediazione e giustizia, conviene che venga abbandonato il nesso di causalità ricercato nella problematica dei ritardi di risoluzione dei procedimenti pendenti e che venga assunto quello, più convincente anche se più complesso, secondo il quale la mediazione mantiene la sua ispirazione contrattualistica ed è alternativa alla giurisdizione. Negli ambiti regolativi contemporanei, definiti probabilmente a torto di maggiore complessità rispetto al passato, la mediazione spingendo ed affinando la capacità regolatrice autonoma delle parti in conflitto riduce la pressione verso una legislazione minuziosa e solleva la giurisdizione dal compito di estendere le proprie funzioni verso l'elaborazione di norme, seppure sotto la specie dell'applica-
zione di canoni ermeneutici stabiliti dalla legge. Con queste modalità di valorizzazione dell'autonomia e della responsabilità delle parti in conflitto, ad esempio, si darebbe risposta ad alcuni casi sociali, irraggiungibili dal legislatore e dai giudici, come il seguente: «il sistema migliore per scoprire il valore che gli individui attribuiscono alle cose è quello di spingerli a concludere transazioni. Altrimenti non abbiamo alcun modo di verificare se essi farebbero effettivamente ciò che dicono di voler fare». E poi: «Se un giudice accetta il fatto che un documento legislativo ammetta una sola interpretazione, allora, se si escludono impedimenti di natura costituzionale, egli deve applicarlo come diritto anche se ritiene che il documento legislativo sia inconsistente nei principi con il diritto considerato nel suo insieme». È ben chiaro che, in un caso del genere, che si verifica talvolta per l'inevitabile invecchiamento della legislazione, talaltra per il ritardo di regolazione di nuove situazioni di fatto, ovviamente nell'area dei diritti disponibili, le parti della mediazione danno l'interpretazione aggiornata necessaria alla regolazione del loro conflitto, il cui documento d'accordo assume la fisionomia di una legge coesistente con il diritto considerato nel suo insieme. Talché, sullo sfondo, molto sullo sfondo in verità, si staglia non tanto una giurisprudenza di derivazione conciliativa quanto piuttosto un sistema legislativo derivante dalla produzione di regole spontanee attraverso l'autonomia conciliativa, una lex che potrebbe avere nel tempo la forza della lex mercatoria nel diritto internazionale. E poi, con la mediazione, verrebbe meno l'esigenza, presente in molti processi, di una domanda controfattuale, potendo le parti prescinderne per essere portatori ed interpreti del fatto. Con la mediazione, per concludere questa breve riflessione, si afferma il principio secondo il quale la regola prescelta per l'accordo è certamente quella corrispondente all'equilibrio degli interessi delle parti della controversia, con la probabilità statistica di produrre una migliore stabilità sociale ed una maggiore ricchezza generale in considerazione del fatto che i costi di transazione valutati dalle parti dovrebbero corrispondere al minor costo possibile per entrambi. E, infine, con queste premesse, la mediazione sostituirà il processo, marginalizzerà i giudici e il legislatore? La risposta è ovvia. La mediazione è un integratore di sistema, il primo gradino delle pratiche di composizione del conflitto individuale e della pacificazione sociale, l'occasione per esonerare il legislatore dal dover varare norme provvedimento e il giudice dal fare le leggi. Con la mediazione siamo di fronte ad un'istanza ulteriore, io penso, nel campo della regolazione degli interessi, da far emergere in un contesto di rin-
novazione del ruolo dei cittadini, con la caratteristica di poter corrispondere a quel bisogno di pluralità delle fonti di produzione del diritto che l'epoca globale ha reso definitivamente attuale. Correggo un’apparente dimenticanza. Nella procedura di mediazione insieme con le parti è presente il mediatore: l’architrave su cui si scaricano le forze del conflitto. Egli sarà imparziale e competente. E, auspicabilmente, sarà un giurista. Capisco e accetto le accuse di partigianeria, ma mi preoccupa maggiormente il fatto che la mediazione dovrà svolgere, oltre al ruolo proprio, singolare, di composizione del conflitto intersoggettivo, un ruolo implied, collettivo di ricomposizione del divario tra costruito e dato (rispettivamente norma legislativa e prassi giuridiche comuni) e poi, in epoca globale, di progettazione del costruito (accordi di mediazione) che contiene il dato (prassi giuridiche globali). Sì, sarà un giurista upskilled. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Organized by: Council for the Judiciary, the Ministry of Justice and the Netherlands court-connected mediation agency
VI Conferenza nazionale dell’avvocatura «Avvocatura e riforma della giustizia nella Costituzione e nell’ordinamento» 20-21 novembre 2009 Cavalieri Hilton Hotel - Roma Organismo unitario dell’avvocatura italiana (Oua)
Annual Meeting of the International Law Association, Swiss Branch Dedicated to current issues of international law 27 November 2009 Freiburg, Switzerland Fifth Global Congress on Combating Counterfeiting & Piracy 1-3 December 2009 Cancun, Mexico Co-hosts: Interpol and the Mexican Institute of Industrial Property (Impi) Convened by: Interpol, World Customs Organization (Wco), World Intellectual Property Organization (Wipo), International Chamber of Commerce Initiative Business Action to Stop Counterfeiting and Piracy (Icc Bascap), International Trademark Association (Inta), International Security Management Association (Isma)
The International Law Association, American Branch Sponsored by: The Committee on International Judiciary Integrity
International judicial corruption 9 December 2009 New York City Moderator: Lawrence W. Newman, Chair of the ABILA International Judicial Integrity Committee. Panelists: Glenn T. Ware, Managing Director of Pricewaterhouse Coopers; Prof. Susan Rose-Ackerman of Yale Law School; Daniel Kaufmann, a Senior Fellow at the Brookings Institution; Francesca Recantini, Senior Economist at the World Bank; and Daniel Schneider, Director of the Center on Non-Traditional Threats and Corruption at American University and Executive Director of Probitas International, Inc.
GIUSTIZIA ALTERNATIVA Fondato nel 2009
Mensile di informazione giuridica
Alessandro Diotallevi. Laureato in giurisprudenza nel 1972 presso l’università La Sapienza di Roma, ha iniziato la sua esperienza professionale nel 1974 prima come consigliere del Ministero dell’interno occupandosi della legislazione dei rifugiati politici in Italia, proseguendo dal 1975 al 1978 come consigliere del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, occupandosi di politiche del lavoro e della riforma sanitaria. Nel 1979 divenne consigliere della Camera dei deputati e nel 1986 segretario della Commissione sanità e successivamente affari sociali. E’ stato nominato nel 1994 capo dell’Ufficio Affari Generali, curando la segreteria dell’Ufficio di presidenza e del segretariato generale. Dall’anno 2000 svolge l’attività di avvocato e membro della Commissione tecnico scientifica del Ministero dell’ambiente. E’ socio e componente del consiglio direttivo della Simed, società italiana per lo sviluppo della mediazione e della conciliazione. Svolge l’attività accademica per la Bridge Mediation Italia, abilitata dal Ministero della giustizia, con corsi formativi per conciliatori in diritto societario.
direttore responsabile domenico cilenti coordinamento editoriale joan nickles editore romaprint srl redazione/pubblicità via di san francesco a ripa n. 49 00153 Roma Italy tel./fax +39 065896852 e-mail: giustiziaalternativa@libero.it e-mail: romaprint@romaprintsrl.191.it stampato dalla romaprint srl via di scorticabove n. 136 00156 Roma anno I, n. 2 autorizzazione del tribunale di roma n. 192/09 rilasciata in data 26 maggio 2009 Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta senza il permesso dell’editore. Tutto il materiale inviato non verrà restituito e resterà di proprietà dell’editore. Gli articoli impegnano solo la responsabilità degli autori e la pubblicità solo quella degli inserzionisti. Ai sensi della legge n. 175 del 1996 per la tutela dei dati personali l’editore garantisce la riservatezza dei dati degli abbonati. La cancellazione e gli aggiornamenti potranno essere richiesti all’editore. Spedizione in abbonamento postale 45 per cento ex art. 2 della legge n. 549 del 1995.
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Che cosa sono gli osservatori sulla giustizia Oggetto specifico del lavoro dell’osservatorio: un esame delle ricadute pratiche e delle prime opzioni interpretative conseguenti alle riforme del processo civile del 2005-2006 e del 2009 di Donatella Salari e Francesco Vigorito
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remessa. Gli osservatori per la giustizia civile sono formazioni spontanee, costituite in oltre 30 tra i più grandi uffici giudiziari italiani (Roma, Milano, Napoli, Firenze, Bologna, Genova eccetera), che raccolgono le voci ed il contributo di avvocati, magistrati, personale amministrativo e di tutti coloro che partecipano all’amministrazione della giustizia con lo scopo di ricercare i valori fondanti e condivisi della giurisdizione traducendoli in prassi, ossia condotte condivise che si propongono di migliorare il funzionamento della «macchina giudiziaria» e di alleviare il disagio degli utenti. Quello dell’inefficienza dell’apparato giustizia è, infatti, un problema molto complesso che sconta il rapporto difficile con la politica giudiziaria e che è divenuto negli ultimi anni un vero e proprio problema sociale.
IL SECONDO INCONTRO DELL’OSSERVATORIO Il processo sommario di cognizione sarà al centro del secondo incontro dell’osservatorio che si terrà il 1° dicembre È un fatto che il ritardo nella risposta alla domanda di giustizia provoca incertezza nei rapporti economici e nelle relazioni interpersonali con forti costi per l’intera collettività: l’inefficienza ha una grave ricaduta economica perché rallenta gli scambi e i traffici giuridici nel loro complesso, rende l’intero sistema incapace di competere con quello degli altri paesi, scoraggia gli investimenti, incide sul costo del denaro e sulla produttività, comporta la perdita di ingenti risorse finanziarie per il bilancio dello Stato (che potrebbero essere più utilmente impiegate per recuperare l’efficienza del sistema), chiamato a garantire, nel rispetto degli impegni comunitari, un’equa riparazione in favore di chi rimane vittima dei tempi «non ragionevoli» di durata del processo. A questo proposito va ricordato che secondo la Corte dei diritti umani di Strasburgo l’Italia è al primo posto tra i 47 paesi aderenti al Consiglio d’Europa; nei suoi confronti pendono i ricorsi per la violazione della norma (articolo 6) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che presidia il valore della durata ragionevole del processo fin dal 1950. A tenore del citato articolo ogni persona ha diritto a che «in un tempo ragionevole» la causa sia esaminata. Paradossalmente, tanto è maggiore l’inefficienza dell’apparato, tanto maggiore è il costo a carico del bilancio dello Stato, che è tenuto a garantire, nel rispetto degli impegni comunitari, un’equa riparazione in favore di chi rimane vittima dei cosiddetti tempi «non ragionevoli» di un processo. È facile, perciò, osservare che quelle risorse finanziarie avrebbero potuto e possono ancora essere convogliate verso il recupero di funzionalità del sistema. Il ricorso alla procedura risarcitoria per violazione dei tempi ragionevoli di durata del processo può leggersi nell’aggravio dei costi derivanti dai pignoramenti attivati presso il Ministero della giustizia in base alla cosiddetta legge Pinto. In proposito va segnalato che a mente dell’articolo 1, comma 1224 della legge finanziaria 2007 n.296 del 2006 i pagamenti degli
indennizzi in discorso – una volta che la violazione sia stata accertata, fanno capo al Ministero dell’economia e finanza (Mef). Tale onere può essere quantificato in via approssimativa (fonte Commissione tecnica per la finanza pubblica) in 500 milioni di euro all’anno. Il dilemma delle linee d’intervento si è posto, perciò, all’attenzione degli esperti che hanno sollecitato al governo due possibili rimedi all’inefficienza del sistema secondo due differenti modalità di intervento. La prima sembra suggerire di recuperare attraverso le cosiddette «buone pratiche» le risorse già esistenti con pochi e semplici interventi di carattere organizzativo; la seconda tende allo stesso obiettivo attraverso l’individuazione di interventi più specifici di risanamento della struttura di cancelleria con la creazione di nuove figure professionali tra il personale amministrativo che, peraltro, è ancora in attesa di riqualificazione. È evidente che questa seconda tipologia d’intervento sconta non solo i problemi di bilancio dell’apparato giustizia ma anche le resistenze, diffuse a vari livelli, rispetto ad interventi di riorganizzazione quali quelli del cosiddetto «ufficio del processo» (microstruttura organizzativa destinata ad affiancare il giudice professionale). D’altra parte, occorre prendere atto che l’asfissia che oggi affligge il servizio giustizia impone interventi di lungo periodo quali la revisione della dimensione degli uffici giudiziari e la redistribuzione dei carichi di lavoro, la riformulazione della geografia degli uffici giudiziari e l’ottimale assegnazione del personale sul territorio.
I COSTI DEL RITARDO Gli oneri della violazione dei tempi ragionevoli di durata del processo possono essere quantificati in 500 milioni di euro all’anno a carico del bilancio dello Stato
Le varie esperienze degli osservatori. Trattandosi di fenomeni assolutamente spontanei, che nascono da un rapporto di spontaneo interesse per il lavoro giurisdizionale, le finalità che ciascun osservatorio persegue sono molto diverse tra loro. Le potremmo ricapitolare in maniera molto sintetica in grandi categorie che sono: – la ricerca delle prassi comuni; – la conoscenza degli orientamenti giurisprudenziali delle sezioni per evitare che l'esercizio della giurisdizione, pur nel rispetto del libero convincimento, muti specialmente nelle interpretazioni della norma processuale, a seconda della porta in cui l'avvocato o l'utente entra; la formazione e l'aggiornamento continuo e comune degli attori della giurisdizione, quindi di giudici e avvocati: la promozione di una cultura del confronto delle reciproche esperienze. Questo è un punto estremamente delicato perché gli osservatori hanno avuto un ruolo, insostituibile nel ripensamento e nella nuova progettazione dei rapporti tra magistrati e avvocati, tendenti alla condivisione dei valori della giurisdizione in senso concreto. L’esperienza del tribunale civile di Roma. L’osservatorio romano sulla giustizia civile di Roma si è costituito nel 2002 dopo
una fase preparatoria protrattasi per un paio di anni nella quale aveva operato da un lato un coordinamento dei giudici civili e dall’altro un coordinamento degli avvocati. In una prima fase l’osservatorio ha messo al centro delle sue riflessioni le modalità di svolgimento delle udienze civili e del processo ordinario di cognizione nel tentativo di disegnare un modello corretto ed efficace di udienza e di processo; sono stati predisposti due «protocolli», uno per lo svolgimento dell’udienza civile, nel 2003, uno per il processo civile, dopo la riforma, nel 2006. I protocolli, che hanno proposto l’adozione di una serie di regole volte a favorire uno svolgimento più ordinato e proficuo delle udienze civili, ad attenuare il disagio esistente, a migliorare la qualità del processo, a tutelare la riservatezza dei soggetti coinvolti e a ridurre drasticamente i tempi di attesa di testimoni, parti ed avvocati, pur formalmente adottati solo da qualche decina di magistrati, hanno disegnato le modalità di conduzione dell’udienza e del processo alla quale si adegua una larga parte dei giudici e degli avvocati romani.
occasione dell’incontro del 28-30 ottobre 2009 dei capi di corte delle capitali europee svoltosi qui a Roma. [ndr: se ne veda la sintesi a pagina 13] Il progetto è destinato a confluire in un vero e proprio protocollo per la conciliazione delle cause in grado d’appello e a diventare, come si esprime il documento, «un utile strumento deflattivo solo se largamente praticato, in un contesto di reciproca fiducia che può essere raggiunto soltanto se le sue fondamenta si poggeranno su grande professionalità dei difensori, preparazione, autorevolezza e attendibilità dei conciliatori, pacato intervento del giudice. Sotto tale aspetto la sperimentazione che si sta tentando potrebbe essere un’anticipazione e un buon viatico per enucleare deontologia, individuare prassi virtuose e concreta praticabilità di un itinerario alternativo». Si è poi, più recentemente, costituito a Roma anche un osservatorio sulla giustizia penale che vede la partecipazione fortemente motivata del foro e della magistratura non solo della ricerca delle condotte virtuose, ma anche nei momenti di formazione comune.
L’OSSERVATORIO DELLA CORTE D’APPELLO
Conclusioni. Se gli osservatori sulla giustizia, nella duplice componente di magistrati e avvocati, si riconoscono nello sforzo comune di utilizzare al meglio, attraverso le cosiddette «buone pratiche», le risorse già esistenti, è evidente che questo obiettivo presuppone anche l’individuazione di interventi più specifici di risanamento della struttura di cancelleria. A questo scopo sarebbe opportuna una partecipazione più assidua del personale amministrativo, il quale può dare un forte contributo anche nella predisposizione di appositi protocolli di comportamento che impegneranno gli operatori, i magistrati e gli avvocati; si tratta di realizzare una sorta di codificazione delle regole di buon comportamento che gli attori del processo sono chiamati a rispettare.
Un protocollo per la conciliazione delle cause in grado d’appello è stato presentato dal presidente di sezione Filippo Paone all’incontro a Roma dei capi delle corti d’appello dell’Unione europea In qualche sezione l’udienza si tiene «a porta chiusa» e l’ordine delle cause risulta da un display. Resta tuttavia presente, sia pure in settori specifici, e segnalato dagli avvocati che fanno parte dell’Osservatorio, la prassi di chiamare le cause non in base all’orario o alla fascia oraria, ma tutte allo stesso orario con scaglionamento sulla base del «mucchio», in qualche caso, sia pur sporadico, la prassi di «delegare» agli avvocati l’assunzione delle prove orali. Oltre alla predisposizione dei protocolli, i componenti dell’osservatorio hanno deciso di costituire dei gruppi di lavoro sulle materie del diritto di famiglia, delle riforme processuali, dell’esecuzione forzata, dell’ufficio per il processo. Oggetto specifico del lavoro dell’osservatorio è stato, in questi ultimi mesi, un esame delle ricadute pratiche e delle prime opzioni interpretative conseguenti alle riforme del processo civile del 2005-2006 e del 2009. In questo ambito si è tenuto un primo seminario tenutosi il 19 ottobre 2009 (relatori il professor Bruno Capponi, l’avvocata. Lucia Scognamiglio ed il dottor Francesco Vigorito) sulla disciplina transitoria prevista dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, e ci sarà un secondo incontro il 1° dicembre 2009 sul «processo sommario di cognizione» (relatori il professor Giorgio Costantino, la dottoressa Anna Maria Soldi e l’avvocato Giuliano Leuzzi). Altre esperienze degli uffici giudiziari romani. Si è costituito anche un osservatorio della corte d’appello, sezioni civili, che sta portando avanti un progetto di sperimentazione contenuto in un documento presentato dal presidente di sezione Filippo Paone, in
GRIMALDELLO PSICOLOGICO «L’osservatorio ci coinvolge come una sorta di grimaldello psicologico o, meglio ancora, come strumento di riaffermazione del momento etico del nostro agire, dell’impegno di tutti gli attori del pianeta giustizia» Le proposte degli osservatori hanno avuto, in questi ultimi anni, una incidenza nelle scelte che il legislatore ha adottato riformando a più riprese il processo civile (dalla riforma delle procedure esecutive alle modifiche in tema di motivazione, dagli strumenti di deflazione agli istituti volti ad organizzare lo svolgimento delle udienze e dei processi), realizzando una sorta di circolo virtuoso tra le esperienze della prassi e la modifica normativa. Il ruolo degli osservatori è, quindi, molteplice poiché, oltre alla elaborazione delle regole di comportamento e di studio delle prassi, vi è l’idea di individuare soluzioni condivise, di rendere trasparenti gli orientamenti del singolo ufficio giudiziario e di diffonderli, di rendere maggiormente responsabili gli attori della giurisdizione. La ricerca di soluzioni non avviene con riConclude pagina 5
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L’HAGUE SECURITIES CONVENTION & LA GENEVA SECURITIES CONVENTION
Titoli di oltre 2.000 milioni di dollari sono trasferiti ogni giorno elettronicamente nel mercato finanziario globale dei paesi dell’Ocse La Svizzera ha ratificato il 14 settembre 2009 l’Hague Securities Convention (The Hague Convention on the Law Applicable to Certain Rights in Respect of Securities held with an Intermediary) del 5 luglio 2006, fornendo la certezza del diritto alle moderne forme di detenzione e di trasferimento dei titoli (azioni, obbligazioni o altri strumenti finanziari o attività finanziaria diversa dal contante). Ci vorrebbero ancora due ratifiche perché entri in vigore: la ratifica da parte degli Stati Uniti, che insieme con la Svizzera hanno firmato la convenzione nel 2006, e da parte delle Mauritius che sono diventate il terzo paese firmatario il 28 aprile 2008. La firma e la ratifica da parte dell'Ue sono attese, visto che la Commissione europea ha concluso che l'adozione della convenzione sarebbe nel migliore interesse della Comunità e ha raccomandato che la convenzione sia firmata almeno dopo la firma del suo principale partner commerciale, gli Stati Uniti.
La grande quantità di titoli è oggi detenuta, trasferita e impegnata elettronicamente. Il mercato finanziario globale, che solo per i trenta paesi membri dell'Ocse ha un volume di oltre 2.000 milioni di dollari al giorno, ha bisogno di un regime giuridico che si occupi in maniera efficace di questa nuova realtà. Le regole giuridiche tradizionali sono considerate troppo diverse, superate e inadeguate, con la conseguenza di incertezza del diritto, aumento del rischio e costi più elevati. Al perfezionamento dell’Hague Securities Convention tende la Geneva Securities Convention (Unidroit Convention on Substantive Rules for Intermediate Securities) che tratta, appunto, di substantive legal rules, firmata il 9 ottobre 2009 da 50 paesi, 13 organizzazioni internazionali, Comunità europea e Bce. Hanno 120 giorni per porre le modificazioni al testo. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Geneva Securities Convention (Unidroit Convention on Substantive Rules for Intermediate Securities) www.unidroit.org The Hague Securities Convention (The Hague Convention on the Law Applicable to Certain Rights in Respect of Securities held with an Intermediary) www.hcch.net
Che cosa sono gli osservatori sulla giustizia da pagina 4
ferimento a modelli generici ed astratti ma in relazione ai problemi locali organizzativi e processuali rispetto ai quali la elaborazione del protocollo è soltanto uno dei possibili momenti. Proprio a questo fine gli osservatori si articolano per gruppi di lavoro che valorizzano le specifiche competenze di giudice e avvocati: ad esempio, il gruppo famiglia dell'osservatorio di Roma ha operato sul versante del protocollo d’ascolto del minore; il gruppo delle procedure esecutive si è avvalso anche delle esperienze dei vari professionisti che partecipano al processo esecutivo con l’incarico di custodi. Allora, convinciamoci che degli osservatori non si
Donatella Salari è entrata in magistratura nel 1986, maturando esperienze in campo sia penale che civile. È stata assegnata come prima sede alla procura della Repubblica presso il tribunale di Catanzaro con funzioni di sostituto e fino al 1995 ha esercitato le stesse funzioni presso il tribunale di Teramo. Dal 1995 è stata collocata fuori ruolo con funzioni amministrative presso il Ministero della giustizia, presso l’allora direzione generale degli affari penali, e dal 1997 è stata assegnata al tribunale di Roma con funzioni civili presso la sesta sezione, area immobiliare. Si è specializzata in tecniche di mediazione e conciliazione. Dal 2003 fa parte dell’osservatorio sulla giustizia civile del tribunale di Roma.
potrà fare a meno, almeno come forma di «resistenza» per dire che proviamo a resistere, a superare le avversità, magari uscendone trasformati e con noi tutti quelli che credono ancora nella giurisdizione e non ce la fanno proprio a disamorarsi totalmente. Ecco, in questa prospettiva, l’Osservatorio sulla giustizia civile di Roma ci coinvolge come una sorta di grimaldello psicologico o, meglio ancora, come strumento di riaffermazione del momento etico del nostro agire, dell’impegno di tutti gli attori del pianeta giustizia. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Francesco Vigorito è entrato in magistratura nel 1985, maturando esperienze in campo sia penale che civile. È stato assegnato come prima sede alla pretura di Sanremo e, successivamente, al tribunale di Cosenza. Dal 1995 è al tribunale di Roma con funzioni civili, ove ha maturato importanti esperienze in materia fallimentare e di esecuzione, prima di diventare presidente di sezione presso lo stesso tribunale. È autore di una serie di pubblicazioni in materia processualistica civile e di esecuzioni. Dal 2003 fa parte dell’osservatorio sulla giustizia civile del tribunale di Roma, al quale fornisce l’apporto della sua lunga esperienza.
Justice Delayed is Justice Denied dalla prima pagina
death penalty, the parties will then proceed to the penalty phase. In this phase, the jury will hear from the families of the alleged victims and individuals or family members who might testify on behalf the convicted individual. But the bottom line here is that the jury’s verdict and its assessment of an appropriate penalty moves rather quickly in our system. It is the appeals process that substantially slows final resolution. In our system, there is a right to appeal a conviction to an appellate court. And those appeals can take years. If the appeal is successful, then almost invariably the case comes back to the trial court for a retrial. In many states, there are multiple appeals and then attempted appeals to the federal courts, or indeed the United States Supreme Court by way of writs of habeas corpus. The United States has tried for years to find a way to bring an end to continued appeals and continued writs, but I believe it is fair to say that our system is still quite imperfect.
APPEALS AND WRITS The United States has tried for years to find a way to bring an end to continued appeals and continued writs When it comes to civil trials, the duration of the entire process is not measured in decades, but--in the absence of settlement--the process still can take many years. Whether the civil suit is filed in a state or federal court, the parties are given substantial latitude with respect to discovery. That means – in complicated litigation – multiple waves of written requests for information through interrogatories and requests for admissions. In massive cases, the parties exchange literally hundreds of boxes of documents – and with emails, the amount of documentation that may be relevant has skyrocketed. There will then be multiple rounds of oral depositions of individuals with relevant knowledge. In some cases, the depositions will encompass hundreds of witnesses. That process alone can take many months—after many months of document discovery. After general discovery, complex litigation then moves into the expert witness phase. Courts require that the experts present written expert testimony, but expert discovery can go on for a year or more. It is at that point that the civil case is ready for pretrial. The purpose of pretrial is to inform the parties and the judge of the issues in the case, the position of the parties, the documents that will be used by each side in the case, designated as formal exhibits, the witnesses who will appear at the trial and a summary of their testimony, and then a presentation of legal issues that need to be resolved before the trial commences. This pretrial procedure provides a roadmap for the trial and minimizes confusion and delay. Certain types of civil trials will be tried directly to the court. Cases involving damages will be tried to a jury. The benefit of a jury trial is that, once the evidence has been completed and presented,
the jury will render a verdict—a very simple verdict—that a party is or is not liable for damages and the extent of the damage award. In judge trials, the wait for a decision can be excruciatingly slow. I have participated in many cases where a judge might sit on the evidence for months, if not years. But whether the case is tried to a judge or a jury, there is then a decision. The decision can be appealed as of right to an appellate court in the state system or in the federal system. It can take time to obtain a final appellate decision—perhaps a year or two— but that is generally the end of the matter. The chance of discretionary review by the highest court of the state or by the United States Supreme Court is slim. In cases involving equity--a party is seeking an order from the court (not a jury) that a defendant party must do or not do certain things, the general process is the same. But an equity case is usually put on a faster track, tried to a judge and, because there is urgency involved in reaching a decision, the court acts promptly. In the civil litigation arena as distinguished from the criminal side, there have been experiments developed by courts that have streamlined the trial process and produced certainty and finality in a very short period of time. For example, the federal court in Alexandria, Virginia, has developed what is called a “rocket docket” which ensures that a case comes to trial within a very short period of time — generally six months from the date of filing a complaint. This approach does away with the extremes of the discovery process and forces the lawyers and their clients to focus on what is critical to their case. Courts around the country are looking at the rocket docket and developing their own procedures to achieve the same objective--ensuring that justice is prompt, certain and fair. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Peter J. Nickles is the Attorney General for the District of Columbia since January 6, 2008. A graduate of Harvard Law School in 1963, Nickles was a senior litigation partner at Covington & Burling LLP in Washington, D.C. At Covington, Nickles’ practice emphasized major class actions involving securities fraud and toxic torts, jury and non-jury trials; defensive takeover litigation and other high-profile litigation; international arbitrations; as well as antitrust and trade law and federal regulatory practice. When Washingtonian named Nickles one of Washington’s 50 Best Lawyers, the magazine wrote: “What distinguishes Nickles from other corporate lawyers is that he probably gives away more hours to good causes than anyone in town.” For his unrelenting years of public service, the District of Columbia Bar presented Nickles with the Pro Bono Service Award in May 1998.
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ACCOLADES Intervista Alessandro Cassiani dalla prima pagina
La battaglia e l’impegno a difesa dell’avvocatura Presiedere un consiglio dell’ordine che amministra oltre ventiquattromila iscritti significa un impegno quasi incompatibile con qualsiasi altro interesse o attività. Quella dell’avvocatura è e deve continuare ad essere un libera professione a contenuto pubblicistico Lei è il presidente del più importante ordine degli avvocati italiani e si trova in una posizione molto impegnativa rispetto ai problemi della giustizia. Come vede il ruolo dell’avvocatura nell’attuale contesto istituzionale? Presiedere un consiglio dell’ordine che amministra oltre ventiquattromila iscritti significa un impegno quasi incompatibile con qualsiasi altro interesse o attività. Ai doveri istituzionali quali la tenuta dell’albo, la disciplina, l’esame delle parcelle si sono aggiunti negli ultimi anni l’aggiornamento obbligatorio degli iscritti e una intensa attività che non esito a definire politica. In tale ambito mi sono occupato attivamente di tutti i problemi che affliggono l’avvocatura. Tra gli altri, la eccessiva durata dei processi, la farraginosa organizzazione della macchina giudiziaria, la riforma dell’ordinamento professionale ormai indilazionabile dopo oltre settanta anni di attesa.
