Roma Tre News 1/2010

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P Periodico eriodico di Ate Ateneo eneo

Anno XII XII,, n. 1 - 2010

In questo nu numero: umero: Laura Balbo Balbo,, Francesca Brezzi,, Claude Coldy, y Emm Emma ma Dante, Federica Giardini, Joumana Haddad, Dacia Maraini, Marraini, V Veronica Prav Pravadelli, vadelli, Maria Rosa Rosaria ria Stabili, Lorella Zanardo


Sommario Editoriale

Rubriche 3 4 6 7 10 12 15 17 19 21 23 26 27 29 30

Incontri Claude Coldy. Danza Sensibile di Anna Lisa Tota Dacia Maraini. Passi affrettati di Paolo Di Paolo Lorella Zanardo. «Il corpo delle donne» di Alessandra Ciarletti Emma Dante. In equilibrio stabile sui tacchi a spillo di Federica Martellini Joumana Haddad. Il ritorno di Lilith di Alessandra Ciarletti The Continuing Relevance of Keynes di Paolo Leon

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Reportage Il ponte dei corvi Il campo di concentramento di Ravensbrück di Alessandra Ciarletti A Shared Commitment The Cartagena Summit on a Mine-Free World di Arianna Campanelli

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Recensioni

Primo piano Imparare a cambiare La nostra società e i processi di discriminazione di Laura Balbo bell hooks: elogio del margine di Fulvia Vitale «Somos todas presidentas» L’esperienza di Michelle Bachelet, presidente del Cile di Maria Rosaria Stabili Il rovescio della tela Tra Penelope e Ulisse ovvero andare oltre Penelope di Francesca Brezzi Cinema, donne ed economia Da Alice Guy a Kathryn Bigelow di Veronica Pravadelli Oltre il paragone La storia delle donne nella Storia dell’arte di Liliana Barroero Tra cielo e terra Il rapporto uomo-donna dalla cosmogonia ai giorni nostri di Federica Giardini RU486 La storia di una discussa conquista di Dalila Novelli Pari opportunità nello studio e nella professione Il CPO racconta due iniziative promosse nel nostro Ateneo a cura del Comitato pari opportunità di Roma Tre Casa internazionale delle donne Intervista alla presidente Costanza Fanelli di Michela Monferrini Manager o veline? La donna nell’universo dei media di Gianpiero Gamaleri Dream of Life Rock, poesia e ribellione nella musica di Patti Smith di Ugo Attisani Quello che le donne dicono La voce che nasce dal silenzio e che di esso porta l’eco di Michela Monferrini La rivincita delle sportive Record, medaglie e soddisfazioni tinte di rosa di Camilla Spinelli

Ultim’ora da Laziodisu Non tutti sanno che…

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Orientamento L’Europa del diritto allo studio 57 Strutture accademiche e servizi agli studenti come base per l’eccellenza e la competitività di Gianpiero Gamaleri Superare gli ostacoli 58 Una studentessa universitaria racconta la sua esperienza di borsista di Monica Schneider Oltre l'e-Learning 59 La comunità di pratica come ambiente di apprendimento interprofessionale di Claudio Pignalberi

Communicative Variation in Time and Space 61 L’esperienza di un corso intensivo internazionale realizzato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Francesca Cantù e Eva Wiberg Quel che è di Cesare 63 Un incontro con Rosy Bindi sul rapporto fra religione, etica e potere di Letizia Ciancio Niki de Saint Phalle 64 Autobiografia a colori di una donna dalla parte delle Nanas di Michela Monferrini Sex-Zwangsarbeit 66 Una mostra racconta la prostituzione forzata nei campi di concentramento nazisti di Alessandra Forteschi Sociologie del tempo 67 Strategie per uscire dalla trappola del quotidiano di Teresa Di Martino Il cinema e l’omosessualità 68 Il difficile superamento di un tabù di Camilla Spinelli Corpi nella storia politica dei corpi 69 Un seminario interdisciplinare per riflettere sul corpo e sul potere di Martina Micillo Assia Djebar e Fatema Mernissi 70 Due nordafricane in difesa dei diritti delle donne di Rosa Coscia Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre Anno XII, numero 1/2010 Direttore responsabile Anna Lisa Tota (professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi) Coordinamento di redazione Alessandra Ciarletti (Resp. Ufficio orientamento) Federica Martellini (Ufficio orientamento) Divisione politiche per gli studenti r3news@uniroma3.it Redazione Ugo Attisani (Ufficio Job placement), Valentina Cavalletti (Ufficio orientamento), Rosa Coscia (studentessa del C.d.L. in Informazione, editoria e giornalismo), Gessica Cuscunà (Ufficio orientamento), Indra Galbo (laureato del C.d.L. in Scienze politiche), Elisabetta Garuccio Norrito (Resp. Divisione politiche per gli studenti), Michela Monferrini (laureata del C.d.L. in Lettere), Monica Pepe (Resp.Ufficio stampa), Camilla Spinelli (studentessa del C.d.L. in Comunicazione nella società della globalizzazione), Fulvia Vitale (studentessa del C.d.L. in Giurisprudenza) Hanno collaborato a questo numero Laura Balbo (sociologa, Università di Padova), Liliana Barroero (direttore del Dipartimento di studi storico-artistici, archeologici e sulla conservazione), Francesca Brezzi (docente di Filosofia morale e Filosofia della differenza e delegata del Rettore per le pari opportunità), Salvatore Buccola (direttore amministrativo Adisu Roma Tre), Arianna Campanelli (studentessa C.d.L. Consulente esperto per i processi di pace, cooperazione e sviluppo), Francesca Cantù (Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia), Letizia Ciancio, Comitato pari opportunità di Roma Tre, Teresa Di Martino, Gianpiero Gamaleri (professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Presidente Adisu Roma Tre), Federica Giardini (docente di Filosofia, società e comunicazione e di Scienza politica), Paolo Di Paolo (dottorando in Italianistica), Alessandra Forteschi, Paolo Leon (docente di Economia pubblica), Martina Micillo (studentessa del C.d.L. in Italianistica), Dalila Novelli (Assolei Sportello donna Onlus), Claudio Pignalberi (assegnista di ricerca presso la cattedra di Pedagogia sociale e del lavoro), Veronica Pravadelli (docente di Teoria del cinema e Metodologie di analisi del film), Monica Schneider (volontaria del Servizio civile presso l’Ufficio studenti con disabilità), Maria Rosaria Stabili (docente di Storia dell’America Latina), Eva Wiberg (vice-preside delle Facoltà umanistiche e teologiche, Università di Lund) Immagini e foto Arianna Campanelli, Alessandra Ciarletti, Claude Coldy ©, Laurent Denimal ©, Giuseppe Distefano ©, Beni Köhler ©, Anne Leibovitz ©, Romano Siciliani, Stefano Socchetti ©, www.ilcorpodelledonne.net, www.josefaidem.info, www.sorelleditalia.net Progetto grafico Magda Paolillo Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma 06 64561102 - www.conmedia.it Impaginazione e stampa Tipografia Gimax di Medei Massimliano Via Valdambrini, 22 - 00058 Santa Marinella (RM) - Tel. 0766 511644 Copertina In copertina: Coco Chanel, Rita Levi Montalcini, Shirin Ebadi, Ilaria Alpi, Roberta Lanzino, Anna Magnani, Maria Callas, Alda Merini, Vera Vigevani Jarach, Brigitte Bardot, Ayaan Hirsi Ali, Frida Kahlo. Elaborazione grafica di Francesco Martellini. Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico Finito di stampare aprile 2010 Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998


Gender come cultura di Anna Lisa Tota

Questo numero di Roma Tre News è dedicato al gender, un tema affascinante, ma anche in qualche misura controverso. Il termine gender, infatti, contiene e riflette ambivalenze, risveglia in uomini e donne universi di senso e immaginari assai diversi. Le donne che oggi sono quarantenni, hanno fatto spesso molta fatica a collocarsi rispetto alla riflessione dei gender studies, schiacchiate dall’autorevolezza delle donne delle generazioni precedenti, che apparivano quasi come delle sorelle maggiori, distanti e irraggiungibili, proprio a causa della loro stessa militanza nei movimenti femministi del Sessantotto. Con le donne delle generazioni precedenti la trasmissione dell’eredità femminista in qualche modo si è inceppata: noi apparivamo loro “qualunquiste e asservite al patriarcato”, perché prendevamo le distanze da un movimento che, di fatto, non conoscevamo nemmeno. Loro desideravano invece trasmetterci il valore di quell’esperienza intellettuale e il significato di quella militanza politica, senza ottenere da noi il riconoscimento che si aspettavano. Abbiamo dovuto faticosamente - soprattutto nel panorama italiano - ritagliarci un nostro percorso, una nostra strada di riflessione che ci permettesse di guardare e pensare al genere con autorevolezza, anche se non provenivamo da quella stessa matrice. Tuttavia questi dubbi, queste difficoltà nel collocarsi e nel prendere posizione riguardano spesso anche le nuove generazioni di donne e uomini che si trovano in università a insegnare e studiare questioni legate al gender. Sembra quasi che per studiare o lavorare su queste tematiche sia necessaria un’assunzione di responsabilità o una presa di posizione esistenziale, che invece non è richiesta (o lo è in misura inferiore) per studiare, ad esempio, il razzismo o la multiculturalità. Come mai il gender continua ad essere un tema tanto complesso e delicato, rispetto al quale occorre misurarsi/identificarsi/prendere posizione e/o distanza? Non è una questione banale questa, ma un nodo comunicativo e identitario da cui non si può prescindere, quando parliamo di gender. Quante volte abbiamo sentito la frase: «sì mi occupo di gender studies, di feminist media studies, di film studies, ma non sono femminista». In qualsiasi delle sue molteplici varianti, questa affermazione articola ed esprime un’ambivalenza che non possiamo ingenuamente liquidare come individuale, perché non lo è affatto. Essa riflette un modo “pubblico” e consolidato di guardare a queste questioni. Quest’ambivalenza prende le sue mosse e nasce nelle pieghe del discorso pubblico sul genere, così come si configura nel panorama italiano. Questa non è un’affermazione valutativa. Io appartengo certamente all’insieme delle donne intellettuali che, pur scrivendo libri sul gender, danno voce a un senso di non appartenenza rispetto a certe anime del femminismo più autorevole e consolidato. Questa posizione peraltro non può essere indiscriminatamente generalizzata, anche se illuminante di una modalità pubblica degna di essere tematizzata. È come se nel discorso pubblico nazionale rispetto al gender qualcosa non avesse funzionato. È come se parlare di gender fosse di per sé un po’ sempre problematico o almeno non così scontato. Il genere “fa problema”. È come se quella preziosa tradizione, quell’imprescindibile patrimonio di esperienze di queste nostre sorelle maggiori, che hanno fatto il Sessantotto dalla parte del femminismo e che hanno visto talora segnate le lo-

ro vite personali e le loro carriere intellettuali dal coraggio e dalla coerenza delle loro scelte morali e politiche, non siano stati trasmessi adeguatamente, non si siano iscritti nel discorso pubblico. Ma come è possibile che un documentario bellissimo - come quello di Lorella Zanardo scuota così tanto le coscienze di tutte noi? Alla fine dice cose semplici e ovvie che dovrebbero essere parte normale della nostra coscienza civile. Questa non è una critica al documentario, ma una presa di coscienza dell’inquinamento mediale, a cui sembriamo essere ormai tutti assuefatti. I corpi, i nostri corpi di donne e di uomini - quei corpi che attraversano nel quotidiano la nascita, la vita, la malattia, la sofferenza, il piacere, la gioia, il parto, la sessualità, l’amore, la morte - sembrano diventati involucri svuotati dell’autonomia di senso e della dignità che dovrebbe loro competere. È quasi un grido di dolore quello della Zanardo quando ci ricorda la dignità delle nostre rughe, quando ci rammenta che sono le rughe quelle che restituiscono l’unicità, la saggezza e l’individualità di un volto. Non desidero certamente ridurre le grandi questioni frequentate dai gender studies a una “sociologia delle rughe”, ma queste questioni ci colpiscono così profondamente perché alludono a una grammatica dei corpi con cui ci dobbiamo quotidianamente confrontare. Il discorso pubblico in Italia rispetto ai temi posti dai gender studies (e precedentemente dai women studies) è stato poco ricettivo e talora deludente. E allora dobbiamo parlare di gender con urgenza, facendo appello alle nostre diverse competenze intellettuali (dalla comunicazione alla storia dell’arte, dall’economia politica ai film studies, dalla storia contemporanea al diritto internazionale, dall’architettura alla medicina). In questo numero abbiamo dato voce a molte studiose e studiosi, che si occupano di queste tematiche da anni e che lo fanno da molteplici prospettive. Abbiamo ospitato l’esperienza di alcuni artisti che con il loro lavoro contribuiscono a diffondere nuove concezioni della corporeità e del gender. Penso al lavoro di Emma Dante nello spettacolo Le pulle o al contributo di danzatori come Claude Coldy, che lavorano sul corpo e sulla sua capacità di entrare in relazione con il mondo circostante. Incarnare la riflessione sul gender nei corpi e nelle pratiche corporee è un modo importante per ricordarci che è nel quotidiano delle nostre vite che diamo forma al nostro essere donne e uomini e che, in fondo, il modo in cui decidiamo di esserlo influenza i nostri rapporti famigliari, affettivi, sentimentali, professionali e intellettuali. Esso decide della nostra posizione nel mondo. Un tempo si diceva che il gender è un destino. Sicuramente in parte ciò continua ad essere vero, soprattutto in certe aree del mondo e rispetto a certe dimensioni dell’esistenza, come quella della maternità. Il gender corrisponde a una modalità importante, per distinguere fra posizioni identitarie nel mondo. Una delle prime alterità con cui ci incontriamo - o scontriamo - è quella dell’altro genere (il maschile, il femminile) e questo è un aspetto che viene fortemente sottovalutato. Il genere in definitiva è una cultura o meglio corrisponde a un insieme di culture che, come tali, sono incommensurabili. Tale incommensurabilità è inscritta soltanto parzialmente nel discorso pubblico nazionale che soprattutto in ambito mediale - del genere sembra voler cogliere e sottolineare soltanto alcune dimensioni assai parziali, come quella della sessualità ad esempio, che pur essendo centrale, non può divenire l’unico luogo in cui declinare le differenze, perché ciò finisce per costruire un falso. Nel 1991 Sabrina Salerno e Jo Squillo cantavano a Sanremo una canzone che si intitolava «Siamo donne. Oltre alle gambe c’è di più»: viene da chiedersi se a qualcuno sia rimasto ancora qualche dubbio…


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Imparare a cambiare La nostra società e i processi di discriminazione

primo piano

di Laura Balbo

Sui limiti e le distorsioni zione (di qualunque sistema organizzativo si tratti). La delle nostre “democrasoluzione ideale. Si è realizzato un criterio semplice e a zie”, con riferimento in lungo ben difeso: annullare ogni possibilità di presenza particolare alle discrimie di voce per una considerevole parte della popolazione: nazioni di genere e alla con la parte femminile è già una metà che viene esclusa; “cittadinanza segmentae non solo le donne, ma anche i “neri”, i colonizzati. ta”, come è stata definita, Credo che da adesso in avanti non ci si riuscirà più. hanno scritto politologi, Con resistenze, con difficoltà, certo; però ci siamo avstorici, filosofi, sociologi. viati a cambiare. Ma teniamo comunque presente queE altri individui e gruppi sto: così sono andate le cose fino a che si è potuto. Poi, sociali sono colpiti da una volta costretti a selezionarne alcuni/e e ad ammetpratiche, e norme, e una terli/e nelle istituzioni politiche, o in certi settori del cultura complessiva, ostimondo del lavoro e nelle posizioni “alte” delle profesli e stigmatizzanti: gli Laura Balbo omosessuali, i disabili, “Detentori esclusivi del potere, varie categorie di persone che a volte si definiscono coe anche onorati, visibili, sono stati me “gli ultimi”. degli uomini: gli imperatori, i papi, Duri e visibili gli effetti di un vivere segnato da pregiudizi e regole di esclusione e, in non pochi casi, da coni condottieri; ma anche scrittori, flitti tra “noi” e gli “altri”, i non-noi. artisti e via via nei vari ambiti Nella storia dell’umanità innumerevoli, ricorrenti testidella vita sociale” monianze. Eventi dolorosissimi, atroci. Se guardiamo sociologicamente a questi dati, c’è una chiave di lettura “ovvia”: dovremmo proprio partire da sioni si pongono in essere complessi e sottili meccanilì. Una parte (limitata) della popolazione ha il pieno smi per mantenere differenze e gerarchie. Pierre Bourcontrollo delle ricchezze, del potere, delle decisioni: non dieu ha messo a fuoco il tema delle barriere. Ci sono accetta l’idea di condividerle. Nell’arco di molti secoli e meccanismi che hanno la comune funzione di segnare anzi millenni, questa ipotesi non si è posta proprio. confini tra il dentro e il fuori. Ha descritto in questa Detentori esclusivi del potere, e anche onorati, visibili, chiave il mondo della politica e il ruolo dei media: la tesono stati degli levisione natuuomini: gli imperalmente e gli ratori, i papi, i esperti di soncondottieri; ma daggi, sono i gaanche scrittori, tekeepers, cioè artisti e via via fissano i criteri e nei vari ambiti i meccanismi che della vita sociale. ammettono e leEscludere, sulla gittimano (o vibase di principi ceversa lasciano sanciti da consoai margini, nelidate tradizioni gano legittimità ma anche dal die rilevanza) voritto, le donne o ci, temi, priorità. gli appartenenti a Sono, questi conminoranze etnitrollori della coche e razziali, ha municazione, designificato semtentori di potere plificare tutta una - indiretti, ma di serie di problemi. fondamentale Da sociologa os- Cosa succederebbe se i quattro milioni e mezzo di immigrati che vivono in Italia importanza - nel servo questo: è decidessero di incrociare le braccia per un giorno? Il 1° marzo scorso si è svolto uno campo della poun criterio che sciopero inedito, gemellato da un’analoga iniziativa francese. Sopra le locandine delle due litica. realizza un effi- manifestazioni gemelle. Oggi il peso di «Stranieri non tanto dal punto di vista anagrafico, ma perché estranei al clima di razzismo cace meccanismo che avvelena l’Italia del presente. Autoctoni e immigrati, uniti nella stessa battaglia di questo meccanidi funzionamento civiltà». Così recita lo slogan sull’homepage del comitato 1° marzo 2010, organizzatore smo nella costruzione del discordell’organizza- dell’iniziativa italiana.


so pubblico e dell’agenda politica, il gatekeeping, è largamente riconosciuto. E ci si interroga sugli interessi economici, le relazioni a livello internazionale, le strumentazioni tecnologiche, ma anche sul circuito tra sedi della politica, centri di potere nel mondo della comunicazione, opinione pubblica: tutto questo è visto in relazione al funzionamento o alla “crisi” della democrazia. Ma c’è molta retorica. Facciamola questa constatazione: riconosciamoci, al presente, parte di società di disuguaglianze, di non-pari opportunità, “razzializzate”. Italiani, europei: che cosa significa È l’immagine di un “sistema gerarchico” quella che mi sembra la più adeguata. Osserviamo questo sistema gerarchico considerando - per esempio nella società italiana - le tante presenze di “immigrati”. La parola la metto tra virgolette, perché sono persone che in alcuni casi vivono in Italia da lunghi anni, altri da meno, altri arrivati da poco. Alcuni nati qui. Alcuni da regioni dell’Europa, altri da una varietà di paesi e situazioni del mondo globale. Donne e uomini. Di diverse appartenenze religiose.

“Pierre Bourdieu ha messo a fuoco il tema delle barriere. Ci sono meccanismi che hanno la comune funzione di segnare confini tra il dentro e il fuori” Sono bilingui, parlano l’italiano (bene o meno bene: comunque lo stanno imparando). Hanno un livello di istruzione elevato, oppure no. Ci sono quelli che ci servono (una varietà di lavori, perlopiù in nero, molti di loro: c’entriamo noi, è chiaro). Quelli con i quali è più facile stabilire una relazione mentre altri, davvero, li sentiamo “diversi”. E ci sono quelli, moltissimi, che restano largamente invisibili: non ce ne accorgiamo, e ci servono (quindi questa parte tutto sommato va bene). Dei lavoratori e delle lavoratrici invisibili abbiamo molto bisogno, questo lo dicono tutti. Il punto è che siamo NOI a decidere, a costruire la piramide delle gerarchie e NOI siamo collocati al livello più alto, certo. Racial (o ethnic) profiling è l’espressione inglese e la scelgo perché - rispetto a “stereotipi”, “pregiudizi”, “luoghi comuni” - aggiunge qualcosa che non è di importanza secondaria. Siamo NOI i soggetti di questa pratica, li costruiamo noi i profili. Pensiamoci un momento, anche con un po’ di ironia: in strada, nella metropolitana, in una piazza o seduti in un caffè incontriamo persone che non conosciamo. Consapevoli o meno, ci viene “naturale” di costruire i profili. E nella nostra società “multimulti” organizziamo rapporti e pensieri con riferimento, appunto, a questi profili. Una inevitabile pratica della vita quotidiana.

Ci sono quelli che ci stanno simpatici, soprattutto i bambini, quasi tutti, così carini, anche quelli che si capisce che sono “stranieri”. Facciamo un veloce sorriso a loro e magari anche a chi li tiene in braccio. Abbiamo preferenze, scegliamo. Sociologicamente ovvio. Anche loro, è ovvio, costruiscono profili osservandoci. Non posso non farmi domande su come ci vedono e ci giudicano gli altri, i moltissimi altri del mondo in cui tutti oggi viviamo. Ma soprattutto mi interessa chiedermi come funzioniamo noi in questi processi.

“Escludere, sulla base di principi sanciti da consolidate tradizioni ma anche dal diritto, le donne o gli appartenenti a minoranze etniche e razziali, ha significato semplificare tutta una serie di problemi” Altrettanto importante mi sembra riconoscere che non ha proprio senso guardare a condizioni sociali e processi di cambiamento mettendo al centro noi europei (o ancora in modo più limitante, noi italiani). Due frasi per darci una collocazione adeguata ai tempi che viviamo. Rosi Braidotti ci sollecita a considerare l’Europa «come una periferia tra le altre, una particolare periferia». E ancora: «conoscere l’altrove dell’Occidente è un modo diverso di essere nella modernità», così Ian Chambers. Riflettere su tutto questo non può che farci bene. Facciamolo. Se no si resta bloccati entro barriere: di conoscenza, di percezione, di simboli. E aggiungo: per conoscere, per capire, c’è da lavorare. Non so dirlo in altro modo: di queste esperienze, facciamone una parte del nostro quotidiano lavorare. Per imparare a cambiare.

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bell hooks: elogio del margine di Fulvia Vitale

«My hope emerges from those places of struggle where I witness individuals positively transforming their lives and the world around them. Educating is always a vocation rooted in hopefulness. As teachers we believe that learning is possiFulvia Vitale ble, that nothing can keep an open mind from seeking after knowledge and finding a way to know». Queste le parole che riassumono il pensiero di bell hooks, pseudonimo di Gloria Jean Watkins, autrice afroamericana che impersona una delle figure di punta del femminismo e del pensiero radicale statunitense. Gloria Jean Watkins nasce il 25 settembre 1952 a Hopkinsville, Kentucky. Cresce in una povera famiglia appartenente alla classe operaia, il padre è custode e la mamma casalinga, ha cinque sorelle e un fratello, ed è proprio da queste origini umili che bell trarrà la sua forza di pensatrice e attivista. La sua prima educazione ha luogo in scuole pubbliche e razzialmente segregate e in seguito scriverà delle grandi avversità incontrate nel passaggio a una scuola integrata, con studenti e insegnanti prevalentemente bianchi. Già dall’infanzia bell hooks impara a conoscere sulla propria pelle il fenomeno della segregazione razziale, caratterizzata dalla separazione di razze differenti nella vita quotidiana, separazione idonea a produrre tensioni sociali, economiche e politiche e, sebbene finalmente in declino, è bene considerare che tutt’oggi negli Stati Uniti, trent’anni dopo le battaglie per i diritti civili, neri, bianchi e ispanici vivono in quartieri differenti. Nel 1983, dopo molti anni di scritti e insegnamento, completa il suo dottorato presso il dipartimento di Letteratura dell’Università della California con una dissertazione su Toni Morrison. La sua carriera di insegnante inizia nel 1976 e, come una vera e propria vocazione, la porterà avanti negli anni a seguire fino ad affermarsi come distinguished professor di inglese presso il City College di New York. Inoltre la sua grande passione per la scrittura la condurrà alla pubblicazione di oltre trenta libri, due dei quali sono tradotti anche in italiano, e sono forse quelli che meglio rappresentano il suo pensiero: Elogio del margine

e Tutto sull’amore. Importanti e suggestivi sono inoltre i suoi numerosi saggi di teoria e critica culturale. La posizione privilegiata che occupa attualmente nella collettività non le ha fatto dimenticare da dove proviene. E infatti il suo punto di osservazione della società americana si colloca ancora al “margine”. Da qui esamina e critica le discriminazioni sociali e di genere, il ruolo dei mass media e soprattutto, oggetto delle sue considerazioni, sono le discriminazioni in materia di sessualità e di conseguenza i rigidi schemi che indeboliscono il ruolo delle donne e in particolar modo delle donne nere. Interessante a tal proposito citare un passo della sua opera Elogio del margine in cui sostiene che «razzismo e sessismo sono sistemi interconnessi di dominio che si rafforzano e si sostengono a vicenda». Sebbene le sue analisi siano pregne di logica intellettuale e scaturiscano da lunghi studi, bell desidera principalmente porsi come militante, memore delle esperienze che in giovinezza la avevano avvicinata a movimenti quali il femminismo, il movimento nero, la sinistra marxista: questi movimenti compongono il bagaglio del quale bell hooks si serve per parlare alla gente di temi tanto ordinari, quanto irrisolti. Nei suoi libri spicca l’importanza che bell dà alla pedagogia, ai processi educativi e quindi all’istruzione, come modalità per superare le discriminazioni e l’ignoranza che le provoca. Queste riflessioni sono spesso mescolate a ricordi personali di infanzia ed esperienze di vita reale, per rendere più semplice l’approccio della gente comune a queste tematiche. La sua produzione è stata influenzata da psicologi come Erich Fromm, e i suoi valori e principi si ispirano a leader dei diritti civili come Martin Luther King e attivisti nel campo dei diritti umani e difensori del Gloria Jean Watkins cambiò il suo popolo afroa- nome anagrafico in bell hooks. bell mericano co- come la madre Rosa Bell Watkins e hooks come la nonna materna Bell me Malcom X. Blair Hooks.