IL RUOLO INSOSTITUIBILE DELL’AVVOCATO L’attività di mediazione è congeniale all’avvocato che è da sempre portato a tentare le vie del bonario componimento
Quali sono, in particolare, le iniziative che ha potuto sviluppare per migliorare la situazione? In uno spirito di concreta collaborazione ho chiesto ripetutamente e con forza: l’attivazione del processo telematico; la riduzione delle sedi giudiziarie; la individuazione di strade alternative a quelle giudiziarie; l’approvazione di un ordinamento professionale che contenga il numero esorbitante di iscritti, introduca gli albi di specializzazione, faccia salve le prerogative dei consigli dell’ordine, attribuisca maggiore rilievo alle associazioni professionali. La professione dell'avvocato è costituzionalmente garantita in quanto si riferisce al diritto inviolabile della difesa. Non è una professione come le altre. Come si pone la classe forense rispetto alle altre categorie? Con la stessa forza ho combattuto contro la legge cosiddetta Bersani che in nome della concorrenza ha svilito la nostra professione a livello di una qualsiasi attività commerciale e come tale assoggettata alle leggi della concorrenza e della pubblicità. In tutte le occasioni ho ribadito che quella dell’avvocatura è e deve continuare ad essere un libera professione a contenuto pubblicistico in quanto deputata all’attuazione del sacrosanto diritto di difesa previsto dall’articolo 24 della Costituzione. L’avvocatura del libero foro e quella degli enti pubblici devono essere caratterizzate da indipendenza, autonomia e dignità. Queste prerogative devono essere tutelate in quanto presupposto di una valida difesa delle pubbliche e private libertà dei cittadini. L’avvocatura deve essere affrancata dall’aumento esponenziale degli iscritti che aggrava il pericolo di violazione delle regole deontologiche e rende pressoché impossibile il controllo della effettività della pratica e dell’esercizio della professione.
Abbiamo toccato un punto dolente: la classe forense italiana risulta pletorica. Solo a Roma sembra vi siano più avvocati, si parla addirittura del doppio, che in tutta la Francia. Il disegno di legge elaborato da tutti i consigli dell’ordine e attualmente all’esame del parlamento risolverà questo ultimo problema. Prevede infatti: una serie di sbarramenti che impediranno l’accesso indiscriminato agli esame di stato; il controllo sull’effettivo esercizio della professione; gli albi di specializzazione che elimineranno la figura dell’avvocato generico che pretende di impegnarsi in tutti i campi dello scibile giuridico. Negli Stati Uniti d'America il patto di quota-lite fa parte della realtà quotidiana. E da noi? L’abolizione del divieto di quota-lite ha inferto un grave colpo alla credibilità e all’autonomia dell’avvocatura. Con il patto di quota-lite l’avvocato condivide le richieste del cliente e quindi può cedere alla tentazione di avanzare pretese esorbitanti nei confronti del proprio assistito.
SEPARAZIONE DELLE CARRIERE O DELLE FUNZIONI La separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice costituisce il naturale epilogo di un lungo percorso In quali limiti è ammessa la pubblicità per gli avvocati? La pubblicità non può essere lo «specchietto per le allodole» e cioè un modo per presentarsi come capace di ottenere sempre e comunque il migliore risultato a prezzi minimi. La pubblicità deve essere contenuta nella enunciazione dei meriti e dei traguardi effettivamente conseguiti «sul campo». La giustizia penale è al centro dell'attenzione. L'avvocatura è unita nel chiedere la separazione delle carriere o almeno delle funzioni tra giudice e pubblico ministero. Come si spiega questa posizione? La separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice non è una scelta dell’avvocatura: costituisce il naturale epilogo di un percorso che nasce con il codice di procedura penale attualmente vigente e prosegue con la modifica dell’articolo 111 della Costituzione. L’impianto accusatorio del nuovo processo e il concetto di «giusto processo» (caratterizzato da contraddittorio e ragionevole durata) impongono che si dia luogo a una riforma che metta accusa e difesa sullo stesso piano di fronte a un giudice terzo.
costituiscono alternative da incrementare allo scopo di ridurre i tempi della giustizia e anche di far conseguire ai cittadini migliori risultati. L’attività di mediazione è connaturale all’avvocato che è da sempre portato a tentare le vie del bonario componimento prima ancora di intraprendere vertenze in sede giudiziaria. In questa ottica il consiglio dell’ordine di Roma da sempre ha costituito camere di conciliazione e di arbitrato che svolgono una funzione intensa e apprezzata anche da altre categorie professionali. Il consiglio dell’ordine, conscio dell’importanza dei conciliatori e degli arbitri, ha istituito corsi di perfezionamento che vedono la presenza di molti avvocati e di docenti di altissimo livello.
UN IMPORTANTE SUCCESSO DELL’ATTUALE PRESIDENZA Il consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma resta nella sede di piazza Cavour che lo ospita da oltre un secolo
L'ordine degli avvocati di Roma ha potuto contribuire al decongestionamento dell’ufficio del giudice di pace? Il funzionamento dell’ufficio del giudice di pace ha costituito un impegno di primaria importanza nel biennio che sta per scadere. Il Consiglio ha dimostrato il suo interessamento assumendo personale dislocato presso quell’ufficio, acquistando apparecchiature elettroniche necessarie per il suo funzionamento, intervenendo presso il ministero della giustizia in molte riunioni che hanno visto la partecipazione del sottosegretario e di coordinatori dell’ufficio. Quali sono i punti più significativi della sua presidenza? La battaglia e l’impegno che hanno caratterizzato gli ultimi anni della mia presidenza stanno per dare i loro frutti. Oltre al citato ordinamento professionale stanno infatti per entrare in funzione il processo telematico e l’istituto della conciliazione giudiziale. Si preannuncia inoltre la revoca delle norme sulla libera concorrenza, di quelle sulla abolizione dei minimi tariffari e di quelle che hanno introdotto il patto di quota-lite. Dulcis in fundo, per merito del ceto politico è stata introdotta nel disegno legge sull’ordinamento professionale una norma che sancisce che il consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma rimanga nella sede storica di piazza Cavour che occupa da circa cento anni. Intervista di Joan Nickles © RIPRODUZIONE RISERVATA
Nella giustizia civile si pensa a valorizzare le composizioni bonarie attraverso forme di mediazione e conciliazione. La legge n. 69 del 2009, all'articolo 60, prevede la figura del mediatore legale. Possiamo dire che questa figura è una prerogativa esclusiva dell'avvocato che, come ci ha dichiarato il presidente dell’Oua Maurizio de Tilla, è l'unico ad avere una formazione pluridisciplinare e tecnica nello stesso tempo? La mediazione, la conciliazione, l’arbitrato
Alessandro Cassiani, nato il 26 settembre 1936 a Cosenza, si è laureato in giurisprudenza presso l’università di Roma La Sapienza, dove riveste la posizione di ricercatore della cattedra di procedura penale presso la facoltà di giurisprudenza. Dal 1961 è avvocato del foro di Roma esclusivamente nel campo del diritto penale ed è patrocinante dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione dal 1976. Dal 2004 è presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma.
David Koris appointed Chair of the ICC Commmission on Intellectual Property David J. Koris became the new Chair in November of the International Chamber of Commerce (ICC) Commission on Intellectual Property, which numbers over 350 members from over 50 countries. Koris has been an Intellectual Property (IP) counsel for 26 years with broad experience in all phases of IP practice, having served most recently as the General Counsel, Head of IP for Shell International in The Hague. Koris was born in the United States of America and spent his early years living in The Netherlands, Italy and England before pursuring a Bachelors Degree in Chemistry from The College of the Holy Cross in Worcester, Massachusetts and his JD from Franklin Pierce Law Center of Concord, New Hampshire. He began his career in a law firm in Washington, D.C. where he developed experience in IP practice and ITC litigation. In the following years Koris held several executive positions leading the IP efforts of a number of multinational companies including GE’s Advanced Materials Business, Tyco Worldwide Services, Kendall Company and GTEPrecision Materials Business. James Pooley the new Deputy Director for patent division of WIPO James Pooley takes office on December 1, 2009 as the Deputy Director chosen to lead the World Intellectual Property Agency’s patent division, one of the most important positions within the U.N. agency. Pooley has been an adjunct law professor at the University of California, Berkeley, and an intellectual-property lawyer and partner at Morrison and Foerster in Palo Alto, California where he specialized in the litigation and trial of patent, trade secret, copyright, and technology-related commercial litigation, in state and federal courts, and before the International Trade Commission. Practicing in Silicon Valley since 1973, Pooley established a national reputation as trial counsel in some of the most difficult and high visibility cases involving intellectual property. A record settlement for ESS Technology in a software copyright case led to his being honored as a 2003 Lawyer of the Year by California Lawyer Magazine. Pooley is listed in the Best Lawyers In America, Guide to the World's Leading Patent Law Experts and in Chambers’ America’s Leading Business Lawyers. He has extensive experience in arbitration and mediation, both as advocate and neutral. Mr. Pooley graduated from Columbia School of Law as a Harlan Fiske Stone Scholar, and holds a Bachelor of Arts, with honors, from Lafayette College. Alessandro Barberis elected president of Eurochambers On January 1, 2010, Alessandro Barberis will take over as President of the Association of European Chambers of Commerce and Industry. He succeeds Pierre Simon who holds the Presidency since 2006 and who was in turn elected Honorary President. Eurochambers represents over 19 million enterprises in Europe through members in 45 countries and a European network of 2000 regional and local Chambers. Barberis was born in 1937 in Turin, Italy. Since 2004 he is President of the Turin Chamber of Commerce and, since 2008, Vice President of the ICC-International Chamber of Commerce. Prior to that, Barberis was Managing Director and Vice Chairman of Fiat, Italy’s biggest automobile manufacturer.
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IP News World Intellectual Property Organization (WIPO) marks 10th anniversary of UDRP WIPO marked the tenth anniversary of the Uniform Domain Name Dispute Resolution Policy (UDRP) on October 12, 2009 at a conference that brought together over 200 stakeholders from around the world. The UDRP, a quick and cost effective dispute resolution procedure targeting cybersquatters, has met with great demand. Since December 1999, the WIPO Arbitration and Mediation Center has administered over 16,000 proceedings under UDRP related policies. The UDRP was adopted by the Internet Corporation for Assigned Names and Numbers (ICANN) at the initiative of, and with drafting and implementation assistance from WIPO. On this milestone anniversary, WIPO Director General Francis Gurry referred to the UDRP as a “dynamic instrument” and said, “I think what we can say after ten years of the UDRP is that it has been a very successful experiment” because it fulfilled a need and it led to a predictable legal system.” USPTO Director David Kappos outlines objectives and challenges in 2010 The Director of the United States Patent and Trademark Office (USPTO) stated at the annual meeting in October of the American Intellectual Property Law Association (AIPLA) that “the IP sector will lead a new era of American growth and development. American business sectors that rely most heavily on IP protection already account for 5 trillion dollars of GDP and they employ 18 million workers. This trend will only increase.” The Patent Prosecution Highway program is one of the key work-sharing vehicles, Kappos stated. This program is designed to increase information sharing between the USPTO and foreign patent offices. Top priority for the USPTO is patent reform. The proposed legislation will 1) help to deter unnecessary litigation, 2) harmonize “first inventor to file” priority system, 3) improve patent quality, and 4) help recover USPTO service costs.
THE HAGUE CONVENTION ON CHOICE OF COURT AGREEMENTS
Arbitration, mediation or litigation? Will litigation be a viable alternative to arbitration and mediation for companies contracting across borders? Will litigation become a viable alternative under the Hague Convention on Choice of Court Agreements? Fundamentally, the Convention does three things. Where litigation arises between parties to an international contract containing an exclusive choice-ofcourt clause documented in writing and the parties’ home countries have adopted the Convention, it – 1) prohibits the designated court from declining jurisdiction thus restricting the effect of the forum non conveniens doctrine; 2) prohibits non-designated courts from exercising jurisdiction (as in parallel proceedings); and 3) requires all signatory states to recognize and enforce judgments resulting from exclusive choice-of-court agreements. The Hague Convention on Choice of Court Agreements represents a significant step towards simplification of international litigation. Only two countries need to ratify the Convention in order to come into force. At present, only Mexico has ratified the Convention through accession on September 26, 2007. On January 19, 2009 the United States became the second signatory to The Hague Convention on Choice of Court Agreements,
marking the first time in history for the United States to join an agreement, bilateral or multilateral, on reciprocal recognition and enforcement of judgments. The Convention must now be ratified by a 2/3 majority of the U.S. Senate, and implementing legislation must be adopted by the Congress. The Convention’s provisions will bind all U.S. states and federal courts. The Hague Convention on Choice of Court Agreements was signed on April 1, 2009 by the European Community (EC). Represented by the Czech Minister of Justice Jiri Pospisil, the EC declared, in accordance with Article 30 of The Hague Choice of Court Convention, “that it exercises competence over all the matters governed by the Convention and that its Member States will not sign, ratify, accept or approve the Convention, but shall be bound by the Convention by virtue of its conclusion by the European Community.” (Published in the Official Journal of the European Union (OJEU) 29.5.2009 L 133/1) Iceland and the United Kingdom take part in the decision, while Denmark is not a part to the Convention. © RIPRODUZIONE RISERVATA
More in the next issue on The Hague Convention on Choice of Court Agreements Nel prossimo numero parleremo ancora della Convenzione dell’Aja sugli accordi di scelta del foro
Mediazione e conciliazione La mediazione, secondo le nuove norme, deve essere applicata correttamente, altrimenti diventerà come il tentativo di conciliazione nel processo del lavoro che rallenta soltanto l’inizio della causa di Filippo de Jorio
L
e recenti iniziative governative per dare un volto concreto alle varie tematiche della legge n. 69 del 2009 per la modifica del codice di procedura civile stanno arrivando al traguardo. Il che rende lieti tutti quanti gli operatori del diritto perché dimostra che questa volta si vuol fare sul serio. Particolare menzione, in questo contesto, va conferita all’istituto della mediazione che, con maggior vigore, ricalca quel «tentativo obbligatorio di conciliazione» che ha avuto scarsa fortuna negli ultimi anni. La mediazione secondo le nuove norme concerne quasi tutti i possibili casi di contenzioso della vita civile e, quindi, diventerà un istituto di applicazione normale ed usuale. Noi non possiamo che rallegrarcene perché, in effetti, se applicato correttamente, esso potrà contribuire a cancellare uno dei più gravi mali della giustizia italiana: i ritardi nella soluzione delle liti che, spesso, arrivando le sentenze definitive in tempi biblici, diventano esse stesse inutili poiché in attesa della sentenza le cose si sono molto spesso risolte da sole. O sono andate in marcizione. Si veda il caso dei Tar che oggi, spolverando gli archivi mettono in discussione ricorsi di venti-trenta anni fa di cui né i patrocinatori, né gli interessati si ricordano più! Dicevamo, però, che la mediazione deve essere applicata correttamente, altrimenti diventerà come il tentativo di conciliazione del processo del lavoro che rallenta soltanto l’inizio della causa in quanto nessuno lo prende sul serio. Riservando perciò un commento più adeguato al momento in cui sarà conosciuto funditus il contenuto del testo definitivo, intendiamo sottolineare all’attenzione del legislatore, ed anche degli operatori di diritto che leggono quello che sarà per essere il punto nodale del problema: chi dovrà giudicare sulla mediazione? A chi si dovrà porgere l’istanza? Si è detto un ente, ovviamente pubblico: ma quale? È chiaro che per smaltire tanti germi di contenzioso occorrerebbe una organizzazione mastodontica altrimenti i ritardi si sommerebbero ai ritardi e vi sarebbe un ulteriore appesantimento dei tempi della giustizia. Insomma, faremmo il bis della legge Pinto n. 89 del 2001 che ha aggravato i ritardi e che è stata malamente applicata fino a che per fortuna il presidente titolare della prima sezione civile della Corte di cassazione dottor Proto per il caso Colla (sentenza n. 17399/09) ha presieduto un collegio – Bernabai, Currera, Giancola (relatore), Didone – che ha preso atto dello scollamento irragionevole che si era creato tra le pronunce dei giudici italiani e quelli della Corte europea dei diritti dell’uomo e ha deciso, rettamente, che i principi dettati da questa, in materia di ritardi di giustizia, dovevano es-
sere applicati anche dai giudici italiani. Quindi la scelta dell’ente che dovrà decidere sulla mediazione è essenziale e fondamentale. Noi riteniamo impossibile la creazione in termini brevi di un ente «nuovo» cui affidare questo delicatissimo compito. Ancor più arduo affidarlo ad un ente già esistente. La verità è che occorrerebbe percorrere un’altra via: quella di abilitare a tale compito una pluralità di soggetti, cioè tutte le associazioni di categoria che, per il loro numero e la loro disseminazione sul territorio nazionale, offrirebbero garanzie sia di professionalità, sia di serietà, sia di celerità nelle decisioni. Su questo periodico, che si è reso benemerito per le sue iniziative, ci permettiamo di spezzare una lancia a favore di questa soluzione che ci pare ragionevole e priva di rischi. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Filippo de Jorio. Nato il 9 luglio 1933 a Napoli, svolge da cinquant’anni la professione di avvocato, dedicando molti anni alla soluzione dei problemi delle pensioni. È patrocinante in Cassazione, alla Corte dei conti, al Consiglio di Stato, alla Corte europea dei diritti dell’uomo e alla Corte di giustizia delle Comunità europea. È stato consulente giuridico di moltissime strutture pubbliche e private, come la Rai-tv, l’Istituto italiano dei cambi, l’Inail, l’Enpi, l’Istituto nazionale Luce, il Centro sperimentale di cinematografia, la Banca popolare di Novara, il Coni. È autore di numerose pubblicazioni e libri: il primo testo di pianificazione urbanistica applicata per Roma e il Lazio Piano di sviluppo della provincia di Roma e della regione, A tutela del risparmio, 20 mesi in politica, Progetto di statuto per le regioni. È stato eletto tre volte deputato regionale del Lazio e ha rappresentato l’Italia a Bruxelles nel Comitato economico e sociale dell’Unione europea.
Giustizia Alternativa gioca un ruolo attivo in questo momento di grandi cambiamenti Inviateci suggerimenti e pensieri in vista dell’attuazione della delega contenuta nell’articolo 60 della legge n. 69 del 2009
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Giustizia Alternativa Novembre-Dicembre 2009
8 LA GIUSTIZIA E IL DIRITTO
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COUNTRIES WITH THE MOST FOREIGN DIRECT INVESTMENT (FDI) - UNCTAD
di Lillo S. Bruccoleri
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appiamo che il diritto vive nel momento in cui è applicato, mentre la norma nella sua astratta formulazione è il modello di riferimento al quale bisogna attenersi. I due aspetti sono legati da un nesso inscindibile, ma è la realtà nelle sue concrete manifestazioni che attua la effettiva vigenza di un determinato ordinamento. Proprio partendo dal dato di fatto incontestato della situazione disastrosa in cui versa la giustizia civile, concentrata in ambiti istituzionali intasati oltre ogni ragionevolezza da una serie sterminata di contenziosi che molte volte andrebbero evitati, avevamo preso le mosse dalla rivisitazione delle disposizioni esistenti per esplorare e proporre metodi alternativi di risoluzione delle controversie con specifico riguardo agli istituti della transazione e dell’arbitrato. Tra questi due estremi – sui quali è stata puntualmente richiamata l’attenzione nel corso dell’incontro annuale tra i capi delle corti d’appello europee di cui viene riferito in altra parte del giornale – vengono a collocarsi talune modulazioni del concetto di privatizzazione dei conflitti nel senso di ricercarne il componimento al di fuori delle sedi giudiziarie pubbliche. La stessa legislazione in itinere sembra orientarsi verso un deflazionamento del carico giudiziario mediante strumenti quali la mediazione e la conciliazione affidati a nuove sedi operative e figure professionali. Se questa è una linea di tendenza apprezzabile anche come recupero della sfera di libertà dei cittadini, che devono sempre più essere posti in grado di regolare la loro vita di relazione sul piano interpersonale senza l’interferente coinvolgimento dell’autorità costituita, sarebbe tuttavia riduttivo circoscrivere il campo di indagine alle questioni processualistiche, mentre è alla società tutta intera che occorre rivolgere l’attenzione. Un ampio orizzonte di intervento si apre nell’incontro assistito delle volontà – oggi con il ricorso all’arbitrato irrituale, domani con l’attivazione di più articolate ed efficaci modalità operative – nei rapporti incipienti tra i soggetti economici, ma anche in quelli già in atto per superarne le fasi di criticità. Sotto questo aspetto vi è alternativa non solo tra le varie forme di tutela degli interessi individuali e di quelli collettivi, ma soprattutto tra l’ordinamento in vigore e quello che può costruirsi per l’avvenire. Un approfondimento de iure condendo è sicuramente compatibile con le finalità iniziali che hanno ispirato la fondazione di questo giornale, ma ne è allo stesso tempo il presupposto e lo sviluppo in una proiezione dinamica che tenda a contribuire alla realizzazione della giustizia sostanziale. Ed è un discorso che si pone, in definitiva, nella via del progresso e della civiltà.
“Foreign direct investment (FDI) is defined as an investment involving a long-term relationship and reflecting a lasting interest and control by a resident entity in one economy (foreign direct investor or parent enterprise) in an enterprise resident in an economy other than that of the foreign direct investor (FDI enterprise or affiliate enterprise or foreign affiliate). FDI implies that the investor exerts a significant degree of influence on the management
of the enterprise resident in the other economy. Such investment involves both the initial transaction between the two entities and all subsequent transactions between them and among foreign affiliates, both incorporated and unincorporated.” United Nations Conference on Trade and Development UNCTAD 19th World Investment Report WIR, October 2009
2008 FDI Statistics Inflow: $22.73 billion (1.3% of world total) Outflow: $8.93 billion (0.48% of world total)
15. Singapore
2007 FDI Statistics Inflow: $31.55 billion (1.6% of world total) Outflow: $24.56 billion (1.1% of world total)
2008 FDI Statistics Inflow: $24.43 billion (1.4% of world total) Outflow: $128.02 billion (6.9% of world total)
14. Japan
2007 FDI Statistics Inflow: $22.55 billion (1.1% of world total) Outflow: $73.55 billion (3.4% of world total)
2008 FDI Statistics Inflow: $24.94 billion (1.5% of world total) Outflow: $156.46 billion (8.4% of world total)
13. Germany
2007 FDI Statistics Inflow: $56.41 billion (2.9% of world total) Outflow: $179.55 billion (8.4% of world total)
2008 FDI Statistics Inflow: $43.66 billion (2.6% of world total) Outflow: $37.351 billion (2% of world total)
12. Sweden
2007 FDI Statistics Inflow: $22.07 billion (1.1% of world total) Outflow: $37.80 billion (1.8% of world total)
2008 FDI Statistics Inflow: $44.71 billion (2.6% of world total) Outflow: $77.67 billion (4.2% of world total)
11. Canada
2007 FDI Statistics Inflow: $108.41 billion (5.5% of world total) Outflow: $59.64 billion (2.8% of world total)
2008 FDI Statistics Inflow: $45.06 billion (2.7% of world total) Outflow: $20.46 billion (1.1% of world total)
10. Brazil
2007 FDI Statistics Inflow: $34.59 billion (1.7% of world total) Outflow: $7.07 billion (0.33% of world total)
2008 FDI Statistics Inflow: $46.77 billion (2.8% of world total) Outflow: $35.93 billion (1.9% of world total)
9. Australia
2007 FDI Statistics Inflow: $44.33 billion (2.2% of world total) Outflow: $16.81 billion (0.78% of world total)
2008 FDI Statistics Inflow: $59.68 billion (3.5% of world total) Outflow: $68.79 billion (3.7% of world total)
8. Belgium
2007 FDI Statistics Inflow: $110.77 billion (5.6% of world total) Outflow: $93.90 billion (4.4% of world total)
2008 FDI Statistics Inflow: $63 billion (3.7% of world total) Outflow: $59.92 billion (3.2% of world total)
7. Hong Kong
2007 FDI Statistics Inflow: $54.37 billion (2.7% of world total) Outflow: $61.12 billion (2.8% of world total)
2008 FDI Statistics Inflow: $65.54 billion (3.9% of world total) Outflow: $77.32 billion (4.2% of world total)
6. Spain
2007 FDI Statistics Inflow: $28.18 billion (1.4% of world total) Outflow: $96.06 billion (4.5% of world total)
2008 FDI Statistics Inflow: $70.32 billion (4.1% of world total) Outflow: $52.39 billion (2.8% of world total)
5. Russian Federation
2007 FDI Statistics Inflow: $55.07 billion (2.8% of world total) Outflow: $45.92 billion (2.1% of world total)
2008 FDI Statistics Inflow: $96.94 billion (5.7% of world total) Outflow: $111.41 billion (6% of world total)
4. United Kingdom
2008 FDI Statistics Inflow: $108.31 billion (6.4% of world total) Outflow: $52.15 billion (2.8% of world total)
3. China
2007 FDI Statistics Inflow: $83.52 billion (4.2% of world total) Outflow: $22.47 billion (1% of world total)
2008 FDI Statistics Inflow: $117.51 billion (6.9% of world total) Outflow: $220.05 billion (11.8% of world total)
2. France
2007 FDI Statistics Inflow: $157.97 billion (7.9% of world total) Outflow: $224.65 billion (10.4% of world total)
2008 FDI Statistics Inflow: $316.11 billion (18.6% of world total) Outflow: $311.79 billion (16.8% of world total)
1. United States
2007 FDI Statistics Inflow: $271.18 billion (13.7% of world total) Outflow: $378.36 billion (17.6% of world total)
2007 FDI Statistics Inflow: $183.39 billion (9.3% of world total) Outflow: $275.48 billion (12.8% of world total)
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ANNO I - N. 2
GIUSTIZIA ALTERNATIVA
ACCORDI CAUSE RAPIDE
Focus on the justice of appeal: a quality of justice and a reasonable duration of trials
Il ministro della giustizia Alfano: sono i diritti che fanno nascere il sentimento di una comune cittadinanza europea I popoli europei si sono accorti di avere la moneta unica ma non si sono accorti di avere dei diritti in comune. Il punto di approdo delle giurisdizioni europee è destinato ad essere comune
I
l presidente Santacroce ha espresso l'intuizione di chi guardando al futuro si rende conto che il punto di approdo delle giurisdizioni europee è destinato ad essere comune e quindi necessita del più grande lavoro scientifico di studio e di approfondimento delle tematiche nazionali. Alcune riflessioni di natura organizzativa degli uffici colgono il legislatore italiano in un momento particolarmente propizio, perché il governo alcuni mesi fa ha presentato un disegno di legge di riforma del processo penale che vuole rappresentare un utile veicolo perché alcune buone idee che dovessero emergere dai vostri lavori possano essere sottoposte al parlamento della repubblica. Credo molto alle buone idee, ma ritengo che queste siano davvero tali quando vengono travasate dal testo di una relazione a quello di una legge, cioè quando superano la prova della resistenza di un articolato normativo. E' più facile lanciare una buona idea che tradurla in una norma di legge: quando ha questa possibilità, vuol dire che è anche una buona proposta concreta. Ecco perché ho colto il senso profondo delle parole del presidente Santacroce, che ha delineato l'orizzonte del cosiddetto terzo pilastro dell'Unione europea, oggi ritenuta un'area di sicurezza, libertà e giustizia. Ciascun ministro della giustizia dell'Unione europea ormai partecipa a due consigli dei ministri: quello del proprio paese e quello che una volta al mese si riunisce a Lussemburgo. Proprio lì, nel Consiglio di giustizia e affari interni, si intravede il destino ultimo dell'Europa, che non avrà raggiunto la propria missione se si sarà fermata a riunire le frontiere geografiche attraverso la moneta unica: se avrà fatto solo quello, l'Unione europea per ratificare i trattati dovrà sempre sperare che a farlo siano i parlamenti e non i popoli. Nel delicato passaggio di approvazione degli ultimi trattati i parlamenti hanno facilmente approvato e i popoli hanno riservato
sorprese non buone perché non si sono accorti di avere non solo la moneta ma anche dei diritti in comune: sono i diritti che fanno nascere il sentimento di una comune cittadinanza europea. Abbiamo da un lato l'abbattimento delle frontiere e dall'altro l'implementazione dei di-
LA SFIDA Lo sforzo sui diritti non può prescindere dalla convergenza delle giurisdizioni che si realizzerà gradualmente
forma legislativa italiana caratterizzata da una ponderosa aggressione dei beni criminali attraverso modalità di confisca e di sequestri che hanno lo scopo di acquisire al patrimonio legale quei beni per usarli contro le mafie con il finanziamento dei settori di sicurezza e di giustizia a livello nazionale. Questa scelta nasce qui perché l'Italia è stata la prima a raccogliere la grande intuizione di Giovanni Falcone che per contrastare la mafia e la criminalità organizzata occorre seguire la scia dei soldi da loro accumulati. Il discorso sui diritti varrebbe poco se non si avviasse prima la convergenza e poi la omologazione degli ordinamenti relativamente allo scrigno dove questi diritti ven-
IL SOGNO DEI FONDATORI UE ritti: su questi due binari si costruirà l'avveramento del sogno dei fondatori dell'Europa. Lo sforzo sui diritti non può prescindere dalla convergenza delle giurisdizioni che si realizzerà gradualmente, ma l'embrione di tale obiettivo si riscontra già in vari segmenti dell'ordinamento europeo attraverso il principio del mutuo riconoscimento delle giurisdizioni e quindi delle sentenze nazionali. Abbiamo la grandissima sfida nell'ambito complessivo del diritto civile, dalla sorte dei bambini e dei genitori separati al regime patrimoniale dei coniugi appartenenti a paesi diversi; dobbiamo scongiurare il rischio del forum shopping e impedire che esista un forum più conveniente. Nella materia penale abbiamo la grande sfida del contrasto alla criminalità organizzata che si racchiude in una clamorosa asimmetria: la criminalità si internazionalizza a livello mondiale e il contrasto avviene a livello nazionale. L'idea di un crimine globale e di un contrasto locale evoca l'idea del successo del crimine: ecco perché proprio qui a Roma, presiedendo il G8 giustizia e affari interni, abbiamo lanciato la piatta-
Abbiamo da un lato l’abbattimento delle frontiere e dall’altro l’implementazione dei diritti: su questi due binari si costruirà l’avveramento del sogno dei fondatori dell’Europa gono tutelati in caso di lesione e cioè il processo, che deve essere ispirato ad alcuni principi di un articolo della nostra costituzione repubblicana rinnovata con amplissima maggioranza parlamentare una decina di anni fa quando è stato introdotto il giusto processo. All'interno di questo articolo due principi sopra ogni altro si stagliano a descriverne il perimetro: il contraddittorio effettivo che presuppone la parità tra le parti e la ragionevole durata. Voi studierete e troverete modalità organizzative e giuridiche per meglio
affermare tali principi. L'espressione degli Stati sovrani è a noi molto cara, ma nell'applicazione quotidiana del diritto si è verificata quella grande rivoluzione nella gerarchia delle fonti che vede ormai un assoluto primato di quelle europee che sempre più spesso influenzano e precedono quelle nazionali. Ma nell'ambito della legislazione nazionale degli Stati sovrani e di una visione europea voi siete chiamati a riflettere su un aspetto molto importante: come garantire una effettiva giustizia attraverso il buon funzionamento dei processi di appello e il raggiungimento del traguardo della durata ragionevole del processo, perché una giustizia ritardata equivale a una giustizia negata. Per fare questo occorrono regole e modelli organizzativi efficienti. Stiamo svolgendo una approfondita riflessione nell'ambito delle responsabilità che la costituzione assegna al ministro della giustizia e pensiamo di sottoporla in breve tempo al Consiglio superiore della magistratura, essendo necessario sottoporre al parlamento strumenti che tendano a una sempre maggiore efficienza. In questo ambito e collegandomi all'Europa segnalo due grandissime questioni di pura efficienza: la e-justice, cioè la giustizia elettronica, e la formazione comune del giudice europeo. Si è compiuta la scelta di puntare moltissimo sul portale elettronico di una giustizia europea che sia immediatamente visibile attraverso un desktop e qui occorre andare sempre più avanti. La formazione comune ricorre non solo nei convegni ma anche nelle scelte del Consiglio dei ministri di giustizia d'Europa. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Saluto del ministro della giustizia, Angelino Alfano, ai capi delle corti d’appello delle capitali dell’Unione europea, Roma, 29 ottobre 2009
Al microfono, il ministro della giustizia Angelino Alfano; al banco della presidenza, Giorgio Santacroce (a sinistra) e Antonio Marini, rispettivamente presidente e avvocato generale della corte d’appello di Roma
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Incontro dei capi delle corti d’appello delle capitali dell’Unione europea Roma, 29 e 30 ottobre 2009 Moderatori: Giorgio Santacroce, presidente della corte d’appello di Roma Evangelista Popolizio, presidente di sezione della corte d’appello di Roma Claudio Fancelli, presidente vicario della corte d’appello di Roma Antonio Marini, avvocato generale della corte d’appello di Roma
Giustizia Alternativa Novembre-Dicembre 2009
Incontro dei capi delle corti d’appello Letizia Vacca Componente del Consiglio superiore della magistratura
L’Europa c’è. Ora dovremo fare gli europei
Il dialogo tra gli ordinamenti nazionali impone una nuova figura di giurista, intendendo per giurista chi opera sul campo, come avviene per i magistrati, chi difende sul campo i diritti nell’ambito della patologia che si svolge nel processo e viene tutelata e risolta nel processo come chi fa professione forense e infine chi sul piano della ricerca e della formazione tende a razionalizzare il progresso di uniformazione. Ho detto al ministro Alfano che in questa occasione ha superato la sua funzione istituzionale di ministro dando spazio alla sua formazione di studioso e credo che questo sia molto importante. La riflessione sul diritto europeo oggi coinvolge tutti. La formazione del giurista è un compito complesso perché si tratta di superare barriere nazionali che, se vogliamo ragionare da storici, sono peraltro recenti. Si tratta di trovare gli strumenti e il dialogo tra gli ordinamenti è il primo strumento, perché non si può creare armonizzazione se non si conoscono i punti di partenza, di differenza e di similitudine.