«Somos todas presidentas» L’esperienza di Michelle Bachelet, presidente del Cile di Maria Rosaria Stabili

«La transizione politica si è finalmente conclusa e oggi entriamo nel nuovo millennio»; «Comincia un tempo nuovo»; «Abbiamo ormai chiuso con l’autoritarismo». Ecco alcune affermazioni delle giovani donne che il 15 gennaio 2006 sfilano allegramente nelle strade di Santiago per celebrare la vittoria di Michelle Bachelet, prima donna presidente Maria Rosaria Stabili nella Repubblica del Cile. Tutte quante indossano la fascia presidenziale che si vende in migliaia di esemplari e gridano lo slogan: Somos todas presidentas. È la stessa Bachelet a dare un primo segnale di novità. Subito dopo i risultati elettorali che la consacrano vincente con quasi il 54% dei consensi, la presidente eletta appare in pubblico avendo accanto la madre e i figli, ma nessun esponente istituzionale e neanche un rappresentante dei partiti della coalizione di centro-sinistra, la Concertación, che ha sostenuto la sua candidatura. Sono immagini fortemente simboliche, che pongono alcune domande e suggeriscono alcune considerazioni. Innanzitutto, qual è il senso del processo che ha reso possibile la presenza, significativa, di una donna al centro della scena politica

“La Presidente eletta appare in pubblico avendo accanto la madre e i figli, ma nessun esponente istituzionale e neanche un rappresentante dei partiti della coalizione di centro-sinistra” nazionale? Si può davvero sostenere, con qualche fondamento, che un tempo nuovo si apre con l’elezione a capo dello Stato di Michelle Bachelet? Quali sono le tensioni che segnano e attraversano il “tempo nuovo” proclamato dalle sue sostenitrici? Cosa rende possibile, dopo una prima fase di governo segnata dall’affievolirsi dell’entusiasmo, un calo di consenso, una sorprendente rimonta che le consente di arrivare oggi, alla fine del suo mandato, con un favore popolare che sfiora l’85%? Come si spiega che la Concertación para la democracia, cioè la coalizione di partiti che l’ha sostenuta durante il suo mandato, registri oggi livelli bassissimi tanto da veder sconfitto il proprio candidato presidenziale nel secondo turno elettorale del 17 gennaio 2010? Sebastian Piñera, candidato di una coalizione di partiti della destra, già battuto da

Michelle nelle elezioni precedenti, è ora il nuovo presidente. Rispondere a queste domande non è agevole. Nello scenario politico cileno d’inizio millennio, dopo una lunga transizione dal terribile regime militare di Pinochet a un sistema politico

“Le donne cilene scendono in strada nel pomeriggio del trionfo di Michelle Bachelet, con la banda presidencial sul petto: vogliono dimostrare che la persona sul punto di assumere il più elevato incarico istituzionale è una di loro” democratico, la sua affermazione assume uno straordinario rilievo simbolico. Ma chi è Michelle Bachelet? È la figlia di un generale dell’Esercito rimasto fedele, dopo il golpe militare del 1973, ai valori democratici, torturato e ucciso dai militari golpisti. È una giovane studentessa di medicina e militante socialista clandestina, sopravvissuta, insieme alla madre, a Villa Grimaldi, uno dei più terribili centri di tortura del regime; è un’esiliata che, rientrata in patria appena possibile, si laurea, diventa madre single e partecipa alla resistenza e alla lotta per la difesa dei diritti umani mentre presta la sua opera come pediatra a favore delle piccole vittime della dittatura. È una donna schiva, che coltiva il suo lavoro quotidiano e il suo impegno sociale lontana dalle luci della ribalta politica cilena degli anni Novanta su cui si muovono molti ex-compagni, ex-esiliati, ex-detenuti politici che durante i governi di centro-sinistra gestiscono potere e cercano riflettori che li illuminino. Così, gradualmente, costruisce la sua diffusa popolarità: una donna impegnata nel settore pubblico come medico, specializzata sui problemi della difesa nazionale grazie a studi post-universitari nel campo delle Scienze militari, impegnata a ricostruire l’unità dei cileni dopo la frattura traumatica degli anni della dittatura. Nel 2000, durante il governo del socialista Riccardo Lagos, come ministro della Salute comincia a erodere il monopolio dei privati gettando le basi di un sistema sanitario nazionale efficiente e gratuito per i meno abbienti; poi, come ministro della Difesa, collabora con il presidente della Repubblica al fine di indurre le Forze armate a superare l’influenza nefasta dell’ex dittatore, a riscoprire al loro interno i valori della democrazia e a entrare in contatto con il resto del paese. La personalità di Michelle Bachelet diventa lentamente, per la gente comune, anche un simbolo della capacità di resistenza a gravi avversità e della capacità di salvaguardare vitalità, ottimismo e disponibilità sino a trasformarsi in un esempio di forza carismatica per tutta la cittadinanza.

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Tuttavia la spiegazione del perché una donna, per quanto eccezionale, riesca a diventare la prima presidente della Repubblica di un paese che mostra ancora alcuni segni del periodo autoritario, non può limitarsi soltanto a considerazioni congiunturali ma deve guardare anche al più lungo periodo della storia cilena. E questa storia racconta che organizzazioni di donne di destra e di sinistra hanno animato lo scenario politico del paese perlomeno a partire dalla fine del-

“Ma chi è Michelle Bachelet? È una giovane studentessa di medicina e militante socialista clandestina, sopravvissuta, insieme alla madre, a Villa Grimaldi, uno dei più terribili centri di tortura del regime” l’Ottocento e il movimento suffragista della prima metà del Novecento ha visto anche la creazione di un partito femminile. Va soprattutto ricordato il lungo, quotidiano impegno sociale delle donne durante tutti i diciassette anni della dittatura di Pinochet. Esse sono state protagoniste di molte iniziative nei quartieri poveri più colpiti dalla crisi economica dei primi anni Ottanta e dalle politiche repressive del regime. Sono le donne che attivano e dirigono le cosiddette “organizzazioni economiche popolari” e che sono le protagoniste delle associazioni in difesa dei diritti umani. Agli inizi degli anni Ottanta, in piena dittatura, le attiviste di un forte movimento femminista elaborano progetti di “ricerca-intervento” finanziati da organismi e fondazioni internazionali che le vedono impegnate in una molteplicità di azioni di empowerment delle donne dei settori popolari. Ed è proprio la rete femminile/femminista sorta in questi anni, composta da donne provenienti da diversi gruppi sociali e portatrici di professionalità molteplici, che permetterà la candidatura “dal basso” della Bachelet. Ovviamente non va trascurato il clima generale creatosi in Cile dopo quindici anni di transizione democratica. I successi macroeconomici dei primi tre governi della transizione, in continuità con la politica del regime militare, evidenziano le luci e le ombre del nuovo ordine economico e sociale. La maggioranza dei cileni prende coscienza del fatto che ha pagato e continua a pagare un prezzo molto alto per i successi macroeconomici mentre i risultati personali sono mediocri, lontani dalle aspettative che il libero mercato faceva sperare. I cileni cominciano a percepire la propria fragilità; aumenta la tristezza per la mancanza di vincoli disinteressati che mitighino le incertezze e confortino in caso di difficoltà; cominciano a porsi nuove domande. Anche per questo, forse, la maggioranza dei cileni vota la Bachelet: hanno bisogno di una leader più concreta e quotidiana, meno dirigista e più conciliante, meno autoritaria e più partecipativa, meno impegnata sul fronte delle politiche strutturali e più attenta al benessere delle persone. Bachelet colloca la questione sociale al centro della campagna presidenziale, sino a fare del tema delle disuguaglianze dei redditi, risorse e opportunità uno dei punti qualificanti del suo programma di governo. La rete di protezione sociale diventa la principale proposta programmatica della candidata

che articola in una serie di priorità necessarie: a) aumentare gli investimenti nell’istruzione pubblica e migliorarne la qualità; b) compiere «un balzo gigantesco nella protezione sociale» mediante una profonda riforma del sistema assicurativo, destinato a consentire migliori pensioni, indennità di disoccupazione più generose e standard minimi di assistenza medica per tutti; c) garantire una continuità nella politica economica per procedere verso uno sviluppo basato sulla serietà e sull’equilibrio budgetario; d) modificare il sistema elettorale e procedere a una riforma dello Stato orientata verso la trasparenza e il decentramento. A tutto questo, si somma un forte impegno in direzione di una tutela dei diritti delle donne e la promessa di un governo con partecipazione paritaria dei due generi. Come abbiamo già ricordato, le donne cilene scendono in strada nel pomeriggio del trionfo di Michelle Bachelet, con la banda presidencial sul petto per esternare il loro desiderio di un trasferimento di potere dalle élites ai cittadini, secondo l’orientamento che si era andato sempre più rafforzando nel corso della campagna e dimostrare che la persona sul punto di assumere il più elevato incarico istituzionale è “una di loro”. Cominciano così i quattro anni che mettono a dura prova la capacità di Michelle e della Concertación di conservare quell’entusiasmo e quell’adesione popolare mentre il governo è impegnato nella difficile impresa di non venir meno alle aspettative suscitate durante la campagna presidenziale, a dispetto degli ostacoli rappresentati dalla persistenza di una struttura socioeconomica ancora caratterizzata da forti disuguaglianze e da un quadro istituzionale sempre viziato dal predominio delle vecchie élite. Sono le prime azioni del nuovo governo che vuole introdurre elementi di discontinuità verso il passato a produrre i primi timori iniziali in una parte dell’elettorato della presidente e a far riemergere fra i suoi compagni di coalizione rigurgiti di maschilismo, solo faticosamente tenuti a bada durante la campagna elettorale. La Bachelet forma il suo primo gabinetto ministeriale senza tener conto dei suggerimenti e delle pressioni che vengono

Mujeres en la memoria. Il monumento, realizzato a Santiago del Cile nel 2006 ricorda le donne vittime della dittatura cilena


dalle segreterie dei partiti della Concertación (che sono informati della lista dei ministri soltanto qualche minuto prima della conferenza stampa) e senza risparmiare altre sgradevoli sorprese ad alcuni dei suoi più vicini sostenitori durante la campagna elettorale che non ottengono nessun dicastero. D’altra parte non sente di dover nulla ad alcun partito politico e mantiene la promessa di una composizione ministeriale che rispetta nei numeri la parità di genere e la presenza di una nuova generazione. Purtroppo, tra i ministri, alcuni volti nuovi e alcune figure femminili non spiccano per esperienza politica né per particolari capacità di gestione dei rapporti istituzionali che si profilano inevitabilmente complessi. Il processo Michelle Bachelet di “pensionamento” politico di alcuni esponenti di rilievo della maggioranza cui dà avvio crea però subito difficoltà e rende necessario un primo rimpasto dopo soli quattro mesi dall’insediamento. Il programma di riforme sociali che prevede numerose iniziative per favorire una maggiore redistribuzione del reddito e misure incisive di protezione sociale, non favorisce certo la simpatia dei circoli economici e finanziari che esprimono senza mezzi termini il loro dissenso e si muovono in modo da rallentare notevolmente la marcia delle iniziative previste. L’apparente incapacità del governo a procedere speditamente nella direzione annunciata scatena alla fine anche l’insofferenza sociale. Da un lato, si chiede alla Bachelet di essere la “grande madre” del Cile e dall’altro si esige da lei che “si metta i pan-

taloni” e assuma un piglio autoritario tutto maschile, nello stile del presidente che l’ha preceduta. In realtà, si è alla presenza di una serie di nodi connessi a una crisi di rappresentatività del sistema politico, dovuta anche agli elementi di continuità profonda con il passato rimasti in sonno durante i primi quindici anni di transizione democratica. Michelle decide di resistere e affronta di petto i primi due anni di “disorientamento” non lasciandosi distogliere dalle pesanti critiche. Così dopo vari rimpasti della compagine governativa e alcune concessioni alle segreterie dei partiti, riesce a prendere in mano la situazione e a realizzare tutti i punti del suo programma relativi alla questione sociale. L’oculata gestione degli enormi introiti derivanti dall’alto prezzo del rame sul mercato internazionale (il Cile è il primo produttore mondiale di questa materia prima) le permette, da un lato, di contenere la crisi economica internazionale (che tocca solo tangenzialmente il paese) tanto da guadagnarsi il rispetto dei circoli economici che inizialmente si erano opposti alla sua politica e, dall’altro, di finanziare i suoi programmi sociali. Il riconoscimento del suo ruolo “equilibratore” in politica estera, soprattutto a livello regionale, completa il quadro del suo successo sul finire del mandato, che spiega l’altissimo

“Agli inizi degli anni Ottanta, in piena dittatura, le attiviste di un forte movimento femminista sono impegnate in una molteplicità di azioni di empowerment delle donne dei settori popolari. È proprio la rete femminile/femminista sorta in questi anni che permetterà la candidatura dal basso della Bachelet” consenso, quasi plebiscitario, con cui riesce a concludere il suo periodo presidenziale. È un successo personale, suo e del gruppo di giovani donne e uomini che l’hanno accompagnata; mentre la coalizione di partiti che costituiva la sua maggioranza annega in una crisi profonda e dopo vent’anni di governo ininterrotto, è costretta a cedere le redini del potere a quelli che sono definiti i “nipotini di Pinochet”. Un passo indietro, dunque. Ma la storia non segue mai un percorso lineare e progressivo. Ed è forse troppo presto per valutare il senso e soprattutto il “segno di genere” che il governo di Michelle Bachelet lascia dietro di sé e nella storia politica del Cile.

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Il rovescio della tela Tra Penelope e Ulisse ovvero andare oltre Penelope di Francesca Brezzi

Il l5 novembre 2009 è nato ufficialmente - con la presentazione in Campidoglio - l’Osservatorio di studi di genere, parità e pari opportunità per iniziativa delle tre università statali di Roma: La Sapienza, Tor Vergata e Roma Tre e fortemente voluto dalle delegate dei Rettori (Marisa Ferrari Occhionero, GaFrancesca Brezzi briella Giganti, Elisabetta Strickland e la sottoscritta) e dagli stessi Rettori Guido Fabiani, Luigi Frati, Renato Lauro.

“L’Osservatorio segue le indicazioni dell’Unione Europea che ha sempre considerato la promozione delle pari opportunità una delle priorità della propria politica sin dalla sua creazione, destinata a divenire una politica globale da applicare a ogni contesto” Il proposito e l’idea sono nati alcuni anni fa e si sono dovute superare molte difficoltà contenutistiche e burocratiche per arrivare a questo primo risultato. Difficoltà contenutistiche dovute al fatto che la realtà universitaria italiana ignora ufficialmente tale ambito di ricerca, così fiorente nel mondo anglosassone, ma anche in Francia e Germania, paesi in cui gli studi sulle donne hanno conquistato dignità scientifica e statuto ben definito. Laddove in Italia esistono pochissime cattedre riconducibili agli women’s studies e questi argomenti sono trattati solo se inseriti in discipline tradizionali, legati al “momentaneo” interesse del/della docente, sostanzialmente marginali o sommersi. L’importanza dell’iniziativa, pertanto, si manifesta per molti aspetti. Innanzitutto si tratta di un’impresa che vede unite tre importanti università del nostro territorio, che già da tempo hanno intrapreso una fruttuosa e intensa collaborazione su molteplici temi d’interesse scientifico e attinenti a differenti discipline accademiche. Sinergie che sono sfociate nella organizzazione di convegni e altri eventi, come, ad esempio, è stato per il convegno internazionale dell’ottobre 2007 su pari opportunità e diritti umani, che ha riscosso un apprezzabile successo, offrendo contenuti molto rilevanti, verificabili nel

volume uscito nell’aprile scorso presso la casa editrice Laterza University Press e presentato il 5 novembre con una lectio di Elena Paciotti. In secondo luogo, l’Osservatorio si pone sulla scia di molte altre università europee e segue le indicazioni dell’Unione Europea che ha sempre considerato la promozione delle pari opportunità (in particolare quella tra donne e uomini) una delle priorità della propria politica sin dalla sua creazione, destinata a divenire una politica globale da applicare a ogni contesto. Da qui deriva l’obiettivo principale dell’Osservatorio di promuovere lo studio e la ricerca sulle tematiche di genere, su parità e pari opportunità, pensiero femminile e storia delle donne, presenza e rappresentanza femminile nella società, al fine di contribuire a una maggiore diffusione e comunicazione delle iniziative intraprese nei diversi contesti universitari e istituzionali. Nello specifico l’Osservatorio si propone sia come un progetto critico che mette in discussione le forme di discriminazione ed esclusione che la cultura perpetua, sia un progetto creativo che apre spazi alternativi all’autorappresentazione e autodeterminazione intellettuale delle donne. L’Osservatorio pertanto favorirà incontri, seminari e convegni a livello nazionale, europeo e internazionale, realizzando una collaborazione interdisciplinare fra docenti ed esperti e articolando un confronto nelle diverse aree umanistiche e scientifiche. Sono infatti già in atto progetti di ricerca e/o editoriali anche in partnership con altre istituzioni italiane e europee nell’ambito dei programmi della UE, nonché con istituzioni internazionali, dal momento che uno degli scopi principali dell’Osservatorio è la costituzione di reti di rapporti con associazioni, istituzioni, servizi pubblici e privati, finalizzati allo scambio e alla circolazione di informazioni e alla progettazione di interventi.

“L’avventura dell’Osservatorio è un viaggio tra Penelope e Ulisse, ovvero un andare oltre Penelope: se Penelope indica una sapienza incarnata cioè di un fare e disfare, costruire e abbattere, il compito dell’Osservatorio sarà quello di guardare dietro la tela” In conclusione caratterizzerei l’avventura dell’Osservatorio come un viaggio tra Penelope e Ulisse, ovvero un andare oltre Penelope: se Penelope indica una sapienza incarnata cioè di un fare e disfare, costruire e abbattere, il compito dell’Osservatorio sarà quello di guardare die-


John William Waterhouse, Penelope e la tela, 1912

tro la tela. Se essa rappresenta in un certo senso la tradizione culturale in cui l’apporto femminile è assente, nascosto, misconosciuto o non riconosciuto nella sua autorevolezza, guardare il rovescio della tela significa cogliere i tanti fili ingarbugliati, direi i molti nodi, e scorgere anche l’intreccio di fili diversi, segni e cifre di lavori in corso. Il cantiere dell’Osservatorio, a cui invitiamo a parteci-

“Guardare il rovescio della tela significa cogliere i tanti fili ingarbugliati, i molti nodi, ma anche l’intreccio di fili diversi, segni e cifre di lavori in corso. Il cantiere dell’Osservatorio indica che il telos non è dissolutorio, ma propositivo” pare, indica che il telos non è dissolutorio, ma propositivo: senza venire meno al carattere di ricchezza di informazione, serietà e profondità di documentazione, sicura metodologia di ricerca, si vogliono destrutturare le divisioni disciplinari consuete e, insieme, offrire approcci diversi, procedimenti specifici che possono consentire anche riunificazioni dei saperi in maniera nuova, in nome della trasversalità o, come mi piace ripetere, per attuare una ‘indisciplina’ dei saperi. Qui ci soccorre Ulisse perché dobbiamo salpare senza porto in vista, inventare nuove trame, partendo solo alcuni frammenti - direi con inediti simboli e ricordando che il simbolo è il pezzo di

coccio dato come segno di riconoscimento - proponendoci nuovi traguardi da raggiungere. Da qui il valore della formazione, ovvero un modo diverso - non so se femminile - di fare ricerca: evitare chiusure, assolutismi o gerarchie di discipline, ma affidarsi non solo al nuovo, ma anche ad un opera paziente tuttavia autorevole di edificazione di quella università senza mura, di cui parla Virginia Woolf ne Le tre ghinee: una università dove i libri non siano legati con catene; non una università imbalsamata fatta di biblioteche, cappelle e musei, ma una scuola dove si impari a vivere, si insegni l’arte dei rapporti umani e la comprensione della mente.

Il Comitato Scientifico dell’Osservatorio Marisa Ferrari Occhionero, delegata alle pari opportunità della Sapienza Università di Roma Gabriella Giganti, delegata alle pari opportunità di Tor Vergata Elisabetta Strickland, socia fondatrice, già delegata alle pari opportunità di Tor Vergata Laura Silvestri, presidente CPO Tor Vergata Fabrizia Somma, presidente CPO Roma Tre Maria Chiara Turci, presidente CPO Sapienza Università di Roma Segreteria scientifica: Laura Moschini, Mariella Nocenzi Per ulteriori informazioni: www.genderunivobs.it, gender.obs@uniroma3.it

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Cinema, donne ed economia Da Alice Guy a Kathryn Bigelow di Veronica Pravadelli

Le ricerche degli ultimi dall’altro perché, proprio per questo motivo, le studiose, anni hanno ridisegnato la sin dall’inizio degli anni Settanta si sono prodigate a mappa del contributo e scavare in archivi e biblioteche e in anni più recenti si della partecipazione dei sono dedicate più numerose e con maggiore forza prosoggetti femminili alla storia del cinema. Le in“Il progetto internazionale Women formazioni e le dinamiche emerse ci consegnaFilm Pioneers attraverso la no un panorama secondo collaborazione di studiose/i di tutto il cui le donne hanno giocamondo sta redigendo un sourcebook di to un ruolo fondamentale, profili critici riguardanti le donne che addirittura primario, nei Veronica Pravadelli primi 20-25 anni del cihanno contribuito allo sviluppo del nema (1895-1920 circa). cinema nel periodo 1895-1931” In seguito il loro ruolo è stato secondario, certamente non ancillare, ma assai inferiore a quello maschile. È inprio allo studio del primo periodo del cinema. Va ricornegabile che l’unica professione in cui oggi le donne dato in questo ambito il progetto internazionale Women hanno una rilevanza pari a quella degli uomini è quello Film Pioneers che attraverso la collaborazione di studioattoriale-divistico. Incrociando storia, estetica ed econose/i di tutto il mondo sta redigendo un sourcebook di mia si possono tracciare i percorsi e le funzioni dei sogprofili critici riguardanti le donne che, nelle diverse figetti femminili all’interno dell’esperienza cinematogragure professionali, hanno fica. Ne esce un quadro contribuito allo sviluppo variegato in cui si notano del cinema nel periodo conquiste e arretramenti, 1895-1931. Si tratta di un cambiamenti e conferme, progetto globale che coincontinuità e rotture. volge tutte le donne, di Per le studiose di cinema qualsiasi paese del mondo, da alcuni anni il periodo di cui si abbia conoscenza, muto è fonte di grandi e che hanno lavorato in soddisfazioni. Grazie anparticolare nei ruoli di reche al lavoro degli archivi gista, sceneggiatrice, proe delle cineteche di tutto il duttrice e attrice, senza mondo il ritrovamento e il escludere le professioni restauro di pellicole consi“secondarie”. Uno sguardo derate perdute ha consenalla lista dei nomi indica tito di riscrivere per molti che di almeno la metà si versi le origini del cinema. erano perse quasi compleMentre evidentemente le tamente le tracce. Il pronuove scoperte riguardano getto include anche il conindifferentemente il convegno Women and the Sitributo di uomini e donne, lent Screen che si tiene la visibilità dei soggetti ogni due anni in un diverfemminili portati in superso paese: dopo gli incontri ficie appare maggiore, aldi Utrecht, Santa Cruz, meno per due motivi: da Montreal, Guadalajara e un lato perché sul lavoro e Stoccolma, quest’anno il l’opera delle donne la stoconvegno avrà luogo alria del cinema (scritta in l’Università di Bologna massima parte da uomini) Alice Guy Blanchet (1873-1968), la prima donna cineasta. La sua (24-26 giugno 2010). Voraveva operato una cancel- autobiografia La fée aux choux. Autobiographie d’une pionnière du rei rimarcare la natura lazione quasi sistematica, cinéma, (tr. it. Lestoille, Roma, 1979) fu pubblicata postuma nel 1976


globale del progetto, del sul controllo delle nascite e tutto in linea con le ricerche la contraccezione. Anche se più avanzate dei women’s e rimane la più rinomata e la gender studies: la globalità più prolifica, Lois Weber di questo progetto riguarda non è certo l’unica regista infatti sia gli oggetti che i americana del periodo. Gli soggetti dell’analisi. anni Dieci sono un vero e La presenza femminile in proprio Eden per le donne. Il campo cinematografico agli periodo è l’epoca delle attriinizi del Novecento è stata ci-produttrici: alcune delle oramai ampiamente comdive più importanti fondano presa: il cinema e l’emancila propria casa di produziopazione femminile sono due ne così da rimanere indipendei tanti fenomeni emersi Lois Weber, la più importante regista americana del periodo denti e decidere le sorti delcon la modernità. Se il cine- muto la propria carriera. Negli ma è una forma di intrattestessi anni in Italia vi è il fenimento urbana, negli ultimi decenni dell’Ottocento nomeno delle dive-registe, in quanto la maggioranza molte giovani donne iniziano a spostarsi nei centri urbadelle registe proviene da carriere ben avviate di attrice. ni in cerca di lavoro. L’indipendenza economica trascina Poiché i film sono a tutt’oggi perduti, sono figure in con sé una ridefinizione più ampia delle libertà e degli gran parte poco conosciute. Ma alcune di loro diressestili di vita con il passaggio epocale, per la donna, dalla ro più di dieci film. Si pensi a Diana Karenne, che con dimensione privata e chiusa dell’ambiente domestico a la sua casa di produzione milanese raccontò, tra il quella pubblica e aperta del lavoro e del tempo libero. 1916 e il 1923, storie di donne spesso criticando i coLe donne, lavoratrici e non, costituiscono peraltro la stumi sociali. Oppure Gemma Bellincioni, prima famomaggioranza dell’audience cinematografica. Alice Guy è stata la prima cineasta donna. Per svariati “Alice Guy è stata la prima cineasta decenni la sua figura è rimasta nell’oblio e il suo nome donna: ha diretto dal 1896 al 1920 fuori dalle storie del cinema, nonostante la regista abcirca 1000 film. Eppure ha dovuto bia diretto dal 1896 al 1920 circa 1000 film, di cui ne scrivere da sola la propria storia, rimangono, attualmente, poco più di 100. Questo lavoro di riscrittura storica è stato compiuto in primo luogo perché nessun altro sembrava dall’autrice stessa attraverso le sue memorie, La fée intenzionato a farlo: un esempio di aux choux. Autobiographie d’une pionnière du cinéma, contro-storia perfettamente in linea pubblicato postumo nel 1976 (tr. it. Lestoille, Roma, con i metodi e gli scopi della storia 1979). Alice Guy ha dovuto scrivere la sua storia perché nessun altro sembrava intenzionato a farlo: un delle donne” esempio di contro-storia perfettamente in linea con i metodi e gli scopi della storia delle donne. Ma Alice sa soprano poi produttrice, regista e attrice che con la Guy non è solo la prima regista donna, è una figura Biancagemma Film di Roma diresse (1917-1923), oltre fondamentale del cinema, con uno statuto paragonabile se stessa, anche la figlia Bianca. Ma la pioniera del cia quello dei Lumière e di Méliès, di cui è contemporanema italiano è senza dubbio Elvira Notari, regista nanea, da sempre considerati gli iniziatori della settima poletana che tra il 1906 e il 1930 dirige 60 film, di cui arte. Guy inizia la sua carriera a Parigi contemporaneasolo 3 sopravvissuti integralmente. Il cinema di Notari mente alla nascita stessa del cinema, poi nel 1907 va ebbe uno straordinario successo a Napoli e presso le col marito negli Stati Uniti dove nel 1910 crea la sua comunità di emigranti italiani, soprattutto negli Stati casa di produzione. Uniti. Le ragioni della presenza femminile sono da ascrivere anche alla struttura produttiva ed economica dell’indu“Il cinema e l’emancipazione stria del tempo. Sino ai tardi anni Dieci domina la culfemminile sono due dei tanti fenomeni tura collaborativa ereditata dal teatro in cui ognuno ha mansioni diverse. Al tempo stesso, la richiesta di film è emersi con la modernità” enorme per cui anche la posizione del regista-produttoÈ alla Solax Company di Alice Guy che Lois Weber re rimane aperta alle donne. Infine, l’industria cinemala più importante regista americana di tutto il periodo tografica non si è ancora sviluppata secondo le regole muto - trova il suo primo lavoro. A metà anni Dieci i del Big Business: quando negli anni Venti si arriverà film di Lois Weber hanno un grande successo al boxalla formazione dei grandi studios integrati verticaloffice oltre ad essere apprezzati dalla critica. Weber afmente e le regole di Wall Street entreranno a Hollyfronta tematiche sociali serie ed è particolarmente atwood, molte carriere verranno precluse alle donne, in tenta a problematiche femminili: gira ben quattro film particolare la regia e la produzione. Si assisterà a quel-