IL DIRITTO EUROPEO Non sono più rinviabili i processi di integrazione e di dialogo tra i diversi ordinamenti La globalizzazione dei mercati, la formazione di uno spazio economico, i fenomeni sociali che non sono più solo europei ma ormai sono di portata planetaria, addirittura la mondializzazione di tutte le problematiche sociali, politiche e giuridiche impongono uno sforzo che deve trovare l’apporto di tutti coloro che si occupano di diritto in ogni sua fase. In questo contesto non sono più rinviabili i processi di integrazione e di dialogo tra i diversi ordinamenti. Questa iniziativa credo che rappresenti un grande passo in avanti per la reciproca conoscenza, per il reciproco apporto dei flussi che provengono dalle diverse tradizioni giuridiche sul piano processuale; ma non solo. Il processo coinvolge necessariamente le strutture del diritto sostanziale, perché la difesa dei diritti impone che questi siano a loro volta omogenei e armonizzati.
Vladimiro Zagrebelsky Vice presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo
La ragionevole durata dei procedimenti
La natura del diritto previsto dall’articolo 6 della Convenzione mette in evidenza due aspetti da tener distinti. La singola persona vittima della violazione del suo diritto alla ragionevole durata del procedimento che la riguarda soffre danni che possono essere patrimoniali o non patrimoniali. La loro entità varia grandemente da caso a caso. Dal pregiudizio patito dalla persona singola si passa alla crisi del sistema stesso disegnato dalla Convenzione europea dei diritti umani. A partire dal Preambolo della Convenzione del 1950, la «preminenza del diritto» è l’architrave di tutto il sistema europeo di protezione dei diritti e delle libertà fondamentali. Ogni diritto, per essere effettivo e non illusorio, deve poter dar adito ad un efficace ricorso al giudice. Non è dunque azzardato né infondatamente allarmistico sostenere che l’assenza di un sistema che offra decisioni giudiziarie in tempi ragionevoli mette in crisi il fondamento stesso del sistema dei diritti e delle libertà fondamentali. Alla duplicità di prospettiva dalla quale vanno valutati l’esigenza di ragionevole durata dei procedimenti e il fenomeno della violazione del relativo diritto corrispondono due diverse conseguenze delle sentenze della Corte europea che constata la violazione. Da un lato lo Stato responsabile deve pagare alla vittima della violazione l’indennizzo stabilito dalla Corte (ottica della violazione in sé considerata) e dall’altro lo Stato deve rimuovere le cause che hanno prodotto e potranno ancora produrre quel tipo di violazione (ottica del problema generale). La eccessiva durata della procedura, per gli effetti che produce sulla gravità del pregiudizio patito dal ricorrente, produce violazione di diritti sostanziali, come ad esempio quelli previsti dall’articolo 8 della Convenzione. È dunque la durata che rompe l’equilibrio. Di conseguenza o si accelera la procedura per definirla in tempi ragionevoli oppure devono cessare le limitazioni ai diritti del fallito.
TUTELA DEI DIRITTI UMANI Il sistema si regge sul principio che la protezione dei diritti e delle libertà è, prima di tutto, un obbligo delle autorità nazionali
UNA ESIGENZA INDEROGABILE La formazione del giurista europeo è un compito complesso perché si tratta di superare barriere nazionali Il Consiglio superiore della magistratura sta cercando di svolgere il suo ruolo perché le iniziative di internazionalizzazione che ne vedono la partecipazione sono diverse, rappresentano gli incontri che avvengono a livello di procuratori generali e di tutti i capi di corte e a livello di formazione internazionale che rappresentano uno degli obiettivi che il Consiglio considera prioritari nella realizzazione della sua funzione di autogoverno, anche in adempimento delle raccomandazioni del Consiglio d’Europa e della Commissione europea.
La Corte, nel valutare la ragionevole durata di una procedura, non è interessata a considerare separatamente le singole fasi o i singoli gradi del procedimento. La sua valutazione riguarda la procedura nel suo complesso. Il sistema della Convenzione si regge sul principio che la protezione dei diritti e delle libertà convenzionali è, prima di tutto, obbligo delle autorità nazionali. I ricorsi interni previsti nei diversi sistemi nazionali (in Italia la legge n. 89 del 2001) sono la risposta che gli Stati danno all’obbligo discendente dall’articolo 13 della Convenzione. Resta il fatto che per il legislatore nazionale è possibile disciplinare in senso restrittivo (anche in materia penale) l’accesso al grado di appello. La soluzione da adottare dipende dal sistema nazionale specifico, essendo evidente che il ruolo svolto dal giudizio di appello va coordinato con quello che si vuole attribuire alla Corte suprema.
Jean Claude Magendie Premier Président de la Cour d’Appel de Paris, Francia
La modellistica come fattore di celerità e qualità della giustizia
Un approccio di tipo comparatista al tema della modellistica come fattore di celerità e qualità della giustizia rivela che le giurisdizioni europee, internazionali o nazionali, non hanno esitato a farsi carico di questa problematica e che spesso hanno messo in opera una profonda riforma del processo di appello. La Corte di giustizia della Comunità europee ha adottato il 25 marzo 2003 un testo intitolato «Istruzioni pratiche relative alle opposizioni ed ai ricorsi giurisdizionali». Questo documento invita le parti a produrre memorie strutturate, concise e senza ripetizioni, utilizzando un vocabolario semplice e preciso. La Corte ha dovuto riflettere e mettere in opera metodi di lavoro che le consentano di trattare più rapidamente e più efficacemente un contenzioso complesso che genera spesso conclusioni estremamente voluminose, con la preoccupazione di rispettare il termine ragionevole. Il numero di scritture è limitato e i documenti sono allegati alla richiesta con una nota. Questo tipo di strutturazione delle conclusioni è direttamente legato allo sviluppo delle nuove tecnologie. Sono queste che giustificano una strutturazione estremamente rigorosa negli Stati Uniti. In effetti gli americani regolano in modo molto preciso la forma delle conclusioni, che sono totalmente smaterializzate e prevedono l’inserimento di rinvii ipertestuali affinché il giudice possa consultare immediatamente la giurisprudenza citata nonché delle registrazioni video, accessibili a partire dalle conclusioni, che riprendono i passaggi delle deposizioni dei testimoni che servono da supporto alle conclusioni stesse. Le recenti riforme di procedura civile in Spagna e in Inghilterra hanno imposto, secondo il medesimo spirito, le stesse esigenze formali di presentazione delle conclusioni. Da parte loro gli spagnoli hanno optato per una soluzione estremamente radicale entrata in vigore il 1° gennaio 2001, che ha profondamente modificato le regole del processo civile e in particolare il regime e il contenuto delle scritture giudiziarie. Questa legge prevede in effetti che le conclusioni debbano comportare obbligatoriamente l’identità delle parti, l’esposizione dei fatti e dei documenti, un’esposizione dei fondamenti giuridici, l’indicazione dei testi e della giurisprudenza. Gli inglesi hanno fatto lo stesso cammino nel 1997. In materia commerciale i nostri vicini d’oltremanica riflettono su una ristrutturazione molto raffinata delle scritture, nella misura in cui cercano di limitare le conclusioni a venticinque pagine, che non possono essere superate se non in casi eccezionali e previa autorizzazione del giudice. Questo tipo di approccio comparatista del regime delle scritture giudiziarie rivela incontestabilmente l’esistenza di un movimento generale in favore di una strutturazione che, secondo gli stati, è più o meno pregnante e si accompagna a una concentrazione rinforzata del processo di appello. Commento del presidente Santacroce. Varie volte ci siamo visti qui a Roma per organizzare insieme convegni al Csm allorché il presidente Magendie ha presentato i suoi progetti sulla mediazione e su quella che è una vera riforma di giudizio di appello in Francia: l’importanza del principio di concentrazione per evitare quello che nella tradizione italiana è stato definito una sorta di millefoglie, di scritture che possono essere dispersive per il giudice nella sua decisione finale.
Fausto De Santis Presidente della Commissione europea per la efficienza della giustizia (Cepej)
Il ruolo delle tecnologie nell’efficienza della giustizia. Il monitoraggio della Cepej In merito al livello di informatizzazione si osserva che il potenziamento della tecnologia non sembra determinare un miglioramento automatico delle prestazioni. Per quanto riguarda la gestione dei registri informatizzati civili e penali in Italia emergono differenze sostanziali tra i vari uffici nei sistemi informativi. Ciò comporta un’inevitabile disomogeneità tra i dati statistici a causa degli strumenti informatici diversi; un dato critico è anche rappresentato dalla coesistenza di software istituzionali con software non ufficiali. In materia civile, tutte le corti utilizzano un software anche non ufficiale per la gestione dei registri; in materia penale si sono evidenziate – alla data della rilevazione – ancora sei corti che utilizzano esclusivamente i registri cartacei. Data la normativa vigente in tema di registri informatici, l’utilizzo di registri cartacei e/o di comodo comporta un raddoppio di attività e una confusione operativa e gestionale, nonché un rallentamento e aggravamento delle procedure di lavoro a discapito di un servizio più rapido ed efficiente. Si è ritenuto significativo esaminare il settore della formazione sia per poter quantificare questo ulteriore impegno e la sua incidenza sugli uffici, sia anche per poter scrutare uno dei possibili aspetti di collegamento tra performance prodotta e formazione erogata, in linea con le direttive recenti di valorizzazione del capitale umano; i tempi e i modi di ricaduta di corsi di formazione a carattere non strettamente tecnico e la loro significatività in tema di esportazione di best practices richiederebbero comunque un’osservazione più approfondita e ripetuta nel tempo. Su tutti i
MONITORAGGIO DELLE CORTI Nella gestione dei registri informatizzati civili e penali in Italia emergono differenze sostanziali tra i vari uffici risultati della ricerca, ci si limita a porre l’attenzione su alcuni punti ritenuti più significativi e sorprendentemente meno noti: la constatazione che mediamente il 45 per cento del personale di cancelleria delle corti, già scarso, svolge lavori esclusivamente amministrativi e solo il 55 per cento è di supporto alla giurisdizione e cioè di supporto alla missione principale; la disomogeneità nel territorio degli strumenti e dei sistemi informatici e la carenza di efficaci rilevatori statistici automatizzati; la presa d’atto che dalla comparazione si rilevano situazioni disomogenee, punte di eccellenza e punte sintomatiche di gravi crisi, e che comunque non si trova mai in una stessa corte una situazione ottimale di equilibrio in tutti i settori (area penale, area civile e amministrativa). Commento del presidente Santacroce. Il collega De Santis ci ha fatto un elenco dei criteri e dei parametri per valutare la qualità della giurisdizione e come la Cepej effettua un monitoraggio della durata ragionevole dei processi con riferimento a specifici procedimenti. Ha anche messo in evidenza come viene effettuato il monitoraggio nelle 29 corti d’appello italiane, come sono composti i quattro gruppi distinti; si è potuto vedere che effettivamente non c’è un’omogeneità di situazioni e di disagi tra questi.
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Giustizia Alternativa Novembre-Dicembre 2009
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delle capitali dell’Unione europea Sir Anthony Hughes Vice President of the Court of Appeal, Criminal Division of England and Wales
Lo scopo di una corte di appello: appel oppure cassation
La corte di appello di Inghilterra e Galles è l'unico tribunale di secondo grado per tutte le cause civili e penali di rilievo e svolge le funzioni sia di cassazione che di appello. Somiglia più a una corte di cassazione ed ha sovraordinata la corte suprema (in passato era la Camera dei Lord) che è più simile a una corte costituzionale. La nostra funzione è quella di assicurare che la corte di merito abbia proceduto correttamente. Il nostro sforzo, come giuristi, dovrebbe essere quello di fungere da puntello per rendere la fase del giudizio la migliore possibile. Ci preoccupiamo di esaminare i motivi per cui le prove non sono state presentate prima: se non potevano essere note e chiaramente dimostrano che la conclusione raggiunta dalla corte era errata ammettiamo le prove e annulliamo la condanna; nel caso opposto, se una parte ha semplicemente cambiato idea, rigettiamo la richiesta. A metà tra queste due possibilità possiamo trovare dei casi difficili. Potrebbe trattarsi di un medico che si pronuncia sullo stato mentale dell’imputato al momento del reato oppure un perito esperto di «scene di reato» che esprime un’opinione sulla distribuzione delle macchie di sangue rilevate sulla scena del reato. Bisogna sentire il secondo esperto oppure no? Noi abbiamo la facoltà di sentirlo. Ciascuno di questi casi necessita di un esame individuale sulla base degli elementi di fatto che gli sono propri. La corte d'appello ha un’altra importante funzione, che può essere definita come quella generale piuttosto che quella particolare, vale a dire la funzione di emettere delle decisioni definitive in punto di diritto alle quali i tribunali di grado inferiore debbono conformarsi in casi futuri. E dunque uno degli effetti pratici per noi giudici è che ci troviamo con la necessità di dichiarare nelle nostre sentenze quando ci limitiamo a decidere sul caso particolare che ci è sottoposto e quando stiamo formulando un principio da applicarsi in altri casi. La nostra legge prevede che quanto deciso in merito alla causa sia operativo dal momento in cui è emessa la decisione del tribunale di grado inferiore. Detta decisione non è in alcun modo provvisoria o subordinata ad essere confermata dalla corte d'appello. In particolare, nel settore penale, la pena inflitta è efficace quando è pronunciata e non è sospesa in pendenza dell’appello. Il nostro scopo primario è quello di estrapolare ed esaminare prima possibile i motivi che in punto di diritto presentano un margine di opinabilità. Il lasso di tempo che intercorre tra il reato e la sentenza è infatti già più che lungo. La grande maggioranza degli appelli avverso la condanna è tenuta entro sei-nove mesi; la maggior parte degli appelli avverso la pena entro sei mesi e molto prima se la pena è breve. I pochi appelli relativi a questioni sorte prima della conclusione del giudizio (gli appelli incidentali) riusciamo a tenerli entro un mese e a volte entro pochissimi giorni. Commento del presidente Santacroce. Abbiamo appreso che questa Court of Appeal svolge più funzioni di legittimità che funzioni di merito perché si limita a svolgere un accertamento se un processo di primo grado sia stato corretto, se si sia svolto osservando rigorosamente le norme di diritto. Quindi, da questo punto di vista, direi che la decisione della corte d’appello mira a delibare la decisione del giudice di primo grado. Sir Hughes ha messo in evidenza che i tempi sono particolarmente brevi e che funzionano molto bene i filtri; è stata una interessantissima relazione sulle differenze fondamentali tra common law e civil law.
Claudio Fancelli Presidente vicario della Corte d’appello di Roma
Proposte di riforma e di adeguamento organizzativo in linea con i principi del giusto processo La recentissima legge di riforma è scarsamente incisiva sull’eccezionale inarrestabile incremento dei giudizi di secondo grado. Parimenti lo sono state le precedenti riforme. Tutte, infatti, hanno abbondato in innovazioni per quanto concerne il processo di primo grado e quello di cassazione, trascurando l’appello. Occorre, dunque, rivedere l’attuale struttura del modello processuale dell’appello, che appare in piena crisi. E tale crisi emerge non solo dalla sua scarsa considerazione nelle riforme attuate dal legislatore, ma anche dal fatto che esso, quale riesame di secondo grado effettivo, subisce numerose eccezioni, sia per le materie devolute alla corte d’appello in unico grado (espropriazioni per pubblica utilità, antitrust, opposizione a sanzioni comminate dalla Banca d’Italia, Consob eccetera), sia per effetto di varie norme processuali che incidono sul doppio grado di giurisdizione (articoli 353, 345 del codice di procedura civile: valutazione nel merito di una causa la cui sentenza di primo grado abbia accolto una preliminare di merito o una pregiudiziale di rito diversa dal difetto di giurisdizione; articolo 345 del codice di procedura civile: espletamento di nuove prove eccetera). Si osserva, inoltre, accanto all’appello tradizionale strutturato verticalmente, la consistente introduzione di un sistema di impugnazioni in senso orizzontale, evidente frutto di un’impostazione sempre meno accentrata dello Stato. Mi riferisco al riesame da parte di giudici collegiali dello stesso tribunale, come nel procedimento cautelare ex art. 669 bis e seguenti del codice di procedura civile e nel reclamo al collegio avverso taluni provvedimenti del giudice unico. È noto che i provvedimenti che risolvono tale tipo di impugnazioni non richiedono tempi lunghi. Qui si innesta la prospettazione de iure condendo di utilizzare al massimo la forma dell’appello in senso orizzontale, perfettamente concepibile nel sistema italiano, come in ogni altro sistema ove la giustizia in primo grado è amministrata essenzialmente tramite giudici monocratici. I benefici sarebbero notevoli. E cioè: 1. netta distinzione dei magistrati ordinari giudicanti solo per funzioni di legittimità e di merito (art. 107 Cost.), il che giustificherebbe la previsione di distinte carriere, come attualmente già di fatto avviene; 2. la categoria dei presidenti di sezione nei giudizi di merito essenzialmente limitata al tribunale, con conseguente facilitazione nelle nomine e nella gestione delle assegnazioni; 3. drastica riduzione degli uffici giudiziari di corte di appello, in quanto la sua giurisdizione di revisione sarebbe limitata alle sole sentenze di primo grado pronunciate collegialmente; 4. ottimizzazione delle risorse umane e materiali; 5. semplificazione nella tenuta e nello spostamento dei fascicoli; 6. edilizia giudiziaria pressoché autosufficiente, in quanto gli spazi non più occupati dalle Corti possono essere usufruiti dai tribunali; 7. accelerazione dei tempi di decisione, specie se sarà scoraggiato l’uso pretestuoso dei mezzi di impugnazione. Anche nel settore penale può prospettarsi un sistema generalizzato di impugnazioni in senso orizzontale da rivolgersi al giudice collegiale di tribunale avverso pronunce di quello monocratico, già del resto presenti in ambiti non marginali (si pensi al campo delle misure cautelari). In definitiva, con il sistema sopra prospettato si produrrebbe un’accelerazione notevole dei processi civili e penali e si libererebbe una quantità di risorse umane. Una prospettiva ineludibile se in gioco è la sopravvivenza della residua credibilità del sistema giustizia in Italia.
Gordana Ristin Senior Appeal Court Judge, Head of Adr division, Ljubljana, Slovenia
La mediazione delle controversie nella corte d’appello
Decidere le vertenze in tribunale è stato per lungo tempo, nella Repubblica della Slovenia, la sola scelta di risoluzione delle controversie. Con l’evolversi delle pratiche sono emerse nuove procedure chiamate comunemente risoluzioni amichevoli delle controversie (Adr). Tra tutte le procedure Adr teoricamente conosciute, quella che si è consolidata in Slovenia è stata la mediazione (insieme con l’arbitrato). La mediazione, in Slovenia, ha cominciato a fiorire in modo particolare dopo il consolidamento dei programmi alternativi ai procedimenti giudiziari, organizzati e condotti dai tribunali. Di conseguenza, il tribunale distrettuale di Lubiana ha cominciato a organizzare il servizio di mediazione nel 2001. È necessario sottolineare che, in quel periodo, la Repubblica della Slovenia non aveva leggi in materia di mediazione o di risoluzione alternativa delle vertenze. Solo in diritto procedurale fu approvata una clausola in base alla quale il giudice poteva sospendere il procedimento per tre mesi, in modo da consentire alle parti di cercare di raggiungere una soluzione della controversia attraverso la mediazione. Successivamente le clausole riguardanti l’Adr sono state approvate in alcun leggi, in particolare quelle in armonia con le norme e le direttive dell’Unione europea. Dopo l’adozione della «direttiva su alcuni aspetti della mediazione in materia civile e commerciale», è stata approvata, nel 2008, la legge sulla mediazione in materia civile e commerciale. Essa è stata approvata principalmente sulla base delle norme Uncitral e delle direttive del Parlamento europeo e del Consiglio. Attualmente vi sono in Slovenia cinque tribunali che offrono mediazione. In modo particolare, il progetto del tribunale distrettuale di Lubiana ha raggiunto notevoli successi avendo celebrato già duemila vertenze risolte positivamente. La percentuale delle risoluzioni positive è superiore, in media, al 50 per cento. Dal 1° settembre 2009 la nostra corte rende disponibile il servizio di mediazione per il grado d’appello. E, in questi giorni, è già in fase di discussione da parte del parlamento una proposta di legge per la risoluzione alternativa delle controversie giudiziarie. Secondo questa legge, tutti i tribunali di prima istanza dovranno gestire procedure Adr. Le corti d’appello decideranno per proprio conto se includere o meno queste procedure. Nel seguire i processi di mediazione in prima istanza, sia come mediatore che come preparatore alla mediazione, mi sono reso conto che la volontà di mediazione delle parti a volte si manifesta solo dopo la decisione di prima istanza. Commento del presidente Santacroce. Davvero interessante l’intervento della collega Gordana Ristin. Con la sua particolare esperienza e competenza , maturata nella sua sede istituzionale e nei suoi rapporti con altri organismi ,ci ha fatto scoprire gli enormi vantaggi delle procedure di mediazione che sono in vigore in Slovenia. Ma l’enorme interesse, credo, per il nostro convegno è la disponibilità o meglio la previsione del servizio di mediazione anche per l’appello. La collega ha insistito sul fatto che la via giudiziaria non può essere l’unica via attraverso la quale si può pensare di poter risolvere le controversie civili e commerciali. Quindi una sempre più ampia utilizzazione di questi sistemi di procedura di mediazione può rappresentare il futuro per favorire proprio quella durata ragionevole del processo sulla quale abbiamo incentrato il nostro dibattito.
Vytas Milius President of the Court of Appeal of Vilnius, Lituania
The right of appeal as an integral part of the constitutional right to apply to the court La giustizia in materia civile. La Costituzione della Repubblica della Lituania afferma che la persona i cui diritti o libertà costituzionali siano violati ha diritto a rivolgersi al tribunale. Nuove disposizioni del codice di procedura civile accordano il diritto della parte di presentare al tribunale documenti legali utilizzando dispositivi elettronici. Sono apprezzati e incoraggiati i tentativi di risolvere le controversie tra le parti senza portarle in tribunale. Vi sono due tipi di limitazione agli appelli, che non possono essere proposti quando il valore sia inferiore a duecentocinquanta litas e quando si sia stati giudicati in contumacia. Tutte le sentenze dei tribunali di prima istanza, tranne materie particolari come per esempio quella della determinazione dello stipendio mensile, entrano in vigore e possono essere messe in esecuzione dopo la scadenza del tempo limite per l’appello. 1l 15 giugno 2008 è entrata in vigore la legge sulla mediazione conciliatrice nelle controversie civili. Le parti possono risolvere la controversia tramite la mediazione conciliatrice prima di ricorrere al tribunale o all'arbitrato. La scelta di utilizzare la mediazione conciliatrice può essere espressa prima o dopo l’inizio della controversia.
LA MEDIAZIONE GIUDIZIARIA In Lituania si sta sviluppando un progetto pilota sulla mediazione giudiziaria attraverso lo svolgimento di funzioni di conciliatore nel corso delle udienze La giustizia in materia penale. Sono previsti tre gradi di giudizio: il primo grado, il grado di appello e il grado di cassazione. Viene prestata grande attenzione alla protezione delle vittime dei reati, le quali hanno il diritto procedurale di difendere i loro interessi nei procedimenti agendo per conto proprio o scegliendo dei difensori. Viene istituito un fondo per le parti lese dai reati e così può essere risarcito il danno correlato ai crimini violenti. Il fondo include gli onorari pagati dalle persone condannate a causa dell’esistenza di un rimedio penale, ossia un onorario versato nel fondo delle parti lese dai reati. In base al codice l’autore di un reato maggiore può essere esonerato dalla responsabilità penale se confessa di averlo commesso, si riconcilia con la parte lesa e la risarcisce. Essenzialmente questo è il corrispondente della mediazione, ma in questo grado di giudizio il mediatore non partecipa al processo. C’è ancora un istituto previsto dal codice: quello dell’accusa privata. I procedimenti giudiziari possono essere avviati a seguito delle querele presentate dalla parte lesa e dal suo rappresentante o dal pubblico ministero, il quale rappresenta gli interessi della parte lesa. Uno dei passi iniziali fatti dal tribunale nel corso delle udienze relative al procedimento è quello di procedere a un tentativo di conciliazione tra le parti. Si dovrebbe notare che in Lituania si sta sviluppando un progetto pilota sulla mediazione giudiziaria. Il punto in via di sviluppo in tale progetto è che le persone che hanno ricevuto una formazione speciale come mediatori (giudici, assistenti di giudici, consiglieri dei presidenti) svolgano le funzioni di conciliatore nel corso delle udienze relative ai procedimenti.
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Incontro dei capi delle corti d’appello delle capitali dell’Unione europea Roma, 29 e 30 ottobre 2009 Moderatori: Giorgio Santacroce, presidente della corte d’appello di Roma Evangelista Popolizio, presidente di sezione della corte d’appello di Roma Claudio Fancelli, presidente vicario della corte d’appello di Roma Antonio Marini, avvocato generale della corte d’appello di Roma
Giustizia Alternativa Novembre-Dicembre 2009
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Incontro dei capi delle corti d’appello Roberto Poli, avvocato, professore associato di diritto processuale civile nell’università di Cassino
Giusto processo e oggetto del giudizio di appello
La struttura del giudizio di appello si sta via via allontanando dal modello del gravame cui si era ispirato il legislatore del codice del 1865 per avvicinarsi sempre più a quello della impugnazione in senso stretto. Forse la vera novità del novellato articolo 111 della Costituzione è l’utilizzazione del termine «giusto» che, nel nostro linguaggio, significa qualcosa di più o quanto meno di diverso. Tanto ciò è vero che, una volta ribadite le inviolabili garanzie del giusto processo, nel secondo comma si è ritenuto doveroso precisare che, comunque, delle attività processuali è assicurata la ragionevole durata. Il vero problema è in effetti quello di trovare l’esatto punto di equilibrio tra le esigenze espresse dal principio della ragionevole durata e quelle di una decisione giusta. Il giudizio di appello si sta avvicinando al modello dell’impugnazione in senso stretto; mentre il giudizio di cassazione, benché tradizionalmente modulato su quest’ultimo modello, è oggi considerato manifestazione del più ampio potere riconducibile all’azione esercitata nella pregressa fase conclusa con il provvedimento impugnato e non già esercizio di un’autonoma azione. Il modello di appello a cognizione limitata alle questioni sollevate con i motivi d’impugnazione sembrerebbe più in linea con i principi del giusto processo. Le modalità di formazione dell’oggetto del giudizio di appello appaiono tanto più in linea con i principi del giusto processo quanto più l’ambito della cognitio è circoscritto dal motivo d’impugnazione proposto. Va ricordata la recente svolta della Cassazione in tema di ammissione di nuovi documenti nel giudizio di appello. Si è affermato che il divieto di nuovi mezzi di prova in appello riguarda non solo le prove costituende, secondo l’orientamento prevalente anteriore, ma anche i documenti.
IL VERO PROBLEMA Trovare l’esatto punto di equilibrio tra le esigenze espresse dal principio della ragionevole durata e quelle di una decisione giusta Proprio con riguardo ai profili di effettività, efficienza, razionalizzazione dell’attività giurisdizionale, viene da chiedersi quale sia la giustificazione di un giudizio di appello con struttura, funzione ed oggetto che appaiono per molti aspetti analoghi a quello del giudizio di cassazione. La giustificazione è rappresentata dal fatto che di norma il giudizio di cassazione non ripeterà l’oggetto del secondo grado e questo non lo ripeterà dal primo: è proprio il sistema della progressiva riduzione dell’area della lite che, impedendo ad un grado di rappresentare il mero doppione del precedente, dovrebbe altresì assicurare una decisione finale via via preferibile alle precedenti. In conclusione, anche alla luce dei principi del giusto processo civile, il giudizio di appello strutturato come una impugnazione in senso stretto – e inserito nella logica della formazione progressiva della cosa giudicata – può svolgere al meglio le funzioni sia di garanzia soggettiva dell’impugnazione, sia di efficace filtro al giudizio della suprema corte, perché questa si dovrà occupare soltanto di questioni che non siano già coperte dal giudicato interno o altrimenti precluse.