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lo che le storiche hanno deficonciliatorie. Nel cinema sperinito la “rimascolinizzazione mentale vi è spesso una omogedel cinema”: in questo nuovo neità tra forma e immaginario: scenario ogni professione dialla trasgressione estetica si acventa “gendered” e la regia compagna infatti il racconto di comincia a essere considerata stili di vita trasgressivi, in partiuna mansione che richiede colare per quanto riguarda la forza fisica, grande leadership sessualità. Il cinema delle donne e disciplina, prerogative al che emerge a inizio anni Settantempo considerate maschili ta si fa carico di sperimentare (Karen Ward Mahar, Women pratiche filmiche di opposizione Filmmakers in Early Hollysia nell’immaginario che nella wood, 2006). Negli anni Venti forma, promuovendo in primo solo la recitazione e la sce- Kathryn Bigelow è stata premiata quest’anno luogo l’iscrizione della soggetneggiatura, tra le professioni dall’Academy con l’oscar per la miglior regia. È la prima tività femminile. In queste opepiù prestigiose, rimangono donna ad aggiudicarsi questo riconoscimento re la protagonista vive un’espeaperte alle donne, e nel 1928, rienza di ricerca della propria con il passaggio al sonoro a Hollywood rimane una soidentità, sessuale in primo luogo, e dei ruoli che è la regista, Dorothy Arzner. chiamata a ricoprire. È una ricerca che, più che rispoLa reticenza ad assegnare grossi budget alle donne ha ste certe e univoche, dà modo alla protagonista, e alla contraddistinto l’industria cinematografica nel suo spettatrice, di interrogare luoghi comuni e cliché sulla complesso: basta vedere quanto poco numerose siano donna e sul corpo femminile, sulla maternità e sull’etele donne che dirigono film dai grandi finanziamenti. Al rosessualità, sullo spazio privato e pubblico. Pensiamo contrario, la presenza femminile è da sempre molto al cinema di registe come Chantal Akerman, Sally Potforte nel cinema d’avanguardia, una produzione caratter, Lizzie Borden, Marguerite Duras etc. terizzata da una forte innovazione estetica, a fronte di Esiste evidentemente una correlazione tra la posizione budget molto limitati. Sin dalle prime esperienze surmarginale che le donne hanno occupato per tanto temrealiste, negli anni Venti, ogni movimento d’avanguarpo e la scelta, conscia o inconscia che sia, di operare e dia ha sempre avuto delle figure femminili di primo intervenire in forme cinematografiche marginali, al fipiano. Pensiamo per esempio a Germaine Dulac, per ne di rifiutare i linguaggi dominanti, la lingua del Paquanto riguarda il contesto francese, ma anche a Maya dre e proporre nuove modalità di rappresentazione e Deren, che con i suoi film dà sostanzialmente inizio, comunicazione. Per questi e altri motivi la presenza negli anni Quaranta, all’avanguardia americana. Con delle donne alla regia nel cinema narrativo industriale gli anni la presenza femminile nel cinema non domiquello che ogni spettatrice e spettatore va a vedere nelle normali sale cinematografiche di tutto il mondo - è stata del tutto secondaria in tutta la storia del cinema. Si tratta sempre di poche unità ed è dunque naturale, “Gli anni Dieci sono un vero e proprio matematico, che siano ancora più rare quelle che ottenEden per le donne. È l’epoca delle gono riconoscimenti e premi. L’Oscar alla regia 2010 attrici-produttrici: alcune delle dive di Kathryn Bigelow, il primo vinto da una donna, è più importanti fondano la propria casa dunque una vera e propria conquista. Dopo le nominadi produzione così da rimanere tion alla regia di Lina Wertmüller (1976), Jane Campion (1993) e Sofia Coppola (2003) - tutte e tre vinciindipendenti e decidere le sorti della trici, in quell’occasione, dell’Oscar alla sceneggiatura propria carriera” il tributo dell’Academy alla Bigelow e al suo film premia un’autrice colta e intelligente, una Hollywood nante aumenta sensibilmente. Lo spartiacque è rappreTransgressor, come recita un volume sulla sua opera. sentato dal secondo femminismo: con l’inizio degli anBigelow inizia come pittrice, si laurea alla Film School ni Settanta un numero incredibile di donne inizia a fare della Columbia University, partecipa al film femminicinema low budget sia nell’ambito dell’avanguardia sta di Lizzie Borden Born in Flames (1983), un film che del documentario. Questa tendenza è continuata in utopico in cui femministe e lesbiche cercano di conquiseguito anche sul versante del video. Sarebbe semplicistare gli Stati Uniti, fa l’assistente di Vito Acconci, e stico pensare a una relazione meccanica tra regia femruota attorno al gruppo Semiotext(e), quello che con le minile e dinamiche economiche. È più produttivo cersue pubblicazioni introduce al pubblico americano care una convergenza tra questi due livelli di discorso e Baudrillard, Deleuze, Negri, ecc. La regista ha afferun terzo, quello estetico. L’avanguardia si è sempre pomato che dovrebbero esserci più donne alla regia e che, sta in relazione dialettica, oppositiva verso le forme arspesso, le donne non sono consapevoli di poterlo fare. tistiche dominanti, con lo scopo di sovvertire le forme Spero che il suo premio attivi in molte donne e ragazze della rappresentazione, considerate, per semplificare, un processo di identificazione efficace.


Oltre il paragone La storia delle donne nella Storia dell’arte di Liliana Barroero Nel 1979 Germaine Greer pubblicava un importante volume, The obstacle race: the fortunes of women painters and their work, edito in Italia l’anno successivo con il titolo Le tele di Penelope, che presentava una prima messa a fuoco della questione delle donne pittrici. Nello stesso 1979 Linda Nochlin e Ann Sutherland curavano un’esposizione, Le grandi pittrici, che analizzava la presenza femminile nella pratica della pittura dal Rinascimento al Novecento. Non a caso queste iniziative erano dovute a due studiose americane; come tutti sappiamo, i “genders studies” sono nati negli Stati Uniti e vi hanno trovato una diffusione vastissima. Sulla loro scia anche in Italia si registrano adesso iniziative d’insieme dedicate alle donne artiste, al di là dell’interesse riservato a figure di indiscutibile rilievo (Artemisia Gentileschi, Fede Galizia, Lavinia Fontana, Sofonisba Anguissola...). La più famosa, Artemisia, nota anche a un pubblico non specializzato, vissuta nella prima metà del Seicento e autrice di tele di soggetto spesso drammatico, non solo è stata oggetto di letture critiche per la sua specifica produzione artistica (la sola donna che sapesse che cos’era la pittura, la definì autorevolmente Roberto Longhi) ma, grazie alle sue complesse vicende personali, ha ispirato romanzi e film. Ovviamente nel

“La vicinanza a un uomo geniale ed egocentrico ha bloccato, in alcuni casi, la piena manifestazione di un talento. Il caso forse più conosciuto è quello della moglie di Roberto Longhi, Lucia Lopresti” campo dell’arte contemporanea molto è cambiato rispetto a quando gli aristocratici bolognesi del Cinquecento si facevano ritrarre da Lavinia Fontana più per la singolarità dell’artista donna che per le sue effettive qualità, e sono cadute le barriere che impedivano alle donne la pratica della difficile e “pesante” arte della scultura o l’accesso alle accademie nelle quali si studiava il modello virile nudo. Tra gli architetti poi si contano, anche se in numero limitato, “archistar” al femminile. L’iraniana Zaha Hadid, cui si deve il MAXXI a Roma, da poco inaugurato, ne è l’esempio più famoso. Insomma la donna artista non è più un animale raro e in qualche caso un po’ fuori dalle righe. Ancora diverso è il campo della critica d’arte, inteso nell’accezione più ampia: ossia dell’impegno presso la pubblica amministrazione per la tutela dei beni culturali, dell’editoria d’arte, dell’insegnamento universitario e del mercato dell’arte. La tutela dei beni culturali (o delle Belle Arti,

come si diceva allora) fu un’importante priorità dell’Italia unita; l’insegnamento della Storia dell’arte nei licei e nelle università italiane risale ai primi decenni del secolo scorso. Negli altri stati europei e negli Stati Uniti la vicenda delle discipline storico-artistiche è ancora più accidentata. Anche questi campi sono stati per lungo tempo, in Italia e altrove, riservati a fre- Il romanzo più famoso di Lucia quentazioni quasi Lopresti, nota con lo pseudonimo esclusivamente ma- letterario di Anna Banti, è dedicato ad Artemisia Gentileschi schili, perlomeno ai livelli più alti. Sarebbe fuorviante ritenere che l’attuale ricchezza e vivacità di presenze femminili nella Storia dell’arte abbia una lunga tradizione. Nelle bibliografie storiche i nomi femminili sono pressoché assenti. Non esistono equivalenti donne di Giorgio Vasari, Giovan Pietro Bellori, Luigi Lanzi, Giovanni Battista Cavalcaselle, giusto per elencare quattro nomi per quattro secoli, dal Cinquecento all’Ottocento. Silvia Ginzburg ha recentemente (2008) raccolto in un volume, Obituaries, gli scritti dedicati da storici dell’arte ad altri storici dell’arte scomparsi nel Novecento, da Adolfo Venturi a Federico Zeri tanto per fare gli esempi più noti. Forse potrà stupire che non compaia nemmeno un nome di donna non solo tra i de-

“Alcune donne straordinarie hanno segnato con la loro personalità l’epoca contemporanea. Penso a Palma Bucarelli, mitica prima sovrintendente al femminile della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, ammirata per il suo fascino e amata/odiata per la prepotente intelligenza e le capacità decisionali” stinatari degli Obituaries, ma anche tra i colleghi autori dei singoli brani. A ben riflettere, questa raccolta è semplicemente lo specchio di una situazione solo di recente modificata. È un po’ come nell’alta cucina: la pre-

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valenza di uomini “stellati” rispetto alle loro colleghe ha fatto parlare, certo superficialmente, della superiorità di un sesso sull’altro, mentre è chiaro che la questione va posta in tutt’al- Palma Bucarelli, prima sovrintendente tro modo. Per la donna della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma donna, il problema centrale è sempre stato quello di conciliare vita famigliare - cura dei figli, della casa e del marito: non sempre in quest’ordine, è ovvio - con l’impegno professionale. Così, molto spesso carriere decisamente promettenti si sono fermate a livelli intermedi. In altri casi, la vicinanza ad un uomo geniale ed egocentrico ha bloccato la piena manifestazione di un talento. Il caso forse più conosciuto è quello della moglie di Roberto Longhi (1890-1970), Lucia Lopresti, nota con lo pseudonimo letterario di Anna Banti (1895-1985). È significativo che il suo libro più famoso, Artemisia (1953) sia dedicato ad un’artista donna, vittima anche del genio del padre Orazio, grandissimo pittore, oltre che della vera e propria violenza fisica esercitata su di lei da un altro artista, Agostino Tassi. Nel suo ultimo libro, Un

“Per le donne, nella storia dell’arte le difficoltà e gli spazi sono i medesimi che negli altri campi, e le giovani generazioni sono determinate, preparate e perciò promettenti: una risorsa importante per il Paese, sempre che il potere intenda avvalersene e investire su di loro” grido lacerante (1981), Anna Banti descrive senza troppi veli il difficile rapporto con colui che comunque rimaneva il suo maestro. Da giovane, Lucia Lopresti era una storica dell’arte molto dotata, ma il confronto costante e continuo con il geniale consorte la incoraggiò a sviluppare il suo talento nel campo della narrativa. I due coniugi fondarono insieme la rivista Paragone, che fin dall’inizio alterna un numero dedicato alla storia dell’arte a quello di tema letterario; a Longhi spettò la direzione della serie storico-artistica, a Lucia Lopresti (già da allora Anna Banti) la direzione della rivista letteraria. La Banti effettuò anche qualche incursione nel campo della storiografia artistica, ma la sua notorietà è legata prevalentemente alla sua produzione narrativa. Oggi la situazione è certamente diversa. Ma a ben guardare, benché non sia più possibile parlare di limitazioni vere e proprie come un tempo, le figure di spicco sem-

brano aver dovuto conciliare ancora con molta fatica la vita privata e la professione. Ciò nonostante, alcune donne straordinarie hanno segnato con la loro personalità l’epoca contemL’architetto iraniana Zaha Hadid ha poranea. Penso realizzato il MAXXI a Roma a Palma Bucarelli, mitica prima sovrintendente al femminile della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, ammirata per il suo fascino e amata/odiata per la prepotente intelligenza e le capacità decisionali; a Noemi Gabrielli, anch’essa sovrintendente ma in una regione a lungo considerata secondaria nella storia dell’arte e perciò “di frontiera”, il Piemonte, che percorse da sola territori alpini e prealpini fornendo le prime e tuttora fondamentali basi per una ricognizione scientifica. Ai nostri giorni un’altra donna, Paola Barocchi, già direttore della Scuola normale superiore di Pisa, è figura di riferimento per la storiografia artistica per la quale ha scritto testi fondamentali e che sta conducendo l’informatizzazione delle fonti storiografiche con il concorso di diverse Università. Non si contano le gallerie d’arte contemporanea fondate e dirette da donne; Mina Gregori, allieva a suo tempo di Roberto Longhi e a lungo titolare della cattedra di Storia dell’arte a Firenze, la stessa tenuta per molti anni dal maestro, gli è subentrata nella direzione di Paragone e della fondazione che porta il suo nome; Anna Ottani Cavina dirige l’altrettanto prestigiosa Fondazione Zeri (un contrappasso postumo? chi l’ha conosciuto può dire con ragione che non c’era studioso più misogino di lui...), Sandra Pinto ha guidato anch’essa la Galleria nazionale d’arte moderna, della quale è oggi soprintendente un’altra donna... In campo internazionale basti ricordare Anne d’Harnoncourt, straordinaria donna manager che fino alla morte improvvisa e precoce ha gestito il Museum of Art di Philadelphia. Nel campo della Storia dell’arte le donne possono incontrare gli stessi ostacoli e i medesimi pregiudizi di sempre, ma hanno compiuto importanti passi in avanti rispetto alle precedenti e non troppo lontane generazioni. Percorrono la carriera universitaria fino al vertice, sono presenti in tutti i gradi dell’amministrazione dei beni culturali, soprintendenze incluse (due di loro ne sono state ministro, ma in questo caso purtroppo senza brillare per particolari meriti), sono protagoniste nell’editoria d’arte e non devono ripiegare su campi alternativi se sono a fianco di uomini geniali (specie peraltro sempre meno numerosa). Per le donne, nella storia dell’arte le difficoltà e gli spazi sono i medesimi che negli altri campi, e le giovani generazioni sono determinate, preparate e perciò promettenti: una risorsa importante per il Paese, sempre che il “potere” intenda avvalersene e investire su di loro.


Tra cielo e terra Il rapporto uomo-donna dalla cosmogonia ai giorni nostri di Federica Giardini

La differenza tra donne e uomini attraversa l’umanità intera dall’inizio dei tempi. La troviamo nei racconti di generazione del cosmo: in uno dei primi documenti letterari, l’Epopea di Gilgameš, l’eroe, gigante potente e solitario, si annoia e chiede alla madre dea, che l’ha creato, di dargli un compagno; Enkidu arriva Federica Giardini sulla terra, è ancora un bestione, sarà solo l’amore di una cortigiana a renderlo umano. Nella ripresa biblica del mito sumerico, Eva commette quel gesto, a metà tra amore e conoscenza, che inaugura il tempo propriamente umano. E ancora, nel Rāmāyana, le tormentate vicende amorose di Sita e di Rama, uomo ma avatar della dea Lakshmi, danno inizio alla civiltà indiana. Nella narrazione cosmologica cinese, yin e yang sono i due principi che generano il cosmo e regolano la vita. All’alba della tradizione propriamente occidentale, il Simposio di Platone ricorda il mito di esseri sdoppiati che si cercano all’infinito per ricomporsi in uno e, nel discorso attribuito a Diotima, fa dell’amore una forza mediatrice tra cielo e terra. Il dualismo torna più tragicamente in Agostino, che considera la coppia originaria un’emanazione dell’eterna lotta manichea tra i principi del bene e del male. Per parte sua, Ibn ‘Arabi, mistico sufi del XIII secolo, confonde intenzionalmente l’amore divino e l’amore tra uomini e donne, come ripetono i trovatori e le trovatore dell’amor cortese. In questa costellazione prende una luce diversa persino quella galleria di Annunciazioni - ritratti di una giovane donna, dalla cui risposta dipende la possibilità di un nuovo inizio per l’umanità che intessono il nostro immaginario. Quanto è lontana, da questi inizi cosmogonici, la nostra percezione dei rapporti tra uomini e donne? Di secolo in secolo, la differenza è sempre più scesa sulla terra e oggi la vediamo comparire in forme generalmente poco attraenti per il pensiero e per il desiderio. Può essere oggetto della contesa sulla cittadinanza delle società contemporanee, nel migliore dei casi; ma la troviamo anche sottoposta alla pruriginosa lente di ingrandimento di giornali e trasmissioni televisive; in altri casi, su scala nazionale o globale, uomini e donne si ritrovano in un quadro dall’intensità tragica - i primi violenti e le seconde, di nuovo o sempre ancora, vittime - ed è in nome di queste che si legittimano politiche securitarie o guerre civilizzatrici. Eppure c’è tutto quel che serve per ridare respiro e movimento a questa dimensione. Dopo il silenzio secolare del-

la storia e dei documenti della tradizione ufficiale, negli ultimi decenni del Novecento abbiamo assistito alla riscoperta di letterate, pensatrici, di comportamenti sociali femminili, fino a quel momento invisibili. Un movimento compiuto per parte di donne, ma che ha finito per rivelare che la dimensione umana è fatta dai movimenti e dalle posizioni assunte di volta in volta da questo due irriducibile.

“La differenza tra donne e uomini attraversa l’umanità intera dall’inizio dei tempi. Dai racconti di generazione del cosmo alla ripresa biblica del mito sumerico, al Rāmāyana; dalla narrazione cosmologica cinese al Simposio di Platone ” Quali le posizioni oggi, quali le tensioni che le costituiscono e le distribuiscono, dove si incrociano i passi di uomini e donne? Una buona bussola per cominciare a seguirne il tracciato, per vedere dove le orme si avvicinano, procedono insieme, si allontanano, è l’amore. Antica canzone, ma nella versione orchestrata per questi tempi, che lo legano inestricabilmente all’organizzazione e divisione dei compiti, della cura e della produzione, e che obbligano a fare i conti - spesso invece elusi - con l’eterna tensione tra desiderio e alleanza. Come Discordia che nell’Iliade «da principio piccola si leva» e poi avanza «il capo tra le stelle, e immensa passeggia sulla terra», la divisione dei compiti

Filippo Lippi, Annunciazione, 1449-1459

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Non è una storia pacifica, comporta libertà ma anche il disorientamento che sopraggiunge quando mutano le coordinate che regolano la società e l’umano. Per misurare la portata di questo cambiamento basta mettere a confronto la figura della accabadora - che ancora nella Sar-

“Quanto è lontana, dagli inizi cosmogonici, la nostra percezione dei rapporti tra uomini e donne? Di secolo in secolo, la differenza è sempre più scesa sulla terra e oggi la vediamo comparire in forme generalmente poco attraenti per il pensiero e per il desiderio” degna della metà del Novecento godeva della fiducia della comunità, tanto da essere chiamata a dare il colpo di grazia agli agonizzanti senza speranza - e la virulenza Quentin Metsys, Il cambiavalute e sua moglie, 1514 dei dibattiti sul fine vita, oggi che è la legge a dover regolare quel che prima era di competenza femminile. La libertà di movimento per parte di donne avviene, non può forse essere l’argomento di dispute domestiche e copuò che avvenire, in corsa: ogni spostamento cospicuo niugali, ma per le società occidentali la questione tocca le comporta guadagni e perdite rispetto all’ordine e all’efondamenta stesse della convivenza. A cominciare dalla quilibrio precedenti. Forse gli episodi di violenza docrisi che insiste sulle funzioni un tempo attribuite alla famestica raccontano oggi un’altra storia, non più l’arbimiglia, in particolare quelle riunite sotto il nome di cura trio di un padre di famiglia, padrone sovrano e proprienome per gesti e azioni che per secoli sono state di competario, ma la disperazione confusa di chi ha materialtenza delle donne, proprio perché escluse dalla dimensiomente perso, non solo antiche prerogative, ma persino ne pubblica, destinate dunque alla custodia di ciò che è viquel che gli permetteva di affermare tacitamente la provente e muto alla parola - infanti, anziani, malati. pria esistenza per poi procedere nel mondo. Più terreno, Può forse sembrare che questo rivolgimento sia il risultato ma non meno imponente, è il mutamento intervenuto dell’esodo femminile dal domestico compiutosi a partire nelle politiche pubbliche, cittadini e cittadine non posdalla metà del Novecento, ma si tratta in realtà di una stosono più contare su quell’equilibrio tra lavoro retribuito ria dalla lunga durata, che ha inizio con le ricorrenti dispue lavoro domestico gratuito che permetteva la redistrite sull’educazione delle donne. Già Christine de Pizan nel buzione dell’assistenza e della previdenza. E ancora, su 1300, avendo deciso di guadagnarsi da vivere con la scritquesto terreno sismico appaiono le figure perturbanti di tura, deve immaginarsi una città diversa da quella in cui quei corpi che agiscono e mostrano la negoziazione tra vive, una Città delle dame; e Mary Astell, nell’Inghilterra maschile e femminile, il dei primi del Settecento, deve transito in corso di questi mettere in questione la nascentempi. Eraclito, interrogato te democrazia liberale, e l’ordai suoi concittadini in merito ganizzazione sociale che comalla concordia civica, agita e porta, per trovare lo spazio alinghiotte in silenzio il l’educazione delle donne che kykeōn, bevanda dei misteri auspica. Antonia S. Byatt, nel di Eleusi, fatta di farina d’orromanzo Possessione, racconta zo e d’acqua. Nicole Loraux del dramma ottocentesco di commenta il gesto così: «anuna poeta, Christabel LaMotte, che il kykeōn si decompone costretta a scegliere tra l’amore se non è agitato, la salvezza e la propria capacità creativa: della città implica il moviriecheggia qui l’invito tagliente mento… la concordia non ha di Virginia Woolf a uccidere nulla di statico». La divisiol’angelo del focolare per stare ne, la partizione, contribuisce pienamente e responsabilmente a fondare la convivenza, il al mondo. due produce dell’uno - conL’uno non si muove senza l’altingente, parziale - a patto di tra. A questo spostamento un lavoro del e sul due, giorfemminile fanno seguito muno per giorno. tamenti di portata enorme. Elen Dorfman, Rebecca 1. Dalla serie Still lovers, 2001


RU486 La storia di una discussa conquista di Dalila Novelli

Sono tre gli aspetti fondamentali sui quali riflettere nell’affrontare questo argomento: le implicazioni medico/scientifiche, gli aspetti normativi e il punto di vista delle donne, che non è sicuramente l’ultimo per importanza se non altro ad opinione di Dalila Novelli chi scrive. La RU486 (mifepristone) è una molecola chimica antiprogestinica individuata negli anni Ottanta in Francia dove è usata da oltre venti anni, senza un numero significativo di complicazioni cliniche che abbiano portato alla morte le pazienti e ciò vale anche in tutti i paesi del mondo dove il farmaco è stato somministrato. È bene fare subito chiarezza fra pillola del giorno dopo ed RU486 o pillola abortiva. La prima differenza sta nel fatto che la RU486 inibisce il progesterone che è un ormone presente in gravidanza, favorendo il distacco del sacco embrionale e provocando una mestruazione. Quindi, diversamente dalla pillola del giorno dopo, agisce in caso di gravidanza accertata, per interromperla ed espellere il prodotto di un concepimento avvenuto. Il mifepristone si può assumere fino al secondo mese di gravidanza mentre la pillola del giorno dopo (in commercio col nome di Levonelle e Norlevo) è un contraccettivo di emergenza che è possibile utilizzare nelle settantadue ore successive a un rapporto sessuale non protetto e quindi non necessariamente in presenza di una gravidanza certa. Ovviamente la scelta possibile di un farmaco, quindi di un’opzione non chirurgica per le donne che intendono interrompere la gravidanza entro le sette settimane di gravidanza rappresenta una soluzione molto meno traumatica per le donne che scelgono di farvi ricorso, sempre che sia chiaro a tutte che anche questo farmaco - come tutti i farmaci del resto - può avere effetti pericolosi se assunto con estrema leggerezza e senza un minimo di controllo medico

“Nel caso della RU486, inoltre, colpisce la mancata valutazione positiva anche in relazione all’increscioso tema dell’obiezione di coscienza da parte dei medici antiabortisti che tanti ostacoli ha creato all’applicazione della legge 194/1978” nella fase espulsiva e subito dopo. Infatti è bene sapere che non può essere somministrato in pazienti che presentino allergia nota al mifepristone, insufficienza surrenalica,

disordini emorragici o che siano in terapia con anticoagulanti o cortisonici. La RU486 inoltre non può essere somministrata oltre le sette settimane di gravidanza. È controindicata in caso di gravidanza extra-uterina e in caso di ipertensione arteriosa, insufficienza cardiaca, aritmia etc. Inoltre, per aumentare l’efficacia della molecola serve un’altra sostanza: la prostaglandina (il prodotto più usato è il misoprostol). L’associazione mifepristone/misoprostol rappresenta la modalità più diffusa per l’induzione all’Ivg (Interruzione volontaria di gravidanza) ed è stata inserita nell’elenco dei farmaci essenziali per la salute riproduttiva dall’Organizzazione mondiale della sanità nel 2006. Fin qui gli aspetti medico-scientifici.

“La RU486 (mifepristone) è una molecola chimica antiprogestinica individuata negli anni Ottanta in Francia dove è usata da oltre venti anni” Per quanto riguarda la normativa italiana sulla materia bisogna risalire al 2002 quando il comitato etico della Regione Piemonte approva il progetto di sperimentazione della RU486 in ottemperanza alla legge 194/78. Dopo un alternarsi di provvedimenti fortemente condizionati dagli interventi ecclesiastici finalmente si arriva al 30 luglio 2009 quando la RU486 viene approvata dall’Agenzia italiana del farmaco con quattro voti favorevoli su cinque. Il 25 novembre 2009, dopo un’inchiesta conoscitiva, la commissione sanità del Senato approva con i voti dei partiti di centro-destra un documento che chiede al governo di fermare la commercializzazione della RU486 in attesa di un parere tecnico del Ministero della salute circa la compatibilità con la legge 194, per poter stabilire profili di utilizzo coerenti con la stessa (in particolare il ricovero obbligato in ospedale durante tutto il ciclo di assunzione del farmaco). Dal 10 dicembre 2009, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’autorizzazione all’immissione in commercio, la RU486 entra definitivamente a far parte dei farmaci utilizzabili in Italia sebbene nel nostro Paese, a differenza degli altri paesi di ventennale esperienza, c’è l’obbligo dell’assistenza ospedaliera per tutta la procedura e non semplicemente di un’assistenza medica. Questo aspetto ha trovato contrarie molte associazioni femministe in quanto la donna ospedalizzata può subire di fatto un ulteriore trauma psicologico dovuto alle possibili conseguenze di dover stare in camera con donne che hanno appena partorito e che quindi vivono una condizione del tutto gradevole rispetto a chi sta facendo una scelta che è sempre spiacevole, vale la pena ricordarlo, per chi vi ricorre, anche se voluta. Dal punto di vista di noi donne mi sento di affermare che i

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vantaggi di questo metodo sono molti soprattutto perché vengono eliminati tutti i rischi dell’anestesia e quelli derivanti da complicazioni post-operatorie che possono incidere sulla fertilità futura, come infezioni e conseguente chiusura delle tube o lacerazioni del collo dell’utero. Certamente l’aborto farmacologico produce una forte mestruazione, a volte accompagnata da dolore e crampi, la donna quindi deve essere preventivamente informata di tutto ciò che potrà succedere ed eventualmente le devono essere somministrati degli antidolorifici. L’unico svantaggio vero della scelta del farmaco è che in una piccolissima percentuale, che si aggira intorno all’1% dei casi, è necessario ricorrere comunque all’intervento chirurgico, perché nonostante la pillola abortiva, la gravidanza non si è interrotta. È importante che nella valutazione di questi aspetti che riguardano la salute delle donne si tengano in gran conto le implicazioni della loro sofferenza, sia essa psicologica che fisica. Troppe volte, infatti, si assiste a considerazioni che estromettono il loro benessere, quasi si stesse parlando di un banale contenitore, senza vita, senza volontà, senza pensiero e sentimento. Si tende ad anteporre un giudizio comportamentale ed etico in un ambito sessuale e riproduttivo che invece non può che appartenere all’esclusiva prerogativa delle donne in quanto persona (autodeterminazione): le donne che hanno fatto un percorso politico femminista, continuano a ripetere questo fondamentale principio purtroppo ancora evidentemente disatteso. Nel caso della RU486, inoltre, colpisce la mancata valutazione positiva anche in relazione all’increscioso tema dell’obiezio-

ne di coscienza da parte dei medici antiabortisti che tanti ostacoli ha creato all’applicazione della legge 194/1978. Infatti l’uso meno invasivo e più autonomo, sebbene controllato, di un farmaco non necessariamente ospedalizzante, risolverebbe certamente molti aspetti di quel problema.

“Come dice Etienne-Emile Baulieu ricercatore e padre della RU486: pensare che una donna possa andare allegramente ad abortire solo perché può farlo con una pillola anziché tramite un intervento chirurgico è un offesa alla dignità di tutte le donne” È evidente che si tende a mescolare valutazioni sulla salute delle donne con tutto un altro tipo di dibattito e cioè quello filosofico/etico/religioso che appartiene invece alla sfera personale e ad un confronto di ben altra valenza e natura. E forse non è del tutto peregrino pensare che ancora una volta il fattore “potere riproduttivo” è elemento determinante in certe valutazioni, un potere che suscita appetiti in molti, troppi soggetti. Voglio concludere con un’affermazione di Etienne-Emile Baulieu ricercatore e padre della RU486: «Pensare che una donna possa andare allegramente ad abortire solo perché può farlo con una pillola anziché tramite un intervento chirurgico è un offesa alla dignità di tutte le donne».

Una mappa dei differenti tipi di legislazione sull’aborto nel mondo: Legale su richiesta Legale per stupro, protezione della vita della madre, salute fisica, salute mentale, fattori socioeconomici, e/o anomalie del feto Legale per stupro, protezione della vita della madre, salute fisica, salute mentale, e/o anomalie del feto Illegale con l’eccezione di stupro, protezione della vita della madre, salute fisica, e/o salute mentale Illegale con l’eccezione di salute fisica, protezione della vita della madre, e/o salute mentale Illegale senza eccezioni Legislazione variabile per regioni Nessuna informazione Il 24 febbraio scorso il senato spagnolo ha approvato in via definitiva una nuova normativa sull’aborto che permetterà alle donne di decidere liberamente se abortire o meno entro la 14° settimana (entro la 22° in caso di rischio per la salute della madre o di gravi malformazioni al feto)


Pari opportunità nello studio e nella professione Il CPO racconta due iniziative promosse nel nostro Ateneo a cura del Comitato pari opportunità di Roma Tre Il Comitato pari opportunità (CPO) di Roma Tre, chi è costui? Per noi che ne facciamo parte sentirci rivolgere questa domanda costituisce un momento di depressione e pertanto vogliamo oggi segnalare due iniziative tra le tante che questo soggetto plurimo, costituito cioè da docenti e personale tecnico, amministrativo e bibliotecario, nonché da alcuni studenti/esse, sta conducendo in porto e cioè CReTA (Come Realizzare il Telelavoro in Ateneo) e il corso Genere, costituzione e professioni. Dietro l’acronimo CReTA si nasconde il progetto TeLeLavoro (TLL), rivolto al personale tecnico, amministrativo e bibliotecario, che il 14 maggio 2009 è stato insignito del premio “Lavoriamo insieme - sezione pari opportunità”, organizzato e promosso dal Ministero per la Pubblica amministrazione e l’innovazione in collaborazione con FORUM PA. Questo riconoscimento ha premiato un lungo e serio lavoro di squadra compiuto in Ateneo dal 2006 fino ad oggi che ha visto coinvolti il CPO, che ha proposto l’esperienza inserendola nel Piano delle azioni positive presentato in Consiglio di amministrazione nel maggio 2005; l’Ufficio del personale, l’Ufficio di supporto per lo studio dei programmi informatici, nella persona di Maria Rosaria Cagnazzo, che ne è diventato il cuore operativo; il FORMEZ, che ha fornito il know how nella prima sperimentazione; l’Area sistemi informativi e l’Area telecomunicazioni per il supporto tecnologico; il Servizio prevenzione e protezione, per la sicurezza delle postazioni di lavoro a distanza; alcune strutture decentrate dell’Ateneo e alcuni uffici dell’amministrazione centrale. Varie fasi si sono avvicendate in tale progetto. Un momento introduttivo ha interessato principalmente i vertici dirigenziali con i quali è stato condotto lo studio di fattibilità del progetto, l’analisi costi/benefici e l’individuazione delle attività telelavorabili. Le altre fasi si sono focalizzate intorno alla promozione dell’iniziativa e la relativa attività di formazione indirizzata agli stessi dipendenti, la sperimentazione vera e propria, il monitoraggio e la valutazione. I risultati della prima sperimentazione, durata dodici mesi tra il 2008 ed il 2009 ed effettuata sulle strutture decentrate che hanno aderito all’iniziativa, sono stati incoraggianti; ciò ha prodotto una seconda sperimentazione - ancora in corso - riguardante gli uffici dell’amministrazione centrale e ha condotto alla definitiva decisione di mettere a regime il TLL in Ateneo. Infatti, il 2 luglio 2009 il Consiglio di amministrazione ne ha approvato il regolamento definitivo (http://oc.uniroma3.it/intranet/ALTRI-REGO1/Regolament6/index.asp) e il

primo bando ufficiale rivolto a venti dipendenti delle sole strutture decentrate è in fase di pubblicazione. Pur premettendo che lo scopo principale per cui le pubbliche amministrazioni possono avvalersi del TLL è «di razionalizzare l’organizzazione del lavoro e di realizzare economie di gestione tramite l’impiego flessibile delle risorse umane» (art. 4 della Legge 16/06/1998, n. 191), questa nuova modalità di lavoro può rivelarsi anche strumento efficace di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro per le lavoratrici ed i lavoratori. Nel nostro Ateneo l’età media dei dipendenti TAB è abbastanza bassa e numerose sono le giovani donne con figli che non trovano, né sul territorio, né presso lo stesso Ateneo, sufficienti strutture di servizio per l’infanzia. Molti dipendenti, inoltre, abitano a grande distanza dalla propria sede lavorativa, e ciò si traduce in spostamenti giornalieri di durata a volte insostenibile, che peggiorano la qualità della vita aggravando i lavori di cura familiare. «Il telelavoro diminuisce lo stress lavorativo perché favorisce una migliore e più autonoma gestione del proprio tempo», sostiene Lucia Staccone, ex telelavoratrice del Sistema bibliotecario d’Ateneo. Anche il giudizio dei responsabili di struttura è positivo: nessun impatto negativo sulle funzionalità degli uffici, maggiore concentrazione sul lavoro del telelavoratore, miglior controllo delle priorità, minori interruzioni, riorganizzazione delle attività e conseguente aumento di competenze sia per i telelavoratori sia per i lavoratori rimasti in struttura, riduzione delle assenze brevi, maggiore possibilità di lavorare per obiettivi. «All’inizio ero contraria - dice Maria Palozzi, responsabile dell’Ufficio di coordinamento centrale dello SBA - vedevo il rischio, soprattutto per le donne, di entrare in una dimensione in cui il valore sociale del lavoro è negato. Ma ho aderito all’iniziativa, perché non volevo comunque ostacolare scelte diverse dalle mie, basate su necessità reali. Poi, lavorandoci, mi ha convinto la grande opportunità di dare a ognuno la possibilità di trovare una propria organizzazione del tempo e, per le strutture, di studiare anche a tavolino e oltre l’emergenza, l’organizzazione di un ufficio, la possibilità di cambiare le modalità di lavoro e scoprire che sono molte di più di quanto la pigrizia o l’abitudine ci abbiano fatto pensare fino a quel momento». La seconda iniziativa che segnaliamo è di natura didattica. Il 23 giugno 2009 il Senato Accademico, dietro proposta del Comitato pari opportunità, ha deliberato l’attivazione del corso Genere, costituzione e professioni, aperto in forma opzionale a tutti gli stu-

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22 denti e le studentesse dell’Ateneo e gestito, nell’organizzazione e nei contenuti, da un comitato scientifico interno al CPO. Il corso tratta, in un’ottica fortemente multidisciplinare e integrata, le tematiche e le politiche di pari opportunità tra uomini e donne. Tutte le Facoltà dell’Ateneo, ad esclusione della Facoltà di Economia, hanno aderito al progetto d’Ateneo e attribuito al corso un numero congruo di CFU, all’interno delle “altre attività formative a scelta dello studente” previste dall’art.10, comma 5, lettera d del DM 22/10/2004, n.270. Le lezioni sono iniziate lo scorso 6 marzo nell’Aula Magna della Facoltà di Lettere e proseguiranno, per un totale di dodici incontri consecutivi, nella sede di Piazza della Repubblica della Facoltà di Scienze della Formazione. Tutte le lezioni si svolgeranno di sabato mattina per non intralciare, per quanto possibile, le altre attività didattiche; la frequenza sarà obbligatoria, ma il corso sarà visionabile in differita on-line su una webTV di genere. Sono impegnati/e trentuno docenti, in massima parte di Roma Tre ma anche provenienti da altre università italiane, dal CNR, dalla Protezione civile e dal resto della società civile, che hanno aderito con entusiasmo all’iniziativa, così come grande partecipazione è emersa nella popolazione studentesca: hanno effettuato una preiscrizione oltre quattrocento persone, con una presenza maschile significativa e un numero interessante di iscritti/e dalle Facoltà di Ingegneria, Architettura e Scienze Matematiche Fisiche e Naturali. Se questi numeri da una parte hanno creato un problema logistico, dall’altra ci hanno confermato che l’interesse degli studenti verso le tematiche di genere è vivo e che questa cultura viene percepita come uno strumento per avere una visione d’insieme della società. Per quanto attiene ai contenuti, il corso parte dal cammino filosofico-storico-culturale percorso dalle donne per rendersi visibili, per entrare poi nel dettaglio del

pensiero femminista, prestando eguale attenzione sia al primo femminismo emancipazionista sia al pensiero della differenza sessuale. Si passa poi ad analizzare il rapporto tra le donne, la politica e le istituzioni, mostrando come un’effettiva parità tra i generi sia ancora lontana dall’essere realizzata. Uno spazio importante viene dedicato alla pedagogia di genere, che mette in luce come le discriminazioni tra bambini e bambine siano sempre partite dall’educazione. Segue un’ampia parentesi dedicata al tema della conquista dell’autorialità femminile nel mondo delle arti, contrapposta dialetticamente alla strumentalizzazione del corpo femminile nudo e muto. Si passa poi alle pari opportunità nel diritto, evidenziando un percorso storico e culturale che parte dal diritto neutro, non suscettibile di regolare i rapporti fra i sessi e giunge al diritto di genere, fonte di garanzia per le donne. Ampio spazio è dedicato ai temi dell’economia, del lavoro e del welfare: si parla del riconoscimento del valore economico dell’attività non retribuita, della valorizzazione del contributo professionale ed umano delle donne, di bilancio di genere, di politiche di flexicurity e del loro intreccio con il welfare e con la formazione permanente, di donne nella Pubblica amministrazione, e di nuove filosofie gestionali delle imprese, il diversity management. Si analizza infine il rapporto controverso tra le donne, la scienza e la tecnica, in cui pur raggiungendo molte donne punte di eccellenza, nella media esse sperimentano un mondo arido di riconoscimenti nei loro confronti. Chiude il corso il mondo della biologia delle differenze: vengono discusse le basi genetiche e i cromosomi coinvolti nella determinazione del sesso, descritte le basi ormonali delle differenze e infine si apre il capitolo della medicina di genere e della sua influenza sulla medicina del lavoro e della farmacologia di genere. Allora, buon lavoro al CPO e a tutto l’Ateneo.

Fabrizia Somma (la seconda da sinistra), presidente del CPO, ritira il premio “Lavoriamo Insieme”


Casa internazionale delle donne Intervista alla presidente Costanza Fanelli di Michela Monferrini Qual è stato il percorso, immagino anche di lotte, che ha portato alla realizzazione della Casa delle donne? La Casa ha una lunghissima storia scritta dalle donne, dai gruppi femministi romani a partire dalla fine degli anni Settanta, quindi dal momento clou delle manifestazioni per le più Michela Monferrini importanti battaglie. Questa storia inizia nel momento in cui alcuni gruppi femministi occupano un palazzo fatiscente in via del Governo Vecchio, con l’idea di farne - seppure in una situazione molto precaria - un centro di attività per le donne, per incontrarsi, per stare insieme, per elaborare progetti. Nel tempo, ai collettivi, si aggregarono diverse altre realtà e oltre all’attività politica si pensò ad iniziative culturali e sociali in senso più ampio e concreto. In seguito alla decisione dell’amministrazione comunale di decretare quella sede inagibile si individuò il palazzo del Buon Pastore, che ancora oggi è la Casa Internazionale delle donne, in via della Lungara. È un palazzo che ha una storia molto antica e una parte che risale al Seicento. Noi abbiamo svolto una ricerca, scoprendo che da sempre è stato un luogo frequentato da donne, un luogo però di contenzione e clausura gestito da laiche, religiose, sempre un luogo in cui venivano accolte, anche con i propri figli, le donne in difficoltà (da qui, il nome del palazzo), o prostitute, donne messe ai margini, che vivevano situazioni di disagio. La storia del luogo è quindi una storia negativa, attraversata comunque da storie di dolore. Dopo la guerra, il Buon Pastore fu acquistato dal Comune di Roma, che però lo lasciò in una situazione di degrado, pur permettendo alle donne di utilizzarne un’ala per le loro attività.

Da quel momento, parte il progetto vero e proprio? Sì, viene creato un coordinamento interno che contiene e riunisce anime anche molto diverse tra loro e comincia allora un percorso con le amministrazioni comunali che si avvicendano, per ottenere un riconoscimento formale prima dell’occupazione, per non restare in una situazione di abusivismo. Si avvia una lunga negoziazione, molto combattuta, molto dura, anche contro quella parte politica che considerava le femministe alla stregua di streghe. Però bisogna riconoscere, all’interno di questa ulte-

“La Casa ha una lunghissima storia scritta dalle donne, dai gruppi femministi romani a partire dalla fine degli anni Settanta” riore battaglia nella battaglia, che in quel momento inizia anche un’importante relazione e confronto politico con le donne che siedono in comune, con le consigliere. E le donne che stanno nelle istituzioni. Noi abbiamo potuto far nascere questo Luogo proprio perché siamo a Roma e a Roma c’è una tradizione forte, una capacità riconosciuta al movimento femminista di coinvolgere le istituzioni nei vari progetti, più che in altre città. È come se per questo genere di cose, nella capitale ci fosse sempre stato un humus favorevole. È grazie a questo dialogo che parte il progetto per la Casa internazionale delle donne, con l’idea di far diventare ciò che era un’occupazione di spazi, un progetto serio, comunque basato sulla presenza dei movimenti delle donne e non istituzionalizzato, per una serie di attività oltre a quella politica e di servizi per l’ospitalità. Viene previsto, in quel progetto, un ostello per donne, un punto di ristoro, un polo di accoglienza per le attività di associazioni diverse, un polo congressuale per convegni e incontri di vario genere. Un luogo anche della memoria con l’idea di un grande centro ar-

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chivistico delle donne. Si vuole quindi aprire veramente le porte del centro alla popolazione femminile, per farlo diventare un luogo polivalente di riferimento. Grazie a questo progetto, durante la preparazione del Giubileo, è stato possibile ricevere soldi statali e questo è il primo e unico caso in Italia di simultaneità tra ricerca dei finanziamenti, presentazione del progetto e ristrutturazione della sede. È molto importante che il palazzo sia stato ripensato, nella sua struttura interna, sulla base di un progetto che non veniva dal Comune solo, ma dall’originaria idea delle fondatrici della Casa.

“Il palazzo si chiama il Buon pastore. Da sempre è stato un luogo frequentato da donne, un luogo però di contenzione e clausura gestito prima da laiche, poi da religiose. Un luogo in cui venivano accolte, anche con i propri figli, donne in difficoltà (da qui, il nome del palazzo) o prostitute, donne messe ai margini, che vivevano un disagio” Quali sono le attività svolte all’interno della Casa delle donne, o che vengono organizzate in collaborazione con voi? Intanto, occorre dire che dentro quello che potremmo definire un “approccio di genere” noi vogliamo mantenere un livello alto e coerente, con il concorso di tante donne, non solo quelle che sono all’interno, ma anche tutte coloro che da fuori possono più o meno occasionalmente portare qui la propria competenza nei vari campi. Tutto, a parte le funzioni di produzione, avviene a titolo assolutamente volontario. Coloro che hanno fatto nascere questo centro, a partire da me, non percepiscono alcuna forma di compenso, e anzi danno tutto il loro tempo per la gestione della Casa. C’è una grande generosità politica e questo ci sembra coerente con la storia del progetto. Quando è stata aperta ufficialmente la Casa internazionale delle donne, abbiamo voluto e realizzato attività anche molto diverse da quelle che erano state previste all’inizio (l’ostello-foresteria rivolto a donne che vengono da fuori Roma, la ristorazione, attività culturali con contatti internazionali). Oggi abbiamo, per esempio, uno spazio espo-

sitivo, La Magnolia, che rappresenta un’opportunità a costo zero per le giovani artiste che, dopo selezione, possono per dieci giorni allestire una mostra dei propri lavori. Archivia, invece, è un’associazione di associazioni che gestisce vari archivi ed ha fondi di grande valore e di qualsiasi tipo, letterari, storici, fotografici, iconografici. I n o l t r e gestisce una biblioteca specializzata sulle donne, aperta a chiunque voglia usufruirne. Fa di noi il luogo della memoria storica, della documentazione sulle donne. Abbiamo inoltre uno sportello e un collegamento diretto con diverse associazioni di supporto a donne in difficoltà o che hanno subìto violenza. Insieme, gestiamo un centro di accoglienza per donne in difficoltà nella Provincia di Roma, a Valmontone. Collaboriamo con quaranta associazioni di diverso tipo: di consulenza legale, di aiuto psicologico, terapeutico, di sostegno ai bambini, di consulenza sulla salute della donna e sulla contraccezione. Infine abbiamo una sezione dedicata al benessere della donna, con corsi per l’equilibrio psicofisico (yoga, flamenco). Quali sono i rapporti a livello nazionale e internazionale con realtà simili alle vostre? In Italia non siamo riuscite ad avere un vero e proprio coordinamento. Non ci sono tantissimi centri come la Casa internazionale della donna, e quelli esistenti hanno una storia molto diversa dalla nostra, sono promossi dalle istituzioni del luogo, sono più piccoli, hanno un modello diverso, costruito soprattutto per impulso pubblico. E anche all’estero è così. In Spagna, a Barcellona, c’è un importante e particolarmente attivo centro culturale per le donne, ma è il comune che copre tutti i costi. Noi invece dobbiamo fare, economicamente e praticamente, tutto da sole, non possiamo chiedere finanziamenti diretti al Comune avendo già ricevuto la sede, anzi dobbiamo pagare al Comune un affitto consistente. Ci manteniamo attraverso le attività, il ristorante, la foresteria, l’affitto delle sale, le sottoiscrizioni, le tessere. Partecipiamo anche a diversi bandi di progetti, e proprio ultimamente ne abbiamo vinto uno per il centro per donne in difficoltà di cui parlavo prima (a Valmontone, ndr). In questi casi, otteniamo il finanziamento pubblico, ma ovviamente è impiegato per i progetti. È anche per questa autonomia economica, che a livello nazionale e internazionale godiamo di un’ottima reputazione.


Negli anni, registrate una crescita nell’affluenza, nella partecipazione? Dipende dalle attività. Quando ne parte una nuova, abbiamo un picco e l’entrata di un nuovo pubblico. Molte attività però si sono stabilizzate.

“Oggi abbiamo anche uno spazio espositivo, La Magnolia, che rappresenta un’opportunità a costo zero per le giovani artiste che, dopo selezione, possono per dieci giorni allestire una mostra dei propri lavori” Quest’anno abbiamo organizzato due cose nuove: una giornata di apertura ogni mese per genitori e figli, quindi con l’apertura della Casa alle giovani coppie e, in accordo con la Regione Lazio e l’Assessorato all’agricoltura, un mercatino di prodotti di donne che lavorano nell’agricoltura laziale. Questi sono esempi di attività che fanno conoscere la Casa e portano nuove persone all’interno, anche se occasionalmente. Abbiamo invece un’evidente difficoltà a far partecipare le generazioni più giovani. Malgrado servizi come Archivia, malgrado le nostre lezioni nelle scuole sulla storia delle donne e malgrado in quelle occasioni, noi registriamo un grande interesse, è difficile che le giovani donne mantengano con la Casa un rapporto continuativo e stabile. Anche la partecipazione ai corsi dedicati al benessere è sporadica e noi vediamo che si tratta, in quel caso, di attività che funzionano molto più per una fascia media d’età. Le giovani hanno un altro approccio rispetto ad una generazione come la nostra che percepisce di più l’importanza di un luogo costruito per le donne. Loro sentono meno questa esigenza e solo in un secondo momento, con l’ingresso nel mondo del lavoro e nella realtà della famiglia, si rendono conto delle difficoltà. Soltanto qualche ragazza viene molto attratta, scopre come un’altra dimensione, acquista una visione globale. Ma si tratta di una minoranza. Anche durante le manifestazioni riusciamo meglio a interagire con le giovani donne dei collettivi, ma è solo un’occasione e non si crea un vero rapporto.

Forse, oggi, le giovani donne credono di avere già conquistato ciò per cui voi avete lottato? Sicuramente sì, non c’è la giusta percezione dei problemi. Sono domande che ci stiamo ponendo, aprendo anche una discussione sulle giovani di seconda generazione di immigrati, perché le tematiche cambiano nel tempo. Siamo in collegamento con un’associazione di donne che vivono appieno il nostro paese, il loro stare in Italia, sono nate qui, hanno gli stessi nostri diritti, ma si scontrano con tutta una serie di problemi sul lavoro, in ambito sociale e all’interno della famiglia stessa, che è spesso portatrice di valori diversi e vuole mantenerli. Da questo punto di vista, il nostro è un paese retrogrado, chiuso a questi cambiamenti. Noi ci rendiamo conto che i problemi non sono più soltanto quelli immediati di una volta, l’autonomia politica, l’autonomia culturale, i diritti sul lavoro, la ricerca di uno spazio come questo, la voglia di lavorare tra donne... Immagino che qui non si vedano molti uomini... Di sicuro, noi vogliamo dare lavoro alle donne. Poi, gli uomini partecipano ai convegni, vengono qui esperti dei vari settori, ma il taglio è sempre quello della valorizzazione delle donne.

“Archivia è un’associazione di associazioni che gestisce vari archivi e ha fondi di grande valore e di qualsiasi tipo, letterari, storici, fotografici, iconografici: fa di noi il luogo della memoria storica e della documentazione sulle donne” Parliamo, questo sì, di come cambiano o possono cambiare le cose anche per gli uomini, del cambiamento possibile dei ruoli. Di recente abbiamo promosso iniziative in questo senso come quella intitolato “il mammo” sul rapporto tra maternità e paternità così come abbiamo aperto da tempo un confronto con alcune realtà associative promosse da uomini che intendono ridiscutere della loro identità e creare un rapporto diverso con l’universo e l’identità femminile.

Attività in corso presso la Casa internazionale delle Donne - Danza flamenca; danza del ventre - Musica per bambine/i (0-36 mesi); AIKIDO per bambini (6-12 anni) - Storia delle donne; italiano per straniere - Seminario teorico-esperienziale sul sogno; gruppo psicoterapico; gestire la rabbia; migliorare l’autostima; problematiche familiari -Accompagnamento alla nascita dal IV mese ed incontri tra neomamme; raja yoga; ginnastica generale; Ti Ji Quan; Kundalini Yoga; bioenergetica; NIA - Ginnastica posturale; agopuntura; riflessologia plantare; counseling-massoterapia; metodo Feldenkrais; osteopatia; naturopatia; yoga in due - Vitraux; tessitura a telaio; batik; serigrafia su stoffa; restauro del mobile antico; laboratorio del legno; disegno; disegno e pittura -Taglio e confezione; ritratto fotografico; laboratorio musicale; coro Casa internazionale delle donne

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Manager o veline? La donna nell’universo dei media di Gianpiero Gamaleri

È certamente questo uno dei temi centrali del nostro tempo, su cui si gioca sostanzialmente la dignità della figura femminile e l’avanzamento della nostra democrazia. Che la donna abbia un ruolo rilevantissimo nel mondo della comunicazione è indubbio. Essa è infatti l’emblema del valore delGianpiero Gamaleri la bellezza, della valorizzazione della dimensione estetica. Ma proprio questa sua prerogativa rappresenta anche il suo rischio: di vedere assolutizzata la sua immagine privandola della dimensione intellettuale, professionale e affettiva, o peggio ancora esponendola a gravi rischi di violenza esplicita o subdola. Questa dialettica è stata sintetizzata in uno slogan, non certo esaustivo ma sicuramente efficace. Le donne in televisione: manager o veline? Questo interrogativo è stato il centro del dibattito al festival della Tv di Edimburgo. Jeremy Paxman, giornalista di lungo corso della BBC, ha addirittura denunciato l’invadenza femminile. Questo forse avviene talora nel piccolo schermo, ma non certamente nelle stanze in cui si decide la politica culturale degli enti televisivi. Al contrario, su 35 posti di alto livello dell’emittente pubblica inglese solo 10 sono donne e soltanto 4 su 15 membri siedono nel Consiglio di amministrazione. E da noi? In attesa di un’indagine in corso del ministro delle pari opportunità, Mara Carfagna, diamo qualche primo dato. Nell’associazione dirigenti Rai, su 325 iscritti, le donne sono una cinquantina e quasi nessuna attinge a responsabilità apicali nelle reti e nei supporti amministrativi e tecnici. In CdA sono una su nove. Le cose vanno un po’ meglio nel settore giornalistico, dove si hanno figure femminili da caporedattore in su, con qualche direttore, come ad esempio la Scaramucci alle teche, la Del Bufalo ai parlamentari. Ma sono in regressione da quando la Buttiglione ha lasciato la direzione dei telegiornali regionali. Comunque nelle riunioni di redazione delle grandi testate la presenza maschile è nettamente maggioritaria. Dal video alle responsabilità di comando Nell’esposizione in video le cose si capovolgono e le immagini femminili dilagano comprensibilmente. E non parliamo del mondo dello spettacolo, dove il mito della velina non regredisce ma investe troppe ragazze. In questo contesto colpisce la scelta, nell’area della carta stampata, di Concita De Gregorio alla direzione de l’Unità.

Già Daniela Hamaui aveva dimostrato che una eccellente giornalista può dirigere con grinta (molte sue inchieste hanno lasciato il segno) un grande settimanale come L’Espresso e non solo una rivista femminile. E non si può dimenticare Milena Gabanelli, che conduce “in solitaria” la sua rubrica Report. Inoltre Lorenza Lei è diventata Vicedirettore Generale della Rai insieme a tre dirigenti uomini. Una tendenza in movimento Bisogna però registrare anche un vero e proprio movimento di valorizzazione della donna nell’ambito del management culturale. L’agenzia di comunicazione Key4Biz raccoglie le voci di donne già impegnate in posizione di responsabilità che riflettono e fanno proposte su futuri sviluppi. Scrive Elisa Manna, responsabile comunicazione e cultura del Censis e membro della commissione ministeriale Tv e minori: «Mi chiedo cosa penserebbe del genere femminile terrestre un marziano che guardasse la nostra TV. È deprimente: a fronte degli sforzi che le donne italiane hanno fatto negli ultimi decenni per crescere come persone, con la testa e con il cuore, in una società che non le ha certo favorite, i media continuano a rappresentarle come corpi senza cervello, stupidamente ammic-

“Nell’associazione dirigenti Rai, su 325 iscritti, le donne sono una cinquantina e quasi nessuna attinge a responsabilità apicali nelle reti e nei supporti amministrativi e tecnici” canti, con il perenne atteggiamento di chi è pronto a darsi in cambio di qualcosa. È umiliante. E imbarazzante. Le nostre figlie adolescenti ci guardano con un punto interrogativo nello sguardo, come a dire: perché ci educate a crescere come persone se poi vanno avanti solo quelle che si spogliano? Vogliamo dare a queste ragazze una risposta? Vogliamo provare a cambiare rotta? Un paese civile non rappresenta le sue donne come entreneuse». L’occasione del nuovo Contratto di servizio della Rai Lo scorso 28 dicembre 2009 un gruppo di donne ha sottoscritto un appello ai ministri Claudio Scajola e Mara Carfagna, al vice ministro per le comunicazioni Paolo Romani, ai presidenti della Commissione parlamentare Rai Sergio Zavoli, dell’Autorità per le comunicazioni Corrado Calabrò e della Rai Paolo Garimberti, perché in occasione del rinnovo del Contratto di servizio della Rai si indicassero precisi obiettivi in direzione di un corretto posizionamento della donna in seno all’organizzazione e alla programmazione del servizio pubblico.