Jana Bajànkovà Head, Civil-Law Division of the Supreme Court of Bratislava, Repubblica Slovacca
Tools for Administering Justice in Time along with Effective Law Enforceability La Costituzione della Repubblica slovacca garantisce la tutela giurisdizionale. Ciascun individuo ha la facoltà di adire un tribunale indipendente e imparziale e, qualora previsto diversamente dalla legge, ad altra autorità competente. L’intento di aumentare il livello di applicabilità della legge è perseguito anche mediante emendamenti alle norme giuridiche, finalizzati prevalentemente alla semplificazione, alla stabilizzazione e alla rimozione delle ambiguità. I processi sono disciplinati dal codice di procedura civile, che ha subito profonde modifiche, tra cui l’introduzione di strumenti elettronici di comunicazione tra il tribunale e le parti del processo, l’estensione di procedure semplificate ad altre materie riguardanti la riparazione dei danni, la definizione di regole chiare concernenti le procedure applicate dalla corte d’appello nella revisione di sentenze di tribunali di prima istanza. Nel quadro dell’adozione di strumenti di comunicazione avanzata nella pratica giudiziaria, è stata introdotta la possibilità di archiviare un fascicolo per via elettronica. È stata altresì prevista una nuova metodologia di notificazione mediante deposito del documento nel casellario giudiziale. Non è necessario celebrare un’udienza per esaminare la materia oggetto del procedimento, tuttavia il giudice ha sempre facoltà di ordinare un’udienza in tribunale qualora lo ritenga necessario in relazione alla natura della questione. Le parti non sono private del loro diritto di adire il tribunale in quanto, in caso di insoddisfazione, possono avviare un procedimento per impugnazione. Nel compimento degli sforzi volti a garantire una tempestiva amministrazione della giustizia e una sollecita applicazione delle leggi, sono stati introdotti nella procedura civile alcuni istituti giuridici. Accanto a giudizi basati sull’accettazione e sulla rinuncia a pretese e sull’omissione di atti entro i termini prescritti (sentenze in contumacia), è stata altresì introdotta la sentenza di equa risoluzione della questione. Base fattuale e giuridica per tale sentenza è la condizione sussistente al momento in cui essa viene pronunciata. Il tribunale motiva oralmente la sentenza, notificandola immediatamente dopo la comunicazione alle parti presenti. Le norme giuridiche contenute nell’ordinamento slovacco contribuiscono a raggiungere l'obiettivo della equa salvaguardia dei diritti e degli interessi motivati delle parti del processo, che peraltro deve essere efficace e scevro di ingiustificati ritardi. raggiungere tale obiettivo. Tuttavia il raggiungimento di tale obiettivo è influenzato da altri fattori quali la preparazione professionale dei magistrati, il rispetto mostrato dalla popolazione verso il potere giudiziario, l’introduzione di tecnologie avanzate di informazione e comunicazione nella pratica giudiziaria. Ultimo, ma non meno importante, è il fatto che la questione non coinvolge solamente i tribunali slovacchi. Si tratta di un argomento ricorrente tra gli Stati membri dell’Ue e per questo motivo è necessario discuterne costantemente per individuare una soluzione congiunta. Commento del presidente Popolizio. Faccio rilevare che nella nostra procedura è stata emanata recentemente la legge sulla notifica a mezzo posta: ipergaratista per cui si effettua la seconda notificazione se la notifica non è stata effettuata a mani del destinatario. Si sono posti dei problemi per le società oppure per gli studi professionali che non possono identificarsi con la persona destinataria della notifica..
Antonietta Confalonieri, avvocato, docente di diritto processuale penale comparato nell’università di Urbino
Il «ragionevole» diritto all’impugnazione nella prospettiva europea La bilancia della giustizia penale è istituzionalmente tesa alla ricerca di un punto di equilibrio, che risulta particolarmente difficile quando sui due piatti vengono posti, da un lato, il rispetto delle garanzie processuali e, dall’altro, il tempo necessario per ottenere la decisione. Secondo lo spirito della Convenzione europea dei diritti dell'uomo la ragionevolezza dei tempi della decisione si atteggia a vera e propria garanzia dell’individuo. La prassi giudiziaria però ha plasmato a tal punto il contenuto del termine «ragionevole» che ha finito per attribuirgli il significato di «efficienza» dello strumento processuale, che postula anzitutto la possibilità di disporre di validi servizi di base e ausiliari, oltre che la funzionalità dell’organizzazione giudiziaria e 1’incisività dell’assetto forense. Il diritto al doppio grado di giurisdizione è riconosciuto soltanto al condannato, mentre la Convenzione non garantisce al pubblico ministero un diritto d’appello delle decisioni assolutorie. Occorre prendere le mosse dal principio della presunzione di innocenza dell’accusato, che di fatto si traduce, tra l’altro, nell’onere della prova posto a carico della pubblica accusa. La «condizione di parità» non comporta una identità assoluta e simmetrica di strumenti, da modulare viceversa in ragione della intrinseca diversità delle funzioni processuali. Sembra vada affermandosi l’idea di porre sullo stesso piano vittima e autore del reato cercando di proporre delle garanzie in un certo qual senso simmetriche: da un lato, «tutela» della vittima; dall’altro, «garanzie» difensive. Va segnalato l’incremento di aspetti di solidarietà nei confronti delle vittime da parte dello Stato, che si vede impegnato persino in una assistenza di tipo economico che possa prontamente alleviare il disagio della vittima. Il diritto al risarcimento dei danni e al rimborso delle spese sostenute nel procedimento può essere garantito anche attraverso forme di mediazione.
LA MEDIAZIONE Il diritto al risarcimento dei danni e al rimborso delle spese sostenute nel procedimento può essere garantito anche attraverso forme di mediazione Tra i principi di ordine generale, dopo l’invito alla trasparenza, risalta l’auspicio che la durata dei procedimenti sia ottimale oltre che prevedibile. Il «ragionevole» diritto all’impugnazione ne implica l’esercizio da parte soltanto del condannato, in un contesto in cui il fine ultimo deve essere quello di consentire la celebrazione del processo penale nel rispetto dei diritti dell’uomo e senza ritardi inutili. La bilancia della giustizia troverà allora 1’agognato punto di equilibrio solo se il rilevante peso delle garanzie del condannato anche per la fase di impugnazione verrà compensato con l’impegno dello Stato di assicurare l’efficienza di tutti gli altri servizi indispensabili per il corretto funzionamento del sistema giudiziario, unitamente al contributo effettivo proveniente sia dall’organo giurisdizionale, sia da tutto il personale amministrativo, paragiudiziario, correttamente remunerato e motivato, oltre che tecnologicamente assistito.
Paul Gallagher Attorney General of Ireland Dublin, Irlanda
Whether the Appeal Process requires reasons to be given by Criminal Juries La Costituzione irlandese garantisce il processo con una giuria per tutti i casi penali di non lieve entità. Questo tipo di garanzia non è assoluto: possono essere istituiti per legge dei tribunali speciali laddove sia stabilito che i tribunali ordinari sono inadeguati ad assicurare l’effettiva amministrazione della giustizia. La giuria porta nella amministrazione della giustizia il tocco del cittadino comune ed è costituita come un organo rappresentativo della comunità. Le cause sono condotte in contraddittorio: la pubblica accusa presenta le prove e il giudice non ha alcun ruolo nella presentazione di tutte le prove o nelle indagini dei fatti. Il giudice deve fare in modo che vi sia il giusto equilibrio tra le parti riguardo alla presentazione della causa e all’ammissione delle prove. Notevole importanza riveste il fatto che tutte le prove sono presentate in viva voce e che l’imputato è presente per tutta la durata del processo. Il verdetto emesso da una giuria non nasce in modo spontaneo, ma è piuttosto la risposta a un’accusa dettagliata che il giudice ha mosso. Il giudice indirizza i giurati su ciascuna questione e spiega loro il quadro giuridico nell’ambito del quale essi devono formare la loro decisione. La giuria, quando ritiene un imputato colpevole, ha di fatto stabilito in base al diritto, come affermato dal giudice, che i relativi fatti sono stati provati oltre ogni ragionevole dubbio. Tutte le condanne possono essere impugnate dinanzi alla corte di appello penale che è composta da tre giudici. In un ricorso in appello avverso una sentenza di condanna, la corte può esprimersi in uno dei seguenti modi: confermare la sentenza di condanna, annullare la sentenza di condanna, annullare la sentenza di condanna e ordinare un nuovo processo oppure annullare la sentenza di condanna e sostituire il verdetto di colpevolezza con un altro reato. Generalmente la corte non ribalta gli accertamenti di fatto recepiti dalla giuria, salvo che questi non siano così palesemente contrari al peso delle testimonianze da equivalere a una sconfitta della giustizia. La legge prevede che la corte di appello possa rigettare un ricorso, anche se dovesse rilevare che uno dei punti sollevati possa essere deciso a favore del ricorrente, qualora ritenesse che nessun errore giudiziario si sia effettivamente verificato. Il verdetto della giuria con considerazioni segrete e non svelate è stato una caratteristica integrale del processo penale in Irlanda per centinaia di anni. Questo da solo non è un argomento contro il cambiamento, sebbene suggerisca che il sistema funziona ed è considerato giusto. Cosa più importante è forse il fatto che merita la fiducia del pubblico, elemento cruciale per qualsiasi processo di natura penale. Commento del presidente Popolizio.Vorrei trarre due punti interessanti dalle parole della collega Gallagher: «L’aspra razza irlandese, memore dei giudici di nomina politica e orientati all’esecutivo, della sospensione dei jury trial in tempi di rivolta popolare... la convinzione che il miglior modo di evitare che un individuo subisca una condanna errata per un reato era quello di consentirgli di “mettersi al di sopra del suo paese”, ovvero di consentirgli di essere processato per tale reato da una giuria giusta, imparziale e rappresentativa...». Il secondo punto è quello per cui la motivazione non viene emessa quando c’è sentenza di assoluzione. Il motivo è chiaro, perché motivando si fanno sapere le ragionio, mentre è giusto secondo il diritto irlandese non dar conto del perché dell’assoluzione.
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Giustizia Alternativa Novembre-Dicembre 2009
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delle capitali dell’Unione europea Jean Claude Magendie Premier Président de la Cour d’Appel de Paris, Francia
La médiation
In una società dove i rapporti sociali tendono sempre più ad espandersi, ove vi è sempre più la necessità di fare ricorso alla giustizia, la mediazione compare in modo sempre più significativo nel dibattito pubblico. A dimostrazione di ciò è stata pubblicata la direttiva europea su alcuni aspetti della mediazione in materia civile e commerciale. Il suo obiettivo è quello di facilitare l’accesso a procedure alternative di risoluzione dei litigi e di favorire la loro conclusione in via amichevole, incoraggiando il ricorso alla mediazione e garantendo un’articolazione soddisfacente tra mediazione e procedure giudiziarie. Esiste una vera volontà politica di dare impulso significativo allo sviluppo della mediazione. La mediazione é un processo e non una procedura. Essa suppone una vera libertà delle parti per allacciare o riallacciare un legame tra loro con l’aiuto di un terzo neutrale, imparziale, che non dipende da alcuna autorità e che non ha alcun potere di decisione. Si aggiunga che la mediazione, a seconda dei settori nei quali è impiegata, può avere diverse definizioni.
MEDIAZIONE COME PROCESSO Il presupposto è una vera libertà delle parti con l’aiuto di un terzo neutrale, imparziale, che non dipende da alcuna autorità e che non ha alcun potere di decisione A tutto ciò consegue una sorta di confusione tra le nozioni di arbitrato, conciliazione e negoziazione che, per alcuni neofiti della mediazione, potrebbe spiegare l’assenza di sviluppo di quest’ultima nelle pratiche giudiziarie. La mediazione è stata definita come un processo di creazione e di riparazione del rapporto sociale e del regolamento dei conflitti della vita quotidiana nel quale un terzo imparziale e indipendente tenta, attraverso l’organizzazione di scambi tra le persone o le istituzioni, di aiutarle a migliorare una relazione o a regolare un conflitto che le oppone. La sua riuscita presuppone, in ogni caso, una presa di coscienza dell’unità fondamentale della mediazione che proviene dalla società civile. Non separare la mediazione giudiziaria dalla mediazione civile convenzionale é un imperativo. La mediazione rappresenta una posta tanto più alta nella nostra società nella misura in cui può essere fonte di armonia e di pace sociale in un mondo sempre più individualista e confittuale. Essa però presenta un rischio: non deve diventare lo strumento di una giustizia che respinge i nostri valori universali. In una società democratica, il giudice deve conservare il suo ruolo essenziale di garante delle libertà individuali e delle regole di ordine pubblico. La mediazione non deve essere considerata come una degiurisdizionalizzazione o una volontà mascherata di sbarazzarsi di una parte del contenzioso. È un modo alternativo e non sostitutivo. Risponde a un bisogno di diversificazione dei modi di intervento del giudice e di regolamento dei conflitti nel quadro di una giustizia serena e meno frenetica. Di certo, però, da sola non potrà in alcun caso rispondere a tutte le sfide attualmente poste dalla giustizia e soprattutto essere considerata come la soluzione ideale alle debolezze della giustizia nel suo adattamento al divenire sempre più complesso degli scambi sociali.
David Neuberger, Master of the Rolls and Head of Civil Justice, Royal Courts of Justice, Regno Unito
Carmine Punzi, avvocato, professore emerito di diritto processuale civile nell’università degli studi La Sapienza di Roma
The right to appeal: a view from the Court of Appeal of England and Wales (Civil Division)
Le alternative per la soluzione delle controversie: transazione, conciliazione, mediazione ed arbitrato
Il procedimento di impugnazione in Inghilterra è strutturato in modo rigorosamente gerarchico. Le decisioni vengono impugnate dinanzi al giudice o alla corte gerarchicamente superiore a quello che ha pronunciato la decisione impugnata. Tuttavia possono esservi degli appelli per saltum: una impugnazione avente per oggetto il valore del precedente giudiziario può essere proposta in maniera appropriata solo dinanzi a una corte in grado di discostarsi dal precedente vincolante. Il giudizio di impugnazione serve a soddisfare uno scopo privato e uno pubblico. Quello privato soddisfa gli interessi delle parti in causa, che intendono difendere i loro diritti dall’errore giudiziario. Gli obiettivi pubblici rispondono alla necessità di un meccanismo efficace che consenta l’evoluzione del diritto in modo che possa essere rafforzata la fiducia dell’opinione pubblica nell’amministrazione della giustizia. Il fine privato e il fine pubblico del processo di impugnazione sono due facce della stessa medaglia: si tratta di garantire che sia resa giustizia alla società nel suo complesso e che ciò sia reso manifesto con tutta evidenza. Il sistema inglese limita l’accesso al giudizio di secondo grado per garantire che l’impegno per una giustizia sostanziale sia controbilanciato dall’impegno per una giustizia procedurale. La necessità di chiedere l’autorizzazione a procedere all’impugnazione favorisce un utilizzo efficiente ed efficace delle risorse pubbliche e private; mira a garantire che le scarse risorse della corte siano rese disponibili a tutti in maniera equa ed equilibrata. Non è nell’interesse della giustizia concedere l’autorizzazione all’impugnazione, salvo che nel giudizio di secondo grado entrino in gioco fini privati o pubblici. Al contrario, si può ragionevolmente affermare che il diritto all’impugnazione illimitato sottrae semplicemente e inutilmente risorse alla corte e alle parti in causa e mette a repentaglio la legge e lo stato di diritto. Il sistema inglese dell’impugnazione è in parte orale e in parte scritto. La richiesta di autorizzazione, inizialmente in forma orale, può essere presentata al giudice di primo grado. Se viene rigettata, può essere presentata una nuova richiesta scritta al giudice di secondo grado. In caso di diniego, la domanda può essere rinnovata in un’udienza orale, generalmente di venti minuti, dinanzi ad un giudice unico della corte presso cui si intende proporre appello. Come regola generale, in questa fase compare o presenta osservazioni solo colui che propone l’impugnazione. Il convenuto in questo stadio ha facoltà di presentare osservazioni. In genere, la corte d'appello inglese riesce a trovare il giusto equilibro nell’esaminare le richieste di autorizzazione, ma è necessario mantenere sempre alto il controllo.
L'esame delle misure alternative al ricorso al giudice ordinario deve prendere le mosse da un postulato fondamentale: quando manchi lo spontaneo adeguamento del soggetto al dovere di comportamento dovuto in attuazione di un obbligo di fonte legale o convenzionale e insorga il conflitto con la controparte, che ha diritto di veder adempiuto quell'obbligo, tale conflitto può essere risolto anche con strumenti diversi da quelli approntati dallo Stato per l'esercizio della giurisdizione civile e per la tutela coattiva dei diritti. Questi strumenti alternativi sono posti su un arco delimitato da quello tipico di autocomposizione – o composizione diretta – della controversia, che è la transazione, e da quello tipico di eterocomposizione, che è l'arbitrato. La conciliazione si colloca in una posizione intermedia tra questi due poli: essa è diversa dall'arbitrato, perché è uno strumento di composizione diretta della controversia ad opera delle stesse parti litiganti e quindi la soluzione della controversia non è rimessa al giudizio e alla decisione di un terzo; ma è diversa dalla transazione perché questa si perfeziona con il mero incontro di volontà delle parti, al coperto degli occhi, più o meno indiscreti, dei terzi, laddove la conciliazione richiede ancora l'incontro delle volontà delle parti, ma questa volta con la presenza e con l'intervento attivo di un terzo. La differenza fondamentale del ruolo dell'arbitro da quello del conciliatore sta in ciò: l'arbitro deve compiere una valutazione del giusto secondo diritto o dell'equo e, sulla base della conclusione così raggiunta, deve risolvere egli la controversia; il conciliatore deve valutare le contrapposte posizioni delle parti, individuarne la giusta composizione e, su questa base, offrire alle parti il suo consilium e provocarne il concilium, cioè l'aggregazione e l'incontro e, quindi, la conciliazione. La mediazione fin qui sperimentata nel nostro sistema giuridico – che si modella sullo stesso schema delle mediazioni cosiddette facilitative d'oltreoceano – si distingue, come la conciliazione, sia dalla transazione, sia dall'arbitrato: il terzo non interviene per elargire alle parti un consilium, ma si limita a prestare un’assistenza, normalmente tecnica, per favorire un accordo che le parti raggiungono direttamente. L'arbitrato, la conciliazione e gli altri strumenti non giurisdizionali di risoluzione delle controversie altro non sono, in definitiva, che manifestazioni dell'autonomia privata, concorrendo a realizzare quell'ordinamento dei privati che resta autonomo rispetto allo Stato e che non perde questa sua autonomia per il fatto che il veicolo attraverso il quale il dictum che li include penetra nell'ordinamento dello Stato possa essere configurato positivamente, in determinati ordinamenti, o in certi periodi storici, nelle forme del «riconoscimento» o dell'«omologazione». Ma questi strumenti alternativi alla giurisdizione statale, che sono scelta di libertà e di autonomia dei privati di fronte allo Stato, realizzando la composizione dei conflitti per volontà delle stesse parti litiganti, sono anche segno di pace e strumento di civile convivenza.
Commento del presidente Fancelli. Mi ha colpito principalmente il fatto che gli appelli nel 50 per cento dei casi non vengono autorizzati. Questo, trasferito in Italia, darebbe un risultato notevole alla deflazione degli appelli che ci invadono. Un’altra cosa che mi ha colpito è che tutta la corte d’appello ha 40 giudici. La nostra corte d’appello, solo Roma, ne ha 150. Un’altra cosa ancora: 1.200 appelli l’anno. Nella mia relazione di ieri ho riportato che ne arrivano 28-29.000 solo a Roma. Certo, ci ha illustrato anche punti critici: il fatto che ci siano delle procedure molto costose. Lord Neuberger ha affrontato anche il problema della mediazione: è difficile in appello, mentre è promettente in primo grado.
Commento del presidente Fancelli. Molte volte si fa confusione tra i vari strumenti alternativi: si parla indifferentemente di transazione, mediazione, conciliazione, confondendo i termini uno con l’altro; un po’ meno l’arbitrato perché qui è proprio un terzo che viene chiamato a pronunciare un lodo tra privati. La mediazione è uno strumento tecnico; quando si arriva a una proposta, allora si trasforma in conciliazione. Comunque è un segno di pace e come tale va incoraggiata.
Filippo Paone presidente di sezione della corte d’appello di Roma
La conciliazione endoprocessuale come strumento deflattivo
Gli sforzi del legislatore per incentivare la conciliazione durante il processo sono naufragati per un complesso di ragioni non facili da individuare. Fatto sta che, obbligatorio o affidato alla richiesta di parte o al prudente apprezzamento del giudice, l'approccio conciliativo della controversia è stato completamente abbandonato, assolutamente desueto e senza applicazioni pratiche. I verbali di conciliazione sono rarissimi e l'unico indizio in merito ad attività conciliative eventualmente effettuate dalle parti senza alcun intervento del giudice si rinviene nel famoso articolo 309 del codice di procedura civile quando la causa viene cancellata dal ruolo per mancata comparizione delle parti. Da poco più di un anno un collegio della terza sezione della corte di appello di Roma sta sperimentando alcune iniziative per individuare protocolli nella trattazione delle cause che siano in grado di contribuire a una gestione più efficiente dell'udienza, nel tentativo di reperire strumenti deflattivi che possano, anche se di pochissimo, contribuire allo smaltimento del contenzioso. Si è potuto constatare che l'attività conciliativa è possibile solo con il fattivo impegno dei difensori delle parti. L'attività dei difensori è stata esemplare, serissima, con attenta valutazione da parte di ciascuno degli interessi del proprio cliente; l'impegno del magistrato è stato certamente inferiore rispetto a quello di decidere la causa con sentenza ed è consistito in un paio di colloqui di mezz'ora per ogni causa. Oltretutto il fatto che a decidere non fosse chi aveva seguito le trattative ma il collegio contribuiva non poco a eliminare imbarazzi dando invece serenità e fiducia. La delega legislativa contenuta nell'articolo 60 della legge n. 69 del 2009 sta trovando attuazione con il decreto delegato in via di elaborazione che, oltre a disciplinare la conciliazione extraprocessuale con la previsione di un registro dei conciliatori in modo da accreditare nei loro confronti credibilità e autorevolezza e a prevedere una sorta di procedimento comune per tutte le attività di conciliazione, vuole incentivare la possibilità di rimettere a un conciliatore esterno anche la controversia già instaurata dinanzi alla autorità giudiziaria. In questo caso la previsione della legge di una sanzione sulle spese nei confronti di chi non aderisce alla proposta conciliativa elaborata dal mediatore potrebbe essere assai stimolante nei confronti delle parti. Si tratta peraltro di innovazioni di una certa audacia che, se non accompagnate da una condivisa e convinta adesione di tutti i protagonisti del processo, potrebbe naufragare come nel passato. L'istituto della conciliazione potrà essere un utile strumento deflattivo solo se largamente praticato, in un contesto di reciproca fiducia che può essere raggiunto soltanto se le sue fondamenta si poggeranno su grande professionalità dei difensori, preparazione, autorevolezza e attendibilità dei conciliatori, pacato intervento del giudice. Sotto tale aspetto la sperimentazione che si sta tentando potrebbe essere una anticipazione e un buon viatico per enucleare deontologia e individuare prassi virtuose e concreta praticabilità di un itinerario alternativo. Commento del presidente Fancelli. Il presidente Paone è innamorato dell’istituto della conciliazione che può dare una grossa mano per far decidere gli appelli non dal giudice ma dalle parti per trovare una accordo. Questa cultura, se potesse affermarsi da noi come negli altri Stati dove l’istituto funziona, potrebbe portare ai risultati auspicati.
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Incontro dei capi delle corti d’appello delle capitali dell’Unione europea Roma, 29 e 30 ottobre 2009 Moderatori: Giorgio Santacroce, presidente della corte d’appello di Roma Evangelista Popolizio, presidente di sezione della corte d’appello di Roma Claudio Fancelli, presidente vicario della corte d’appello di Roma Antonio Marini, avvocato generale della corte d’appello di Roma
Giustizia Alternativa Novembre-Dicembre 2009
GA
Incontro dei capi delle corti d’appello Monika Noehre President of the Court of Appeal of Berlin, Germania
Necessity of appeals in civil matters and their limitations
La Costituzione della Repubblica federale di Germania prevede un diritto generale di accesso alla giustizia e da questo scaturisce un diritto garantito alla procedura legale, che comprende una sentenza entro un termine ragionevole. Non vi è alcun diritto nella Costituzione tedesca per avere un caso sentito da più di un giudice. La Costituzione prevede per un individuo il diritto di essere protetto dalla legge attraverso una procedura di giudici di altissima qualità. Il diritto costituzionale tedesco garantisce l'indipendenza personale e professionale dei giudici. Per una questione di principio, la decisione di un giudice è irreversibile. Indipendentemente dalle questioni costituzionali, vi sono notevoli motivi che sostengono la necessità di una procedura di ricorso. Il diritto di ricorso è il modo più efficace per garantire l'accuratezza di una decisione e la promozione della coerenza nella giurisprudenza.
UN DATO SIGNIFICATIVO In Germania ci sono venticinque giudici ogni centomila abitanti. Il 93 per cento dei casi si risolve nel giudizio di prima istanza A questo punto, vorrei fare riferimento ad alcuni dati relativi alla giurisdizione civile in Germania a partire dal 2007. In Germania ci sono 25 giudici per ogni centomila abitanti. Nel 2007, sono stati avviati 1,63 milioni di casi. La maggioranza, ossia il 93 per cento, è stata risolta in primo grado. Solo per 115.076 casi si è proceduto alla seconda istanza. Infine devono essere indicate le cifre per il tribunale federale (Bgh: nel 2007, 5.259 ricorsi sono stati presentati al Bgh. Meno dell'1 per cento di tutte le cause civili è finito alla Corte suprema.Per completare l'indagine, passiamo ad esaminare la lunghezza media di ogni caso. Un caso tedesco civile richiede poco più di un anno per passare attraverso due istanze. Lasciatemi illustrare brevemente le modifiche più recenti al diritto processuale tedesco. Il settore bancario è emerso negli ultimi quindici anni come un settore molto importante. Dopo la crisi dello scorso anno e dopo il collasso della Lehman Bank e il contagio di molte banche tedesche, il legislatore in tutta fretta è intervenuto costituendo un fondo per stabilizzare il mercato finanziario. Questa legge, al punto 16, contiene una piccola rivoluzione, perché prevede che il tribunale federale (Bgh) è la Corte di prima ed ultima istanza. Il 1 ° settembre 2009, un atto del parlamento ha riformato il diritto di famiglia introducendo per la prima volta nel diritto processuale civile il principio di indagine giudiziaria. Commento del presidente Fancelli. Quello che mi ha colpito in particolar modo è il fatto che siano 25 giudici ogni centomila abitanti, che il 93 per cento delle cause si risolve in primo grado, che circa l’1 per cento arriva alla Corte suprema federale e che, infine, i due gradi di giudizio di merito incidono per non più di un anno. La collega ci ha parlato poi della particolare procedura ideata per il diritto bancario e della recente modifica dell’articolo 16 a seguito della crisi bancaria che è proprio una novità assoluta. Ha anche accennato a una significativa percentuale di appelli che viene rigettata senza discussione orale.
Laurent Le Mesle Procureur Général de la Cour d’Appel de Paris, Francia
Réforme de la procédure pénale en France
I francesi non sono soddisfatti del loro sistema giudiziario penale. Da anni lo trovano troppo lento, troppo costoso, non abbastanza o al contrario troppo severo; pensano che ci siano troppe detenzioni provvisorie prima della condanna, ma anche troppi criminali in libertà; si lamentano dello stato delle loro carceri, ma ogni reato commesso da un recidivo provoca un nuovo scandalo. Per questo il presidente della repubblica ha istituito una commissione che ha consegnato le sue proposte che si prevede entrino in vigore per il 2012. La Francia sta per attuare una riforma storica dato che vuole sopprimere la figura più emblematica della sua giustizia penale, cioè il giudice istruttore, che sembra adesso una istituzione superata. La coesistenza per una stessa persona di poteri d’indagine e di poteri giurisdizionali appare oggi incongrua e dà l’impressione di una forma di schizofrenia. I poteri d’indagine che appartengono attualmente al giudice istruttore saranno completamente affidati al procuratore della repubblica. Le persone in fermo avranno diritto all’assistenza di un avvocato. Anche per le indagini ordinarie, cioè per la maggior parte dei casi, ci sarà sempre la possibilità di chiedere di essere assistiti da un avvocato. In caso di disaccordo della procura, sarà un giudice a decidere. La vittima può, in ogni materia, sporgere denuncia, ma se la procura non dà seguito alla denuncia la vittima potrà contestare l’archiviazione davanti all’autorità gerarchica del procuratore, cioè davanti al procuratore generale o davanti a un giudice. La vittima potrà anche adire direttamente la giurisdizione tranne in materia criminale. La commissione propone di creare una nuova giurisdizione, chiamata giurisdizione delle indagini e delle libertà, che avrà il compito di controllare l’indagine condotta dalla procura. Al fine di conferire a questa nuova procedura penale una totale trasparenza si propone la soppressione del segreto istruttorio. Nella tradizione francese l’udienza nelle giurisdizioni penali è condotta dal presidente della giurisdizione, Questo significa che il presidente dell’udienza, soprattutto di fronte alla corte d’assise, non può più giocare il fondamentale ruolo di arbitro super partes. Si propone ora che l’istruzione del fascicolo all’udienza sia condotta da procuratorie della repubblica sotto il controllo della difesa e dell’accusa. Sollevato da questa responsabilità, il presidente ritroverà l’autorità indispensabile alla buona condotta del processo penale. Nonostante ciò, a differenza di quello che è successo in molti paesi di diritto anglosassone, il presidente avrà una conoscenza integrale del fascicolo e potrà, dopo le parti, porre tutte le domande che gli sembreranno opportune. È certo che gli elementi di procedura accusatoria che saranno introdotti nel diritto francese comporteranno un aumento dei tempi dell’udienza. Per questo motivo la commissione ha voluto che fosse sviluppato in materia criminale il patteggiamento alla francese, che dà luogo a una proposta di pena da parte del pubblico ministero; essa sarà comunque l'oggetto di un’udienza durante la quale le parti, soprattutto le parti civili, potranno esprimersi. Commento dell’avvocato generale Marini. In Italia tutto è stato stravolto. Gli americani ci hanno avvertiti: attenzione, il processo accusatorio funzionerà soltanto quando funzioneranno anche i riti alternativi; però da voi esiste il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale; non ce la farete mai. Infatti non ce l’abbiamo fatta.