Dream of Life Rock, poesia e ribellione nella musica di Patti Smith di Ugo Attisani

Oggi sembra impossibile movimento dalle sue posizioni, né tanto meno riusciranparlando di Patti Smith, no in questo personaggi diversi e indubbiamente affascicon una discografia di nanti come Marianne Faithfull e Nico, sulle quali aleguna decina di album in gerà sempre il sospetto di una pura presenza decorativa; parte già onorata delle d’altro canto non era difficile scorgere una misoginia ormai tradizionali deluxe come pensiero comune a gran parte dei musicisti rock edition, distinguere la sua figura da quelle delle al“Patti Smith creò praticamente dal tre rock icon maschili. Se nulla una nuova figura di artista che, quindi la tentazione e il fungendo da ideale trait d’union tra il rischio sono quelli di perrock degli anni Sessanta e il punk di dere di vista l’importanza Ugo Attisani e il ruolo che un artista fine anni Settanta, conserverà fino ai ha nel suo tempo, travolti giorni nostri la sua vitalità innovativa” dal peso del mito, forse è utile ripensare proprio ai temmaschi. Schiacciata quindi tra una famiglia e un educapi in cui il mito, prima appunto di essere tale, si affacciò zione tradizionale e le sue aspirazioni artistiche di fuga, al mondo. Nel 1975, anno di uscita del suo primo almondi opposti in teoria, ma ugualmente accomunati da bum, Horses, il mondo della musica e della cultura pop un idea patriarcale dominante, Patti Smith ebbe però la si trovava in un periodo di stallo creativo e di confusiopossibilità, forse proprio approfittando del periodo critine. Le band più rappresentative del rock tradizionale deco in cui si trovò ad agire, di creare praticamente dal gli anni Sessanta erano ormai sciolte, o ancor peggio nulla una nuova figura di artista che, fungendo da ideale impantanate nelle loro stesse manie di grandezza; gli trait d’union tra il rock degli anni Sessanta e il punk di esponenti della tradizione cantautoriale nordamericana fine anni Settanta, conserverà fino ai giorni nostri la sua come, per esempio, Bob Dylan e Neil Young si trovavavitalità, innovatività e peculiarità. Patti cercò i suoi eroi no alle prese con momenti di grande valore artistico tra i poeti decadenti (Rimbaud), i rocker più trasgressivi (Blood On The Tracks; Tonight’s The Night) ma di altret(il suo taglio di capelli era, per sua stessa ammissione, tanto grande introspezione. La musica disco nel frattemquello di Keith Richards), e soprattutto Bob Dylan da po invadeva le classifiche su entrambe le sponde dell’ocui prenderà in toto il suo look. Con questo patrimonio ceano, il solo glam rock di David Bowie e Marc Bolan sulle spalle, fuggita dalla scuola e da un lavoro in faba difendere il ruolo centrale della chitarra nella musica brica, Patti cercherà rifugio nella New York di metà depop, mentre la rivoluzione punk era ancora di là da venigli anni Settanta, dove, dopo il fallimento degli ideali re. Nonostante questo, nulla sembrava turbare un altro della Summer of Love e del moviprincipio cardine su cui il rock si mento hippie, la controcultura era basato sin dalla sua nascita, ovvero l’avere al centro della sua americana cercava di riorganizzarsi attorno alle figure imponenti dei mitologia la ribellione verso gli reduci dell’epoca beat, William schemi tradizionali e precostituiti Burroghs e Allen Ginsberg in testa della società, ribellione che però (ancora figure maschili!). Qui, asveniva declinata esclusivamente in sieme al fotografo Robert Mapplesenso non tanto maschile quanto thorpe, si dedicherà alle attività maschilista. Il ruolo della donna artistiche più disparate; scriverà infatti, tanto all’interno della culinfatti un testo teatrale con Sam tura rock e nel suo immaginario, Shepard, alcuni testi verranno utiera stato fino a quel momento aslizzati nelle canzoni dei Blue Oysolutamente marginale e subalterster Cult, band hard rock nella no: le poche figure femminili prequale militava come tastierista il senti come protagoniste dirette suo partner dei tempi Allan Lanella musica rock, come per esemnier, mentre alcuni suoi articoli pio Janis Joplin, nonostante la loro saranno pubblicati dalle riviste indubbia statura artistica, poco rock Rolling Stone e Creem. Tutavevano fatto per emancipare il Patti Smith, foto di Annie Leibowitz ©

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tavia la passione di Patti era e derne l’originalità e l’imporrimane la poesia, quella di tanza, anche in relazione al Rimbaud, Whitman e Blake e suo essere donna. quella che lei stessa andava Con Patti Smith possiamo dire, componendo, seguendo un infatti, che nasce l’art rock, che suo personalissimo percorso per anni era stato il sogno non che la porterà a elaborare un confessato di molti critici e con concetto di performance che, questo una figura di artista pocome lei stessa affermerà poi, polare sì, ma anche in grado di troverà il suo naturale e mielevarsi a un ruolo di rilievo gliore approdo nell’essere nella cultura moderna. Ancor cantante e leader di una rock più interessante è notare come band. In questo senso, decisia fare questo sia stata un’artista vo fu l’incontro con quello Patti Smith a Provinssirock festival in Finlandia nel 2007, donna che ha però scelto, almeche sarà poi il chitarrista del foto di Beni Köhler © no a uno sguardo superficiale, suo gruppo, Lenny Kaye, di aggirare o forse ignorare più commesso di un negozio musicale, giornalista rock anche superare o affrontare direttamente, il problema della ch’egli e ri-scopritore della tradizione garage rock amecentralità della sessualità nella musica rock. Patti Smith ricana dei Sixties in contrasto con la grandeur del hard non fa mai riferimento nella sua arte al suo essere donna, rock e del progressive degli anni Settanta. Sui palchi del né lancia proclami su questa tematica e adotta un look e CGBG’S, locale nato proprio in quegli anni e che divenun insieme di riferimenti quasi esclusivamente maschili. terà poi celebre come luogo di nascita del punk, Patti afIn realtà forse è possibile individuare in questo atteggiafinerà quella che è la sua innovativa formula rock, arrimento e modo di essere, non tanto un tralasciare o fare vando per prima, davanti a un’ imponente schiera di colfinta di tralasciare questo aspetto tanto controverso del leghi maschi destinati anch’essi alla storia del rock (Rarock, ma l’averlo consapevolmente rigettato come retagmones, Television), alla firma di un contratto discografigio di un passato di cui si è deciso di fare a meno. L’influenza di questa svolta epocale è rintracciabile ancora oggi in una miriade di musicisti e di formazioni che “Horses costituisce ancora oggi la hanno trovato nell’opera di Patti Smith un nuovo punto summa dell’arte smithiana, nonché di partenza nella definizione della musica rock. punto di partenza e modello per tutti E a questo proposito, è importante ricordare quanto Patti quelli che cercheranno negli anni di Smith fu una figura importante nella formazione di due personaggi come Michael Stipe e Morrissey, entrambi trovare un equilibrio tra la leader delle due band, i Rem e gli Smiths, che all’inizio provocazione e la trasgressione del degli anni Ottanta misero un punto finale alla rivoluziorock da un lato e la poesia e la ne punk dai due lati dell’oceano e cominciarono a porre letteratura dall’altro” le basi di quello che sarebbe venuto dopo. Entrambi, a co e alla pubblicazione del suo esordio Horses. causa della loro omosessualità, impegnati e obbligati a Nonostante siano passati più di trent’anni dalla sua pubsuperare gli angusti confini del modello di musicista blicazione, Horses costituisce ancora oggi la summa rock trasmesso dalla tradizione. dell’arte smithiana, che troverà poi forma più compiuta ma meno sorprendente con i successivi Radio Ethiopia e “La carriera di Patti Smith Easter, nonché punto di partenza e modello per tutti rappresenta uno dei più importanti e quelli che cercheranno negli anni del punk prima, del originali modi di essere artista e post punk e new wave poi di trovare un equilibrio prima neanche immaginabile tra la provocazione e la trasgrespoetessa cui possiamo fare riferimento sione del rock da un lato e la poesia e la letteratura daloggi e un’indiretta e ironica risposta a l’altro. quanto, con poca lungimiranza, Robert Dentro Horses troviamo quindi i riferimenti poetici Graves affermava nel suo La Dea highbrow, che la accomunano nel passato a figure come Bianca: La donna non è un poeta; o è quella di Jim Morrison, e allo stesso tempo la capacità sincera di scioccare, che soltanto il punk dopo di lei una musa o non è niente” avrà il coraggio di avere (pensiamo all’opener track del suo primo album, dove all’inizio della sua riedizione di La carriera di Patti Smith rappresenta quindi uno dei più Gloria di Van Morrisson pone la celebre affermazione importanti e originali modi di essere artista e poetessa «Gesù è morto per i peccati di qualcun altro, non per i cui possiamo fare riferimento oggi e un’indiretta e ironimiei»). E forse è proprio nell’enorme attualità che l’oca risposta a quanto, con poca lungimiranza, Robert pera di Patti Smith ha ancora oggi e nell’influenza che Graves affermava nel suo La Dea Bianca: «La donna esercita per il rock venuto dopo di lei che possiamo venon è un poeta; o è una musa o non è niente».


Quello che le donne dicono La voce che nasce dal silenzio e che di esso porta l’eco di Michela Monferrini «Non credo ci siano diffemato e travalicato la scena letteraria, non soltanto racconrenze nel cervello di uotando il proprio tempo, ma “facendolo”, dando una forma mini e donne che rendano al Novecento, “secolo del talento femminile”. diverso il loro modo di E dalle Memorie, vengono fuori quelle differenze storiche scrivere. Non esiste un tra scrittori e scrittrici che Nadine Gordimer non ripercorpremio per scrittori uomire, riferendo quell’affermazione al momento attuale: prini, né per gay o lesbiche: mo tra tutti la scrittura come pratica di sopravvivenza per perché devo ricevere un molte donne di inizio secolo che cercavano in quel modo premio per il fatto di essesoltanto di prendere la parola, di proclamare la propria esire donna? Io sono una stenza, senza provare quella «contorta ma caparbia deterscrittrice, non una donna minazione» che contraddistingue lo scrivere per passione scrittrice». Con queste pae per urgenza. Queste differenze nel mestiere di scrivere, role, lo “scrittore donna” l’autorità, i riconoscimenti, la fama che un uomo e quasi Nadine Gordimer ha resoltanto un uomo scrittore, per anni, ha potuto ottenere, riMichela Monferrini centemente spiegato il suo rifiuto ad accettare un premio, appunto, per donne scrittri“Anna Maria Ortese si definiva come ci. Come a dire: se non c’è nessuna differenza, perché ‘Uno scrittore-donna, una bestia che dobbiamo essere escluse, distinte, separate? Gareggiamo invece insieme, abbiamo le stesse armi e la stessa possibiparla, dunque’ una formula che lità di arrivare al traguardo. rimandava alla condizione, appunto In qualche modo c’è, in questo messaggio-rifiuto, qualcosa bestiale, in cui la donna è stata a lungo che va oltre il femminismo comunemente inteso e conosciuto, qualcosa che molte delle stesse “femministe della relegata e al suo silenzio ad un certo prima ora” sembrano non aver compreso, e cioè che su punto magicamente rotto a creare molti fronti le battaglie non possono più essere combattute questo strano animale quasi attraverso una ghettizzazione che proprio loro causano o promuovono. Non è più una guerra di trincea e le alte grida mitologico” rischiano di risuonare solo come testimonianza di un’impotenza reale, come spesso chi alza la voce sa di essere la specchiavano di volta in volta la situazione sociale, la conparte più debole e distrugge il dialogo. Così, sembrano dire dizione della donna e i limiti che le venivano imposti. le parole del premio Nobel, la sola istituzione di premi per Nello scritto intitolato Attraversando un paese sconosciudonne scrittrici significa recludere entro confini troppo to, molto amato dalla Rasy, Anna Maria Ortese si definiva stretti chi ogni giorno si siede davanti al suo computer con come «Uno scrittore-donna, una bestia che parla, dunque» la voglia innanzitutto di scrivere, senza differenze di sorta. e questa formula rimandava alla condizione, appunto beEppure, esiste una lunga tradizione di scrittrici che hanno stiale, in cui la donna è stata a lungo relegata, e al suo siparlato di scrittrici, che hanno dedicato libri interi alle lenzio ad un certo punto magicamente rotto, come per un opere delle donne nel tempo, come a riconoscere un merimiracolo, a creare questo strano animale quasi mitologico. to in quell’insegnamento tutto al femminile, come a voler Ma, al di là delle battaglie che anche in letteratura le donspecchiare la propria passione, proprio, solne hanno dovuto combattere per far emergere tanto, nella passione di altre donne, traccianle proprie voci e per avere credibilità, Rasy do itinerari di tematiche, sensibilità, attenrintraccia anche nella scrittura - in un’ideale, zioni che, se sembrano avere molto in comuimmaginario confronto a distanza con Nadine ne tra loro (e questo avviene anche a distanGordimer - le differenze tra un uomo e una za di decenni e di continenti), altrettanto donna. Non si tratta di avere “differenze nel sembrano scostarsi da quello che gli scrittocervello”, ma di possedere una voce che solri, gli uomini scrittori, hanno lasciato. Ultitanto in un caso - ed è quello femminile mo tra i “tributi in rosa” della letteratura ita«nasce dal silenzio e che porta l’eco del silenliana, recentemente pubblicato, le Memorie zio; la voce-corpo». E continua l’autrice, pardi una lettrice notturna di Elisabetta Rasy, lando di scrittrici mistiche: «è probabilmente dedicato appunto alle figure di illustri donne in questa scrittura, nata lontana dalle parole della letteratura del Novecento. Il senso del dell’istituzione, fuori o in contrasto con il popercorso che Rasy traccia tra tutti i possibili, tere verbale della Chiesa, in un dehors a rista nel suo gusto personale di lettrice (dalschio, che ho maggiormente vista inscritta La scrittrice sudafricana nella letteratura la differenza tra uomo - scritl’infanzia ad oggi), ma anche e soprattutto Nadine Gordimer, premio tura istituzionale - e donna - scrittura del marnello scegliere quelle scrittrici demiurghe Nobel per la letteratura gine, fuori canone se non fuori legge». che con le loro parole sembrano aver infiam- nel 1991

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La rivincita delle sportive Record, medaglie e soddisfazioni tinte di rosa di Camilla Spinelli

È appena uscito il nuoProbabilmente sono state le vere star di questo 2009 appevo album delle figurine na finito. del campionato di calcio I programmi sportivi nazionali hanno dato poco risalto, o 2009/2010 Panini e questo comunque non nel modo che avrebbe meritato all’impresa non fa molto notizia dal della tennista pugliese Flavia Pennetta, ora numero 12 del momento che si tratta di ranking mondiale, che qualche mese fa ha firmato la miuno tra i più classici apglior prestazione italiana di sempre sia in campo femminipuntamenti per gli afle che in campo maschile. fezionati di questo sport. Non si può poi non parlare di Josefa Idem, la canoista teNel nostro paese siamo desca naturalizzata italiana agli inizi degli anni Novanta, tutti amanti del calcio e ci che ha saputo rimettersi in gioco dopo i tanti trionfi sportipiace parlarne, sbeffeggiavi e soprattutto dopo essere diventata mamma. Nel 2004 re il rivale del momento o infatti, a 40 anni e a soli 15 mesi dalla nascita del suo sequello di sempre che non condo figlio, ha vinto la medaglia d’argento ai Giochi di Camilla Spinelli se la passa molto bene in Atene. Tre anni dopo, si è aggiudicata un altro argento alle classifica. Sappiamo che ovunque andiamo, il calcio è Olimpiadi di Pechino e per soli 4 millesimi di secondo l’argomento chiave se si vuole attaccare bottone in un bar non è salita sul gradino più alto del podio. o dal giornalaio. Tutti si ritengono esperti e infatti nessuno In tutto questo una domanda sorge spontanea: ma gli uopoi lo è fino in fondo. Amiamo uno sport che negli ultimi mini dove sono? Il calcio si sta rivelando una macchina anni è stato colpito profondamente dallo scandalo di “calpotente ma allo stesso tempo pericolosa perchè se è vero ciopoli” che alla fine si è risolto in una semplice bolla che fa girare soldi più di ogni altro sport, c’è anche da dire d’acqua, e che vede i maggiori imputati ancora lì a ricoche monopolizza pubblico e federazioni, lasciando poco a prire le cariche di una vita, puniti sì ma all’“italiana”. tutti gli altri. E allora, visto che non esiste uno sport femSe però si riuscisse ad andare oltre la pagina 15 del Corminile esageratamente importante come il calcio lo è nella riere dello Sport o della Gazzetta, si scoprirebbe un monsfera maschile, qui tutte possono fare la differenza e tutte do diverso e nuovo agli occhi dei più. Un mondo tinto di hanno allenatori e rispettive federazioni pronte a investire rosa, non per il colore delle pagine, ma grazie alle protagsu di loro. Ma ad alcune imprese non bastano le ultime paoniste che stanno portando l’Italia dello sport ad un livello gine di un quotidiano o l’ultimo servizio “tappa buchi” di forse mai raggiunto fino ad ora. un telegiornale sportivo. Alcune di esse meriterebbero Il 2009 è stato sicuramente l’anno che ha visto maggiori maggiore risalto proprio per la grandezza sportiva che rapsoddisfazioni per il popolo sportivo femminile, cui purpresentano perchè dietro a ogni vittoria c’è una storia da troppo non viene dato il risalto che meriterebbe. poter raccontare sia che il protagonista sia un uomo che Rimanendo sempre nel mondo del calcio, ci sono stati gli una donna. Non ci dovrebbe essere differenza di sesso in europei di Finlandia 2009 dove la nazionale “rosa” italiana questo perchè una vittoria è sempre qualcosa di eccitante è riuscita ad arrivare fino ai quarti di finale perdendo 2-1 per gli amanti dello sport. contro le ragazze tedesche che poi a metà settembre scorso L’impegno, la voglia e lo spirito agonistico delle donne ci hanno alzato meritatasono e non sono mai manmente la coppa. cati. Forse l’unica cosa che Nello stesso periodo ad davvero manca è un’aperAntalya, in Turchia, si tura mentale da parte dei sono svolti i campionati tifosi per capire che oltre al del mondo di scherma che calcio esistono discipline hanno visto le fiorettiste che sanno far emozionare italiane capitanate dalla tanto quanto quest’ultimo. ormai famosa Valentina Una vittoria “rosa” ha la Vezzali, arrivare prime su stessa importanza di una tutte. Ma non finisce qui, vittoria “celeste” e solo perchè un pò a sorpresa si così si potrà far affezionaè conquistata anche un’alre il pubblico ad atlete fatra medaglia d’oro, quella mose non perchè frequendella squadra femminile tano questo o quel persodi spada che ha battuto in naggio televisivo ma perchè hanno deciso di dedifinale la Polonia. care la loro vita ad uno Che dire poi delle due sport che amano tanto nuotatrici Alessia Filippi Josefa Idem a 40 anni e a soli 15 mesi dalla nascita del suo secondo fiquanto i colleghi maschi. e Federica Pellegrini? glio ha vinto la medaglia d’argento alle Olimpiadi di Atene 2004


Danza Sensibile Intervista a Claude Coldy di Anna Lisa Tota

Vorrei che tu ci raccontassi un po’ il tuo percorso biografico e professionale. Sono nato a Parigi nel 1954. Dopo un normale percorso scolastico mi sono orientato verso gli studi tecnici scoprendo un profondo disinteresse per lo sviluppo delle tecnologie industriali. Ben presto infatti mi sono reso conto che la visione del mondo industriale entrava in conflitto con una mia concezione ecologica del mondo e così ho deciso di prendermi una pausa, un vero e proprio anno sabbatico. In quell’anno ho scoperto la danza, senza grandi progetti, avevo diciotto anni. Decisi di partecipare a una lezione di danza contemporanea in una scuola che si trovava vicino casa mia; l’insegnante si chiamava Françoise Saint-Thibault ed era, all’epoca, la presidente della federazione francese di danza contemporanea, una delle pioniere della danza contemporanea in Francia all’inizio degli anni Settanta. Lei stessa mi incoraggiò a continuare e trovai il suo invito uno straordinario augurio; seguii le sue lezioni che si basavano sulla tecnica di Marta Graham. Aveva un gruppo che si chiamava Arcana e mi invitò a prendervi parte, ma prima avrei dovuto presentare un assolo. Mi organizzai, scelsi un arrangiamento musicale e composi la mia prima coreografia. Un inizio verso una fine vicina. Ci misi dentro tutta la mia rabbia di fine adolescenza, quindi la scuola, il mondo, la robotica, la tecnologia industriale, l’economia. Tutto questo per circa 9 minuti. L’ho presentata e dopo qualche mese ho vinto il premio Jacqueline Kung, in onore di una straordinaria danzatrice classica francese. Quel premio e la sua somma simbolica mi diedero l’entusiasmo per continuare. Cominciai a prendere lezioni di

danza e a lavorare con diverse compagnie. Poi ho unito alla danza il teatro, lavorando con due persone meravigliose: Pinok e Matho che sono gli allievi diretti del padre del mimo francese Ètienne Decroux. Il teatro, un vecchio garage trasformato, si trovava a Montmartre e vi venivano a lavorare tanti artisti. Si studiava il teatro, la voce, la commedia dell’arte, un sacco di cose. Poi sono tornato di nuovo alla danza e ho studiato la classica con una grande maestra che veniva dai balletti del Marchese de Cuevas, una grande danzatrice Solange Golovine proveniente da una grande famiglia russa di artisti e danzatori. Fu davvero un’epoca meravi-

incontri

Claude Coldy è un danzatore e coreografo francese di origini caraibiche. Dopo diverse esperienze sportive e pratiche di arti marziali, dall’età di venti anni si è dedicato allo studio della danza. È passato attraverso il jazz, il modern jazz, il balletto classico, la danza moderna e contemporanea. Ha studiato inoltre mimo e teatro. Nel 1983 ha fondato in Italia la compagnia Arbalete, con la quale ha realizzato numerose tournée in Europa e partecipato a vari festival internazionali. Tornato in Francia, ha fondato a Grenoble il Creatorio - Centre de Formation et de Danse. Alla fine degli anni Ottanta ha iniziato a dedicarsi allo studio dell’osteopatia e nel 1990 insieme agli osteopati Jean Louis Dupuy e Marie Guyon, ha creato la Danza Sensibile®. Da allora si dedica a questa ricerca, conducendo seminari in differenti città d’Europa. Nel 1998 ha fondato l’associazione Diatomées, che ha come intento la pratica e la diffusione della Danza Sensibile® attraverso seminari, cicli di formazione e conferenze. Nel 2005 ha portato a termine il primo ciclo di formazione in Danza Sensibile®, da cui è uscito un gruppo di insegnanti abilitati alla conduzione di gruppi di Danza Sensibile®. (www.danzasensibile.net)

“Il corpo parla di noi, parla attraverso il movimento, attraverso il ritmo” gliosa. Lavoravo con le compagnie, lavoravo in televisione, nel cinema. Poi ho detto basta a tutte queste cose e ho deciso di creare una compagnia che lavorasse sul modern jazz. Ci invitarono a fare una tournée in Italia ed è così che sono arrivato ai balletti di nervi con questa compagnia francese che all’epoca si chiamava Off Jazz. È stato molto divertente: mi sono innamorato del pubblico italiano che era veramente molto caloroso. Dopo uno spettacolo la direttrice di una scuola classica di Genova ci chiese la disponibilità a insegnare presso la sua scuola. Andai e iniziai a insegnare a una classe di circa venti allievi. Più tardi abbiamo creato una compagnia e mi sono decisamente orientato verso la musica contemporanea e sperimentale. Ho conosciuto il musicista Palmieri che faceva parte della prima formazione di musica elettronica

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alla biennale di Venezia, un allievo del gruppo di Luigi Nona. Quindi mi hanno anche proposto uno studio nell’ex ospedale psichiatrico di Quarto. È stata un’esperienza eccezionale. Lo spettacolo è stato portato in tournée in Francia, Germania, Svizzera. Siamo stati invitati a Bagnolet e abbiamo vinto le prime selezioni. Rappresentavo anche l’Italia e per me era un bel successo, la compagnia era nata due anni prima ed era stata selezionata per la finale con una quindicina di compagnie tra un centinaio che si presentavano da tutto il mondo. Come prima esperienza fu molto positiva. Poi le storie d’amore finiscono, ne nascono altre. Sono partito dall’Italia e sono tornato in Francia perché in seguito a una lombalgia avevo conosciuto degli osteopati francesi. A quel tempo lavoravo a una danza molto dinamica, fluida e con questo problema alla schiena era difficile sia fare il coreografo che il ballerino. Questo gruppo di osteopati mi rimise letteralmente in piedi. Questa esperienza mi toccò profondamente e cominciai a pensare di dialogare con il corpo in modo diverso. Iniziai a studiare il loro metodo. Scoprii l’osteopatia. Quindi è a causa di questa lombalgia che tu hai cambiato lo studio del corpo nella danza? Precisamente. L’osteopatia mi ha permesso di comprendere che si potevano ottenere delle risposte dal corpo molto più armoniose, molto più ecologiche. Mano a mano che studiavo l’approccio osteopatico con questo gruppo di terapisti, ho iniziato a sviluppare i miei strumenti legati alla danza, al corpo in movimento. Nasce così la Danza Sensibile… Sì. Per tre o quattro anni ho studiato anatomia, fisiologia e simbologia del corpo a fianco di questo gruppo di osteopati. Ho poi proposto loro di lavorare insieme ad un concetto che avrebbe unito il pensiero osteopatico con la mia ricerca e con il mio desiderio di un’altra modalità di trasmettere e di entrare nella danza. E così, dopo un anno di riflessione specifica su questo concetto, su questa nuova forma di insegnamento del movimento è uscita la parola Danza Sensibile. È cosi che è nata. All’inizio degli anni Novanta non usavo ancora questa definizione, era troppo nuova e mi sentivo insicuro; poi a poco a poco l’ho fatta mia, ho depositato e registrato il marchio. Tutt’ora lavoro con la stessa coppia di osteopati, che sono la colonna portante dei cicli di formazione triennale di Danza Sensibile. Il primo osteopata lo conobbi a Stra-

sburgo ed è diventato il presidente della federazione degli osteopati canadesi: è molto bello vedere come le cose sono andate avanti. Se ti chiedessi di descrivere, di definire per i nostri studenti e le nostre studentesse che cos’è la Danza Sensibile come potresti spiegarlo loro? Lo so che bisogna vederla per capire però forse anche con le parole possiamo provare a dare un’idea. La Danza Sensibile è sostanzialmente un pensiero che si propone di facilitare l’espressione di colui che vive in uno specifico corpo. Chi è che vive in questo corpo? Quali sono le potenzialità di questo corpo? Quali sono le leggi che abitano questo corpo? Qual è la sua storia? Com’è nato? Si delinea un percorso caratterizzato da quattro direzioni fondamentali. Una prima direzione riguarda il campo dello sviluppo personale riscoprendo il proprio corpo e la sua relazione con il mondo; una seconda direzione è legata alla pedagogia e all’educazione: questa modalità diventa un fondamentale strumento pedagogico