Anna Zairi Public Prosecutor of the Appeal Court of Athens (extradition/judicial assistance)
L’experience hellenique du procès pénal: l’abreviation de la phase preparatoire et intermediaire Per poter accelerare un processo, inizialmente solo per reati di droga e successivamente anche per altri crimini, il legislatore greco ha deciso di privare la persona colpevole del suo diritto all’indagine e al giudizio preparatorio del suo caso prima della comparsa in giudizio in pubblica udienza. In seguito altre leggi sono venute ad aggiungersi ai provvedimenti contro la droga: reati contro la sicurezza delle persone e dei beni, la pirateria, la frode alle imprese marittime e, recentemente, i crimini di cui sono vittime i minori. Ad eccezione dell’eliminazione della fase intermedia del processo, sono state cambiate anche le norme sulla competenza per materia e sul giudizio per i reati previsti da questo regolamento straordinario. I casi contemplati, dopo la conclusione dell’istruttoria, sono portati immediatamente, senza ulteriori indagini, davanti al procuratore della corte d’appello, la quale decide se vi è stato il parere positivo da parte del proprio presidente. Grazie a questa procedura eccezionale abbiamo visto alleggerire il carico non solo delle corti di assise, la cui competenza è stata ridotta ai reati contro la vita e la libertà sessuale, ma anche delle camere giudiziarie di prima e seconda istanza. Contemporaneamente l’accelerazione del processo in tali materie si è rivelata molto efficace, con effetti positivi anche sulla durata delle detenzioni temporanee. Precedentemente era sempre consentito proporre appello contro ogni arresto disposto dalla camera d’accusa: ciò ha finito per intasare le camere d’appello, rallentando considerevolmente le procedure e l’efficacia dell’amministrazione della giustizia. Da qualche anno il legislatore ha deciso di ridurre il diritto all’appello e ha vietato il ricorso contro tutti i tipi di arresto disposti dalla camera d’accusa. Attualmente soltanto gli arresti disposti dalla camera d’accusa che riguardano determinati crimini sono suscettibili di ricorso davanti alla camera della corte d’appello. Un’altra misura per accelerare il processo prevede una giurisdizione eccezionale per la protezione dei beni pubblici, reati che si realizzano, in pratica, sotto forma di frode o di sottrazione di danaro pubblico. In questi casi, dopo la conclusione dell'istruttoria, la camera presso la corte d’appello è l’unica competente a decidere il rinvio a giudizio in pubblica udienza. Lo stesso sistema si applica ora per gli atti di terrorismo e di criminalità organizzata: la camera presso la corte d’appello è la sola competente a decidere il rinvio a giudizio in udienza pubblica e per di più senza possibilità di ricorrere per cassazione. Queste regolamentazioni non sono state esenti da critiche e polemiche; tuttavia siamo convinti che sono proprio queste regole che hanno permesso alla giustizia penale greca di poter ancora funzionare correttamente dopo lo sconvolgimento dell’equilibrio sociale verificatosi negli ultimi venti anni, soprattutto a causa dell’inattesa ondata di immigrazione e della rapida estensione della criminalità internazionale. Commento dell’avvocato generale Marini. Avevano detto bene: se Sparta piange, Messene non ride. La collega ci ha illustrato una situazione ancora più disastrosa di quella italiana. Anche in Grecia sono alla ricerca della depenalizzazione, cioè di ridurre il diritto penale al minimo. Oggi il diritto penale deve interessare i fatti gravi. Se continueremo sulla strada di non depenalizzare, di ammettere i reati che si chiamano «bagattelari», è chiaro che non usciremo da questa impasse.
Ugo Pioletti, avvocato, professore incaricato di diritto penale dell’economia nell’università di Camerino
La mediazione penale
Il concetto di mediazione richiama come tale l'attività di un soggetto terzo rispetto a due o più parti in conflitto che induca le stesse all'accettazione spontanea della norma o alla rinuncia, anche reciproca e anche parziale, di diritti o comunque di situazioni soggettive di vantaggio nei confronti dell'altra parte. L'idea di mediazione sembra pertanto appropriata quasi esclusivamente con riferimento al settore del diritto civile. L'esperienza del diritto privato, infatti, è dominata dall'idea di disponibilità: il titolare del diritto soggettivo è arbitro della propria situazione soggettiva, non solo decide – con il solo limite della prescrizione – quando vuole farla valere coattivamente, ma può anche rinunciarvi in tutto o in parte. Diverso è il caso del diritto penale che che viene definito comunemente come diritto pubblico per eccellenza. La caratteristica di extrema ratio del diritto penale si spiega appunto con la circostanza che lo stesso, operando tramite la punizione del violatore, non guarda solo al passato e non ha come oggetto il ripristino delle situazioni di vantaggio venute meno a seguito di situazioni antigiuridiche.
LO SPAZIO DELLA MEDIAZIONE Le caratteristiche di rigidità del diritto penale sono temperate da alcuni istituti che aprono spazi di mediazione tra autore e vittima del reato L'evoluzione delle forme processuali è nota. Con la cognitio extra ordinem la materia penale si separa da quella civile, l'organizzazione statuale più complessa ed efficiente si accompagna con l'insorgere degli organi della repressione penale, appare la figura della parte pubblica o del pubblico inquisitore; il processo penale si differenzia sempre più da quello civile e con esso il diritto penale in genere che diventa sempre più diritto «pubblico». Le caratteristiche di rigidità del diritto penale sono purtuttavia, sin dal suo inizio, temperate da alcuni istituti che aprono spazi di «mediazione» tra autore e vittima del reato e che attenuano la differenza, a prima vista così radicale, tra il diritto penale e il diritto civile. Del resto, e non da oggi, è stato sottolineato che le sanzioni risarcitorie contengono in sé anche un profilo afflittivo che colpisce il violatore della norma e pertanto, come tali, concorrono con la finalità della pena. Da tali considerazioni, dall'esigenza di privilegiare le esigenze di vita positive della vittima che si esprimono nel risarcimento rispetto a quelle «di principio» che si esprimono nella punizione del reo e, non da ultimo, dall'esigenza di evitare una sorta di «doppia punizione» del colpevole che adempia gli obblighi risarcitori, è nata una corrente di pensiero, che si esprime nella formula «risarcimento in luogo della pena». L'attenzione nei confronti delle aspettative risarcitorie della vittima, il carico giudiziario eccessivo, l«ipertrofia» del diritto penale sono certamente ragioni che inducono vieppiù alla ricerca di alternative «concordate» o «mediate» alla sanzione penale o addirittura al processo penale. Commento dell’avvocato generale Marini. È apprezzabile la rilevanza che Ugo Pioletti dà agli «ammortizzatori penali» che dovrebbero essere più utilizzati. L’unica certezza deve essere quella della riparazione del danno e del risarcimento.
GA
Giustizia Alternativa Novembre-Dicembre 2009
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delle capitali dell’Unione europea Piero De Crescenzo Consigliere della corte d’appello di Roma, segretario generale della Presidenza
Durata ragionevole del processo e prove nuove disposte dal giudice in appello Nel modello probatorio del processo accusatorio il giudice ha un ruolo neutrale e sono le parti a introdurre le questioni di fatto e le relative prove, formandole in contraddittorio innanzi al giudice chiamato a decidere. Tale modello sembra trovare la preferenza. Emblematica la parabola discendente della figura del giudice istruttore, magistrato cui era demandata la ricerca e formazione della prova, cardine della procedura penale inquisitoria fin dai tempi di Napoleone, figura ora, però, messa in discussione persino in Francia. L’ispirazione costituita dal modello accusatorio sembra meglio tenere insieme le due funzioni essenziali cui adempie il processo: garanzia per l’imputato ma anche garanzia di «verità». Il procedimento probatorio, per sua natura, non può essere ripetuto senza che la stessa ripetizione determini uno scadimento della sua attendibilità. Ma il giudizio di appello è, per definizione, il luogo in cui può essere riformata la prima decisione anche per ciò che concerne l’accertamento del fatto; e ciò benché la prova non si sia formata davanti al giudice dell’appello. I sistemi, come quello italiano, che conoscono l’appello nei termini che abbiamo definito sono chiamati a gestire una contraddizione, che è ancor più evidente nei sistemi che si ispirano al modello accusatorio. Nulla, sotto il profilo che qui interessa, è mutato nella legislazione e nella giurisprudenza italiana nel passaggio dal modello inquisitorio a quello accusatorio, passaggio avvenuto circa venti anni or sono. Il sistema dell’appello è praticamente rimasto immutato. Il giudice si fa dunque interprete di valori fondanti l’ordinamento processuale. In effetti sono comprensibili le perpiessità per l’uso, talora ingenuo, di espressioni quali «ricerca della verità» o «verità formale», magari contrapposta a «verità reale». La maggiore esperienza dei giudici della corte di appello si esprime soprattutto in un sindacato sulle valutazioni in diritto che lasciano ferma la valutazione in fatto operata dal primo giudice. Ma in ciò si esprimono contenuti analoghi al sindacato di legittimità. Il giudizio di appello appare una istanza intermedia tra giudizio di primo grado e giudizio di sola legittimità che sembra partecipare insieme della natura dell’uno e dell’altro. Esso può ancora giustificarsi dando coerenza di metodo al sistema. L’accertamento in fatto non può che collocarsi tendenzialmente in primo grado, luogo della formazione in contraddittorio della prova. Occorre, probabilmente, riconoscere che nei sistemi processuali che si richiamano al sistema accusatorio l’appello per questioni di fatto deve rivestire carattere eccezionale e deve essere preceduto da un rigoroso filtro di ammissibilità che blocchi le impugnazioni in fatto manifestamente infondate. Una volta, però, che si verifichi la lamentata carenza probatoria, il giudice di appello che non ritenga di avere tutti gli elementi per giungere alla decisione dovrebbe, con giudizio solo cassatorio, o rescindente, come pure si dice, rimettere gli atti al primo giudice perché innanzi a lui si formi la prova. Commento dell’avvocato generale Marini. Piero De Crescenzo ha messo di nuovo il dito nella piaga. La legge Pecorella, che la Corte costituzionale ha poi annullato, aveva limitato l’appello del pubblico ministero contro l’assoluzione dell’imputato. La via maestra era stata avviata: se l’imputato viene condannato e vuole rimettere in discussione la sua condanna, deve portare nuove prove a suo favore.
Fredrik Wersall President of the Court of Appeal of Stockholm, Svezia
Limiting the scope of the appeal procedure: a Swedish example
Nel novembre dello scorso anno una nuova riforma è entrata in vigore in tutta la Svezia. Le modifiche principali sono state effettuate nel codice di procedura civile, che stabilisce le norme che disciplinano il processo nei tribunali distrettuali, corti d'appello e Corte suprema. La riforma tendeva a creare un procedimento giudiziario più moderno attraverso tre obiettivi: avvalersi delle moderne tecnologie, rinnovare il procedimento davanti al giudice di appello e fornire ai tribunali la possibilità di adattare il loro lavoro alle esigenze di ogni singolo caso.
LA TECNOLOGIA IN TRIBUNALE Con la nuova riforma tutti i processi presso la corte distrettuale devono avere la tecnologia necessaria e il know how per registrare e riprodurre gli interrogatori sia in audio sia in video Per quanto riguarda le conseguenze di riforma sui procedimenti penali in secondo grado il legislatore ha cercato di evidenziare il fatto che l'attenzione nei confronti dell'amministrazione della giustizia dovrebbe essere in primo luogo il tribunale distrettuale. Una delle conseguenze di questo è che il giudice di appello deve, in misura maggiore rispetto a quella di prima della riforma, basare l'esame sullo stesso materiale che ha costituito la base per la decisione del tribunale distrettuale. Per fare questo viene utilizzata la tecnologia moderna. Tutti i processi presso la corte distrettuale sono documentati in video. In precedenza era effettuata solo la registrazione audio. Un prerequisito della normativa entrata in vigore è stato che tutti i tribunali dovessero avere la tecnologia necessaria e il know how per registrare e riprodurre gli interrogatori sia in audio sia in video. L'organizzazione di supporto e gestione è stata anch'essa istruita. In linea di principio, non ci sono nuove audizioni orali. Uno dei vantaggi della riforma riguarda i problemi relativi al tempo che può intercorrere tra le principali udienze presso la corte distrettuale e l'udienza principale della corte d'appello. Prima della riforma, l'informazione fornita in corte d'appello era stata a volte completamente diversa da quella presentata alla corte distrettuale: questo portava a una qualità inferiore del materiale su cui la corte d'appello formava il suo giudizio, che a sua volta non era buona come nel tribunale distrettuale. Dopo la riforma, il compito principale della corte di appello non è quello di fare una revisione totale dei casi: l'obiettivo principale è invece il tribunale distrettuale. Critiche contro la riforma sono state sollevate soprattutto dalla Bar Association svedese (l'organizzazione degli avvocati praticanti della Svezia) riguarda l'audizione dell’imputato e il diritto dell’imputato a parlare durante l'audizione principale della corte d'appello. Per quanto riguarda la possibilità di giudicare dalle registrazioni la credibilità delle persone, il parere finora è che la corte d'appello ha la stessa possibilità di prima, quando la persona di fronte era presente. Non sto affermando che questa è una soluzione perfetta per limitare la portata del processo d’appello, ma il fatto che questa nuova tecnica è utilizzata potrebbe essere di qualche interesse generale.
Stefan Harabin President of the Supreme Court of Bratislava, Repubblica Slovacca
Le principe de révision dans le Code de procédure pénale de la République slovaque recodifié Nella Repubblica slovacca con i nuovi codici penale e di procedura penale sono intervenuti numerosi cambiamenti, tra cui quelli relativi al principio di revisione nella procedura di impugnazione. Il ricorso davanti alla corte d’appello è concepito come una procedura di cassazione con elementi di una procedura d’appello. Quando si tratta di un ricorso contro una decisione, le persone autorizzate a iniziare la procedura sono il procuratore per inesattezza della sentenza, gli imputati per inesattezza nel dispositivo in cui sono direttamente coinvolti, la vittima per motivi di risarcimento e la persona coinvolta dalla confisca dei beni. Queste parti possono contestare la decisione per il motivo che questa dichiarazione non è stata fatta e anche per la violazione della procedura di primo grado se questa violazione ha creato un errore nel dispositivo. Il solo esame dei motivi contro i quali il richiedente ha introdotto un appello è un limite relativo perché la corte d’appello deve anche esaminare i motivi del dispositivo non contestati, dovendo tener conto degli errori la cui natura sia tale da giustificare un ricorso straordinario. Tale regolamento di controllo di legittimità assicura la tempestività della procedura perché la corte d’appello può esaminare più facilmente e in un tempo minore un solo e unico motivo della decisione.
REGOLAMENTO DI CONTROLLO Il controllo di legittimità assicura la tempestività della procedura perché la corte d’appello può esaminare più facilmente e in un tempo minore un solo e unico motivo della decisione. Così garantisce l’equità e la ragionevole durata della procedura dell’appello È importante ricordare che il principio del divieto della reformatio in pejus si applica a tutti i dispositivi della decisione contestata: un richiedente non può trovarsi, a seguito di un ricorso, in una situazione peggiore di quella in cui si troverebbe se non lo avesse introdotto. La corte d’appello ha dunque il diritto e al tempo stesso l’obbligo di esaminare contemporaneamente la decisione contestata e la procedura di primo grado quantitativamente e qualitativamente anche se la corte non ha dato seguito alle contestazioni contro la decisione e giudica che la decisione che l’ha preceduta contenga degli errori che debbano essere considerati nella misura in cui giustifichino un ricorso in cassazione. Il contemperamento dei principi fondamentali della procedura penale (in particolare il diritto alla difesa, il principio dell’attuazione automatica di una procedura penale e il principio del dispositivo) con un regolamento specifico della procedura di ricorso e con l’estensione del controllo di legittimità dovrebbe essere considerato come criterio dell’efficacia del regolamento slovacco. Il legame del principio di revisione con gli altri principi della procedura del ricorso e i legami con i motivi per fare un ricorso in cassazione hanno contribuito in maniera decisiva a questo risultato. Questo regolamento costituisce uno strumento razionale per garantire l’equità e al tempo stesso la ragionevole durata della procedura d’appello e di tutta la procedura.
Giovanni Canzio Presidente della Corte d’appello dell’Aquila
La base informativa e logica della sentenza (penale) di appello
La Costituzione italiana non annovera tra i principi fondamentali della giurisdizione quello del «libero convincimento del giudice», ma sancisce l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, diretto a garantire la razionalità nella conoscenza giudiziale e nel processo, insieme con il diritto delle parti alla valutazione razionale delle prove: vale a dire che le decisioni del giudice, alla conclusione
L’OBBLIGO DI MOTIVAZIONE DEI PROVVEDIMENTI GIURISDIZIONALI La sentenza deve contenere la «concisa» esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata
di un ragionamento probatorio corretto, non solo siano adottate nel rispetto della legalità, ma rispondano anche ai postulati della «logica». La sentenza deve contenere la «concisa» esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con riferimento all’accertamento dei fatti e delle circostanze oggetto della imputazione e alla loro qualificazione giuridica, alla colpevolezza, alla punibilità, alla determinazione della pena e della misura di sicurezza, alla responsabilità civile derivante dal reato, nonché all’accertamento dei fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali. La contrazione della forma discorsiva tradizionale della motivazione, nella prospettiva di una diffusione e condivisione di nuovi e più «virtuosi» protocolli per categorie omogenee di affari, si rivela, per un verso, compatibile con il principio di ragionevole durata del processo e di efficiente organizzazione del lavoro del magistrato e, per altro verso, in grado di meglio garantire la prevedibilità della decisione e l’efficace controllo della stessa in sede di impugnazione. Si è andato consolidando un cospicuo e uniforme orientamento giurisprudenziale, tale da dare vita ad un vero e proprio «diritto vivente», che ha ammesso il ricorso per cassazione per «violazione di legge» nei casi nei quali la motivazione, pur formalmente presente in senso grafico e strutturale, sia tuttavia inficiata da vizi così macroscopici da oltrepassare i confini della manifesta illogicità e da risolversi in una motivazione meramente fittizia e «apparente», tanto da presentare fratture e aporie argomentative così vistose da rendere incomprensibili le ragioni della decisione. Si stagliano all’orizzonte le linee complessive di una forte e condivisa ideologia della «giustificazione legale e razionale della decisione», nel cui contesto si collocano anche lo standard probatorio e il test di ragionevolezza del «dubbio» che conduce all’assoluzione dell’imputato. La regola, ai fini della sentenza di condanna, dell’accertamento della colpevolezza dell’imputato «al di là di ogni ragionevole dubbio» costituisce oggi tessuto vivente dell’ordinamento penale italiano. La giurisdizione viene a caratterizzarsi come espressione di un potere autoritativo ispirato a principi di legalità e di razionalità, nel rispetto dei quali soltanto la legittimazione del giudice trova sicuro e solido fondamento. I verdetti immotivati e criptici della giuria, siccome privi di spiegazione logica quanto al giudizio di fatto, soffrono, all’opposto, di un deficit di legittimità.
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Costruire insieme dei concetti comuni di Giorgio Santacroce
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a diversità di procedura dei singoli sistemi costituisce un ostacolo alla predisposizione di un progetto unitario, omogeneo e articolato, capace di far conseguire vantaggi immediati in termini di razionalizzazione e funzionamento. Basta pensare al sistema inglese che prevede corti di appello che svolgono funzioni sia di merito che di legittimità per tutte le cause civili e penali. Questa polivalenza di funzioni esiste anche presso altri sistemi giuridici; l’obiettivo di fondo comunque non è tanto quello di elaborare un giudizio di appello che valga per tutti i ventisette paesi dell’Unione quanto piuttosto quello di dar vita a un più realistico progetto culturale capace di orientare possibili scelte legislative future all’interno dei singoli ordinamenti, armonizzandoli con i principi ispiratori di ciascuno di essi. Un primo ordine di osservazioni di carattere trasversale ha trovato tutti d’accordo e tocca un problema di metodo: quello della utilità della comparazione dei sistemi processuali civili e penali. Anche a prescindere dal tradizionale slogan dei comparatisti, per i quali il modo migliore di conoscere il proprio ordinamento è quello di conoscere gli altri, si può sinteticamente affermare che oggi è ormai tramontata l’idea secondo cui mettere a confronto ordinamenti diversi serve solo a misurare le analogie e le differenze esistenti tra i vari sistemi normativi e giudiziari. Abbiamo visto che così non è e che il discorso va proseguito.
LA MEDIAZIONE La via giudiziaria non è l’unica: gli strumenti di composizione stragiudiziale fondati sull’autonomia negoziale possono trovare ampi spazi Non è senza significato che alcuni ordinamenti abbiano provveduto ad adattare con tempestività determinati loro risultati alle indicazioni contenute nella normativa europea, come ha fatto la Repubblica slovacca per le controversie di modesta entità, il cui valore non supera i cinquecento euro, e per le controversie transfrontaliere e quelle interne che possono essere decise, quando si tratta di processi di minima entità, senza celebrare una udienza e quindi senza garantire il principio del contraddittorio e della oralità. Non è senza significato che poco alla volta si siano inseriti in sistemi che hanno una tradizione culturale ben precisa, come quello francese che ha adottato da sempre il processo di tipo inquisitorio, elementi del sistema accusatorio. Gli stessi francesi ritengono che sia cosa ben fatta, perché è un modo di conciliare quell’ordinamento con i principi del giusto processo. Del resto qualcosa di simile è stato attuato nel nostro ordinamento con il codice di procedura penale del 1988: anche noi a quella data decretammo la scomparsa del giudice istruttore come figura ambigua perché unisce contemporaneamente le funzioni dell’accusatore e del giudice senza garantire quella terzietà e imparzialità che invece da sempre è la caratteristica fondamentale del giudice. Abbiamo scoperto che i nostri cugini francesi hanno moltissimi dei problemi che sono anche i nostri, così come abbiamo visto che anche la Grecia ha problemi come si stanno manifestando da noi da un anno e mezzo a questa parte. Il procuratore generale Laurent Le Mesle ha messo in evidenza le polemiche a non finire sui giornali sulle scarcerazioni facili, sulle pene spesso non ritenute adeguate alla gravità di certi fatti; anche loro hanno un problema di carceri che scoppiano. La collega Anna Zairi ci ha fatto presente che in Grecia è scoppiata una pluralità di processi in seguito alla immigrazione clandestina. Quindi ci troviamo di fronte a problemi esattamente analoghi a quelli che abbiamo noi. La seconda osservazione è la presa d’atto della necessità di impiegare in misura più ampia le tecnologie informatiche e telematiche, il cui impatto è destinato ad assumere un’importanza crescente sia sul terreno del processo civile che su quello del processo penale. In questa prospettiva mi sembra che vada segnalata una gamma di strumenti disponibili di accesso agli organi giurisdizionali con specifico riferimento alle archiviazioni processuali: di questo ci ha parlato ampiamente la collega Jana Baiankova. Ugualmente rilevante è la utilizzazione della posta elettronica per inviare notifiche alla parte del procedimento o, su richiesta, all’avvocato di quest’ultima e ad indirizzo specificato nella notifica elettronica della documentazione. Così pure l’ultimo intervento del collega svedese Fredrik Wersall ha evidenziato come nello stesso giudizio di appello, in base a una recente normativa, si sta cercando di introdurre delle riprese audiovisive che consentono di semplificare enormemente le procedure e di garantire, sia pure in una forma virtuale, la garanzia del rispetto del contraddittorio. Sul versante della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è apparso chiaro che prevedere un secondo grado di giudizio non significa necessariamente prevederne uno di merito, perché nulla vieta che il riconoscimento del diritto di impugnazione della parte interessata possa sfociare in un giudizio di legittimità e che gli Stati membri dell’Unione possano individuare un itinerario giudiziario negando la possibilità di un secondo grado per determinate cause o per determinati reati. Per la verità sono sempre stato per una depenalizzazione molto ampia: fosse per me buona parte del terzo libro del codice penale, che prevede le contravvenzioni, non dovrebbe esistere. Quei fatti potrebbero essere colpiti con sanzioni pecuniarie anche
molto forti che spesso e volentieri sono molto più efficaci della minaccia di un carcere che non si farà mai. Per quanto riguarda il processo civile sono emersi chiaramente i rimedi che si possono adottare. Ma prima è emerso il discorso ancora più importante del ruolo delle corti di appello, il che significa l’ambito di cognizione del giudice di appello. Tutti siamo d’accordo sul fatto che il giudizio di appello non può essere la ripetizione del giudizio di primo grado né in civile né in penale: deve avere una cognizione delimitata, strettamente legata a un catalogo di motivi specifici. Sul piano civilistico è emerso un altro fatto sul quale ci troviamo tutti d’accordo: è vero che nel nostro paese c’è un numero molto alto di processi civili, però anche la Spagna sta sui nostri stessi livelli. L’unico modo per poter attuare una deflazione dei procedimenti è quello di utilizzare gli strumenti di composizione alternativa delle controversie. Il motivo conduttore della seconda sessione dedicata all’ambito e ai limiti del giudizio civile di appello è stato quello della mediazione e di quegli strumenti che, al pari della mediazione, hanno la possibilità di far arrivare a una composizione delle controversie. Il professor Carmine Punzi, con la maestria che tutti gli riconosciamo, ha evidenziato il significato polivalente della mediazione, dimostrando come questi strumenti di composizione stragiudiziale fondati sull’autonomia negoziale possano trovare ampi spazi, perché non è detto che la via giudiziaria sia l’unica per risolvere le controversie. Il collega Filippo Paone ha illustrato il protocollo che ha adottato con precisi agganci legislativi: ha fatto chiaramente riferimento a una norma che forse il legislatore si è scordato di cambiare e che è quella che ha mantenuto il tentativo obbligatorio di conciliazione in appello. Sulla strada degli effetti positivi che la mediazione è destinata a produrre l’articolo 60 della legge n. 69 del 2009 prevede l’istituzione di organismi di conciliazione secondo un progetto attuato in moltissimi altri ordinamenti. Abbiamo sentito il collega Jean Claude Magendie il quale è uno dei fautori della mediazione ed è tornato su un progetto sul quale sta cercando di ottenere una approvazione legislativa per la creazione di organismi che vedono coinvolti in primo luogo gli avvocati. Giustamente è stato detto che senza la collaborazione degli avvocati non decolla una cultura della mediazione che in molti paesi, e il nostro è tra questi, è difficile che faccia presa. Ci auguriamo che lo faccia attraverso la minaccia di far gravare le spese del giudizio a carico della parte che ingiustificatamente ha rifiutato la proposta conciliativa per aver messo in moto un meccanismo costoso, mentre il processo si sarebbe potuto concludere uno o due anni prima.
L’INDICAZIONE DI STRASBURGO Non è detto che il secondo grado di giudizio debba essere di merito: gli Stati sono invitati a costruirselo come meglio ritengono Una terza sottolineatura comune a tutti i sistemi giudiziari, sia di common law che di civil law, è quella della centralità del giudizio di primo grado, verso il quale dovrebbero essere convogliate tutte le risorse per farne il migliore possibile, in modo da ridurre i casi di appello. Quando si nota come sono strutturati i sistemi inglese e irlandese la prima considerazione di fronte a un residuo di appelli proposti non può che essere che funziona molto bene il giudizio di primo grado. Ma soprattutto i cittadini inglesi e irlandesi hanno una grande fiducia sul funzionamento del loro sistema giudiziario, mentre in molti altri paesi come il nostro i cittadini sono fortemente critici sul giudizio di primo grado che, non si sa perché, ha bisogno di essere rivisitato in appello. Ho appreso alcuni principi, o almeno non sapevo il modo in cui venissero attuati, come ad esempio quello di concentrazione, che vale sia per la Repubblica slovacca che per la Francia: consente al tribunale di emettere la propria decisione basandosi solo su prove scritte. E, sempre al fine di contenere i tempi processuali, la Repubblica slovacca prevede una variegata tipologia di provvedimenti. È stato poi toccato un punto del quale mi sono sempre particolarmente occupato: la tutela delle vittime del reato. Il problema è stato affrontato dalla professoressa Antonietta Confalonieri, ma ritorna anche in altre legislazioni, come per esempio in Francia dove esiste un dispositivo di aiuto per le vittime del reato che funziona. Non pensiamo a determinate categorie di reati (criminalità organizzata, terrorismo eccetera) perché abbiamo avuto una ricchissima gamma di leggi antimafia o antiracket: il vero problema è fornire un dispositivo di aiuto alle vittime di determinati reati. Certo non di tutti: sarebbe assurdo pensare che il risarcimento del danno, che è l’unica sanzione che si può dare all’autore di un reato di stupro o di omicidio, si possa estendere a reati minori. Una precisa direttiva comunitaria, la decisione quadro del 15 marzo 2001, aveva esaminato i diritti della vittima in ciascuno Stato dell’Unione dovunque si fosse celebrato il processo, a Praga come a Bratislava, a Vienna come a Londra, imponendo uno standard minimo di garanzia per la vittima del reato. Ho presieduto la commissione ministeriale per trovare formule di sostegno alle vittime del reato in attuazione di quella direttiva e ne è scaturito un progetto di legge; si era creato addirittura un fondo di assistenza indicando come avrebbe dovuto essere foraggiato. Sul versante processuale resta ancora forte, al di là di una sen-
tenza costituzionale italiana sulla cosiddetta legge Pecorella, il divario per il diverso trattamento da assicurare alle sentenze di condanna rispetto a quelle di proscioglimento o di assoluzione. Nel processo penale si deve stabilire se e in che misura la sentenza di assoluzione in primo grado debba essere oggetto della impugnativa del pubblico ministero. La corte costituzionale ha risolto il dilemma (absit iniuria verbis) in modo semplicistico richiamandosi al principio di uguaglianza; forse il discorso richiedeva un tipo di approfondimento diverso e andava integrato con altre considerazioni. Certe volte le leggi hanno una connotazione politica inevitabile e quindi risentono del divario che in ordine ad essa si crea nell’opinione pubblica. Molto importante mi è sembrato il discorso sulle risposte date al questionario. Appena un mese prima che si celebrasse questo nostro incontro abbiamo mandato un questionario a tutte le corti di appello e hanno risposto Germania, Slovacchia, Ungheria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Inghilterra e Galles, Portogallo, Lituania, Slovenia, Lussemburgo, Spagna, Francia, Repubblica ceca, Svezia, Polonia e Austria su una serie di problemi che a noi sono parsi molto significativi. Alcuni sono già emersi nella discussione di questi due giorni: ad esempio questa corte ha un numero di appelli gigantesco. Il presidente Claudio Fancelli e il presidente Filippo Paone ve lo hanno detto: parliamo di 28-29.000 a fronte di 1.200 in tutta l’Inghilterra; invece noi parliamo della sola corte di appello di Roma, cioè del distretto della regione Lazio che sicuramente è corposa, dotata di tribunali nei quali vi è il maggior numero di magistrati. Basterebbe semplicemente questo dato: dei diecimila magistrati d’Italia un decimo si trova nell’ambito della corte di appello di Roma; una concentrazione simile di magistrati dimostra la vastità e l’ampiezza della tipologia di cause che vengono in considerazione in questo distretto. Abbiamo scoperto che il 59 per cento ci ha detto che non esiste un filtro di ammissibilità dell’appello e che invece esiste almeno per un altro 40 per cento. Bisogna anche intendersi bene sui termini, per cui parliamo di diritto di impugnazione senza volerlo connotare perché su questo richiamo semantico ci ha intrattenuti oggi il collega Piero De Crescenzo. Non abbiamo una norma costituzionale che preveda l’appello: abbiamo l’articolo 111 che si limita a dire che per violazione di legge è ammesso contro tutti i provvedimenti il ricorso per cassazione; quando si parla di tutte le sentenze non si intendono solo le sentenze del giudice ordinario, ma anche quelle del giudice amministrativo, del giudice contabile, del giudice militare. Tutte queste sentenze hanno la garanzia dell’articolo 111 della Costituzione, però di appello non si parla. Leggiamo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e apprendiamo che non è detto che il secondo grado di giudizio debba essere di merito: gli Stati sono invitati a costruirselo come meglio ritengono; questa è l’indicazione che ci viene da Strasburgo. Un altro punto, che è stato toccato oggi dal collega Stefan Harabin, è stato quello di vedere se e in che misura sia possibile in appello una reformatio in peius; abbiamo visto che la maggior parte dei paesi tranne due, Ungheria e Cipro, ha risposto di no: la sentenza del giudice di secondo grado, da qualunque parte provenga, a meno che non si ammetta l’appello del pubblico ministero, non può risolversi in un trattamento peggiorativo rispetto a quello fornito dal giudice di primo grado. Sul piano civilistico abbiamo visto che non esistono filtri di ammissibilità e che in genere, tranne due paesi (Ungheria e Bulgaria), non sono previste procedure obbligatorie di conciliazione. Concludo affrontando il problema delle priorità. Pensate che da noi, da un anno e mezzo a questa parte, l’articolo 132 bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale è stato modificato da una legge la quale ha stabilito quali sono i processi che vanno trattati in via prioritaria. Sapete qual è la risposta? Quasi tutti: incidenti stradali, droga, criminalità organizzata, infortuni sul lavoro, abuso di alcool; si sarebbe fatto prima a indicare i processi che possono essere accantonati. A questo punto è inevitabile stabilire in sede legislativa quali debbono essere le priorità giudiziarie. Questo incontro, dopo quello di Parigi, mi è sembrato che dimostri la necessità di non vedere il proprio piccolo mondo, ma di proiettarsi verso la realtà europea per trovare insieme dei rimedi al di là delle peculiarità e delle caratteristiche di ogni ordinamento, dei concetti comuni sui quali ritornare, riprendendo il filo di un discorso che non si deve più interrompere. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Relazione di sintesi ai capi delle corti d’appello delle capitali dell’Unione europea, Roma, 30 ottobre 2009
Giorgio Santacroce, presidente della corte d’appello di Roma
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I conflitti nei contratti nazionali e internazionali Bisogna costruire durante la fase di negoziazione del contratto, quando il clima è orientato positivamente, la clausola multi-step, che consiste in tre fasi. Le prime due sono propedeutiche - ed obbligatorie - rispetto alla fase finale consistente nell’adire il tribunale competente o il collegio arbitrale di Luigi Vannutelli
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ella definizione di contratto il concetto di conflitto è implicito; l’accordo presuppone per definizione il suo contrario: il disaccordo. È evidente e da tutti riconosciuto che il venditore vorrebbe piazzare la sua merce al prezzo più alto possibile ed il compratore, dal canto suo, farà di tutto per ottenerla al prezzo minore possibile. Già questa banale osservazione contiene in sé i termini di un potenziale conflitto, la cui soluzione è normalmente ottenuta attraverso la negoziazione e la dinamica delle leggi economiche e di mercato. Nel mondo del business i contratti hanno sempre – o quasi sempre – un’articolazione abbastanza complessa. Le obbligazioni reciproche delle parti non si limitano ad un semplice scambio, bene contro prezzo pattuito, ma contengono una serie di prestazioni e di comportamenti che divengono sempre più complicati quanto più l’oggetto del rapporto contrattuale presenta contenuti complessi o nei quali vi siano elementi di tecnologie avanzate (si pensi, ad esempio, alla clausola di garanzia la cui complessità è evidentemente funzione della complessità del bene oggetto del contratto). Ma quando, come molto spesso avviene, il rapporto contrattuale non si esaurisce con il puro scambio bene contro prezzo, ma instaura tra le parti un rapporto di tipo continuativo, a medio o lungo termine, aumenta il rischio e la probabilità di incorrere in conflitti che, partendo da una semplice divergenza di opinioni, può facilmente degenerare in conflitto e in contenzioso conclamato. Quanto sopra esposto sarebbe già sufficiente a consigliare alle parti che si accingono a stipulare un contratto di prestare grande attenzione alle clausole di prevenzione e di gestione dei conflitti. In pratica, però, questo avviene molto poco. Nella definizione e stesura del testo contrattuale si fa molta attenzione a tutto ciò che riguarda gli aspetti economici, alle caratteristiche tecniche dei prodotti o dei servizi oggetto del contratto, ma relativamente poca attenzione ai conflitti. Nella maggior parte dei casi, i testi contrattuali si limitano alla elezione del foro competente – generalmente quello del contraente più forte – o, in altri casi meno frequenti, ad una clausola compromissoria che prevede un arbitrato e questo spesso senza neppure precisare quale tipo di arbitrato – rituale o irrituale – aumentando di conseguenza i motivi e le occasioni di criticità nel momento in cui il conflitto da ipotetico diviene attuale e reale. A tutte le criticità insite in ciascun rapporto contrattuale si aggiungono quelle derivanti dalle diversità che sono molteplici: diversità di lingua, di cultura e quindi di mentalità che rendono la negoziazione più complessa. Alle molteplici diversità che devono essere gestite nella formazione di un contratto internazionale si aggiungono le diversità dei sistemi giuridici vigenti nei paesi delle parti contraenti ed in quello (o quelli) dei paesi nei quali l’esecuzione dl contratto dovrà aver luogo, più quello del paese nel quale l’eventuale conflitto che dovesse sorgere tra le parti dovrà essere risolto per via giudiziaria. Uno degli elementi rilevanti nella impostazione di un contratto internazionale è la scelta della legge – o, meglio, delle leggi – da applicare al contratto. È stato usato il plurale (leggi) perché, in effetti, potrebbero essere più di una. Occorre innanzitutto definire quale sia la governing law, cioè la legge o meglio l’ordinamento giuridico al quale le parti intendono fare riferimento per la gestione e l’esecuzione del contratto. A questo si può aggiungere, in casi abbastanza frequenti, anche la compliance with
law, cioè la legge alla quale l’esecuzione del contratto dovrà comunque uniformarsi. Questo è il caso di contratti, ad esempio, tra un contraente italiano ed uno americano per l’installazione o la manutenzione di impianti in un paese terzo. Chi deve eseguire i lavori dovrà ovviamente uniformare le proprie attività alla legislazione vigente nel paese di esecuzione. Infine le parti devono anche scegliere e concordare il foro competente, cioè il tribunale al quale le eventuali controversie dovranno essere sottoposte. È importante rilevare che non necessariamente – e non automaticamente – il foro competente è quello della governing law. In linea teorica, è possibile che, in assenza di precise disposizioni contrattuali al riguardo, una controversia contrattuale possa essere demandata alla competenza di un tribunale di un paese diverso da quello della governing law. In tal caso il giudice dovrà decidere applicando (e interpretando) norme di legge di un altro paese.
IL CONTRATTO Gli elementi rilevanti nella impostazione di un contratto internazionale sono le scelte della legge e del foro
Nell’ambito della scelta della governing law, la discriminante più rilevante si ha tra i paesi con ordinamenti giuridici di common law (Gran Bretagna, Usa e molti altri) e ordinamenti di civil law (Europa continentale più molti altri paesi di tradizione latina diretta o indiretta). Le differenze tra i due sistemi giuridici sono tali da determinare anche diverse modalità ed attenzioni nella redazione e nel linguaggio dei documenti contrattuali. La scelta concordata della governing law è un fatto puramente negoziale: è evidente che sarà il contraente più forte a determinare tale scelta; l’altro contraente – più debole – non ha normalmente altre alternative che accettare consapevolmente – cioè conoscendo le situazioni a cui va incontro – o rinunciare al contratto. È opportuno rilevare che anche in situazioni di ordinamenti giuridici simili, ad esempio tra due paesi entrambi di civil law, il problema della scelta si pone egualmente, anche se sia pure in misura meno rilevante. Sarà compito degli esperti contrattuali delle parti stabilire gli opportuni accordi, tenendo sempre presente che, per forza di cose, sarà il contraente più forte ad avere l’ultima parola. Una tipologia molto frequente nei contratti nel mondo del business, a livello sia nazionale che internazionale, è costituita dai contratti che istituiscono tra le parti un rapporto a medio o lungo termine. Si tratta di uno spettro molto ampio di contratti, dalla somministrazione ai servizi di manutenzione, ai rapporti di franchising, ai contratti di consulenza o di sviluppo e aggiornamento software, fino ai contratti cosiddetti di outsourcing nelle varie e diverse tipologie che questa denominazione può assumere. Caratteristica comune a questi contratti è, appunto, la durata e quindi – necessariamente – la necessità di adeguamento dinamico del rapporto contrattuale in funzione del mutare di esigenze, necessità e priorità dei contraenti, così come dei progressi tecnologici che in tempi ormai brevissimi richiedono aggiornamenti, spesso anche molto rilevanti, per mantenere la concorrenzialità e non essere
esclusi dal mercato. In altre parole, in tutti questi contratti, le modifiche in corso d’opera non sono più eccezioni, ma costituiscono la regola alla quale i contraenti devono adeguarsi; occorre dunque saper gestire la necessaria incertezza insita in tale genere di rapporti. Necessaria incertezza significa anzitutto prevedere tutto il prevedibile, ma in più fissare dei canoni di comportamento tra le parti su come rinegoziare contenuti, termini e condizioni del contratto. Questo obiettivo non è semplice, ma è possibile raggiungerlo con una approssimazione accettabile attraverso una serie di previsioni contrattuali la cui negoziazione deve essere affrontata nella fase formativa del contratto. In estrema sintesi, si tratta di impostare una architettura contrattuale basata su allegati tecnici opportunamente strutturati e tali da poter essere modificati in tempi successivi, concordando modalità e procedure più semplici rispetto ad una revisione del testo contrattuale. In più, le parti devono prevedere strutture di controllo della esecuzione, riunioni periodiche di monitoring e procedure di revisione. A tutto questo si dovrà aggiungere un accurato sistema di comunicazioni in modo da creare un work flow documentato e riversato in un repository che costituirà quindi un archivio dinamico di tutte le vicende contrattuali intercorse tra le parti. Sulla base di lunghi anni di esperienza sul campo, mi sento di raccomandare di costruire, nella fase di negoziazione del contratto, cioè quando il clima è orientato positivamente, la cosiddetta clausola multi-step. Essa consiste in tre fasi, molto ravvicinate tra loro, in cui le prime due sono propedeutiche – ed obbligatorie – rispetto alla fase finale consistente nell’adire il tribunale competente o il collegio arbitrale, nel caso in cui la parti optino per quest’ultimo.
LA PROCEDURA DI MEDIAZIONE La durata è breve, in media intorno ai quattro mesi, con probabilità di successo intorno al 70-80 per cento La prima fase, detta anche escalation, consiste nel demandare la soluzione della divergenza di opinioni tra i responsabili di progetto, una volta accertata la non risolvibilità al loro livello (non si tratta, quindi, di contenzioso già conclamato), ai livelli aziendali superiori di ciascuna delle parti, sino ad arrivare ai massimi vertici delle due parti. Questa clausola ha la caratteristica di essere valida per non essere sperabilmente mai usata. La fase successiva, che si attiva nel caso di mancato raggiungimento dell’accordo nella fase precedente, consiste nell’attivazione della procedura di mediazione, attraverso l’intervento di un terzo neutrale scelto dalla organizzazione di mediazione (Adr) che dovrà essere stata già identificata dalle parti e indicata nel contratto (si sottolinea che questa identificazione è fondamentale e necessaria). L’intervento del terzo neutrale ha l’obiettivo di provocare una negoziazione assistita, attraverso contatti riservati con ciascuna delle parti, sia separatamente che congiuntamente, allo scopo di facilitare, e trovare, la composizione del conflitto senza la definizione di un vincitore e di un vinto (win-win). È opportuno, meglio necessario, fissare un limite temporale per l’attuazione e la conclusione di questa seconda fase. Normalmente viene
usato il termine di quattro mesi, trascorsi i quali senza risultato positivo la parte che ne ha interesse può adire il giudice ordinario o dare inizio al procedimento arbitrale se previsto in contratto. La clausola di escalation sopra descritta trova utile applicabilità nei contratti internazionali a medio e lungo termine, a condizione che sussistano due condizioni di base. La prima è che le parti contraenti siano società di una certa dimensione, all’interno di ciascuna delle quali vi sia una organizzazione ed una scala gerarchica che renda possibile, appunto, la escalation; questo è il caso della maggior parte delle aziende multinazionali. La seconda condizione, che peraltro dovrebbe essere valida per tutti i contratti, è che i contraenti abbiano avuto l’accorgimento di precisare e di identificare, in fase di negoziazione e di stesura del contratto, le funzioni – e le persone, negli allegati – che hanno la responsabilità della esecuzione del contratto, dai project managers alle altre figure professionali coinvolte – e responsabilizzate – nelle attività generate dal rapporto contrattuale. Questa attenzione ha anche una particolare rilevanza nella impostazione del sistema di comunicazioni tra le parti e nella creazione del repository di cui si è fatto cenno in precedenza. La clausola di mediazione (Adr) nei contratti internazionali svolge una funzione molto rilevante per la corretta prevenzione di contenziosi che, altrimenti, potrebbero essere anche disastrosi per le parti coinvolte. Si aggiunga che è anche abbastanza probabile che nello scenario internazionale si trovi una maggiore conoscenza e cultura della mediazione, il che facilita l’accordo, in fase negoziale, di tale clausola. Infine, considerando che la durata di una procedura di mediazione è breve – in media intorno ai qattro mesi – e che le probabilità di successo della mediazione si aggirano intorno al 70-80 per cento dei casi iniziati, appare evidente la validità di tale scelta. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Luigi Vannutelli, consulente contratti Ict. Laureato in giurisprudenza (diritto comparato ItaliaUsa), ha maturato una esperienza di lavoro all’Ibm dove, in qualità di specialista in contrattualistica, ha ricoperto diversi ruoli nell’ambito delle negoziazioni a livello sia locale che internazionale. Dal 1981 al 1985 ha fatto parte della task force a Parigi per la difesa della Ibm nel procedimento antitrust promosso dalla Commissione delle Comunità europee, che si è concluso con successo per la Ibm. Dal 1995 svolge attività di consulente sia nei confronti di clienti per negoziazioni contrattuali che come docente per corsi di formazione. Nel settore accademico, tiene seminari presso le università di Verona, di Torino e il politecnico di Milano. Attualmente, fa parte dello staff docente della facoltà di legge di Milano-Bicocca dove sta svolgendo un corso per il dipartimento di informatica giuridica. È socio del Clusit, associazione italiana per la sicurezza informatica.
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Autonomia privata e flessibilità: i cardini della riforma delle società La riforma si rivolge a tutte le società, ma l’attuale crisi economica e finanziaria sottopone le nuove regole ad una sorta di prova di resistenza. Non bisogna cedere alla tentazione dell’irrigidimento del corpus impositivo, tipicamente made in Usa, sulla scorta di quanto accaduto con il concepimento del Sarbanes Oxley Act, approvato nel 2002 e chiamato «l’11 settembre del liberismo e del capitalismo», dopo la prima drammatica crisi di alcuni importanti colossi come Enron di Carloalberto Giusti
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rascorso più di un lustro dall’entrata in vigore della riforma delle società, è ancora presto per misurare con esattezza l’impatto delle nuove norme su imprese e operatori. Il consolidamento della prassi applicativa e dottrinale è, infatti, di là da venire. L’attuale crisi economica e finanziaria sottopone però le nuove regole ad una sorta di prova di resistenza, sia sotto il profilo della capacità della nuova disciplina di proteggere investitori e stakeholders, sia sotto quello della presenza nella riforma di istituti utili a sostenere le imprese nella raccolta di capitali e nella predisposizione di un’organizzazione ottimale, com’è indispensabile per ravvicinare e rendere meno difficile l’avvio nel nostro paese di una nuova fase di crescita economica. Un lustro quindi, il primo. La riforma del diritto societario viene da lontano, discussa e accettata in tutti gli ambiti, economici e professionali; è una riforma organica, dalle regole civilistiche a quelle penalistiche e anche a quelle processuali fino a quando, qualche mese fa, come è noto, un frettoloso emendamento parlamentare, ignaro delle conseguenze dell’uso dell’accetta in luogo del bisturi, ne ha determinato l’improvvisa impraticabilità. È, anche per tutte queste ragioni, una riforma vera e una riforma profonda. Alle nuove norme viene affidato il compito di disegnare secondo uno spirito moderno l’intera materia dell’organizzazione dell’impresa. Si tratta di temi delicatissimi che richiedono la massima attenzione e la più grande cautela. Essi, però, sono il cuore stesso della disciplina giuridica del mercato: sono l’ineludibile snodo di ogni ammodernamento che voglia investire con efficacia i problemi e non muoversi nella mediocrità di operazioni di facciata. Le parole d’ordine attorno alle quali si possono i racchiudere alcuni tratti caratterizzanti del disegno sono due: autonomia privata e flessibilità. I principi informatori della riforma tendono alla massima valorizzazione dell’autonomia privata e, nello stesso tempo, all’arricchimento della tipologia delle forme organizzative. La finalità politica che si scorge nella riforma è rendere più semplice e immediata l’instaurazione di una relazione di corrispondenza tra le necessità pratiche e le forme civilistiche che le traducono in assetti giuridicamente rilevanti. Nuove regole, dunque, per svecchiare l’esistente e renderlo strumento quotidiano del lavoro degli operatori: nuove regole che non siano però fonte d’impedimento e d’intralcio alla loro iniziativa ma sicuramente sostegno effettivo e struttura portante. Alla base di tale impostazione c’è la ferma consapevolezza che l’economia va aiutata non soltanto con misure di carattere strettamente materiale, ma anche con provvedimenti che aiutino i soggetti dell’attività economica a darsi nuove strutture, agili, efficienti e flessibili, in un quadro ordinamentale che sappia dare certezza e semplicità. La riforma è nella sua essenza l’affinamento e l’ammodernamento degli strumenti di lavoro degli operatori. La stessa, com’è comprensibile, prevede al suo interno nuove norme ed il loro funzionamento. La riforma è tutto questo ma non soltanto. Sarebbe pericoloso e temerario affidare a queste nuove norme funzioni che, per la loro natura, non possono di certo avere. Allo stesso modo, anche se suggestionati dalla violenta crisi del mondo finanziario, non ci si può realisticamente attendere che dalla riforma da
essa provengano le risposte a tutti i mali dell’economia moderna; immaginare tutto questo sarebbe pacificamente errato come, per altro verso, sarebbe altrettanto sbagliato negare che sulla via della protezione dell’investimento la riforma ha compiuto progressi significativi e importanti: i nuovi regimi di governance; le nuove regole in materia di gruppi; la cresciuta misura di disclosure nelle decisioni imprenditoriali.
GOVERNANCE E DISCLOSURE La riforma ha compiuto progressi significativi e importanti: i nuovi regimi di governance, le nuove regole in materia di gruppi, la cresciuta misura di disclosure nelle decisioni imprenditoriali La riforma, però, si rivolge a tutte le società: certo alle grandi, ma anche alle medie e alle piccole; sicuramente a quelle che fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio, ma anche alle piccole società familiari; alle grandi imprese capitalistiche, ma anche alla cooperazione con spirito di autentica mutualità. Si rivolge a tutte queste realtà societarie con viva prontezza di riflessi, non cedendo però alla tentazione dell’irrigidimento del corpus impositivo, tipicamente made in Usa, ma, al contrario proprio di quanto accaduto negli States con il concepimento del Sarbanes Oxley Act come cura miracolosa ai favolosi scandali finanziari, Enron Corp. in primis, prevede una ricetta, come già detto, a base di autonomia e libertà di scelta, di certo, per dirla con le parole di Luca Enriques, desclerotizzando l’ormai datato sistema normativo. Attendersi che nel codice civile venissero scritte le norme del mercato finanziario era di sicuro troppo: ancora una volta, insomma, è sembrato che la chiave di volta potesse essere l’impiego saggio della regolazione giuridica nel senso del mantenimento o dell’incremento dei tassi di autonomia, specie in un momento in cui l’input dirigista appariva fortemente suggestionato dalla congiuntura negativa. E non può più discutersi della modernità del modello legale introdotto dalla riforma di cui l’articolo 2380 del codice civile è espressione: non è un caso che questa disposizione generale sui «sistemi di amministrazione e di controllo» sia indicata, nel più recente e autorevole studio di diritto comparato firmato da Kraakman ed altri, come esempio di un progresso della tecnica normativa che evolve verso un sistema fatto in modo «to provide corporations with a choice among a menu of more than two alternatives statutorily/specified rules», cioè in modo da aumentare le scelte tra modelli predefiniti su base essenzialmente legislativa, così da – come si dice anche nella relazione annuale della Consob – salvaguardare la flessibilità e l’autonomia delle società. Per quanto concerne i nuovi istituti introdotti dalla riforma, il panorama è piuttosto variegato. A un anno e mezzo dall’introduzione esistevano, per esempio, solamente tre patrimoni destinati a uno specifico affare ai sensi
dell’articolo 2447 bis del codice civile, e tre finanziamenti destinati ai sensi dell’articolo 2447 decies; ugualmente, l’affidamento del controllo contabile al revisore esterno, come reso possibile dalla riforma anche per le società per azioni non quotate (e non tenute dalla disciplina di settore a questa prescrizione), sembra avere avuto scarsa diffusione nel periodo immediatamente successivo alla riforma. Di notevole interesse è il dato relativo alla lenta ma progressiva diminuzione del numero delle società per azioni a favore di una crescita piuttosto rapida del numero delle società a responsabilità limitata e più contenuta di alcune tipologie di società di persone. Anche il numero complessivo delle diverse tipologie di società cooperative appare oggi in leggera crescita, a differenza di quanto veniva evinto all’indomani del varo della riforma. Uno dei temi che ha suscitato maggiore interesse tra quelli innovati dalla riforma è stato quello di potere ricorrere, per le società per azioni, a forme di amministrazione e controllo alternative (monistiche e dualistiche). Questi sistemi di amministrazione e controllo alternativi hanno avuto un crescente interesse, non solo nel mondo accademico, ma in generale per l’opinione pubblica quando nel corso del 2006 e del 2007 diversi importanti istituti creditizi quotati di grandi dimensioni hanno deciso di adottare il sistema dualistico o in seguito a operazioni di fusione come nel caso di Intesa-San Paolo, Banca Popolare ItalianaBanca Popolare di Verona e Unione delle Banche Italiane o in seguito a una rivisitazione della struttura di corporate governance, come nel caso di Mediobanca.
LA CRISI FINANZIARIA Non ci si può realisticamente attendere che dalla riforma provengano le risposte a tutti i mali dell’economia moderna
In un recente lavoro si è dato atto che, alla data di riferimento del 29 luglio 2005, 257 soggetti giuridici avevano adottato il sistema monistico e 95 quello dualistico. Di questi complessivi 352 soggetti giuridici, 68 avevano forma di cooperativa. Nel corso degli ultimi due anni e mezzo il numero di società che ha adottato il sistema monistico è rimasto sostanzialmente invariato, mentre il sistema dualistico pare incontrare maggiore favore da parte degli operatori. Se si considera il numero delle società per azioni che aveva adottato quest’ultimo modello alla data del 29 luglio 2005, nel corso dei successivi due anni e mezzo il numero delle società che ha adottato il sistema dualistico ha subito un incremento di circa il 50 per cento, sebbene in valori assoluti si tratti comunque di numeri piuttosto modesti. Complessivamente le società che hanno adottato sistemi di amministrazione e controllo alternativi non raggiungono l’1 per cento dell’universo delle società per azioni attive. Per quanto riguarda le società che hanno adottato il sistema dualistico, i soci persone fisiche sono la grande maggioranza, mentre la pro-
porzione tra società per azioni e società a responsabilità sembra essersi invertita. Gli enti pubblici continuano ad avere un peso di una certa rilevanza. Per quanto riguarda le società che hanno adottato il sistema monistico, il peso complessivo delle società di capitali è di molto superiore rispetto a quello delle società che hanno adottato il dualistico. Il peso percentuale delle persone fisiche è inferiore, mentre quello degli enti pubblici diventa irrilevante. In realtà, come è stato messo in luce con qualche semplice statistica descrittiva, hanno scelto tali sistemi in media, pur con qualche peculiarità illustrata nel testo tra monistico e dualistico, società sostanzialmente di piccole dimensioni, molto diverse da quelle che a volte hanno suscitato l’interesse dei media. Comunque il momento della rilevazione dei dati, a cinque anni dalla riforma, rimane, a mio giudizio, ancora troppo prossimo al completamento del mosaico normativo perché i dati stessi possano apprezzarsi come di consuntivo vero, anziché soltanto espressivi di tendenza, evitando facili suggestioni derivabili da indebite pretese di consolidamento. Un elemento che invece viene accostato, per effetto curiosity driven, alla riforma del corporate law made in Italy è la sua comparazione con la già citata risposta made in Usa; risposta, come suggerito poche righe più su, dura, anzi durissima, tipicamente a stelle e strisce: punire subito, con la massima forza e davanti a tutti; rapidissima e molto severa la nuova legge che nel 2002, a pochi mesi dal primo grave crack della Enron, ha istituito ferree regole antitruffa. Il Sarbanes Oxley Act contiene un forte inasprimento delle pene. Una su tutte: la pena massima per il falso in bilancio, passata da cinque a venti anni, con un minimo di dodici anni di carcere, contro un massimo in Italia di gran lunga inferiore per quanto riguarda le false comunicazioni. Le pene così incardinate nel corpus normativo statunitense non sono state pensate con l’unico intento di placare l'opinione pubblica: la commissione di controllo sulle aziende quotate varata in forza della norma Sarbanes-Oxley ha approvato una proposta di legge destinata ad imporre ai revisori dei conti delle imprese scambiate sul mercato la certificazione della propria attività e la verifica del proprio operato con gli organi di controllo. Tutti gli amministratori delegati delle società vengono obbligati a rifirmare i bilanci delle loro imprese per garantirne la correttezza. Può sembrare superfluo: in realtà questa nuova firma aggiunge un particolare peso di responsabilità personale alla luce del Sarbanes Oxley Act. Dopo aver rifirmato nessuno può dire «non sapevo», nessun chief executive può tentare di sottrarsi alla sanzione penale e patrimoniale in caso di irregolarità nei conti. Oggi negli Stati Uniti un buco da un milione di dollari basta per far scattare dodici anni di carcere e si può arrivare a venti. Il Sarbanes Oxley Act è solo un anello nella catena di reazioni provocate dagli scandali finanziari e immaginando un ponte virtuale che colleghi Washington a Roma si può tentare il collegamento con la riforma del diritto societario avvenuta nel 2003 nel nostro paese, dove il nuovo articolo 2380 bis del codice civile afferma perentoriamente al primo comma che «la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori». Conclude pagina 19
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da pagina 18 Oggi gli amministratori non possono più, di propria iniziativa, sottoporre all’assemblea operazioni attinenti alla gestione sociale; si è solo ammesso che lo statuto possa richiedere che l’assemblea autorizzi gli amministratori al compimento di determinate operazioni, ma si è precisato che resta ferma in ogni caso l’esclusiva responsabilità degli amministratori per gli atti compiuti, quantunque autorizzati dall’assemblea. Si è così evitato che, come in passato poteva accadere, nessuno risponda di una data operazione: né l’assemblea, che è per definizione irresponsabile, né gli amministratori, che a discarico di responsabilità abbiano sottoposto l’operazione all’assemblea. La maggiore chiarezza delle attribuzioni dell’amministratore ha consentito anche di delineare un più efficace sistema di responsabilità; così, in tema di identificazione della responsabilità dell’amministratore, l’articolo 2392 del codice civile indica chiaramente nella mancata capacità di prevenire l’evento dannoso il fondamento della responsabilità per danni, tanto che si dichiara esente da colpa l’amministratore che dimostri di non avere avuto alcuna possibilità di evitare il danno, o che abbia fatto constare il proprio dissenso all’operazione poi rivelatasi dannosa, o, ancora, che si sia adoperato per eliminare o anche solo attenuare l’evento; anche nel campo della responsabilità penale degli amministratori, il percorso è stato mosso in termini di razionalizzazione delle fattispecie e di migliore definizione della responsabilità, secondo il canone costituzionale della determinatezza e tassatività dell’illecito, in modo da garantire la conoscibilità del precetto. Al di là di ogni polemica, che nell’immediatezza dell’entrata in vigore della riforma si è sviluppata specie con riguardo ai delitti in tema di bilancio, credo che a distanza di cinque anni possa darsi atto che, almeno sul versante della maggiore definizione della responsabilità per gli amministratori, l’obiettivo della riforma dei reati societari possa dirsi raggiunto; d’altronde però la riforma, per quanto costituisca un’operazione d’ammodernamento organico del sistema, non basta. Occorre che con lo stesso spirito si metta mano alla riscrittura delle norme del mercato finanziario, con la stessa determinazione e con la stessa brevità nei tempi con cui la riforma ha avuto vita. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Carloalberto Giusti. Avvocato civilista, con specifica competenza in diritto bancario e fallimentare, del lavoro e delle assicurazioni, del diritto sanitario e dei contratti pubblici e privati. Nel 2006 ha fatto parte dell’«United Nations Global Youth Leadership Department» a New York, della direzione generale per la cooperazione allo sviluppo del Ministero degli affari esteri, dell’ufficio legislativo della presidenza del Consiglio dei ministri. Svolge la sua attività accademica come docente di diritto commerciale e di diritto societario comparato presso la facoltà di economia della libera università San Pio V, di corporate governance nel master di secondo livello in diritto d’impresa presso la Luiss Guido Carli e di diritto commerciale presso la facoltà di giurisprudenza dell’università degli studi di Campobasso. Dal 2007 svolge attività di consigliere giuridico della Camera dei deputati e nel 2009 è componente della commissione tecnica per la predisposizione del programma nazionale delle ricerche per il Ministero dell’università e della ricerca.