“L’osteopatia mi ha permesso di comprendere che si potevano ottenere delle risposte dal corpo molto più armoniose. Mano a mano che studiavo l’approccio osteopatico ho iniziato a sviluppare i miei strumenti legati alla danza, al corpo in movimento” e alcuni insegnanti delle scuole di ginnastica o di lingue per bambini usano questa in relazione al corpo per trasmettere la loro materia; una terza direzione è finalizzata alla riarmonizzazione dei vari corpi dal più denso al più sottile, lavorando sui diversi sistemi, da quello articolare a quello muscolare, a quello emozionale. Negli ultimi anni abbiamo sviluppato un lavoro di accompagnamento della gravidanza con un ginecologo dell’ospedale di Poggibonsi, la dott.ssa Grandi che si è entusiasmata per questo approccio che dà risultati meravigliosi. C’è infine una quarta direzione che riguarda in modo specifico l’espressione artistica: ai corsi di Danza Sensibile partecipano molti attori, danzatori, insegnanti di tecniche corporee, gente che fa arti marziali, che fa shiatsu: vengono, come dire, a nutrirsi dentro questo pensiero della


Danza Sensibile. Quindi la Danza Sensibile ti ha portato a ragionare sul corpo al di fuori del percorso strettamente legato alla danza, perché quello che tu mi dici riguarda in generale il modo in cui possiamo abitare meglio il nostro corpo, valorizzare la nostra espressività corporea e anche come possiamo curare il nostro corpo, il nostro abitare nel corpo, perché alla fine tu attraverso l’analisi e lo studio del movimento ci parli del nostro essere nel mondo… Ho creato un capitolo e l’ho chiamato In relazione al mondo: spesso si fa un passo troppo grande, questa è una caratteristica tipicamente umana. Sia sul piano concettuale che su quello evolutivo. Bisogna rallentare i passi, reintegrarli con quelli del mondo. Come sai, questo numero in cui pubblichiamo l’inter-

“Ho studiato anatomia, fisiologia e simbologia del corpo a fianco di questo gruppo di osteopati. Abbiamo lavorato insieme a un concetto che avrebbe unito il pensiero osteopatico al mio desiderio di un’altra modalità di trasmettere e di entrare nella danza. Così è nata la Danza Sensibile” vista è dedicato agli studi di genere. Tu sei un danzatore che occupa uno spazio, quello della danza, che è tradizionalmente femminile, almeno nell’immaginario collettivo. Come ti sei posto verso questa questione, ti ha creato dei problemi oppure è stato un percorso naturale? Nell’immaginario di molte persone la danza è una dimensione inaccessibile e soprattutto non integrata col mondo moderno, un mondo che solo apparentemente si occupa del corpo, direi che si occupa della forma del

corpo, piuttosto. Indubbiamente questa è una difficoltà, in più io venivo da studi tecnici e per di più sono un uomo. Mi ricordo che, giunto in Italia, mi sono trovato spesso per ragioni burocratiche a dover dire che sono un ballerino e mi ricordo che non tutti capivano che la danza fosse il mio mestiere; alcuni pensavano che fosse un hobby, sembrava davvero strano in quegli anni, immagino. In più ero uno dei pochi ballerini di colore, di origine caraibica, quindi un meticcio… insomma ero inconsueto. Per giunta molte persone pensano che il ballerino uomo sia necessariamente effeminato nel comportamento… probabilmente un poco lo sono anche io, tuttavia il fatto di aver praticato per tanto tempo le arti marziali, mi ha aiutato ad approcciarmi al movimento armonico in modo più centrato, mantenendo viva la mia identità maschile, integrandola e realizzandola anche attraverso la danza: oggi sono padre di due figli. Nelle scienze della comunicazione c’è tutta una parte della comunicazione che è fortemente trascurata ed è quella parte che va sotto il nome di aptica o comunicazione corporea e la mia impressione è che tu attraverso la Danza Sensibile abbia potuto individuare degli strumenti, delle categorie concettuali, delle prospettive che permettono di comprendere la comunicazione corporea molto meglio di quanto abbiano fatto i sociologi della comunicazione, cosa pensi di questo? Con molto rispetto per i sociologi della comunicazione, studio danza da quando avevo diciotto anni, integrandola, come ti dicevo, con tante altre discipline. Ho fatto studi di psicosomatica, ho studiato il comportamento biologico con il prof. Hamer che ha aperto una grande scuola di biologia del comportamento. Sostanzialmente esiste una relazione tra il nome della parte del corpo in cui si manifesta la patologia e la patologia stessa: in base a dove si manifesta si può capire qual è il tipo di problematica che vive la persona nella sua relazione con il mondo. La relazione tra il corpo e il cervello si può paragonare alla nostra relazione con l’universo. Il tema è affascinante e inesauribile. Quando tu incontri una persona, per esempio un nuovo danzatore, una nuova danzatrice e guardi il suo corpo, cosa vedi?

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La cosa più importante, non è tanto sapere se la persona è dritta, se ha una bella posizione o se ha tante conoscenze tecniche, ma quali sono i messaggi che esprime attraverso il suo corpo. La prima cosa è accogliere la persona globalmente: non bisogna avere un occhio analitico ma un occhio che accolga pienamente i messaggi che arriva-

“La Danza Sensibile è sostanzialmente un pensiero che si propone di facilitare l’espressione di colui che vive in uno specifico corpo. Chi è che vive in questo corpo? Quali sono le sue potenzialità? Quali sono le leggi che lo abitano? Qual è la sua storia?” no da un determinato corpo, il corpo parla di noi, parla attraverso il movimento, attraverso il ritmo. Immagino che sia importante anche la velocità del corpo, la velocità alla quale il corpo si muove è un elemento importante nel tuo lavoro? Il ritmo è un elemento molto importante, io lo riassumo nella presenza. Com’è questa presenza? Qual è la qualità di presenza? Bisogna provare a individuare la natura della presenza della persona che abita il corpo. Se ti chiedessi di provare a esplicitare qualcuno dei criteri sulla base dei quali lavori, che cosa diresti? Immaginiamo che tu debba insegnare a una persona a migliorare la qualità della sua presenza… Partiamo da un assioma: la presenza chiede tempo presente. I nostri contemporanei sono in difficoltà perché facciamo tutti cinque cose contemporaneamente. L’occhio si muove continuamente, siamo abituati in città a rispondere al cellulare, a guardare le vetrine, ad osservare il colore del semaforo, a seguire la freccia e stare attenti che l’altro non ci calpesti. La presenza implica lo stare nel tempo presente, non in quello che faremo tra cinque minuti, tra trenta secondi, al contrario delimita lo spazio, ci obbliga a fermarci, a stare nell’attimo e stare nell’attimo significa tornare al sentire, e quando io ritorno alla sensazione, ricontatto i miei bisogni e la presenza si nutre della capacità di rispondere ai miei bisogni. Il semplice esercizio di essere nel tempo presente si rivela una grande esercizio di consapevolezza. Si è vero, perché la noia è quel meccanismo che insorge nel momento in cui mi stacco dalla sensazione ed entro nel razionale, nel cognitivo, è lì che si genera il processo di noia. Ma se rimango al livello della sensazione a livello delle emozioni la noia non dovrebbe intervenire, perché è la noia il meccanismo che ci porta a staccarci dal tempo presente o sbaglio? La noia è un messaggio di inadeguatezza del nostro vissuto in quel momento: la presenza si nutre fortemente di questa capacità di essere nel presente, di radicarsi con un livello di vigilanza che non è quello abituale, perché noi chiamiamo presenza questo sforzo di essere come un attore che scruta un mondo all’esterno direi: un carro armato con tutti i fucili puntati verso l’esterno pronti in posizione di difesa. Al contrario la presenza che io pro-

pongo di sperimentare è l’opposto, è un po’ quella dei mammiferi marini: quasi per l’80% aperto alla relazione col gruppo interno e un 20% preoccupato da quello che accade all’esterno. E noi umani funzioniamo all’opposto, l’80% orientati a proteggersi dall’esterno e il 20%, anche meno, verso il gruppo. Dunque quello che chiamiamo presenza è il luogo di un grande fraintendimento. La presenza è la capacità di essere lì nel presente, aperti al mondo. La cosa che mi colpisce molto e che secondo me rende particolarmente originale il tuo lavoro è il fatto che quello che dici rispetto alla presenza, essere nel tempo presente, esserci, è un discorso che in realtà potrebbe fare benissimo anche un filosofo o uno psicologo con altri strumenti, il punto è che tu non solo lo dici, ma nel corpo che hai di fronte lo vedi. Ecco, questa è, secondo me, la differenza grande, perchè alcune di queste idee le ritroviamo nella filosofia contemporanea, declinate in un modo o nell’altro, però tu hai la capacità di vedere questa differenza in essere nel corpo che hai di fronte e questa è una capacità rarissima. La mia passione per il corpo in movimento si basa anche sull’analisi di relazione che il corpo stesso intesse con il circostante. Ciascuno di noi si muove all’interno di uno spazio che è il suo vissuto ma che contemporaneamente


entra in relazione con lo spazio/vissuto di un’altra persona. Nei movimenti reciproci tutto questo si manifesta chiaramente. Chiamo questo spazio comune, spazio di relazione. Noi spesso dimentichiamo lo spazio che esiste tra due esseri perché ciascuno ha un vissuto dentro lo spazio che è legato alla sua natura, alle sue capacità; ci sono persone che si chiudono come un’ostrica quando una persona viene e gli parla in faccia; ci sono persone timide, persone riservate, bambini che non sopportano la presenza di adulti invadenti. Per poter parlare di presenza deve nascere una cosa che appartiene molto ai popoli antichi, una dimensione di rispetto reciproco, che non ha valore morale, è piuttosto il riconoscimento dello spazio in cui l’altro vive, in cui l’altro è. E lo spazio in cui l’altro mi permette di entrare. In questo ambito l’educazione può contribuire a riconoscere i codici che l’altro utilizza per entrare nello spazio di relazione. Nelle città ci calpestiamo di continuo. Quando metto due persone una di fronte all’altra e dico:«avvicinatevi al vostro partner», spesso le persone non stanno a loro agio e frequentemente la risposta è troppo veloce o troppo invasiva. Quindi ho creato dei giochi. Ridiamo tutti insieme, perché bisogna anche ridere, non siamo stati educati a comunicare insieme, non abbiamo imparato a comunicare, abbiamo imparato a fare, a volere, ad agire, ad esercitare

il nostro potere. La maggior parte delle persone non ha imparato a comunicare in una relazione ecologica, questa è una delle carenze della nostra società odierna. Molti sociologi studiano i popoli primordiali, studiano le relazione interpersonali, studiano i mammiferi marini, i lupi, per vedere come sono organizzate altre società perché forse abbiamo dimenticato una parte importante: la nostra società è diventata tremendamente violenta verso la nostra progenie, verso il futuro della specie. Basta vedere il nostro sistema educativo: è drammatico se si pensa come la nostra società è arrivata a questo paradosso di sistema educativo in cui non si rispettano i bisogni degli esseri che rappresentano il futuro della specie di questa società. E secondo te qual è la principale carenza dei sistemi educativi? A cosa ti riferisci in particolare? Penso che sia fondamentale riconoscere la natura dell’essere e i suoi bisogni, senza strumentalizzarlo e manipolarlo, riducendolo a una macchina in grado soltanto di ripetere e di sviluppare concetti e conoscenze al servizio di un sistema che non risponde ai bisogni dell’individuo. La nostra società sta vivendo un momento cruciale: se non prendiamo seriamente in considerazione i nostri bisogni il mondo che abbiamo creato ci ricadrà sulla testa, basta vedere il sistema economico, la problematica ecologica mondiale. Abbiamo perso il vero contatto con i nostri bisogni, ci siamo proiettati nel fare, nel non essere esclusivamente o essenzialmente materiali, ma la nostra complessità è molto più ampia, non abbiamo bisogno di indossare mille euro di vestiti, abbiamo innanzitutto bisogno di relazione. Un’ultima domanda: se dovessi organizzare una sorta di seminario sul tema della comunicazione corporea, in particolare, e se tu avessi la possibilità di invitare chiunque tu voglia, mettiamo che sia un seminario di 15/20 persone che si sono occupate di queste tematiche, anche da punti di vista molto diversi ma che in qualche modo hanno dato un contributo secondo te originale su questi temi, non ti chiedo tanto di fare i nomi e cognomi, magari sono persone che non conosciamo nemmeno, ma quanto di indicare le aree del sapere che secondo te potrebbero essere utili? Inviterei innanzitutto gli astrofisici, persone che praticano la fisica quantistica, perché abbiamo il dovere di ritrovare l’umiltà della nostra posizione nel mondo, questo è fondamentale; poi inviterei dei matematici, perché la matematica è meravigliosa, degli architetti, degli specialisti della pedagogia, degli artisti… Quando dici artisti, chi intendi? Intendo persone sensibili, che si esprimono in forme diverse di espressione, quindi: musicisti, pittori, cantanti, danzatori ovviamente! Metterei persone dalla sensibilità esagerata che si incarna attraverso un’esperienza quotidiana; grandi ricercatori di terapie, terapisti di medicina tradizionale, sumera, giapponese, cinese, alchemica occidentale, insomma farei un grande cocktail. Quando si mette insieme un danzatore, un terapeuta, uno psicologo, un insegnate e queste persone sono decise a comunicare, a conoscere il genere umano, da questa molteplicità che si condivide nascono cose meravigliose.

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Passi affrettati Intervista a Dacia Maraini di Paolo Di Paolo

Dacia Maraini è tra le più conosciute e tradotte scrittrici italiane. Figlia dell’etnologo Fosco Maraini e della pittrice siciliana Topazia Alliata, appartenente all’antico casato degli Alliata di Salaparuta, trascorse l’infanzia in Giappone dove fra il 1943 e il 1946 la sua famiglia, insieme ad altri italiani, fu internata in un campo di concentramento. Al rientro in Italia la sua famiglia si stabilì in Sicilia, a Bagheria. A partire dai 18 anni Dacia Maraini si trasferisce a Roma dove inizia a collaborare con alcune riviste letterarie e dove nel 1962 pubblica il suo primo romanzo La vacanza. Negli stessi anni comincia ad occuparsi anche di teatro che resterà sempre per lei un luogo per informare il pubblico riguardo a specifici problemi sociali e politici. Nel 1973 è fra le fondatrici del Teatro della Maddalena gestito e diretto da sole donne. È autrice di oltre sessanta testi teatrali fra cui ricordiamo Manifesto dal carcere, e Dialogo di una prostituta con un suo cliente, rappresentato in quattordici paesi. Della sua vasta produzione letteraria e poetica ricordiamo: Memorie di una ladra (1972), Donna in guerra (1972), Il treno per Helsinki (1984), Isolina (1985, Premio Fregene), La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990 Premio Campiello), la raccolta di poesie Viaggiando con passo di volpe (1991), Bagheria (1993), Voci (1994), Colomba (2004), Il treno dell’ultima notte (2008).

La scena è spoglia. Nella sala risuonano - secche, precirio: le testimonianze in prima persona sono avvalorate se, come davanti a un tribunale - le voci di alcune dondalle voci neutrali di Women Freedom, Unicef e altre orne. Lhakpa, tibetana, racconta di essere stata stuprata ganizzazioni umanitarie che forniscono dati e cifre agdai soldati cinesi. Aisha vive in un villaggio della Giorghiaccianti sulla violenza contro le donne. dania; suo padre la picchia ogni giorno: «mi colpisce Passi affrettati è un testo che fa della sua “semplicità” la mentre sono in ginocchio, si attacca alla mia treccia cosua forza. Non ha orpelli, scommette tutto sul potere me se volesse strapparla». Carmelina, una ragazza pudella parola e - una volta sulla scena - della voce umana. gliese, viene violentata regolarmente da un amico del È l’approdo dell’inesausto lavoro di Dacia Maraini in fratello. Juliette, belga, ha sposato un uomo contro la difesa dei diritti femminili, iniziato nei primi anni Sesvolontà della sua famiglia; ora lui, perennemente ubriasanta e nei Settanta, con l’avventurosa stagione delle co, la malmena e la umilia. Amina ha ventitré anni, è ni“cantine” teatrali romane. Sta facendo il giro d’Italia e geriana, ha fatto un figlio fuori dal matrimonio e per del mondo, conta già numerose traduzioni, viene discusquesto viene condannata a morte per lapidazione. Donne so nelle scuole e nelle università (a RomaTre nel novemcostrette a prostibre 2009). Anche tuirsi, offese, sfila Lega Pallavolo gurate dall’acido Serie A femminio dalle percosse. le ha promosso Vengono da ogni Passi affrettati, angolo del pianeaprendo una comta; possono essere petizione recente anche le nostre vicon la lettura di cine di casa. Dacia un passo del teMaraini, una delle sto. scrittrici italiane Dacia Maraini, più note nel moncome è nata l’ido, racconta quedea di Passi afste storie in modo frettati? rapido e scarno L’istituto di ricernello spettacolo che internazionali teatrale Passi afArchivio Disarmo frettati. Non c’è mi ha chiesto di niente di lettera- Un momento dello spettacolo, foto di Stefano Socchetti © mettere su uno


spettacolo sulla violenza. Mi hanno dato del materiale. Ci ho lavorato sopra. Abbiamo fatto lo spettacolo nella piazza del Campidoglio, con dei grandi attori. La cosa doveva finire lì. E invece, il successo avuto e le tante richieste che sono arrivate subito da tutte le parti, ci hanno spinto a continuare. Ormai sono anni che lo portiamo in giro ed è diventato un progetto culturale internazionale che chiamiamo di «educazione ai sentimenti». Sul piano scenico e testuale, colpisce l’estrema “nudità” del racconto. La scelta che lei ha fatto somiglia a quella dei racconti di Buio. Questa sobrietà stilistica da cosa è motivata? Ho voluto che avesse la sobrietà di un oratorio. Per questo: niente scene, niente gesti, niente movimento, ma staticità e facce e corpi rivolti verso il pubblico. Gli attori non parlano fra di loro, ma raccontano, anzi testimoniano al pubblico la drammaticità di storie vere che hanno riguardato persone vere. Come ha raccolto le storie di Passi affrettati? Alcune storie mi sono state fornite direttamente da Archivio Disarmo. Altre da Amnesty International. Questo testo conta già molte traduzioni ed è stato messo in scena in molte città europee. Qual è la reazione del pubblico? La cosa sorprendente è proprio la reazione del pubblico. Ovunque andiamo l’attenzione è subito intensa e la risposta immediata, appassionata, viva. Le richieste si moltiplicano. Per questo continuiamo. L’iniziativa si è rivelata felice. Sopratutto ce lo chiedono le scuole, le università, le associazioni contro la violenza. Lo spettacolo ha decisamente una valenza formativa. Il suo impegno per l’affermazione dei diritti delle donne non si è mai interrotto. Se ripensa al suo lavoro degli anni Sessanta e Settanta e quello attuale in questa direzione, che impressione ha? Il bilancio le pare positivo? Il bilancio è sempre in rosso. Nel senso che, per quanto si lavori, la situazione di pericolo per le donne non fa che aumentare. La violenza si fa quotidiana e ossessiva. Noi cerchiamo di sensibilizzare l’opinione pubblica. Ma

“Passi affrettati è un testo che fa della sua ‘semplicità’ la sua forza. Non ha orpelli, scommette tutto sul potere della parola e - una volta sulla scena della voce umana” certo non abbiamo la forza di quei programmi televisivi che creano modelli di comportamento su larga scala. Pazienza. Noi ci proviamo lo stesso. Non bisogna mai scoraggiarsi. Purtroppo è spesso ancora presente il retaggio dei limiti imposti nel tempo alla libertà femminile, ancora presenti sono discriminazioni e misoginie. Il rapporto del corpo femminile con la felicità sembra ben lontano non dico da una gioiosa compiutezza, ma perfino da una moderata serenità. Basta dare uno sguardo anche distratto alle statistiche sulla depressione; basta pensare all’assenza, per le donne, di una vera libertà del desiderio sessuale, rappresentata in un sistema di segni e im-

magini tutto al maschile. Siamo dunque ancora visibilmente in un pianeta fatto a misura di maschio? Direi di sì. Le ingiustizie continuano e il mondo inventa costantemente nuovi modi di discriminare le donne. Anche nei paesi più avanzati e che si pretendono evoluti dal punto di vista del rapporto fra i sessi. Non sto parlando infatti dell’Africa con i suoi due milioni di bambine infibulate ogni anno, o dei paesi dell’Est che esportano schiave sessuali come fossero beni di scambio dei più comuni quali patate e pomodori; o anche di

“Da noi non si impone il burqa per rendere invisibile e silenziosa la donna, ma si trasforma il corpo femminile in linguaggio pubblicitario, togliendole, con l’illusione della libertà sessuale, la parola” quei paesi arabi che impongono il velo e la segregazione alle loro donne, e si tengono fedeli a una legislazione razzista e sessista come quella che permette la lapidazione per le adultere. Parlo dell’Europa e delle sue donne emancipate e ormai partecipi a pieno diritto di tutte le professioni. Il fatto è che, a detta dei più, le donne nei paesi europei hanno conquistato parità di fronte alle leggi. Lo si dichiara in ogni occasione. E in effetti di parità si tratta, ma sulla carta. Nella vita quotidiana questa parità è spesso un sogno. Nonostante i diritti civili conquistati: il diritto di famiglia, il diritto agli studi, il diritto alla carriera, ci sono ancora moltissime discriminazioni che vengono imposte da una parte e subite dall’altra come “naturali”. Molte ingiustizie, cacciate dalla porta, sono rientrate dalla finestra sotto altre forme, più subdole, più nascoste e mascherate. Da noi non si impone il burqa per rendere invisibile e silenziosa la donna, ma si trasforma il corpo femminile in linguaggio pubblicitario, togliendole, con l’illusione della libertà sessuale, la parola. C’è modo e modo di affrontare l’inimicizia verso il sesso femminile: quello antico, ancora valido per molti paesi a noi vicini, che non conoscono i diritti civili; e quello nuovo che tiene conto delle enormi e a volte striscianti trasformazioni che hanno reso irriconoscibile la separazione e l’esclusione.

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«Il corpo delle donne» Intervista a Lorella Zanardo di Alessandra Ciarletti

Lorella Zanardo è consulente organizzativa, formatrice e docente. Scrive e si occupa di tematiche inerenti il femminile. Laureata in Letterature straniere con una tesi sul teatro inglese contemporaneo, ha successivamente conseguito un master in Business administration. Fa parte del comitato direttivo di WIN, organizzazione internazionale di donne professioniste con sede ad Oslo. Ha ricoperto importanti ruoli direttivi manageriali in organizzazioni multinazionali sia in Italia che all’estero, in particolare a Parigi dove ha coordinato progetti europei. È stata consulente e docente nei paesi dell’Est per la Comunità europea. Si è occupata a lungo di gestione dei cambiamenti organizzativi ideando tra l’altro il corso L’arte del cambiamento. Ha gestito progetti di diversity management. Ha coordinato il primo master in Etica del business. Studiosa di Paesi mediorientali, ha girato un documentario in Iraq durante l’embargo: L’Iraq prima della guerra. È autrice, con Marco Melfi Chindemi del documentario Il corpo delle donne (2009). (www.ilcorpodelledonne.net)

Nel 1879 Henrik Ibsen scriveva Casa di bambola, dramma che denunciava la condizione femminile nel XIX secolo. La donna è l’angelo frivolo del focolare domestico, lo scoiattolino della casa. Decorativo come le decorazioni natalizie con cui Nora, la protagonista, si affaccenda per abbellire la casa. Il dramma si conclude con un riscatto della donna inteso come essere pensante bastante a sé, ma per farlo la protagonista abbandona il marito, i figli, la casa e pertanto è condannata. Giudicata da leggi fatte dagli uomini per gli uomini. La donna non c’è e se c’è, è spesso isterica. Se l’indole persiste è perlopiù declinata in patologia. Eppure da più di un secolo alcuni movimenti protofemministi avevano fatto la loro comparsa. Di lì a poco si sarebbe sviluppato il movimento delle Suffragette, che si proponeva il raggiungimento della parità politica, giuridica ed economica fra uomini e donne. Il diritto al voto in Italia arriva nel 1946. La donna è libera di esprimere il proprio pensiero politico, i valori in cui crede. Ma di chi sono questi valori? Nel nostro emisfero sono gli anni del dopoguerra: bisogna ricostruire, impegnarsi, ricompattare l’ordine economico e sociale. Nel tradizionale cosmo maschile, alla donna spetta garantire l’ordine del primo nucleo fondante una società, la famiglia. Ci riuscirà più o meno imperfettamente, calzando ancora per decenni le scarpe offerte dall’uomo, spesso anche in senso economico. Sono gli anni del boom e tutto sommato i conti rispetto all’impegno profuso tornano e all’occorrenza le “isterie” tramutate in depressioni si curano dallo psicoterapeuta. Poi la grande onda eterogenea del femminismo travolge gran parte del mondo occidentale, assumendo intensità e raggiungendo obiettivi diversi da una nazione all’altra. Dappertutto una entusiastica presa di coscienza a tratti

indebitamente enfatizzata, come se per manifestare l’esistenza non basti l’immanenza di un corpo ma sia necessario una trasmutata ostentazione di ciò che biologicamente distingue la femmina dal maschio. Ma è una sorta di rivoluzione culturale che dà alcuni frutti: la legge sulle pari opportunità, i centri antiviolenza, la Casa internazionale delle donne, la legge che regola l’aborto, il divorzio.

“Quando abbiamo iniziato a lavorare al documentario abbiamo cominciato a indagare quello che pensavamo fosse il problema: la donna oggetto. Poi ci sono state delle reali sorprese: la donna adulta dopo i trentacinque anni scompare dai teleschermi e va a finire dal chirurgo estetico” Nel 1973 è pubblicato per la prima volta il libro di Elena Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine. La Belotti, partendo dalla sua pluridecennale esperienza pedagogica, restituisce proprio in quegli anni di forti contestazioni, un dipinto perfetto dell’ineguaglianza educativa fra maschio e femmina che si verifica già nei primissimi istanti di vita. Emerge una figura di donna che da vittima diventa carnefice perché essa stessa è l’elemento fondamentale del perpetuarsi di una condizione subalterna. Alla femmina è richiesta la grazia, la delicatezza fin dalle sue primissime ore di vita. Se succhia il latte voracemente le sarà ripetutamente tappato il naso fino a indurla a rallentare il ritmo. E sarà la madre a inibire l’impulso, a educarla. La voracità nel maschio è invece


già sintomo di virilità, e contributo sostanziale alla sua opportuna robustezza. Dice la Belotti «le donne non conoscono limiti quando si tratta di piegarsi supinamente ai pregiudizi tagliati sul loro conto». Per marcare il territorio della propria esistenza la donna fa quasi un voto di rinuncia alla propria complessità. Raggiunge obiettivi sociali ed economici. Quando non rinuncia allora si moltiplica e si divide: lavora, è madre, è moglie, è amante, se il tempo materiale lo permette. Rispetto a Nora è andata avanti? Forse sì. Ma a quale prezzo? «Si comporta come un uomo». Questo è il giudizio ricorrente, se la donna in questione non rientra nella cornice culturalmente e socialmente tramandata. Ancora oggi. D’altronde le strutture psicologiche cambiano, se cambiano, lentamente. E infatti… Nel 2007 esce un nuovo libro che da quello della Belotti prende vita a partire dal titolo: Ancora dalla parte delle bambine, di Loredana Lipperini. Perché? Perché almeno apparentemente sembra che le nuove generazioni di donne non siano più nemmeno affascinate dal concetto di autodeterminazione. Si consegnano in bella forma a vecchie, vecchissime forme di esercizio di potere. Vallettopoli è la sintesi mediatica. Il Corpo delle donne, l’analisi di una donna, Lorella Zanardo che si è “fermata” a osservare le donne così come vengono erogate dalla televisione. E dico erogate perché il loro statuto catodico è prevalentemente quello di oggetto. Lorella, nel suo documentario rende in immagini e riflessioni un ritratto avvilente della donna televisiva, che sebbene prodotto di una distorta visione diviene modello di riferimento per molte altre. Cosa sta succedendo? Sta succedendo che la situazione ci è scappata di mano. Da venticinque anni e qualcosa di più la televisione pubblica sta seguendo quella privata, anziché il contrario, nel portare avanti un’immagine della donna relegata a quella di oggetto, di cornice decorativa. Soprattutto è successo che abbiamo lasciato che questa televisione entrasse nelle case degli italiani in un momento in cui sia la famiglia che la scuola erano in crisi. Questa rappresentazione negli anni è diventata esemplare soprattutto per tutte quelle ragazze che non avevano alle spalle una famiglia, una scuola in grado - compito arduo - di contrastare questo modello. Le persone - io per prima - della generazione dai quaranta anni in su e che hanno una cultura sono profondamente responsabili di non aver arginato questo fenomeno. Gli intellettuali si sono rinchiusi in enclave: abbiamo criticato per anni la televisione dal di fuori senza mai proporre un’efficace azione di contrasto. Nel suo documentario si ricorda una bellissima affermazione di Anna Magnani che rivolgendosi al fotografo gli intimò: «Non togliermi nemmeno una ruga perché ci ho messo una vita per farmela venire». Og-

gi molte donne dello spettacolo, ma non solo, sono avatar di se stesse grazie al bisturi. Cosa è cambiato? Quando abbiamo iniziato a lavorare al documentario abbiamo cominciato a indagare quello che pensavamo fosse il problema: la donna oggetto. Poi ci sono state delle reali sorprese: la donna adulta, la donna dopo i trentacinque anni scompare dai teleschermi. E dove va a finire il volto della donna? Va a finire dal chirurgo estetico. Nei dibattiti diciamo sempre che la nostra non è una crociata contro la chirurgia estetica, anzi ritengo che ciascuna di noi è assolutamente libera di intervenire sul proprio corpo perché è una decisione individuale. Il problema non è la donna nella sua singolarità, ma la televisione e il suo potere. Da anni, a parte rari casi, vengono proposte solo immagini di donne adulte chirurgicamente modificate. Lo stesso processo avviene anche sul corpo delle giovani donne che diventa oggetto. Le donne a casa, soprattutto quelle con meno strumenti personali e culturali per contrastare questo fenomeno, si fragilizzano; l’altro giorno una signora durante un dibattito seguito alla proiezione del documentario mi diceva: «sono contenta di essere qui perché mio marito guarda sempre la tv e quando vede la Parietti, mia coetanea, mi dice: tu sei un mostro, hai cinquant’anni come la Parietti, ma guarda lei sembra una ragazza». Credo che molte di noi saprebbero rispondere a tono a una simile affermazione; ma come dicevamo prima si è creata una grossa frattura tra chi non ha strumenti per contrastare il modello e chi li avrebbe ma non se ne fa carico. Ci sono moltissimi casi di fragilizzazione e gli psicologi potrebbero raccontarci per ore e ore quello che

“Quando noi diciamo faccia - e faccia viene da fare - diciamo una parola emblematica, perchè io faccio la mia faccia, la faccio io. Quindi queste rughe, queste pieghe, questi segni sono la mia storia. Come cambia il mondo quando rimuovo la mia faccia?” sta accadendo. In un dibattito televisivo della trasmissione L’Infedele, di Gad Lerner, Alba Parietti, donna stimabile e intelligente di cui sono coetanea, mi disse una cosa che per me è un po’ il punto focale: «guardi io ho il diritto di invecchiare piacendomi». E io le risposi: «sono d’accordo con lei, anche io lo rivendico». Indubbiamente a cambiare è il modo. Poniamoci infatti la domanda se esiste un’alternativa alla chirurgia estetica per riappropriarci della nostra faccia e invecchiare piacendoci. Infatti. Sempre nel suo documentario si cita dal Levitico «Onora il volto del vecchio». E il significato è chiaro. “Ritoccando” un volto si elimina il segno e a segnare non è semplicemente l’inesorabile trascorre-

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re del tempo. Le emozioni nella loro complessità segnano, incidono e ci ricordano che il corpo parla di noi, ci racconta nostro malgrado. In questa richiesta urgente di rimozione vedo la nostra incapacità di accettare la vita nel suo complesso svolgersi, realizzarsi. È come se ogni donna che ricorre al bisturi non accetti di diventare quello che è, quello per cui è nata. O peggio ancora, pensa che la sua vita non sia interessante e necessiti ogni tanto di un azzeramento. Possibile che tutto questo lo si faccia per un uomo o per il potere, ovvero, una collettività maschile? È così. Però vede, già da come pone la domanda, si capisce che oggi stiamo facendo un discorso di alto livello, il problema è che non ci segue quasi più nessuno. Questa è la tragedia. Sono assolutamente d’accordo con lei e infatti il tipo di lavoro che stiamo facendo sul corpo delle donne attraverso dibattiti, blog, conferenze, è innalzare il livello di consapevolezza in modo semplice. Perché vede, quando noi diciamo faccia - e faccia viene da fare, ma non ci si pensa mai - diciamo una parola emblematica, perchè io faccio la mia faccia, la faccio io. Quindi queste rughe, queste pieghe, questi segni sono la mia storia. Come cambia il mondo quando rimuovo la mia faccia? Attualmente stiamo lavorando alla sceneggiatura del prossimo lavoro che sarà proprio sul volto. È interessante notare che al di là della decisione individuale nessuno sta indagando sulla ricaduta sociale della rimozione dei volti. Cioè, nel momento in cui mi tolgo la faccia come cambia la mia relazione nell’incontro con gli altri. E allora mi chiedo, come cambiano le relazioni quando le facce non esistono più? Il discorso è altissimo e si possono scomodare filosofi, Pasolini… Ma si può anche fare in un modo semplice. Nei dibattiti porto un esempio che è sotto gli occhi di tutti: le nonne. Se da piccoli nostra nonna non avesse avuto il suo volto, come sarebbe cambiata la nostra relazione con lei, la nostra crescita? L’altro giorno, mentre raccontavo questa cosa a un signore, un uomo di una certa età, mi dice: «mi fa tornare in mente un’esperienza che mi ha inquietato molto. Le farò una confidenza che finora non sono riuscito a raccontare: l’altro giorno sono andato a trovare la mamma di un signore che conosco e l’ho trovata completamente rifatta, ma parlo di una signora anziana, oltre i settanta anni, e io non me lo aspettavo ed ero molto a disagio perché non la riconoscevo più, non aveva più nessuna forma riconoscibile. A un certo punto arriva il figlio e dice: mamma, stanno arrivando i nipotini. A quel punto ho avuto la sensazione di voler andare via di corsa perché non reggevo l’idea dell’incontro di quella nonna coi nipotini. «Ma perché secondo lei?», gli domando io. «Non lo so, ero in un disagio pazzesco quasi mi trovassi di fronte una cosa oscena». Secondo me questo è il punto. La rimozione del volto e quindi questa nostra non faccia diventa qualcosa con la quale non siamo neppure abituati a relazionarci.

Ora è necessario, a mio avviso, semplificare questi discorsi, rapportandoli al contesto sociale. Penso, infatti, che molte delle persone rifatte che mi capita di incontrare non hanno mai avuto la possibilità di fare queste riflessioni. L’altra faccia della medaglia del ritocco estetico è l’anonimato. Sempre più spesso nelle strade girano volti analoghi. E questa analogia ho l’impressione che, anziché allarmare come dato evidente di una mancanza di quella determinata caratteristica che infonde l’unicità, paradossalmente conforta, imprime sicurezza. Cosa si teme? Cosa temiamo? Questa è la frase finale del documentario e certo non voleva essere una provocazione, quanto una spinta a riprendere a discutere, a dibattere sul tema. A molti questa domanda è sembrata strana; al contrario fin dall’inizio del lavoro ho avvertito in tutto questo pro-

“Ci siamo staccate dal femminile, abbiamo deciso di vivere come uomini. Perché non ci siamo occupate di donne? Perché la paura è di occuparsi di qualcosa che non conta in questa società” cesso una paura di fondo e dopo decine e decine di incontri e di dibattiti credo di aver visto giusto. Di cosa abbiamo paura? Credo che le ragioni siano molteplici. C’è una ricerca interessante del Censis che molti conoscono ma che varrebbe la pena di riprendere, che si chiama Donne e media in Europa, in cui si fa un confronto tra le donne e media dei maggiori paesi europei. Risulta che l’Italia è l’unico paese insieme alla Grecia in cui il dibattito sulle questioni di genere e sulle pari opportunità è considerato poco importante, sentito come un tema non degno di essere portato in discussione all’interno delle massime istituzioni dello Stato. E questo è il problema. Sarò senz’altro impopolare ma ritengo che sia a destra che a sinistra questo tema non sia sentito. È un tema delle donne. Quindi cosa è accaduto? A mio avviso è successo che le donne che potevano occuparsi di questo - io per prima ho aspettato troppi anni della mia vita prima di provare a fare qualcosa - hanno rivolto il loro agire in ambiti storicamente maschili e agendo come uomini. Visto che in Italia non è interessante affermarsi come donne abbiamo scelto dei modelli fortemente maschili, rimuovendo più o meno parzialmente quello che riguardava il femminile, perché sentito come una fragilità. Un esempio. Qualche giorno fa una donna manager mi ha detto «Perchè mi devo occupare di questioni di donne?». «Perché lei è una donna», ho risposto allibita. Ma la sua risposta è interessante ed è tale perché il suo


distacco dal femminile è ormai avvenuto. E la capisco benissimo perché ho vissuto così per anni. Ci siamo staccate dal femminile, abbiamo deciso di vivere come uomini. Perché non ci siamo occupate di donne? Perché la paura è di occuparsi di qualcosa che non conta in questa società. Per lungo tempo ha vinto in noi la paura di essere rifiutate, non volute. Per questa stessa ragione, in altri contesti ci si rivolge al chirurgo estetico per continuare a piacere agli uomini. Quindi: divento professionista, faccio un lavoro profondamente maschile, non mi ricordo più di essere donna, perché voglio l’approvazione dello sguardo maschile; mi rifaccio chirurgicamente, divento magra, voglio il seno grosso perché per stare bene ho bisogno dell’approvazione maschile. In tutto questo vedo una grande fragilità collettiva tutta al femminile. Una delle soluzioni, sebbene il processo sia lungo, è tornare ad agire insieme, rimuovendo le rivalità che troppo spesso caratterizzano i rapporti fra le diverse associazioni al femminile.

“Divento una professionista ma non mi ricordo più di essere donna, perché voglio l’approvazione dello sguardo maschile; mi rifaccio chirurgicamente, divento magra, voglio il seno grosso perché per stare bene ho bisogno dell’approvazione maschile” Penso di non sbagliare nel pensare che anche nella vita di tutti i giorni il desiderio di ricorrere al chirurgo estetico sia indotto dalla relazione col maschile. Penso che rispetto al passato sia stato fatto più di un passo indietro. Perché secondo lei è così difficile essere donne? Il discorso diventa ancora più complesso. Noi incontriamo moltissimi gruppi di donne femministe. Il movimento femminista ha fatto grandi cose, diciamoci la verità, quello italiano poi è riconosciuto a livello mondiale come uno dei più interessanti e rivoluzionari e quindi grande gratitudine per queste donne. Tuttavia, tornando ai giorni nostri ho un po’ la sensazione che si tolgano dal contesto. Quello che mi sento dire da molte femministe, di cui non tutte appoggiano questo lavoro sul corpo delle donne, è che ciascuna donna è assolutamente li-

bera di fare quello che vuole. Le veline sono maggiorenni, le donne che si rifanno sono maggiorenni e non dobbiamo in alcun modo intervenire sulle loro decisioni perché ogni forma di intervento potrebbe essere presa come una forma di censura. E qui mi fermo, perché mi sembra che questo discorso ci abbia portato negli anni a quello che viviamo oggi. Abbiamo abbandonato chi non ha gli strumenti per contrastare questi modelli. La trovo una chiusura elitaria inconciliabile con una sana crescita collettiva. Moltissimi dicono: «non guardo la televisione e comunque ognuno è libero di fare quello che vuole». Questo ci deve far riflettere. Penso che chi poteva reagire e proporre nuovi modelli si sia chiuso in un’enclave dalla quale non esce. Secondo me dobbiamo tornare a divulgare; quello che stiamo dicendo oggi io e lei è necessario renderlo accessibile a tutti anche da un punto di vista linguistico e proporlo. Anche perché noto che ogni volta che presentiamo dibattiti di questo tipo abbiamo grande seguito e ciò vuol dire che quello che si è inceppato è proprio il parlare con la gente. Semplicemente questo. In un’intervista lei dice che le donne non dicono tante verità sugli uomini. Quali per esempio? Secondo me in questo momento abbiamo troppa paura di non piacere; dovremmo dire ai nostri compagni uomini, ma in un’ottica di crescita comune, non di sfida: tu che sei professionalmente affermato, culturalmente così preparato, non ti vergogneresti un po’ se io ti facessi vedere come si comportano in altri paesi europei i tuoi simili? Penso che le donne dovrebbero avere un poco più di coraggio. È fondamentale lavorare sull’autostima, sulla consapevolezza del femminile nelle donne perché altrimenti continueranno ad accadere cose strane. Tempo fa raccontavo il processo di riscoperta del femminile a una giovane donna non particolarmente consapevole, tuttavia incuriosita. A un certo punto mentre chiacchieravamo arriva il marito, giovane, bello, forte e guardandoci, scherzando dice: «voi donne è meglio che torniate a casa». La giovane moglie quasi impaurita senza che l’uomo fosse stato aggressivo, risponde: «no Marco non ti preoccupare, tu sei contento vero che la sera quando torni a casa mi trovi sempre? Io non sono come loro, non sono come loro». E mi è venuta in mente una frase di Lea Melandri che riferendosi alle veline dice «schiave radiose». In quel momento mi tro-

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vavo in una situazione analoga. Però, mi chiedo: è colpevole questa giovane donna? Uno dice: sì, no, sì è maggiorenne. Ma quanto è stato fatto effettivamente per innalzare il livello di consapevolezza di queste giovani donne? Direi che dobbiamo iniziare proprio da lì. In Francia per esempio c’è molto associazionismo, di

“Secondo me in questo momento abbiamo troppa paura di non piacere. È fondamentale lavorare sull’autostima, sulla consapevolezza del femminile nelle donne” ogni tipo. Un’altra cosa che mi è capitato di osservare è che nei dibattiti non si può parlare di femminismo senza che i tre quarti della sala se ne vada. Anche questo merita una riflessione, cosa è accaduto? A volte nei discorsi eccelsi di molte femministe la componente femminile della comprensione sembra essere carente; ovviamente per comprensione non intendo accettazione supina, quanto piuttosto quel moto dell’animo che agito nel modo corretto cambia il mondo. C’è una filosofa tedesca, una giovane teologa, Ina Pretorius che parlando di questa capacità del femminile la definisce eine Kompetenz, che tradotta perde densità, ma possiamo intenderla come competenza dell’esserci. Questo concetto a me piace moltissimo: competenza dell’esserci nelle cose belle della vita, dall’amore, ai figli, per arrivare alla morte. In tutte queste cose ci sono le donne. Bisogna ricomprenderlo, riappropriarcene e portarlo nel mondo. Lei è donna professionalmente riconosciuta e madre. Si sente realizzata o cambierebbe qualcosa? Io sono una innamorata della vita. Ho passato il periodo in cui avrei voluto cambiare delle cose, ora sono nel momento. Dovendo dire, inizierei prima a occuparmi di cose importanti, cioè ho passato molti anni della mia vita a occuparmi di cose che adesso vedo con occhio un pochino scettico; cercherei di essere prima sulle cose che contano. Se avessi iniziato a occuparmi di questo tema dieci anni fa la situazione sarebbe stata meno grave. Credo che le donne della mia generazione abbiano una grande responsabilità, soprattutto quelle che si occupavano della questione femminile, che erano nei movimenti. Abbiamo seguito prepotentemente il modello maschile, abbiamo seguito il neoliberismo e non ci siamo fatte domande. Dovremo fare i conti con tutto questo, non possiamo tirarce-

ne fuori. Siamo responsabili. Quando sento parlare del premier come della fonte di tutti i problemi italiani mi viene da sorridere, chiaramente la situazione italiana è così perchè qualcuno ha anche permesso che fosse tale. Penso che la mia generazione debba fare i conti con il momento che viviamo oggi. È fondamentale rendere noto questo discorso che stiamo facendo oggi, dire alle ragazze e ai ragazzi che esiste altro, altrimenti saremo doppiamente responsabili. Cosa è oggi per lei il femminile? Ho un’idea piuttosto alta del femminile. Agire oggi al femminile è prendersi cura della terra e del suo sviluppo. Trovo che seguire questo modello maschile senza più guardare al contenuto sia assolutamente perdente, ma non perché sia brutto il modello maschile, sono da superare queste visioni, queste rivalità. Micheal Moore in un’intervista non troppo tempo fa ha detto: «uno dei motivi per essere femministe oggi è che il modello maschile che abbiamo seguito finora non ha funzionato. Proverei quello femminile». È vero! Anche gli uomini reclamano il nostro contributo nello sviluppo sostenibile del mondo. Ci sono problemi tali…lo scorso ottobre ero alla conferenza mondiale delle donne a Praga ed ero sconcertata dal fatto che si applaudiva alla nuova amministratrice d e l eg a t a d i u n a g r a n d e multinazionale, sua nuova top manager e mi chiedevo: è questo che vogliamo? Prendere il potere all’interno di aziende che stanno creando disagi enormi in molte parti del mondo? Guardo a molte donne indiane leader che stanno portando avanti un modo di espressione del femminile decisamente alto. C’è una donna presidente di uno stato indiano Pratibha Devisingh Patil, non giovane, donna, presidente di uno stato indiano e nel discorso di insediamento anziché seguire un discorso

“Mi è venuta in mente una frase di Lea Melandri che riferendosi alle veline dice «schiave radiose»” maschile - un lessico, circollocuzioni maschili - ha detto: «noi donne dobbiamo renderci responsabili dello sviluppo sostenibile della terra». Credo che oggi sia urgente in Italia risolvere e togliere di torno queste rappresentazioni di cretinaggini televisive perché è venuto il momento per noi di occuparci di cose importanti per il bene nostro e degli uomini. Le buone pratiche ci sono, bisogna soltanto diffonderle.


In equilibrio stabile sui tacchi a spillo Intervista ad Emma Dante sul suo ultimo lavoro Le pulle di Federica Martellini

Emma Dante è una drammaturga, regista e attrice teatrale. Si è diplomata all’Accademia nazionale di arte drammatica nel 1990. Ha cominciato a fare teatro inizialmente come attrice lavorando fra gli altri con Andrea Camilleri, Davide Iodice, Roberto Gucciardini, Gabriele Vacis, Valeria Moriconi, Galatea Ranzi. Successivamente si è dedicata alla regia ed è considerata oggi una delle voci più importanti del panorama teatrale contemporaneo in Italia. Nel 1999 ha costituito a Palermo una propria compagnia teatrale: Sud Costa Occidentale. Ha firmato la regia e la drammaturgia di innumerevoli spettacoli fra i quali ricordiamo: mPalermu, Carnezzeria, Medea, La scimia, Vita mia, Mishelle di Sant’Oliva, Cani di bancata, Il festino, Le pulle. Si è aggiudicata per la sua opera una serie di riconoscimenti fra cui due premi Ubu (2002 e 2003), il premio Gassman (2004), il premio Scenario (2001), il Premio Donnadiscena (2004), il Golden Graal (2005). Suoi spettacoli sono stati rappresentati in Francia, Portogallo, Spagna, Svezia e Russia. Ha firmato la regia della Carmen di Bizet che ha aperto la stagione scaligera 2009-2010. (www.emmadante.it)

Tragedia greca, dramma shakespeariano, commedia dell’arte; un po’ danza, un po’ canto, un po’ recitazione, un po’ avanspettacolo. Fate e bambole gonfiabili. E l’indispensabile presenza del dialetto siciliano. Le pulle, l’ultimo spettacolo portato in scena dalla regista palermitana Emma Dante, è un po’ tutto questo. Un’operetta amorale, come l’ha definita l’autrice, che ci racconta «di peccatrici che credono in Dio». La scena, di tende, veli e damaschi color porpora, è un bordello, un luogo di peccato e trasgressione ma soprattutto di dolore. Le protagoniste, quattro travestiti e un trans, si muovono in un turbinio di tulle e piume di struzzo, esasperando la gestualità delle vestizioni, dei travestimenti e del maquillage. Rosy, Sara, Moira, Ata e Stellina raccontano storie sofferenti di anoressia, di violenza, di abbandono, di degrado, di famiglie desolate, di solitudine. E poi ci sono le tre fate - quasi tre Parche - che, guidate da Mab, la loro levatrice, trasferiranno nelle pulle l’essenza femminile. Infine il matrimonio. Il desiderio di Stellina del matrimonio proibito con un uomo che, in un rito barocco e grottesco, carico di tutta la simbologia della cerimonia cattolica, fra fiori e veli bianchi rappresenterà il compimento del viaggio delle protagoniste. La femminilità, il corpo di donna nel suo spettacolo è un qualcosa che viene ossessivamente ricercato e desiderato dalle protagoniste. La femminilità è un dono, una salvazione? Sì è assolutamente una salvazione. Ma è anche un ibrido perché non c’è mai una definizione molto chiara del sesso, non si capisce chi è il maschio e chi è la femmina. E questo è un po’ il senso del lavoro perché è come se io avessi rimontato queste bambole al contrario e cioè con i pezzi

messi anatomicamente nei posti sbagliati generando nel pubblico una difficoltà a capire la natura di questi esseri. La femminilità in realtà in questo spettacolo è solo un pretesto, nel senso che la femminilità non esiste come non esiste una definizione chiara e definita del sesso.

“Tragedia greca, dramma shakespeariano, commedia dell’arte; un po’ danza, un po’ canto, un po’ recitazione, un po’ avanspettacolo. Fate e bambole gonfiabili. E l’indispensabile presenza del dialetto siciliano. Le pulle è un po’ tutto questo” Quindi il discorso sul genere è in realtà un pretesto all’interno dello spettacolo e si tratta piuttosto di un discorso sull’emarginazione? Certo. Sul fatto che queste creature si sentono emarginate, non si sentono capite, non hanno un posto in questa società. Ma questo al di là del loro sesso, perché secondo me il problema sta a monte. Il problema è che la loro diversità (o meglio quella che viene considerata diversità dalla società) è il loro modo di sentire la vita, la loro sensibilità. Poi il fatto che siano transessuali o che abbiano questo problema legato a un’instabilità di natura sessuale è secondario. Perché sono più importanti i loro problemi riferiti all’anoressia, piuttosto che a un passato legato alla pedofilia, a una famiglia violenta o al desiderio di matrimonio. E infatti in questo spettacolo ricorrono tutta una serie di elementi che costituiscono poi un po’ la sua cifra sti-

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listica e poetica: la famiglia meridionale oppressiva, le costrizioni, i segreti, la vergogna, una religiosità atavica… Sì questi temi sono sempre presenti nel mio teatro. È un’indagine sulla quale io metto sempre la lente di ingrandimento. In fondo è sempre un po’ lo stesso spettacolo quello che io faccio. I particolari sono diversi ma poi l’umore, la dimensione, l’atmosfera sono gli stessi. Le pulle pregano, adorano madonne a tinte forti, che indossano strass, pallettes, pizzi, lustrini e piume di struzzo. In questo come in altri spettacoli che ha portato in scena, sacro e profano si mescolano e si confondono, la religiosità è iconizzata in una simbologia solo apparentemente blasfema… Che cosa rappresenta il sacro nella sua drammaturgia? C’è sempre questa iconografia cattolica che è più che altro una sorta di altarino sempre presente, come lo è nelle case siciliane. C’è sempre questa presenza del Dio, del Cristo, della religione, però poi di fatto si traduce semplicemente in un arredo della casa. In questo spettacolo in particolare c’è questo desiderio di una delle protagoniste di sposarsi in chiesa per cui la croce e tutto l’arredo sacro diventano un elemento necessario. Ma non c’è niente di blasfemo. Questo matrimonio grottesco è un matrimonio nel quale lei crede profondamente. Le sue Pulle, queste «creature ambigue e favolose» che camminano sui «tacchi a spillo trovando un equilibrio stabile con la propria morale» cosa raccontano di un’Italia che «non è in grado di accettarle»? Ci dicono qualcosa che ha a che fare con il loro disagio nell’integrarsi in questa società in cui vivono e sicuramente questo disagio che ci raccontano è abbastanza allarmante. E poi soprattutto ci dicono una cosa che tutti sapevamo ma che facevamo finta di non sapere: esiste questo mondo

di persone, che si aggregano fra loro per sentirsi più protette, che sono i transessuali. Questa gente che è in viaggio da un luogo dell’anima a un altro. Queste persone hanno esigenza di farlo questo viaggio e non c’è posto nel mondo per loro perché il mondo non vuole assistere a questa metamorfosi e questo è molto contemporaneo. Le metamorfosi fanno paura e soprattutto sono eticamente scorrette.

“La femminilità in questo spettacolo è solo un pretesto, nel senso che la femminilità non esiste come non esiste una definizione chiara e definita del sesso” Nello spettacolo lei è una sorta di “deus ex machina” sulla scena, incarna la regina Mab (del Romeo e Giulietta shakespeariano), la levatrice delle fate, fata e strega allo stesso tempo, un demiurgo che dirige le voci e i cori, i balli e i dialoghi… È un inedito per lei. Come mai questa scelta? Volevo ritagliarmi un ruolo che fosse proprio per me. Volevo stare in scena e giocare con i meccanismi della scena. Mi piaceva questa idea di dirigere dall’interno. E questo personaggio che mi sono ritagliata è un personaggio meraviglioso di cui si parla sempre ma non si vede mai nelle opere di Shakespeare. E proprio questo fatto che non si vede mai mi piaceva perché chiaramente Mab non sono io. Mab è chiunque osi usare la fantasia in maniera spropositata ed esagerata. Questo è Mab. Un personaggio che riesce idealmente, e quindi con la fantasia, a materializzare i sogni anche soltanto per quel momento lì in cui noi ce l’abbiamo davanti.


Il ritorno di Lilith Intervista a Joumana Haddad di Alessandra Ciarletti

Joumana Haddad: poetessa libanese, responsabile delle pagine culturali del quotidiano libanese An Nahar; amministratrice dell’IPAF o Booker arabo, un premio letterario che ricompensa ogni anno un romanzo arabo. Dal 2007 è il direttore della rivista Jasad, in arabo Corpo, dedicata alle arti e alla letteratura del corpo. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia, tradotte in diverse lingue, lei stessa ne parla sette. Nel 2006 ha conseguito il premio del giornalismo arabo. Nel 2009 con Il ritorno di Lilith ha vinto il premio Nord-sud per la poesia. Il libro è una raccolta di poesia ispirate al mito di Lilith, la prima compagna di Adamo, che abbandona il paradiso terrestre perché non vuole più sottomettersi. Lo scorso febbraio ha ricevuto il premio Blue Metropolis per la letteratura araba a Montreal. Per il suo libro In compagnia dei ladri di fuoco ha intervistato un gran numero di scrittori, tra i quali Umberto Eco, Josè Saramago, Manuel Vasquez Montalban, Paolo Coehlo, Paul Auster, Yves Bonnefoy, Peter Handke, Antonio Tabucchi, Elfriede Jelinek.