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Concorrenza e legalità nei patti di integrità Come sono state incentivate le forme alternative al giudizio per risolvere le controversie, e segnatamente la mediazione e la conciliazione, così è stata incentivata su scala mondiale, e non solamente comunitaria, l’adozione di patti di integrità al fine di stabilire correttezza, lealtà e trasparenza nelle gare di Ferdinando Carbone
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a lotta contro la corruzione non è semplicemente una questione morale, o per meglio dire un fatto di costume, ossia l’etica della buona amministrazione della cosa pubblica, ma anche e soprattutto l’etica dell’imprenditore onesto e coscienzioso, il quale considera la correttezza dei comportamenti non un freno alla sua attività, ma la migliore esplicazione della libera concorrenza, in quanto modalità premiante il merito e costituente al tempo stesso una impietosa ma oggettiva vis expulsiva della scarsa qualità. La lotta contro la corruzione è, alla base di tutto, una questione di intelligenza economica generale, ossia la capacità di riuscire a fare, al meglio dello stato dell’arte, «gli affari di tutti» invece degli «affari propri». Rispettare la legalità nei rapporti con le civiche amministrazioni, nello svolgimento delle gare d’appalto per forniture di merci e/o servizi, o per la costruzione di opere pubbliche, non rappresenta assolutamente un onere aggiuntivo, né per le imprese concorrenti più capaci, né per le amministrazioni oneste; anzi comporta generazione di risparmio, non solo strettamente finanziario, ossia in rapporto agli oneri dell’investimento di capitali, ma anche nel quadro più vasto dell’economia generale, in quanto una corretta fornitura «basta a se stessa» e non necessita di interventi riparatori o reintegratori, né crea «danni collaterali» agli utenti, andando a incidere su ulteriori «centri di spesa» quali il servizio sanitario nazionale o il risanamento del territorio e delle infrastrutture. È invece provato che la corruzione, sotto forma di bribery (in gergo, «la mazzetta»), rappresenta un costo per tutti, in primis per la collettività, ma non solo. Dovendo uniformarsi, anche se solo in apparenza, alle regole della concorrenza e mantenendo «i prezzi bassi» all’atto della formulazione dell’offerta, la ditta che offre i propri servizi a «costi anomali», ossia non remunerativi, solo per «vincere la gara», in realtà scaccia la moneta buona (ossia le ditte serie e responsabili) e si trova nella necessità, avendo vinto, di «fare il gioco delle tre carte», ossia di imbrogliare su tutti i dati a suo tempo forniti, sulla qualità globale della fornitura, consegnando, il più sovente fuori termine, beni o lavori inadeguati allo scopo, con danno per gli utenti, ma anche per la collettività. L’ adozione di pratiche illegali per la conquista di un appalto comporta necessariamente ulteriori illegalità a cascata, quali false fatturazioni che erodono il gettito fiscale, utilizzo di ditte non qualificate e non rispettose delle norme sul lavoro, con conseguente mancato guadagno per le imprese oneste, uscite «dal giro», che possono investire meno in nuove tecnologie. È un dato accertato che almeno il 30 per cento delle piccole e medie imprese italiane non investe affatto in innovazione tecnologica per mancanza di mezzi e non per scelta propria, spostandosi lentamente ma inesorabilmente ai limiti del mercato. La presenza di consolidate pratiche corruttive in certi ambiti e in determinati territori, non necessariamente legati alla geografia del paese, determina pesanti sacche di inefficienza, in quanto la migliore concorrenza internazionale evita di invischiarsi in gare d’appalto che sa di non poter vincere, malgrado la migliore qualità dei prodotti offerti. Ciò comporta una evidente distorsione della concorrenza, con riflessi negativi sugli utenti, che si trovano a dover usufruire di servizi o beni peggiori di quelli reperibili altrove, a costi superiori; e, in ambito comunitario, un peggior funzionamento del mercato interno, ciò che è intollerabile per le istituzioni europee. Così come è stato predisposto al fine di agevolare l’accesso alla giustizia, incentivando l’impiego di forme alternative al giudizio per risolvere le controversie, e segnatamente la mediazione e la conciliazione, così è stata incentivata, addirittura su scala mondiale e non solamente comunitaria, l’adozione di patti di integrità da stipulare, preventivamente all’esperimento di qualunque tipo di gara d’appalto, tra le amministrazioni appaltanti e le imprese appaltatrici, al fine di stabilire codici rigorosi di comportamento per quanto riguarda la correttezza, lealtà e trasparenza nelle partecipazioni alle gare, nella conclusione dei contratti e poi ovviamente nell’esecuzione dei lavori e/o delle forniture; ma soprattutto si sono stabilite pattiziamente adeguate sanzioni in caso di violazione delle clausole pattizie votate alla tutela dell’integrità. Tali clausole sono state elaborate e pubblicizzate da Transparency International, un’organizzazione non governativa che agisce su scala mondiale in stretto collegamento con l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Grazie all’azione di moral suasion che questa meritoria istituzione da anni sta perseguendo con tenacia, già diverse amministrazioni locali italiane si sono adeguate, adottando il sistema dei patti di integrità. I numeri peraltro sono molto bassi, il che denota ancora troppo scarsa attenzione da parte dei pubblici amministratori nei confronti del problema, che pone il paese fuori dal novero delle nazioni più avanzate
nella lotta all’illegalità. Eppure l’Italia ha aderito, anche se con grave ritardo, alla Convenzione dell’Onu del 2003, relativa alla lotta alla corruzione, precisamente con legge n. 116 del 3 agosto 2009. Inoltre l’Italia, sin dal 2007, aveva aderito ufficialmente al Greco, Gruppo europeo di lotta alla corruzione, istituito in seno al Consiglio d’Europa. Una buona notizia appare essere quella delle firma, avvenuta il 12 ottobre scorso, tra il ministro della pubblica amministrazione, Renato Brunetta, il presidente dell’Aci, che raggruppa tutti i comuni d’Italia, Sergio Chiamparino, e la presidente di Transparency International Italia, Maria Teresa Brassiolo, di un protocollo d’intesa per la diffusione e l’adozione massiccia dei patti d’integrità nei rapporti contrattuali tra comuni e imprese fornitrici. L’imprenditoria sana, che vuole stare sul mercato con regole certe e trasparenti, genera comportamenti virtuosi anche nelle amministrazioni appaltanti, in quanto, facendo risparmiare danaro, visto che i costi delle procedure d’appalto conformi ai patti d’integrità risultano mediamente inferiori di almeno un buon terzo rispetto a quelle «irregolari», generano automaticamente un allargamento delle risorse, che diventano così disponibili per un maggior numero di interventi. L’essenziale dei patti di integrità sta appunto nelle regole negoziali, spontaneamente sottoscritte e contrattualmente vincolanti, che in tema di sanzioni prevedono l’esclusione della ditta inadempiente dalla gara, ma anche l’ escussione coattiva delle penali previste per ciascun tipo di inadempimento. La sanzione, si sa, è l’essenza della norma e il contratto non è altro che la norma del caso concreto ed ha valore di legge tra le parti. Malgrado alcuni improvvidi tentativi di fare annullare i patti di integrità da parte di ditte escluse od escusse, tentativi inizialmente purtroppo condivisi da alcuni tribunali amministrativi regionali che avevano dichiarato illegittime, perché non previste da alcuna legge anteriore, le sanzioni amministrative irrogate dai comuni, finalmente il Consiglio di Stato ha confermato autorevolmente la perfetta validità dei patti di integrità nel loro insieme e anche sul punto di irrogazione di sanzioni, in quanto contrattuali e non amministrative, ossia basate su una reciproca volontà pattizia, consacrata in un contratto liberamente sottoscritto dalle parti. La giustizia, in campo penale, lamenta enormi ritardi e difficoltà per lottare contro la corruzione, data l’enorme mole di casi ad essa sottoposti, con il rischio non da poco di vedere intervenire la prescrizione del reato in corso di processo. Ma la giustizia in campo civile, che è quella che più interessa queste osservazioni, può funzionare meglio e più rapidamente se si adotterà, per risolvere le controversie relative all’applicazione dei patti di integrità, l’impiego massiccio delle procedure di mediazione e conciliazione, invece di lasciare che il conflitto si trasferisca nelle aule giudiziarie, dove rischia seriamente di rimanere ingolfato per anni, ingenerando inevitabili ritardi anche sul piano economico e sotto il profilo dell’efficienza dei risultati, ossia della consegna dei lavori. Proprio lo scorso anno, le assise europee di Transparency International, tenutesi a Berlino, hanno sancito, accanto al ricorso alla giurisdizione o all’arbitrato, la possibilità di utilizzare le Adr, e segnatamente la mediazione, per risolvere negozialmente le controversie, in maniera leale, corretta e trasparente, evitando anche i rischi di una decisione eteroprodotta, che non sempre potrebbe risultare la migliore per l’interesse generale. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Ferdinando Carbone. Avvocato cassazionista e cofondatore e presidente di Bridge Mediation Italia, associazione professionale abilitata quale ente formatore di conciliatori ed iscritta nel Registro degli organismi di conciliazione presso il Ministero della giustizia. Iscritto all’albo degli avvocati di Roma dal 1968, è socio della Simed, Società per la promozione della mediazione delle controversie, e autore della pubblicazione Che fa, concilia? Svolge la sua attività accademica come docente di corsi di formazione per conciliatori organizzati da Bridge Mediation e presso la scuola superiore di amministrazione del Ministero dell’interno.
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IL PRIMO RAPPORTO D’ITALIA DEL GROUPE D’ETATS CONTRE LA CORRUPTION (GRECO), ORGANISMO DEL CONSIGLIO D’EUROPA
In 60 pagine il quadro dell’Italia dove la corruzione è percepita come un fenomeno pervasivo e sistematico e la giustizia risulta impotente Un invito all’Italia, che ha aderito nel 2007 al gruppo di stati che fanno parte di Greco, a sanare entro il 31 gennaio 2011 la situazione della corruzione della pubblica amministrazione, dei parlamentari e membri del governo. Parole positive solo per la magistratura, la Confindustria e le camere di commercio. Riportiamo le conclusioni e le 22 raccomandazioni LE CONCLUSIONI 195. Nonostante il chiaro impegno di giudici e pubblici ministeri di affrontare efficacemente le istanze di corruzione, la corruzione in Italia è percepita come un fenomeno pervasivo e sistematico, con numerosi settori di attività (in particolare, l’urbanistica, gli appalti pubblici e il settore sanitario) e territori colpiti. Mentre un considerevole arsenale di leggi è stato approvato, in particolare negli anni novanta, per mettere in atto un quadro repressivo contro la corruzione (ad esempio, introducendo norme di vasta portata che prevedono la confisca dei beni provenienti della corruzione, l'applicazione di particolari tecniche investigative, l'uso di informatori di giustizia, il pieno accesso ai conti bancari eccetera), resta ancora molto da fare per articolare una politica efficace di prevenzione in questo settore. Non ancora avviato è un programma globale anticorruzione, insieme con un adeguato monitoraggio, in modo che i cittadini siano messi a conoscenza delle misure adottate e dei risultati concreti conseguiti nella lotta contro la corruzione. Ciò richiederebbe un approccio a lungo termine e un forte impegno politico; la lotta alla corruzione deve diventare una questione di cultura e non solo di regole. 196. Il sistema penale italiano soffre di un’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari aumentando così il potenziale per la scadenza del limite di tempo specificato nella legge sulla prescrizione. Ritardi per la conclusione dei casi di corruzione possono chiaramente rappresentare un problema più serio nella lotta contro la corruzione, soprattutto quando tali ritardi provocano casi di ammissibilità per la decorrenza dei termini, anziché finire nelle decisioni di merito. È essenziale che s’intraprenda una valutazione sugli effetti di questo problema sul giudizio nei casi di corruzione e, necessariamente, si mettono in atto le misure concrete per contribuire a garantire che i casi siano sottoposti a una decisione sul merito. Esistono preoccupazioni anche per quanto riguarda l'immunità di cui godono determinate categorie di titolari di cariche pubbliche. Si deve garantire che questo stato di cose non generi un ostacolo inaccettabile alla capacità del paese di perseguire efficacemente la corruzione. 197. Allo stesso modo, pur riconoscendo alcuni degli sforzi intrapresi per migliorare l'efficienza e la trasparenza del servizio pubblico italiano, c'è ancora spazio per ulteriori miglioramenti per quanto riguarda la trasparenza e l'etica della pubblica amministrazione. Ulteriori misure sono raccomandate, per esempio, per l’accesso ai documenti ufficiali e di revisione interna, l'applicabilità delle disposizioni deontologiche, la prevenzione dei conflitti d’interesse, il movimento dei funzionari pubblici con il settore privato (pantouflage) e la protezione d’informatori (whistleblower). Inoltre una nuova attuazione delle politiche di prevenzione della corruzione richiede la consapevolezza ampia di sensibilizzazione e la fornitura di adeguate informazioni alle autorità competenti e al pubblico in generale. 198. Per quanto riguarda il problema delle persone giuridiche e la corruzione, diversi elementi chiave sono stati introdotti per rafforzare il sistema di registrazione delle persone
giuridiche, per tenere traccia delle società colpevoli e promuovere l'etica nel settore privato. Questi sono tutti passi positivi. L'introduzione della responsabilità delle imprese è anche lodevole. Rimane di cruciale importanza la necessità di rafforzare gli obblighi contabili e i controlli di revisione per tutte le forme di società e di garantire che le corrispondenti sanzioni siano efficaci, proporzionate e dissuasive. LE RACCOMANZIONI 199. In considerazione di quanto sopra, Greco rivolge le seguenti raccomandazioni all'Italia: i. che il servizio anticorruzione e trasparenza (SAeT), o di altra autorità competente, con il coinvolgimento della società civile, sviluppi e pubblicamente articoli una politica anticorruzione, che prenda in considerazione la prevenzione, l'individuazione, l’accertamento e il perseguimento della corruzione e preveda il monitoraggio e la valutazione della sua efficacia (punto 23); ii. che l'attuale e la nuova legislazione, che deve garantire che la legge italiana soddisfi i requisiti della Convenzione della legge penale sulla corruzione (Ets 173), siano riviste al fine di renderli sufficientemente praticabili per i professionisti e i tribunali che li devono seguire e utilizzare (punto 26); iii. istituire un programma completo di formazione specializzata per i funzionari di polizia, al fine di condividere le conoscenze e la comprensione comune su come affrontare la corruzione e i reati finanziari legati alla corruzione (punto 52); iv. (i) rafforzare ulteriormente il coordinamento e lo scambio di conoscenze tra i vari organismi preposti all'applicazione della legge coinvolti in inchieste di corruzione in tutto il territorio italiano, (ii) prendendo in considerazione l'opportunità (e la possibilità giuridica) di sviluppare un meccanismo allo stesso livello di sostegno per aiutare le forze dell'ordine nelle indagini di corruzione (punto 53); v. al fine di garantire che i casi siano decisi nel merito entro un termine ragionevole, (i) effettuare uno studio del tasso di termini di prescrizione connessi ai casi di corruzione per determinare la portata e i motivi per qualsiasi problema che può essere identificato come un risultato, (ii) adottare un piano specifico per affrontare e risolvere, entro un periodo specificato, qualsiasi problema o problemi individuati dallo studio, (iii) mettere i risultati di questo esercizio a disposizione del pubblico (punto 57); vi. prevedere nella legge n. 124 del 2008, che consente la revoca della sospensione dei procedimenti penali, che tale sospensione non costituisce un ostacolo al perseguimento efficace della corruzione, per esempio per quanto riguarda i reati gravi di corruzione, nei casi di flagranza di reato, o quando il procedimento ha raggiunto uno stadio di maturità avanzata (punto 64); vii. considerare l'introduzione di confisca in rem al fine di agevolare ulteriormente il sequestro dei proventi della corruzione (punto 84); viii. mettere in atto misure adeguate per consentire la valutazione dell'efficacia, in
pratica, dell'attività delle autorità di controllo concernente i proventi della corruzione, in particolare per quanto riguarda l'applicazione delle misure provvisorie e gli ordini per la successiva confisca, anche nell'ambito della cooperazione internazionale (punto 85); ix. che (i) l'importanza del feedback su segnalazioni di operazioni sospette, della cooperazione in questo settore e i vantaggi che essi possono generare siano messi in rilievo per il personale delle agenzie con responsabilità per gli aspetti della lotta contro la corruzione; (ii) che si adottino le misure per rendere chiaro a chi ha l'obbligo di segnalare le operazioni sospette che i ritardi e la mancata presentazione di dati non sono accettabili, anche mediante ricorso a misure di sanzione, secondo i casi (punto 87); x. che un ente giuridico, come il servizio di anticorruzione e trasparenza (SAeT), oppure un altro ente, abbia l’autorità e le risorse per valutare sistematicamente l'efficacia dei sistemi amministrativi generali progettati per aiutare a prevenire e rilevare la corruzione, rendere pubbliche tali valutazioni e formulare raccomandazioni per il cambiamento in conformità a tali valutazioni (punto 141); xi. per quanto riguarda l'accesso all’informazione: (i) realizzare una valutazione e prendere le adeguate misure per garantire che le amministrazioni locali siano aderenti ai requisiti per l'accesso alle informazioni sotto il loro controllo; (ii) svolgere una valutazione della legge per stabilire se l'obbligo di motivazione stia indebitamente limitando la capacità del pubblico di giudicare le funzioni amministrative in cui la conoscenza di un modello o di una prassi di decisioni individuali fornirebbe informazioni sostanziali per quanto riguarda la corruzione e rendere pubblico tale valutazione e le eventuali raccomandazioni e (iii) che, per evitare un ricorso ai tribunali amministrativi già con un cumulo di arretrato, la Commissione sull'accesso alle informazioni debba avere l'autorità, dopo un'audizione, di fornire accesso alle informazioni richieste (punto 144); xii. che, quando si continua ad adottare misure per affrontare la durata dei procedimenti e l'arretrato dei ricorsi amministrativi, l'autorità consideri in modo specifico l'istituzione formale di alternative a un ricorso ai tribunali, come ad esempio la risoluzione delle controversie alternative (punto 145); xiii. che, nell'ambito della complessiva riforma della pubblica amministrazione, tutti gli enti della pubblica amministrazione abbiano accesso alle risorse di controllo interno, direttamente o su una base condivisa (punto 146); xiv. che (i) le norme etiche coerenti e applicabili diventino obbligatorie per tutti i funzionari della pubblica amministrazione (compresi i dirigenti e consulenti) a tutti i livelli di governo; (ii) che adottino le misure per fornire puntualmente un sistema di disciplina per la violazione di tali norme, senza riguardo a una sentenza irrevocabile di condanna penale, e (iii) che tutti gli individui soggetti a tali norme siano forniti delle fonti di informazione,
orientamento e consulenza per quanto riguarda la loro applicazione (punto 150); xv. che un codice di condotta esecutorio venga pubblicamente annunciato, professionalmente abbracciato, e, se possibile, sia rilasciato per i membri del governo, e che tale codice di condotta includa restrizioni ragionevoli per l'accettazione di doni (diverse da quelle relative al protocollo) (punto 151); xvi. che (i) una norma sul conflitto d’interesse, chiara e applicabile, sia adottata per ogni persona che svolge una funzione nella pubblica amministrazione (compresi i dirigenti e consulenti), a ogni livello di governo, e (ii) un sistema o i sistemi di divulgazione finanziaria, applicabili a coloro che sono in posizioni all'interno della pubblica amministrazione che presentano i maggiori rischi di conflitti d’interesse, siano istruiti o adattati (secondo i casi) per aiutare a prevenire e individuare i potenziali conflitti d’interesse (punto 154); xvii. che adeguate restrizioni in materia di conflitti d’interesse che possono verificarsi con il movimento dentro e fuori del servizio pubblico da parte di individui che svolgono le funzioni esecutive (pubblica amministrazione) siano adottate e attuate (punto 155); xviii. che un adeguato sistema di protezione sia istituito per coloro che, in buona fede, riferiscono dei sospetti sulla corruzione nella pubblica amministrazione (informatori) (punto 156); xix. che la responsabilità aziendale sia estesa per coprire reati di corruzione nel settore privato (punto 183); xx. prendere in considerazione la possibilità di istituire il divieto alle persone giuridiche di assumere posizioni dirigenziali in tutti i casi di condanna per reati di corruzione grave, indipendentemente dal fatto che questi reati siano stati commessi in combinato disposto con l'abuso di potere o violazione dei doveri inerenti a un determinato ufficio (punto 185); xxi. rivedere e rafforzare i requisiti di contabilità per tutte le forme di società (se quotate o non quotate) e garantire che le corrispondenti sanzioni siano efficaci, proporzionate e dissuasive (punto 192); xxii. che le autorità esaminino, in consultazione con gli organismi professionali di dottori commercialisti, revisori contabili e professionisti consulenti legali, quali ulteriori misure (comprese quelle di natura legale-regolamentare) possano essere adottate per migliorare la situazione per quanto riguarda la segnalazione agli organi competenti dei casi sospetti di corruzione e riciclaggio di denaro (punto 194). 200. Ai sensi dell'articolo 30.2 del regolamento di procedura, Greco invita le autorità italiane a presentare una relazione sull'attuazione delle raccomandazioni di cui sopra entro il 31 gennaio 2011. 201. Infine, Greco invita le autorità italiane ad autorizzare la pubblicazione di questa relazione il più presto possibile, a tradurla nella lingua nazionale e a pubblicare questa traduzione. © RIPRODUZIONE RISERVATA
(traduzione libera e non ufficiale)
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GIUSTIZIA ALTERNATIVA
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FOCUS: SENTENZE CONTROVERSE
GA gioca un ruolo attivo in questo momento di grandi cambiamenti Apriamo il dibattito. I lettori sono invitati a mandare i loro suggerimenti, i loro pensieri sulla sentenza n. 30814/06 del 3 novembre 2009 della Corte europea dei diritti dell’uomo shockingly high e shockingly low oppure sostanzialmente non ragionevole e-mail: giustiziaalternativa@libero.it
Una sentenza che fa discutere: no ai crocifissi nella scuola pubblica DEUXIÈME SECTION AFFAIRE LAUTSI c. ITALIE (Requête n. 30814/06)
ARRÊT STRASBOURG 3 novembre 2009 Nel caso Lautsi c. Italia La Corte europea dei diritti dell'uomo (seconda sezione), insediata nella camera composta da: Françoise Tulkens, presidente, Ireneu Cabral Barreto, Vladimiro Zagrebelsky, Danutė Jočienė, Dragoljub Popović, Andras Sajo, Isil Karakas, giudici, e Sally Dollé, cancelliere di sezione, dopo aver deliberato in camera di consiglio il 13 ottobre 2009, emette la seguente sentenza, adottata in tale data PROCEDURA 1. L’origine del caso è costituita da una domanda (n. 30814/06) diretta contro la Repubblica italiana, di cui un suo cittadino, la signora Soile Lautsi («il ricorrente»), ha investito la Corte il 27 luglio 2006, ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»). Essa agisce in proprio e per conto dei suoi due figli, Sami e Dataico Albertin. 2. Il ricorrente è rappresentato dall’ avv. N. Paoletti, avvocato in Roma. Il Governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo agente, la signora E. Spatafora, e dal suo co-vice-agente, signor N. Lettieri. 3. Il ricorrente ha asserito che l'esposizione della croce nelle aule della scuola pubblica frequentata dai loro figli ha rappresentato un'interferenza incompatibile con la libertà di credo e di religione, così come con il diritto all'istruzione e all'insegnamento conforme alle sue convinzioni religiose e filosofiche. 4. Il 1° luglio 2008, la Corte ha deciso di comunicare la doglianza al Governo. Ai sensi delle disposizioni dell'articolo 29 § 3 della Convenzione, ha deciso che sarebbero stati esaminati allo stesso tempo la ricevibilità ed il merito del caso. 5. Sia il ricorrente che il Governo hanno prodotto osservazioni scritte sul merito (articolo 59 § 1). IN FATTO I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO 6. Il richiedente risiede in Abano Terme e ha due figli, Sami
e Dataico Albertin. Costoro, di età compresa tra gli undici e i tredici anni, hanno frequentato nel periodo 2001-2002 la scuola pubblica «Istituto comprensivo statale Vittorino da Feltre», in Abano Terme. 7. Le aule avevano tutte un crocifisso, circostanza che il ricorrente ha ritenuto in contrasto con il principio di laicità in base al quale voleva educare i suoi figli. Essa ha sollevato la questione nel corso di una riunione organizzata dalla scuola il 22 aprile 2002 e ha sostenuto che, secondo la Corte di cassazione (sentenza n. 4273 del 1° marzo 2000), la presenza di un crocifisso nei locali predisposti per votare alle elezioni politiche era già stato considerato contrario al principio della laicità dello Stato. 8. Il 27 maggio 2002, la direzione della scuola ha deciso di lasciare i crocifissi nelle aule. 9. Il 23 luglio 2002, il ricorrente ha impugnato tale decisione dinanzi al tribunale amministrativo della regione Veneto. Basandosi sugli articoli 3 e 19 della Costituzione italiana e sull'articolo 9 della Convenzione, ha lamentato la violazione del principio di laicità. Inoltre ha denunciato la violazione del principio di imparzialità della pubblica amministrazione (articolo 97 della Costituzione). Pertanto ha chiesto ai giudici di sollevare davanti alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità. 10. Il 3 ottobre 2007, il Ministero della pubblica istruzione ha adottato la direttiva n. 2666, che raccomanda ai direttori scolastici di esporre il crocifisso. Si è costituito nel procedimento e ha sostenuto che la situazione denunciata era basata sull'articolo 118 del regio decreto n. 965 del 30 aprile 1924 e sull'articolo 119 del regio decreto n. 1297 del 26 aprile 1928 (disposizioni precedenti alla Costituzione ed agli accordi tra l'Italia e la Santa Sede). 11. Il 14 gennaio 2004, il tribunale amministrativo del Veneto è stato dell’avviso, tenuto conto del principio di laicità (articoli 2, 3, 7, 8, 9, 19 e 20 della Costituzione), che la questione di costituzionalità non era manifestamente infondata e quindi ha inoltrato ricorso alla Corte costituzionale. Inoltre, dati la libertà di insegnamento e l'obbligo di frequentare la scuola, la presenza del crocifisso è stata imposta a studenti, genitori e insegnanti e favoriva il cristianesimo rispetto ad altre religioni. Il ricorrente si è costituito nel procedimento dinanzi alla Corte costituzionale. Il Governo ha sostenuto che la presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche è stato un fatto «naturale», perché non era solo un simbolo religioso, ma anche il simbolo della Chiesa cattolica, che era l'unica chiesa richiamata nella Costituzione (articolo 7). Si è pertanto sostenuto che il crocifisso era un simbolo dello Stato italiano. 12. Con ordinanza del 15 dicembre 2004, n. 389, la Corte costituzionale si è dichiarata incompetente, in quanto le disposizioni impugnate non erano incluse in una legge, ma in regolamenti, che non hanno forza di legge (paragrafo 26 qui di seguito ). 13. Il procedimento dinanzi al tribunale amministrativo è stato quindi proseguito. Con sentenza del 17 marzo 2005 n. 1110, il tribunale amministrativo ha respinto il ricorso. Esso ha ritenuto che il crocifisso era al tempo stesso un simbolo della storia e della cultura italiana, e dunque dell'identità italiana, e il simbolo dei principi di uguaglianza, libertà e tolleranza e ugualmente della laicità dello Stato. 14. Il ricorrente ha proposto ricorso al Consiglio di Stato.
15. Con sentenza del 13 febbraio 2006, il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso motivando che la croce era diventata uno dei valori laici della Costituzione italiana e rappresentava i valori della vita civile. II. DIRITTO E PRASSI INTERNI PERTINENTI 16. L'obbligo di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, risale ad epoca anteriore all'unificazione d'Italia. Infatti, ai sensi dell'articolo 140 del regio decreto n. 4336 del 15 settembre 1860 del Regno di Piemonte-Sardegna, «ogni scuola dovrà senza indugio essere dotata […] di un crocifisso». 17. Nel 1861, anno di nascita dello Stato italiano, lo Statuto del Regno di Piemonte-Sardegna del 1848 divenne lo Statuto italiano. Esso affermava che «la religione cattolica apostolica e romana [era] l'unica religione di Stato. Le altre religioni esistenti [erano] tollerate conformemente alla legge». 18. La presa di Roma da parte dell'esercito italiano, il 20 settembre 1870, in seguito alla quale Roma fu annessa e proclamata capitale del nuovo Regno d'Italia, ha provocato una crisi nei rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica. Con la legge n. 214 del 13 maggio 1871, lo Stato italiano disciplinava unilateralmente i rapporti con la Chiesa e accordava al Papa una serie di privilegi per il regolare svolgimento dell’attività religiosa. 19. In seguito all'avvento del fascismo, lo Stato ha adottato una serie di circolari per far rispettare l'obbligo di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche. La circolare del Ministero della pubblica istruzione n. 68 del 22 novembre 1922 dichiarava: «Negli ultimi anni, in molte scuole elementari del Regno, l'immagine del Cristo e il ritratto del Re sono stati rimossi. Ciò costituisce una violazione flagrante ed intollerabile di un regolamento e soprattutto un affronto alla religione dominante dello Stato e all'unità della Nazione. Noi intimiamo quindi tutti a tutti i comuni del Regno di ristabilire nelle scuole che ne sono sprovviste i due sacri simboli della fede e del sentimento nazionale». La circolare del Ministero della pubblica istruzione n. 2134-1867 del 26 maggio 1926 dichiarava «Il simbolo della nostra religione, sacro per la fede e per il sentimento nazionale, sollecita e ispira i giovani studenti, che all’ università e negli altri istituti di istruzione superiore affina il suo spirito e la sua intelligenza in vista degli incarichi elevati cui sono destinati». 20. L'articolo 118 del regio decreto n. 965 del 30 aprile 1924 (regolamento interno delle scuole secondarie del Regno) recita: «Ogni scuola deve avere la bandiera nazionale, in ogni aula l'immagine del Crocifisso e il ritratto del Re». L'articolo 119 del regio decreto n. 1297 del 26 aprile 1928 (approvazione del regolamento generale dei servizi di istruzione primaria) individua il crocifisso tra le forniture ed i materiali necessari per le scuole. I giudici nazionali hanno ritenuto che tali disposizioni sono tuttora in vigore e applicabili a questo caso. 21. I Patti lateranensi, firmati l’11 febbraio 1929, segnarono la «riconciliazione» dello Stato italiano e della Chiesa cattolica. Il cattolicesimo veniva confermato come religione ufficiale dello Stato italiano. L'articolo 1 del trattato così recitava: «L'Italia riconosce e riafferma il principio sancito dalSegue pagina 22
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Una sentenza che fa discutere
l'articolo 1 dello Statuto Albertino del Regno del 4 marzo 1848, che la Chiesa cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato». 22. Nel 1948 lo Stato italiano ha adottato la Costituzione repubblicana. L'articolo 7 di quest'ultima riconosce esplicitamente che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Il rapporto tra lo Stato e la Chiesa cattolica sono regolati dai Patti lateranensi e relative modifiche, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale. L'articolo 8 stabilisce che le confessioni religiose diverse dalla cattolica «hanno il diritto di organizzarsi con i propri statuti, in quanto non contrastanti con il sistema giuridico italiano». I rapporti tra lo Stato e le altre fedi «sono stabiliti dalla legge sulla base di intese con i rispettivi rappresentanti». 23. La religione cattolica ha cambiato il suo status a seguito della ratifica, avvenuta con legge n. 121 del 25 marzo 1985, della prima disposizione del protocollo aggiuntivo al nuovo Concordato con il Vaticano, del 18 febbraio 1984, che modifica i Patti lateranensi del 1929. Ai sensi della suddetta disposizione, il principio proclamato all'inizio dai Patti lateranensi, ossia la religione cattolica come sola religione dello Stato italiano, è considerato non più in vigore. 24. La Corte costituzionale italiana, nella sentenza n. 508 del 20 novembre 2000, riassume la sua giurisprudenza, affermando i principi fondamentali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (articolo 3 della Costituzione) e pari libertà di tutte le religioni davanti alla legge (articolo 8), da cui deriva che l'atteggiamento dello Stato deve essere contrassegnato da imparzialità ed equidistanza, senza attribuire importanza al numero di seguaci di una religione o di un’altra (v. sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995, 329 del 1997) o all’entità delle reazioni sociali alla violazione dei diritti di una o dell'altra (cfr. sentenza n. 329 del 1997). L'eguale protezione della coscienza di ogni persona che aderisce ad una religione è indipendente dalla religione scelta (si veda sentenza n. 440 del 1995), il che non è in contraddizione con la possibilità di una diversa regolamentazione del rapporto tra lo Stato e le religioni, ai sensi degli articoli 7 e 8 della Costituzione. Una tale posizione di imparzialità ed equidistanza rispecchia il principio di laicità così come la Corte costituzionale lo ha desunto dalle norme della Costituzione e che ha natura di «principio supremo» (v. sentenze nn. 203 del 1989, 259 del 1990, 195 del 1993, 329 del 1997), che caratterizza lo Stato, nel senso del pluralismo. Le credenze, culture e tradizioni diverse devono vivere insieme in uguaglianza e libertà (cfr. sentenza n. 440 del 1995). 25. Nella sua sentenza n. 203 del 1989, la Corte costituzionale ha esaminato la questione del carattere non obbligatorio dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche. In questa occasione, essa ha affermato che la Costituzione conteneva il principio di laicità (articoli 2, 3, 7, 8, 9, 19 e 20) e che il carattere confessionale dello Stato era stato esplicitamente abbandonato nel 1985, ai sensi del protocollo aggiuntivo ai nuovi accordi con la Santa Sede. 26. La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sull’obbligo di esporre il crocifisso nelle scuole pubbliche, ha emesso l’ordinanza n. 389 del 15 dicembre 2004 (supra, paragrafo 12). Senza pronunciarsi nel merito, essa ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di costituzionalità,,trattandosi di materia regolamentare, senza forza di legge, e quindi al di fuori della propria giurisdizione. IN DIRITTO I. SULL’ASSERITA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 2 DEL PROTOCOLLO N. 1 IN CONNESSIONE CON L’ARTICOLO 9 DELLA CONVENZIONE 27. Il ricorrente sostiene in proprio e per conto dei suoi figli che l'esposizione della croce nelle scuole pubbliche da essi frequentata costituiva un’interferenza incompatibile con il diritto di assicurare loro un'istruzione e un insegnamento conformi alle sue convinzioni religiose e filosofiche di cui all'articolo 2 del protocollo n. 1, disposizione che recita come segue: «A nessuna persona può essere negato il diritto all'istruzione. Lo Stato, nell'esercizio delle funzioni che esso assume nel campo dell'educazione e dell'insegnamento, rispetterà il diritto dei genitori di assicurare tale educazione ed insegnamento in conformità alle loro convinzioni religiose e filosofiche». Inoltre il ricorrente ha sostenuto che l'esposizione della croce ha violato anche la loro libertà di fede e religione, ai sensi dell’articolo 9 della Convenzione, in cui si afferma:
«1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo e la libertà di manifestare la religione o le convinzioni personali, individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, attraverso il culto, l'insegnamento, le pratiche e l'osservanza dei riti. 2. La libertà di manifestare la propria religione o le convinzioni personali non può essere soggetta a limitazioni che non siano quelle stabilite dalla legge e necessarie, in una società democratica, alla sicurezza pubblica, alla protezione dell'ordine, della salute o della morale pubblica o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui». 28. Il Governo contesta tale assunto.. A. Sulla ricevibilità 29. La Corte rileva che le obiezioni sollevate dal ricorrente non sono manifestamente infondate ai sensi dell'articolo 35 § 3 della Convenzione. Essa osserva inoltre che non costituiscono alcun altro motivo di irricevibilità. Si deve pertanto concludere che esse sono ricevibili. B. NEL MERITO 1. Argomenti delle parti a) Il ricorrente 30. Il ricorrente ha fornito la storia delle disposizioni pertinenti. Ha osservato che l'esposizione del crocifisso si basa, secondo i giudici nazionali, sulle disposizioni del 1924 e del 1928, considerate ancora in vigore, anche se precedenti alla Costituzione italiana, così come sull'accordo con la Santa Sede e sul suo protocollo aggiuntivo del 1984. Tuttavia le disposizioni impugnate sono sfuggite al controllo di costituzionalità, in quanto la Corte costituzionale non ha potuto pronunciarsi sulla loro compatibilità con i principi fondamentali del diritto italiano a causa della loro natura regolamentare. Le disposizioni in questione sono il retaggio di una concezione religiosa dello Stato che si scontra attualmente con il dovere di laicità del medesimo e disconosce i diritti tutelati dalla Convenzione. Vi è una «questione religiosa» in Italia, perché, imponendo l’esposizione dei crocifissi nelle aule scolastiche, lo Stato dà alla religione cattolica una posizione privilegiata che si sostanzierebbe in un’interferenza dello Stato con il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione del ricorrente e dei suoi figli e il diritto del ricorrente ad educare i figli secondo le sue convinzioni morali e religiose, così pure come una forma di discriminazione nei confronti dei non cattolici . 31. Secondo il ricorrente, il crocifisso ha in realtà soprattutto una connotazione religiosa. Il fatto che la croce possa avere altre «chiavi di lettura» non comporta la perdita della sua connotazione principale, che è religiosa. Favorire una religione esponendo un simbolo dà la sensazione agli studenti delle scuole pubbliche – compresi i figli del ricorrente – che lo Stato aderisce ad un credo religioso particolare. Mentre in uno Stato di diritto nessuna persona dovrebbe percepire lo Stato come essere più vicino a una fede religiosa che a un’altra, soprattutto non dovrebbero coloro che sono più vulnerabili a causa della loro giovane età. 32. Per il ricorrente questa situazione costituisce, tra le altre implicazioni, una pressione innegabile sui minori e dà la sensazione che lo Stato sia lontano da coloro che non si identificano con questa confessione. Il concetto di laicità significa che lo Stato deve essere neutrale ed equidistante nei confronti delle religioni, perché non dovrebbe essere percepito come più vicino a certi cittadini rispetto ad altri. Lo Stato dovrebbe garantire a tutti i cittadini la libertà di coscienza, a partire da una istruzione pubblica in grado di forgiare l'indipendenza e la libertà di pensiero della persona nel rispetto dei diritti garantiti dalla Convenzione. 33. Quanto alla questione se un insegnante dovrebbe essere libero di esporre altri simboli religiosi nelle aule scolastiche, la risposta è negativa, data l'assenza di disposizioni che lo consentano. b) Il Governo 34. Il Governo osserva anzitutto che la questione sollevata da questa istanza fuoriesce da un quadro strettamente giuridico per invadere il campo della filosofia. Si tratta infatti di stabilire se la presenza di un simbolo che ha un’origine e un significato religioso è di per sé un fattore idoneo a ledere le libertà individuali in un modo incompatibile con la Convenzione. 35. Se la croce è certamente un simbolo religioso, tuttavia
essa ha anche altri significati. Essa avrebbe un significato etico, comprensibile ed apprezzabile, a prescindere dal rispetto delle tradizioni religiose o storiche, dato che essa evoca principi che possono essere condivisi al di fuori della fede cristiana (non violenza, pari dignità di tutti gli esseri umani, giustizia e condivisione, preminenza del singolo sul gruppo e importanza della sua libertà di scelta, separazione della politica dalla religione, amore del prossimo fino al perdono dei nemici). Certo, i valori che sono alla base delle società democratiche di oggi hanno la loro origine immediata nel pensiero di autori non credenti o contrari al cristianesimo. Tuttavia il pensiero di questi autori sarebbe alimentato dalla filosofia cristiana, non da ultimo a causa della loro educazione e dell’ambiente culturale in cui sono stati formati e in cui vivono. In conclusione, i valori democratici di oggi affondano le loro radici nel passato più lontano, quello del messaggio evangelico. Il messaggio della croce sarebbe un messaggio umanitario, che può essere letto indipendentemente dalla sua dimensione religiosa, costituita da un insieme di principi e di valori che costituiscono la base delle nostre democrazie. Il riferimento che la croce fa a questo messaggio è perfettamente compatibile con la laicità e accessibile ai non cristiani e non credenti, che possono accettarlo, dal momento che evoca la lontana origine di questi principi e valori. In conclusione, il simbolo della croce può essere visto come privo di significato religioso e quindi la sua esposizione in un luogo pubblico di per sé non pregiudica i diritti e le libertà garantiti dalla Convenzione. 36. Secondo il Governo, questa conclusione è confermata dalle analisi della giurisprudenza della Corte, che richiede un intervento molto più attivo rispetto alla semplice esposizione di un simbolo per la constatazione di violazione dei diritti e delle libertà. Pertanto si è trattato di un’interferenza attiva che ha portato alla violazione dell'articolo 2 del protocollo n. 1, nel caso Folgerø (Folgerø e altri contro la Norvegia [GC], n. 15472/02, Cedu 2007-VIII). In questo caso, non è la libertà di aderire o meno ad una religione che è in gioco, perché in Italia questa libertà è pienamente garantita. Non si tratta nemmeno di libertà di pratica religiosa o di non credere: il crocifisso è infatti esposto in classe, ma non vi è alcun obbligo per gli insegnanti o gli studenti di rivolgere il minimo segno di saluto, rispetto o semplice riconoscenza, per non parlare di recitare le preghiere in classe. In realtà, non è nemmeno chiesto loro di prestare alcuna attenzione al crocifisso. Infine, la libertà di educare i figli secondo le convinzioni dei genitori non è in discussione: L’insegnamento in Italia è del tutto laico e pluralista, il curriculum non contiene alcun riferimento a una specifica religione e l'istruzione religiosa è facoltativa . 37. Riferendosi alla causa Kjeldsen, Busk Madsen e Pedersen (7 dicembre 1976, serie A n. 23), in cui la Corte non ha rilevato alcuna violazione, il Governo sostiene che, qualunque sia il potere evocativo, le immagini non sono paragonabili alle conseguenze di un comportamento attivo, quotidiano e prolungato nel tempo, come l'istruzione. Inoltre sarebbe possibile educare i propri figli in scuola privata o in casa da un precettore. 38. Le autorità nazionali hanno un ampio potere discrezionale in una materia così complessa e delicata, strettamente legata alla cultura e alla storia. L’esposizione di un simbolo religioso nei luoghi pubblici non avrebbe superato il margine di discrezionalità lasciato agli Stati. 39. Questo è particolarmente vero, tanto più che in Europa si osserva una varietà di atteggiamenti sul tema. Ad esempio, in Grecia tutte le cerimonie civili e militari prevedono la presenza e la partecipazione attiva di un ministro del culto ortodosso; inoltre il venerdì santo è stato dichiarato lutto nazionale e tutti gli uffici e i negozi sono chiusi, così come in Alsazia. 40. Secondo il Governo, l'esposizione della croce non comprometterebbe il principio della laicità dello Stato, un principio sancito nella Costituzione e negli accordi con la Santa Sede. Essa non starebbe a indicare una preferenza per una religione, perché ricorderebbe una tradizione culturale di valori umanitari condivisi da persone diverse dai cristiani. In conclusione, l'esposizione della croce non ignorerebbe il dovere di imparzialità e la neutralità dello Stato. 41. Inoltre non vi è consenso a livello europeo sul modo di interpretare efficacemente il concetto di laicità, di modo che gli Stati avrebbero un più ampio potere discrezionale in materia. In particolare, se vi è un consenso europeo sul principio della laicità dello Stato, lo stesso non ci sarebbe sulle sue implicazioni pratiche e sulla sua attuazione. Il Governo ha chiesto alla Corte di far prova di prudenza e moderazione e di astenersi pertanto dal dare un contenuto preciso fino a vietare la semplice esposizione di simboli. In caso contrario, si darebbe un contenuto predeterminato materiale per connotare il principio Segue pagina 23
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FOCUS: SENTENZE CONTROVERSE
Una sentenza che fa discutere
di laicità, che priverebbe la legittima diversità di approcci nazionali e condurrebbe a conseguenze imprevedibili. 42. Il Governo non sostiene che sia necessario, opportuno e auspicabile mantenere il crocifisso nelle aule scolastiche, ma la scelta di mantenerlo o no dipende dalla politica e quindi risponderebbe a criteri di opportunità e non di legalità. Nella storia dell'evoluzione del diritto interno delineato dal ricorrente, che il Governo non contesta, si dovrebbe capire che la Repubblica italiana, anche se laica, ha liberamente deciso di mantenere il crocifisso nelle aule scolastiche, per vari motivi, tra cui la necessità di trovare un compromesso con il partito di ispirazione cristiana che è una parte essenziale della popolazione e il sentimento religioso di esso. 43. Quanto a sapere se un insegnante sia libero di esporre altri simboli religiosi nelle aule scolastiche, nessuna disposizione lo vieta. 44. In conclusione, il Governo chiede alla Corte di respingere il reclamo. c) Il terzo intervenuto 45. Il Greek Helsinki Monitor («Ghm su») contesta la tesi del Governo convenuto. La croce e ancor di più il crocifisso non possono essere visti che come simboli religiosi. Il Ghm contesta anche l'affermazione secondo cui si deve vedere nel crocifisso altra cosa rispetto al simbolo religioso e la croce è un simbolo di valori umanitari; esso ritiene che tale posizione sia offensiva per la Chiesa. Inoltre il Governo italiano non avrebbe neppure indicato un solo non cristiano che sarebbe d'accordo con questa teoria. Infine altre religioni non vedrebbero nella croce che un simbolo religioso. 46. Se si seguisse la tesi del Governo secondo cui l'esposizione del crocifisso non richiederebbe né saluto né attenzione, ci si potrebbe domandare per quale motivo il crocifisso sia esposto. L'esposizione di un simbolo potrebbe essere vista come la venerazione istituzionale di esso. A questo proposito, il Ghm osserva che secondo i principi direttivi di Toledo in materia di insegnamento sulle religioni e di credenze nelle scuole pubbliche (Consiglio di esperti sulla libertà di religione o di credo dell'Organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa, «Osce») la presenza di un tale simbolo in una scuola pubblica può costituire una forma implicita di insegnamento della religione, per esempio dando l'impressione che questa religione particolare viene favorita rispetto ad altre. Se la Corte nella causa Folgerø ha detto che la partecipazione ad attività religiose può avere una influenza sui bambini, allora, secondo il Ghm, l'esposizione di simboli religiosi può anche averne una. Si deve anche pensare a situazioni in cui i bambini o i loro genitori possano temere ritorsioni se decidessero di protestare. 3. Giudizio della Corte d) Principi generali 47. Per quanto riguarda l'interpretazione dell'articolo 2 del protocollo n. 1 sulle funzioni che lo Stato assume nel campo dell'educazione e dell'insegnamento, la Corte ha enucleato i principi giurisprudenziali elencati di seguito e considerati rilevanti nel caso di specie (v., in particolare, Kjeldsen, Busk Madsen e Pedersen c. Danimarca, causa 7 dicembre 1976, serie A n. 23, pp. 24-28, § § 50-54, Campbell and Cosans c. Regno Unito, causa 25 febbraio 1982, serie A n. 48, pp. 1618, § § 36-37, Valsamis c. Grecia, 18 dicembre 1996, Raccolta delle sentenze e decisioni 1996 VI , pp. 2323-2324, § § 25-28, e Folgerø e altri contro la Norvegia [GC] 15472/02, Cedu 2007-VIII, § 84). (a) Le due frasi dell'articolo 2 del protocollo n. 1 devono essere lette alla luce non solo l’una dell’altra, ma anche, in particolare, degli articoli 8, 9 e 10 della Convenzione. (b) È sul diritto fondamentale all'istruzione che si innesta il diritto dei genitori al rispetto delle loro convinzioni religiose e filosofiche e la prima frase non distingue più di quanto non faccia la seconda tra l'istruzione pubblica e quella privata. La seconda frase dell'articolo 2 del protocollo n. 1 tende a preservare la possibilità del pluralismo in materia di istruzione, essenziale per la conservazione della «società democratica», come concepito dalla Convenzione. A causa del potere dello Stato moderno, è soprattutto nella pubblica istruzione che vi è bisogno di raggiungere questo obiettivo. (c) Il rispetto per le convinzioni dei genitori dovrebbe essere possibile attraverso una formazione in grado di fornire un ambiente scolastico aperto e solidale, piuttosto che portato all’esclusione, a prescindere dalle origini sociali degli studenti, dalle loro convinzioni religiose o dalle loro origini etniche. La scuola non dovrebbe essere teatro di proselitismo o di predicazione: dovrebbe essere un luogo di incontro di diverse reli-
gioni e convinzioni filosofiche, dove gli studenti possono acquisire conoscenze sui loro pensieri e tradizioni rispettivi. (d) La seconda frase dell'articolo 2 del protocollo n. 1 implica che lo Stato, nello svolgere le funzioni da esse assunte in materia di istruzione e formazione, deve garantire che le informazioni o conoscenze contenute nei programmi siano diffuse in modo obiettivo, critico e pluralistico. È vietato perseguire un obiettivo di indottrinamento che possa essere considerato come non rispettoso delle convinzioni religiose e filosofiche dei genitori. Questo è il limite da non superare. (e) Il rispetto per le convinzioni religiose dei genitori e le credenze dei bambini comporta il diritto di credere in una religione o di non credere in nessuna religione. La libertà di credere e la libertà di non credere (libertà negativa) sono entrambe tutelate dall'articolo 9 della Convenzione (v., sotto il profilo dell’articolo 11, Young, James e Webster c. Regno Unito, 13 agosto 1981, § § 52-57, serie A n. 44). Il dovere di neutralità e imparzialità dello Stato è incompatibile con qualsiasi potere discrezionale da parte di esso sulla legittimità delle credenze religiose o di modi di esprimerle. Nel contesto dell'educazione, la neutralità dovrebbe garantire il pluralismo (Folgerø, § 84). e) Applicazione di questi principi 48. Per la Corte queste considerazioni comportano l'obbligo dello Stato di astenersi dall’imporre, anche indirettamente, credenze nei luoghi dove le persone sono alle sue dipendenze o nei luoghi in cui esse sono particolarmente vulnerabili. La scolarizzazione dei bambini è particolarmente delicata perché in questo caso il potere vincolante dello Stato è imposto su soggetti che sono ancora carenti (a seconda del livello di maturità del bambino) quanto alla capacità di mantenere una distanza critica in relazione al messaggio derivante da una scelta preferenziale espressa da parte dello Stato in materia religiosa. 49. In applicazione dei principi di cui sopra al caso di specie, la Corte deve esaminare se lo Stato convenuto, esigendo l'esposizione dei crocifissi nelle aule scolastiche, ha provveduto, nell'esercizio delle sue funzioni di istruzione e di insegnamento, affinché la conoscenza sia diffusa in modo obiettivo, critico e pluralistico e siano rispettate le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori, a mente dell'articolo 2 del protocollo n. 1. 50. Per esaminare la questione, la Corte tiene conto della particolare natura del simbolo religioso e del suo impatto sugli studenti sin dalla giovane età, soprattutto sui bambini del ricorrente. Infatti, nei paesi in cui la stragrande maggioranza della popolazione appartiene a una religione particolare, la manifestazione dei riti e dei simboli di questa religione, senza restrizione di luogo e modalità, può costituire una pressione sugli studenti che non praticano tale religione o su coloro che aderiscono a un'altra religione (Karaduman contro Turchia, decisione della Commissione del 3 maggio 1993). 51. Il Governo (paragrafi 34-44 supra), giustifica l'obbligo (o misura) per esporre il crocifisso con la connessione al positivo messaggio morale della fede cristiana, che trascende i valori laici costituzionali, il ruolo della religione nella storia italiana e le radici di questa tradizione nel paese. Esso considera il crocifisso neutrale e dà un significato laico in riferimento alla storia e tradizione d'Italia, strettamente legata al cristianesimo. Il Governo ha sostenuto che il crocifisso è un simbolo religioso, ma può rappresentare anche altri valori (cfr. tribunale amministrativo del Veneto, n. 1110 del 17 marzo 2005, § 16, punto 13). Nel parere della Corte, il simbolo del crocifisso ha una pluralità di significati tra cui il senso religioso è predominante. 52. La Corte ritiene che la presenza dei crocifissi nelle aule vada oltre l'uso di simboli in specifici contesti storici. Ha anche ritenuto che il carattere tradizionale del significato sociale e storico di un testo usato dai parlamentari per prestare giuramento non priva il giuramento del suo carattere religioso (Buscarini e altri contro San Marino [GC] n. 24645/94, Cedu 1999 I). 53. Il ricorrente sostiene che il simbolo contrasta con le sue convinzioni e viola il diritto dei suoi figli a non professare la religione cattolica. Le convinzioni dell’interessata hanno raggiunto un livello di serietà e di coerenza perché la presenza obbligatoria del crocifisso possa essere ragionevolmente intesa da lei come in conflitto con le stesse. Vede nell’esposizione del crocifisso il segno che lo Stato si pone a fianco della religione cattolica. Questo significato è ufficialmente accettato nella Chiesa cattolica, che attribuisce al crocifisso un messaggio fondamentale. Pertanto l'apprensione del richiedente non è arbitraria. 54. Le convinzioni della signora Lautsi riguardano anche l'impatto dell'esposizione del crocifisso nei confronti dei suoi figli (supra, punto 32), all’epoca di undici e tredici anni. La
Corte riconosce che, come abbiamo visto, è impossibile non notare il crocifisso nelle aule scolastiche. Nel contesto della pubblica istruzione, è necessariamente percepito come parte integrante della scuola e può quindi essere considerato come un «potente simbolo esterno» (v. Dahlab c. Svizzera, dicembre, n. 42393/98, Cedu, 2001 V ). 55. La presenza del crocifisso può essere facilmente interpretata dagli studenti di tutte le età come un simbolo religioso ed essi si sentono educati in un ambiente scolastico caratterizzato da una particolare religione. Ciò che può essere incoraggiante per alcuni studenti religiosi può essere emotivamente inquietante per gli studenti di altre religioni o per coloro che non professano alcuna religione. Questo rischio è particolarmente presente tra gli studenti appartenenti a minoranze religiose. La libertà negativa non è limitata alla mancanza di servizi religiosi o all'istruzione religiosa. Essa copre le pratiche e i simboli che esprimono, in particolare o in generale, una credenza, una religione o la professione di ateismo. Questo diritto negativo merita una protezione speciale, se lo Stato esprime una convinzione e se la persona si trova in una situazione che non può essere superata se non con uno sforzo e sacrificio sproporzionati. 56. L'esposizione di uno o più simboli religiosi non può essere giustificata né con la domanda di altri genitori che vogliono l'educazione religiosa coerente con le proprie convinzioni, né, come sostiene il Governo, con la necessità di un compromesso necessario con un partito politico di ispirazione cristiana. Riguardo alle convinzioni dei genitori in materia di istruzione deve tener conto del rispetto delle credenze di altri genitori. Lo Stato ha l'obbligo di neutralità religiosa in materia di istruzione pubblica, dove la partecipazione è richiesta a prescindere dalla religione, e deve cercare di instillare negli studenti il pensiero critico. La Corte non vede come l'esposizione nelle aule delle scuole pubbliche di un simbolo che è ragionevole associare con il cattolicesimo (la religione di maggioranza in Italia) potrebbe servire il pluralismo educativo, che è essenziale per la conservazione di una «società democratica», così come concepita dalla Convenzione. La Corte osserva a questo proposito che la giurisprudenza della Corte costituzionale va nella stessa direzione (vedi punto 24). 57. La Corte ritiene che l'esposizione necessaria del simbolo di una data confessione nell’esercizio della funzione pubblica per quanto riguarda situazioni specifiche, sotto il controllo del Governo, in particolare nelle aule, limita il diritto dei genitori di educare i loro figli secondo le loro convinzioni e il diritto degli scolari di credere o non credere. La Corte ritiene che ciò costituisca una violazione di questi diritti, perché le restrizioni sono incompatibili con il dovere dello Stato di rispettare la neutralità nell'esercizio del servizio pubblico, in particolare nel campo dell'istruzione. 58. Di conseguenza, vi è stata una violazione dell'articolo 2 del protocollo n. 1, in combinato disposto con l'articolo 9 della Convenzione. II. SULLA VIOLAZIONE DELL 'ARTICOLO 14 DELLA CONVENZIONE 59. Il ricorrente sostiene che l'interferenza denunciata nei termini di cui al punto 9 della Convenzione e dell'articolo 2 del protocollo n. 1 viola anche il principio di non discriminazione sancito dall'articolo 14 della Convenzione. 60. Il Governo ha respinto questa argomentazione. 61. La Corte rileva che tale censura non è manifestamente infondata, ai sensi dell'articolo 35 § 3 della Convenzione. Essa osserva inoltre che non deve affrontare alcun altro motivo di irricevibilità. E’ pertanto necessario dichiarare la doglianza ricevibile. 62. Tuttavia, date le circostanze del caso e il ragionamento che ha portato a individuare una violazione dell'articolo 2 del protocollo n. 1 in combinazione con l'articolo 9 della Convenzione (paragrafo 58, supra), la Corte ritiene che non vi è alcuna necessità di considerare il caso anche sotto il profilo dell'articolo 14, preso da solo o in combinazione con le disposizioni di cui sopra. III. SULL 'APPLICAZIONE DELL' ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE 63. Ai sensi dell'articolo 41 della Convenzione, «Se la Corte constata una violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente permette solo le conseguenze di questa violazione, la Corte concede alla parte lesa, se necessario, un giusto risarcimento». A. Danni Conclude pagina 24
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Una sentenza che fa discutere
64. La ricorrente chiede il pagamento di una somma di almeno 10.000 euro per danni morali. 65. Il Governo ritiene che l'accertamento dell'infrazione sarebbe un risarcimento adeguato. In alternativa, si ritiene che l'importo richiesto sia eccessivo e non supportato e ne domanda il rigetto o la riduzione. 66. Poiché il Governo non ha espresso la sua disponibilità a rivedere le disposizioni che disciplinano la presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche, la Corte ritiene che, a differenza di quanto accaduto nel caso Folgerø e altri (causa supra, § 109), la constatazione di una violazione non sia sufficiente in questo caso. Pertanto, giudicando in equità, concede 5.000, euro come risarcimento dei danni morali.
CONVENZIONE EUROPEA PER LA SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI
maggiorato di tre punti percentuali. PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE ALL'UNANIMITA 1. Dichiara ricevibile il ricorso; 2. Constata una violazione dell'articolo 2 del protocollo n. 1 in combinato disposto con l'articolo 9 della Convenzione; 3. Afferma che non c'è bisogno di esaminare la denuncia ai sensi dell'articolo 14 preso da solo o in combinazione con l'articolo 9 della Convenzione e l'articolo 2 del protocollo n. 1; 4. Afferma a) che lo Stato convenuto deve versare al richiedente entro tre mesi dal giorno in cui la decisione è divenuta definitiva, ai sensi dell'articolo 44 § 2 della Convenzione, 5.000 (cinquemila) euro, come danno morale, più qualsiasi importo che potrebbe essere dovuto a titolo di carico fiscale; b) che a contare dalla scadenza di tale termine fino al regolamento, tale importo aumenterà di un interesse semplice ad un tasso pari al rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante questo periodo, aumentato di tre punti percentuali;
B. Costi 67. La ricorrente chiede 5.000 euro per i costi e le spese sostenute per il procedimento di Strasburgo. 68. Il Governo rileva che il ricorrente non ha motivato la sua richiesta e ne chiede il rigetto. 69. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente non può ottenere il rimborso dei costi e delle spese che nella misura in cui corrispondono alla realtà, sono ragionevoli e necessari. In questo caso, la ricorrente non ha prodotto alcuna prova a sostegno della sua affermazione. La Corte ha quindi deciso di respingerla.
5. Respinge la domanda di equa soddisfazione per il resto. Redatto in francese, e notificato per iscritto entro il 3 novembre 2009, a norma dell'articolo 77 § § 2 e 3 del Regolamento. Sally Dollé Françoise Tulkens Cancelliere Presidente
C. Interessi di mora 70. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi di mora sul tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea
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(traduzione libera e non ufficiale)
Mosques and Minarets... are meeting with resistance in Europe, although it is reported that the largest mosque in the EU will be built at the gateway to the 2012 Olympic Games in London. Austria, which numbers a population of 400,000 Muslims, is the only western European country to have recognized Islam as a religion more than 100 years ago. There, rightwing parties have been calling for tighter building regulations, to
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prevent local character being spoilt through the construction of Muslim places of prayer. In Denmark (numbering an estimated 250,000 Muslims), local elections in November will indicate the growing popularity of the anti-immigrant conservative party. All eyes are now focused on Switzerland: on November 29 the Swiss will decide in a referendum whether to amend their Constitution with a ban on minarets.
Articolo 9 Libertà di pensiero, di coscienza e di religione 1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le pratiche e l'osservanza dei riti. 2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la pubblica sicurezza, la protezione dell'ordine, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui. PROTOCOLLO N. 1 ADDIZIONALE ALLA CONVENZIONE Articolo 2 Diritto all’istruzione Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche.
C O S T I T U Z I O N E D E L LAR E P U B B L I CAI TAL IANA PRINCIPI FONDAMENTALI Articolo 2 La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Articolo 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Articolo 7 Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale. Articolo 8 Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. Articolo 9 La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Articolo 19 Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. Articolo 20 Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.
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