Le tue poesie sono un inno alla libertà, alla vita. Sono una affermazione del diritto alla disobbedienza. Il tema della ribellione delle donne va a occupare spesso le pagine di cronaca nera. Donne che non accettano, che non si sottomettono a qualcosa o qualcuno che non riconosce loro il diritto di decidere per se stesse, vengono spesso tragicamente punite. Lilith incarna l’erranza che deriva dalla non sottomissione. Lilith nasce dalla Terra, non dalla costola di Adamo. Una bella differenza. Ma tutti sanno chi è Eva, pochi chi è Lilith. Chi è? Lilith è la prima donna creata da Dio, la prima compagna di Adamo. La sua figura è poco conosciuta perché è pericolosa per tanti. Lilith è la sfida fatta donna. Lei infatti abbandona il suo compagno, stanca di sottomettersi a lui. Ed è lei che decide di andarsene, non viene cacciata: la sfumatura è importante. Se ne va dall’Eden perché è libera e vuole decidere per se stessa la sua vita. Dice no anche all’invito rivoltole da Dio, tramite degli angeli, a tornare sulla sua decisione. Solo a questo punto viene demonizzata. Ma è essenziale capire che è lei innanzitutto a decidere di andarsene. Ho scelto Lilith per tantissime ragioni. Quando ho letto la storia di questa donna “sovrana”, ribelle, autentica, che ha deciso di pagare il prezzo delle sue decisioni, di rifiutare di sottomettersi ciecamente all’uomo e all’autorità in generale, sono tornati i conti della mia vita, del mio carattere: ho capito da dove venivo. Poi ho fatto questa riflessione: nel mondo ci sono donne che sono discendenti di Eva e donne discendenti di Lilith. Attraverso la sua storia ho raccontato la mia, riunendo in un unico cammino lungo millenni i passi di molte donne. Attraverso Lilith ho voluto portare un messaggio di libertà e di femminilità soprattutto in un mondo in cui la donna non sempre realizza che dire no è un suo diritto assoluto. Penso che le cose cambieranno veramente solo nel momento in cui le donne sentiranno nel profondo che possono e devono dire di no. Prima di cominciare a parlare, dibattere, manifestare, dobbiamo sentire dall’interno che questo è un nostro diritto basico. Fintanto che la donna percepirà questo suo

diritto come una lotta, come un atto fuorilegge, sarà sempre considerata un’eccezione e pertanto punita. Io credo nello sviluppo di questa forza interiore, psicologica e quindi sociale. Nella tua scrittura c’è una forte carica sensuale. Rivendichi il diritto di peccare. In effetti a un uomo non si chiede mai quante amanti ha avuto. Più sono, meglio è. Lo stesso non si può dire valga per una donna. Lilith è la «peccatrice devota». Trasgredisce con gioia. Diceva Alda Merini «quando sorge il sole mi pento amaramente di non aver peccato». Anche lei reclamava il sacrosanto diritto al peccato. Ci affrancheremo mai dal concetto di peccato? Credo che sarà possibile solo quando ci libereremo dall’influenza religiosa sulle nostre vite, sui nostri criteri e comportamenti. Il concetto del peccato è puramente religioso, ed è legato al senso di colpa che le religioni utilizzano come strumento di potere e di lavaggio di cervello. Quindi sarebbe importante tornare a un’etica di vita e di valori più ‘umana’, libera dalle leggi cosidette divine, e vivere la vita così come vogliamo viverla, ma sempre nel rispetto dell’altro, e anche e sopratutto assumendo le responsabilita delle nostre scelte, senza dover contare su una ‘ricompensa’ o una punizione che ci vengono dall’alto. «Faccio l’amore con me stessa e mi riproduco per creare un popolo del mio lignaggio, poi uccido i miei amanti, per far posto a quelli che non mi hanno ancora conosciuta». Qual è il verbo di Lilith, della nuova donna, o meglio, di questa donna antica tanto necessaria ai nostri giorni? È il verbo ESSERE. Essere donna senza compromessi. Quando parlo di compromessi non mi riferisco soltanto a quelli in relazione all’uomo, penso soprattutto a quelli nei confronti della femminilità, dell’essere donna, realizzando appieno se stessa. Sviluppare questa coscienza ci permette di capire che abbiamo una forza incredibile, una forza femminile ben diversa da quella maschile. Dico questo perchè per molte donne, per effetto delle società patriarcali, la forza

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è appannaggio del maschile, quindi quando vogliono diventare forti diventano quasi degli uomini e questo secondo me non va bene. Rivendico il diritto di esprimere la forza del femminile: io voglio essere forte al cento per cento ma con la mia femminilità, senza dover rinunciare alla mia pienezza, alla mia ricerca e alla mia identità, assumendo le differenze che ci contraddistinguono dall’uomo. Queste differenze non ci rendono meno importanti ma assolutamente uguali: non voglio diventare un uomo ma voglio essere considerata una sua pari senza nessuna deroga, superando i luoghi comuni della donna dolce, mite, graziosa. Non sono caratteristiche del femminile, sono caratteristiche del genere umano. E poi anche la dolcezza è una forza, non è una debolezza. Nella mitologia esistono figure archetipiche, dee o semidee oscene che hanno il compito di risvegliare il femminino, il lato selvaggio sopito. Sono raffigurate senza testa, vedono attraverso i capezzoli e parlano con la vagina. Di esse ci è giunto poco. Il ritorno di Lilith ci ricorda che esistono, presenti in ciascuna di noi. Qual è il ruolo della memoria? Il ruolo della memoria è fondamentale in ogni essere umano. E la memoria si fa strada dentro di noi a un livello inizialmente incosciente. Si fa strada attraverso gli incontri, le figure fondamentali per la nostra crescita interiore. Io sono il risultato delle interazioni con molte intelligenze e il bello dell’intelligenza è che non ha sesso. Se oggi sono questo è perché ho incontrato molte donne ma anche molti uomini che mi hanno trasmesso una forza vitale. Non credo nel role model femminile assunto come unico possibile per una donna. Fondamentale è stata Lilith: all’interno della mia vita posso individuare un’era prima e dopo aver conosciuto Lilith. Ovviamente ero già questa donna ma non lo avevo ancora realizzato. Realizzare la propria forza è fondamentale perché in quel momento avviene il salto di qualità nei confronti di se

“Lilith è la prima donna creata da Dio, la prima compagna di Adamo. La sua figura è poco conosciuta perché è pericolosa per tanti. Lilith è la sfida fatta donna. Lei infatti abbandona il suo compagno, stanca di sottomettersi a lui” stessi. In questo modo il potere interiore diviene forza concreta. Un esempio: prima ero ribelle, ma ribelle in un modo caotico, poi con la scoperta delle mie radici ho finalmente sentito e capito come volevo e dovevo indirizzare la mia forza. Non solo. Ho conosciuto donne “classiche” che dopo avere scoperto la storia di Lilith mi hanno detto che in loro ha iniziato a risuonare qualcosa, senza necessariamente reimpostare la loro vita. Ecco, anche questa è una cosa straordinaria: il suono del nome e della figura produce di per sé un richiamo interiore. La mia prima forma di emancipazione è stata mentale, attra-

verso i libri, la scrittura. Poi nella vita pratica, attuando i cambiamenti che in me ho sentito e sento urgenti. E non è finito. Mi sto liberando giorno dopo giorno dalle doppie misure. E questo è un viaggio che dura tutta una vita. È una ricerca infinita perchè cambia ogni giorno. Però la ricerca, cioè la strada, è la cosa più bella e più appassionante, e non la meta. C’è una poesia che rende perfettamente quello che sto dicendo: Itaca di Kostantin Kavafis. «La forza creativa selvaggia scorre nei letti che abbiamo, quelli in cui siamo nate, quelli che abbiamo scavato con le mani». Come impara una bambina tirar fuori il suo lato selvaggio? Non credo nei sermoni, credo nell’esempio, nella vita. Quindi nei confronti dei figli bisogna rappresentare un modello, un punto di riferimento, evitando il più possibile inutili prediche. Dare indicazioni verbali non ha lo stesso effetto di rappresentare tout court un esempio di comportamento attivo. Quindi torniamo al verbo essere: la vera lezione che una mamma può dare a una figlia, ma anche a un figlio, è essere la donna che merita, che lei deve essere. Perchè dico questo? Lo dico perché tante volte noto purtroppo che un gran numero di donne si lamentano della loro sorte, del fatto che stanno soffrendo, ma poi quando hanno dei figli li fanno crescere nello stesso modo in cui loro stesse sono state cresciute ed educate. Quindi i figli diventano il frutto del papà ‘frustrante’ e macho, e le figlie diventano delle Eva senza nessuna rimessa in discussione. Credo molto nel potere dell’educazione e della maternità: la maternità è una forza assoluta. La donna che sceglie di essere madre ha una grande responsabilità, perché ha un grande potere: ha il potere di trasformare la società, se lo vuole. La maternità è una possibilità enorme se utilizzata nel modo giusto, attraverso essa si può attuare un cambiamento. Mi rendo conto che è un percorso difficile, perché prima di diventare madre la donna dovrebbe comprendere a che punto esatto è della sua evoluzione. E questo non è sempre dato a tutte. La maternità è una scelta che si fa sulla consapevolezza di esistere. Di nuovo ritorna il verbo ESSERE di Lilith. Questo percorso è complicato anche dal fatto che spesso l’uomo è avvertito come un avversario, un nemico; credo sia giunto il momento di superare queste concezioni stantie. L’uomo è una grande risorsa per la donna e viceversa. «Torno per guarire la costola di Adamo e liberare ogni uomo dalla sua Eva». Ecco questo passaggio mi ha colpita moltissimo. Se Lilith fosse rimasta forse oggi alcuni uomini sarebbero in grado di rapportarsi alle donne nel pieno rispetto della loro interezza. Sarebbero in grado di accettare dei no. Purtroppo è vero. Molti uomini - e dico a causa, in gran parte, delle loro madri - non sono in grado di rapportarsi alla donna come a una pari da rispettare in ogni sua decisione. Spesso subentrano comportamenti violenti e questo è inaccettabile. Vivo in un paese arabo e pensavo di trovare qui in Italia una situazione diversa, invece ho dovuto tristemente constatare che non c’è poi tanta differenza sostanziale. Si tratta della stessa identica umiliazione. Eva da


questo punto di vista non ha aiutato l’uomo a evolvere, a raggiungere un alto livello esistenziale. Eva non è il modello perfetto per l’uomo, se così fosse non avremmo tutti questi rapporti iniqui. Viviamo una fase di confusione in cui gli uomini sono spesso spaventati. L’uomo non vuole sentirsi confrontato a una donna che si comporta come un uomo. Però una donna può essere forte senza dover minacciare un uomo di castrazione. È ovvio che è anche fondamentale l’uomo con cui una donna si confronta. La donna deve imparare a essere sua complice ma alla pari. Non una complice che dice di sì alla cieca, e a costo di compromessi. È difficile fare un esempio pratico perché la vita non si spiega, si vive. Purtroppo è anche vero che la maggior parte degli uomini è spaventata da questa forza femminile e dall’idea di avere accanto una Lilith piuttosto che una Eva. Non tutti gli uomini meritano una Lilith. Ma anche loro fanno i conti con secoli di proiezioni e immagini femminili

“Rivendico il diritto di esprimere la forza del femminile: io voglio essere forte al cento per cento ma con la mia femminilità, senza dover rinunciare alla mia pienezza, alla mia ricerca e alla mia identità, assumendo le differenze che ci contraddistinguono dall’uomo” introiettate completamente fasulle. Si sono abituati a questa sottomissione femminile e per molti di loro è una dato di fatto, direi un dato connaturato all’essere donna. E quindi quando si trovano di fronte a una donna che fa delle domande e che non dà delle risposte automatiche, che si sente uguale senza bisogno di sfidare l’altro, o meglio di sfidarlo gratuitamente - perché nella vita bisogna sfidare sempre, la vita stessa è una sfida - ovviamente si sentono minacciati. Tuttavia non credo nei discorsi generalisti che rintracciano la responsabilità soltanto negli uomini. Credo che le responsabilità siano tanto dell’uomo quanto della donna. E voglio aggiungere che io stessa conosco uomini che sono esempi eccellenti di uomini che meritano Lilith. Ma Lilith bisogna meritarsela. Non è gratuita. È ovvio che anche l’uomo costruisce la sua immagine interiore del femminile in base all’esempio ricevuto innanzitutto dalle sue prime figure femminili di riferimento, madre, professoressa, zia, sorella che sia. Bisogna anche dire poi che ci sono molti uomini indegni, a loro volta cresciuti da donne-madri indegne. C’è una cosa per esempio che proprio non riesco a comprendere: perché in una manifestazione per i diritti delle donne non ci siano gli uomini. Questo non ha senso! Temo che talvolta questo accada perché l’uomo non si sente molto benvenuto, anzi si sente provocato, accusato, e quindi non partecipa. Ora, reclamare un diritto non significa abolirne un altro. Si può essere profondamente se stessi e partecipi dei rispettivi diritti, gli uni accanto alle altre. Presentando le mie poesie, Il ritorno di Lilith, ho conosciuto molti uomini che alla fine dell’incontro si sono avvicinati dicendomi: «speriamo di trovare la nostra Lilith». Ci sono molti uomini che meritano una Lilith. Tra le tante altre cose, tu dirigi anche la rivista Jasad, in arabo Corpo. E in questa rivista si affrontano esplicitamente temi importanti. È un elogio alla fisicità e una

sfida a una cultura che in nome della religione spesso lo nega, lo copre. Il corpo è una parte essenziale della vita. È un diritto e come tale va difeso. Rivendico il diritto al corpo e alle sue infinite declinazioni. È inaccettabile questa separazione tra il corpo e lo spirito prodotta dalla stupidità e ipocrisia religiose, e da una minoranza dissennata che pretende di decidere una volta per tutte cosa si può dire o non dire, vedere o non vedere, insomma di imporre uno stile di vita. Penso che tutto questo sia molto umiliante per un essere umano adulto. Al tempo stesso dico sempre che non vedo molta differenza tra la donna col burqa e la donna esposta in televisione come un pezzo di carne. Siamo agli antipodi eppure molto vicini. Purtroppo scardinare questi meccanismi scadenti richiede un tempo infinito, però bisogna iniziare. Quando tre anni fa ho voluto fare questa rivista ne ho parlato con la mia famiglia e i miei amici e tutti mi hanno detto: «tu sei pazza, sei una donna e vuoi fare una rivista sul corpo nel mondo arabo: questo non è il momento». Ho risposto che il momento da solo non esiste, che siamo noi a inventare il momento; il momento da solo non arriva mai, c’è sempre qualcuno che inventa il momento e poi le cose accadono. Ho avuto non il coraggio ma la passione di mettermi in questo progetto e sono ben consapevole che ci vuole molto tempo per vedere una vera trasformazione nel modo di pensare e di comportarsi della gente. Per liberarsi per esempio dei sensi di colpa prodotti dal concetto di “peccato originale” legato al corpo. Questo è un primo passo. Non ci si può fermare ai pensieri negativi perché ci immobilizzano. Bisogna iniziare e gli inizi sono bellissimi nella loro difficoltà. Negli inizi c’è la vita nella sua complessità, c’è la caduta, c’è la forza che ci fa rialzare. E ci si rialza sempre più forti. Inoltre, non credo nei grandi movimenti collettivi, credo nella forza del singolo che attrae altre forze: è un po’ come curare il proprio giardino: sono certa che a poco a poco quei singoli giardini fioriti daranno vita a un parco meraviglioso. E proprio perché ci vuole tempo bisogna iniziare subito. Non mi capita spesso di avere paura, non per coraggio ma forse per mancanza di saggezza! Sono una donna molto testarda e quando ho una passione niente mi può fermare. Questo mi ha aiutata molto perché fin dall’inizio ho messo in conto che la mia idea non sarebbe piaciuta a tanti, che sarei stata criticata, attaccata, insultata. Tutto questo fa parte del “pacchetto” e io lo accetto. Forse ho provato paura quando ho ricevuto delle mail un po’ strane e minacciose. Ma non cambio per questo la mia vita. La paura è un sentimento importante perché ci riporta sempre al momento, non ci permette di scappare, ci impone una scelta nell’oggi e ci conduce all’impegno costante. Qui subentra anche la consapevolezza della forza di cui parliamo che senza questa paura non si manifesterebbe. Cosa diresti a delle giovani studentesse? Porterei il messaggio di Lilith, di questa donna forte e libera che perde come tutti noi. La forza di Lilith viene anche dalla perdita, non solo dalle vittorie. Il messaggio più importante per me risiede proprio in questa lezione di forza legata alla caduta: la caduta è legittima, normale, inevitabile. Ma si deve realizzare che dalla caduta ci si rialza sempre e la forza che ne scaturisce è raddoppiata se non triplicata in sostanza. E poi alla caduta segue sempre un inizio e gli inizi sono così belli… io vorrei poter sempre iniziare…

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The Continuing Relevance of Keynes Paolo Leon commenta alcuni passaggi estratti dalla Lectio Magistralis tenuta da Lord Robert Skidelsky in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa nell’ambito della cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2010-2011 lo scorso 16 febbraio

Skidelsky ha voluto illustrare quanto sia rilevante, dopo trent’anni di abbandoni, travisamenti e rifiuti, il pensiero di J. M. Keynes. Naturalmente, la grande crisi in corso facilita il ritorno a quel grande economista, del quale Skidelsky è il Paolo Leon maggior biografo. Di qui la sua Lectio Magistralis, dalla quale estraiamo qualche aspetto, soprattutto sulle due principali fondamenta del pensiero keynesiano: l’incertezza e la domanda effettiva. 1. Nell’osservare l’attuale crisi finanziaria, Skidelsky ricorda: «Keynes faceva una distinzione fondamentale tra il rischio e l’incertezza […]. Che cosa è stato a rendere impenetrabili al calcolo probabilistico grandi parti del futuro? Il mio esempio preferito dagli scritti di Keynes è la sua descrizione di una mela dotata di caratteristiche ‘umane’. La fisica newtoniana ci dice che la mela cadrà a terra sempre a una velocità determinata dalla forza esercitata su di essa divisa per la sua massa. Ma nessuna previsione del genere può essere fatta in relazione alla mela ‘umana’. Keynes scrive: “È come se la caduta a terra della mela dipendesse dalle motivazioni della mela, se vale la pena di cadere a terra, se la terra volesse la caduta della mela, e dai calcoli errati da parte della mela su quanto distasse dal centro della Terra”. […]. Keynes dota la sua mela di “motivazioni” e “intenzioni”. Sono queste le caratteristiche che spezzano il nesso tra l’economia e la fisica e che rendono l’economia una scienza ‘morale’, non ‘naturale’. […] Keynes credeva che l’incertezza costringa l’investimento professionale a diventare speculazione, poiché nessuno può permettersi di rimanere senza sedia alla fine della musica» e scrisse che gli speculatori non possono nuocere se operano in condizioni stabili, ma «la situazione è grave quando l’impresa è una bolla in un vortice di speculazione. Quando lo sviluppo del capitale di un paese diventa un sottoprodotto delle attività di un casinò è probabile che il lavoro venga fatto male». All’allontanarsi della Grande Depressione, la distinzione tra rischio e incertezza è stata dimenticata, a favore di individui razionali capaci di rappresentare probabilità soggettive - e perciò di decidere sulla base di rischi calcolati: un comportamento che esclude, assurdamen-

te, la possibilità di crisi come quella attuale o quella degli anni Trenta. È curioso che, mentre quella distinzione veniva dimenticata, si sviluppava lo Stato sociale, che è certamente un rimedio all’incertezza: di quella individuale, però, non di quella degli operatori di borsa. Anzi, si può forse sostenere che poiché lo Stato sociale accentua la propensione al rischio delle famiglie, può contribuire a far crescere l’incertezza sul mercato dei capitali. Di contro, le famiglie più speculatrici si trovano negli Stati Uniti, che hanno un debole Stato sociale, da dove è poi partita la crisi finanziaria: c’è incertezza anche nell’analisi, non solo nei mercati. 2. Skidelsky rileva che Keynes era critico sia di Marx, considerato un erede di Ricardo, sia delle fondamenta walrasiane dell’economia (oggi, diremmo del “sistema di equilibrio economico generale”). «Keynes stava facendo una considerazione politica, cruciale per il suo ruolo di ‘salvatore’ del capitalismo. La disoccupazione di massa non era il risultato di un’errata distribuzione del potere d’acquisto: era il risultato di capacità inutilizzate, non comandate né dai ricchi né dal potere. In altre parole, l’espansione della domanda attraverso l’uso produttivo delle risorse inutilizzate avrebbe giovato sia ai salari che ai profitti, lasciando invariate le quote di reddito delle diverse classi. […] Tuttavia, c’erano due aspetti dell’argomento di Keynes che suggerivano conclusioni piuttosto inquietanti. La sua genialità politica è stata quella di capire che, quando il problema consisteva in capacità inutilizzate, la ridistribuzione fosse un problema minore che poteva essere rinviato. Ma per la stessa ragione, la sua economia gettò poca luce su cosa sarebbe accaduto alle quote salariali e ai profitti delle classi una volta che le sue politiche avessero ottenuto la piena occupazione». Dopo Keynes, infatti, questo vuoto non fu riempito da una vera teoria, ma da una relazione empirica (la curva di Phillips) che dette luogo alla politica dei redditi. Molti post-keynesiani, compresi i suoi allievi, Richard Kahn e Joan Robinson, erano incerti nell’applicare il ragionamento keynesiano anche alla situazione di piena occupazione (“inflation barrier”); coloro che tentarono di farlo - come Kaldor - finirono per riscoprire, non volendo, le virtù della scuola neoclassica (come avvenne per la sua funzione del progresso tecnico). Queste debolezze teoriche facilitarono la critica di Friedman a Keynes, mentre la stagflazione della fine degli anni Settanta spazzò via la politica dei redditi. Oggi, dopo trent’anni di erosione della quota di salari e stipendi nel


reddito nazionale, si può dire che il capitalismo, tradendo Keynes, ha posto le basi delle sue stesse crisi - dalle quali può uscire solo tornando al suo “salvatore”. 3. In realtà, la parte più importante del pensiero keynesiano, la teoria della domanda effettiva, non ha ragione di applicarsi soltanto al breve periodo o alle crisi. A questo proposito, Skidelsky sottolinea il rilievo della scuola neoricardiana, che ha in Italia, e a Roma Tre, una posizione riconosciuta internazionalmente. «L’interpretazione neoricardiana di Keynes è un tentativo di usare la teoria classica del valore e della distribuzione per fornire delle microbasi ricardiane alla teoria della domanda effettiva di Keynes» che invece rifiutava Ricardo a favore di Malthus. «Sarei tentato di dire che i neoricardiani [si sono basati] sulla frase di Keynes “I difetti lampanti della società economica in cui viviamo sono la sua incapacità di provvedere alla piena occupazione e la sua distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi”. Esiste un motivo […] potente per l’entrata neoricardiana nel sistema keynesiano, e si trova nell’influenza dei consumi sull’investimento e sulla domanda effettiva. La teoria pre-keynesiana riteneva che ci fosse una relazione inversa tra i consumi e gli investimenti. Keynes ha ribaltato questa teoria, ritenendo che in condizioni di disoccupazione più erano alti i consumi, più elevato sarebbe stato il reddito nazionale, e di conseguenza maggiore sarebbe stato il risparmio della comunità per poi poter finanziare un aumento degli investimenti. Il nesso di causalità, perciò, non era tra il risparmio e gli inve-

stimenti, ma tra il consumo e gli investimenti - e alla fine, il consumo senza gli investimenti, quando la domanda di beni capitali si fosse saturata». A dire il vero, non è tanto dalla propensione al consumo che i neoricardiani traggono lo spunto per conciliare Keynes e Ricardo o, meglio, Keynes e Sraffa. Skidelsky ci ricorda che Sraffa presentò nel 1928 a Keynes le bozze di Produzione di merci a mezzo di merci - uscito poi nel 1960 - senza ottenerne un riscontro. Esiste, infatti, un problema di domanda effettiva permanente nelle economie capitalistiche, soprattutto, ma non solo, in relazione alla distribuzione del reddito. Su questo aspetto, Skidelsky ricorda che per Keynes «è poco probabile che le riduzioni del salario monetario […] aumentino la quantità di occupazione […]. Keynes riconosceva il fatto che, in un’economia in crescita, sarebbe molto più facile mantenere la piena occupazione se il danaro andasse meno ai ricchi e più ai poveri […]. Sin dagli anni Ottanta operiamo in base a un principio completamente diverso, consentendo alla disparità di reddito di aumentare fino ai livelli normali del 1929 […]. Una delle conseguenze […] è che lo Stato del benessere come base del contratto sociale è stato sostituito dall’accesso al credito». Non credo che ci sia stata ancora fornita una rappresentazione altrettanto chiara dell’origine effettiva della crisi: è una crisi del leverage, come è stato detto da tutti, ma il leverage applicato alle famiglie, e cioè il loro debito, è il sostituto di una giusta distribuzione del reddito, e non poteva non incontrare il suo redde rationem.

Lord Robert Skidelsky è professore emerito di Economia politica presso l’Università di Warwick e autore della biografia in tre volumi di John Maynard Keynes pubblicata fra il 1983 e il 2000 per la quale ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra cui il Lionel Gelber Prize for International Relations e il Council on Foreign Relations Prize for International Relations. Nel 1991 è stato nominato Lord ed è Fellow della British Academy. Nato nel 1939 ad Harbin, in Manciuria, da genitori inglesi di origine russa, ha studiato in Inghilterra, laureandosi in storia ad Oxford e divenendo successivamente Fellow del Nuffield College. Ha insegnato alla John Hopkins University di Washington prima di diventare professore a Warwick. Il 16 febbraio scorso l’Università degli studi Roma Tre gli ha conferito la Laurea Honoris Causa in Scienze economiche. Lord Robert Skidelsky


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Il ponte dei corvi Il campo di concentramento di Ravensbrück

reportage

di Alessandra Ciarletti

Era mattina presto e a Elga quella proposta le rimbombava ancora dentro. Fuori un silenzio ovattato e tutto bianco. Il freddo avvolgeva i loro respiri, i rantoli di dolore, i cattivi odori che ovunque le circondavano. Era arrivata al campo due mesi prima, ben coperta e stordita dall’incredulità. Quando scese dal treno inAlessandra Ciarletti sieme alle altre si ritrovò rapidamente incolonnata e così rimase per ore. Nella neve che quasi indolore prima avvolgeva poi infradiciava i piedi. Colonna muta che procedeva inesorabile verso un destino inaspettato. Ferma nel campo, di fronte il lago ghiacciato. In fila di nuovo ma all’interno di un edificio. Ai fianchi figure nere davano il ritmo ai passi tra grida e frustate. Elga si spoglia dei suoi vestiti insieme alle altre. Si riveste con camicia pantaloni e zoccoli ai piedi. Una divisa identica per tutte. Un numero che le rende visibilmente uniche. Lei è il 4117. Destinata al reparto sartoria. In due mesi era dimagrita molto, ma era ancora viva, non ci credeva neppure lei. Ed era ancora bella, lei non lo sapeva, ma gli altri si. Intorno la morte si impossessava di molti corpi. Ogni giorno. Si era impossessata di Maria senza riguardo per il suo corpo giovane e i suoi occhi trasparenti. Neppure la lusinga del sonno, del silenzio. Morta tra le grida di dolore, quelle di altre compagne ricoverate nell’infermeria del campo Revier - insieme a lei. Erano state prelevate, scelte, portate via dalle loro baracche qualche giorno prima. A lei avevano aperto una gamba, tolto un frammento di tibia, quindi lasciata lì. Febbre e spasmi, non un lamento. La sua anima non gliela diede. Poi gliela aprirono di nuovo, inserendole qualcosa. Il dolore era stato lancinante. Lasciata lì di nuovo; quando se ne andò tre giorni dopo il suo corpo fu preso accatastato su molti altri e infine bruciato con il suo numero, il 3563. Maria era finalmente altrove. A Elena fu iniettato nel ventre un liquido rovente, senza riguardo e spiegazioni ma sotto gli occhi incessanti di Herta Oberheuser. Herta Oberheuser entrò volontaria a prestare servizio come medico nel campo di concentramento di Ravenbrück; qui lavorò per circa tre anni prendendo parte a numerosi esperimenti umani, imprimendo alla sua partecipazione un sadismo inaudito. La Oberheuser a Norimberga fu condannata a venti anni di prigione, ma nel 1952 fu rimessa in libertà a seguito di una riduzione della pena. Fino al 1958 esercitò la professione di medico - pediatra. “Smascherata”, lavorò come aiuto cucina. Morì nel 1978. Come in altri campi anche a Ravensbrück si praticavano

vari esperimenti. Qui si testavano sulfamidici; si provocava la fratturazione delle ossa per espiantarne frammenti,

“Colonna muta che procedeva inesorabile verso un destino inaspettato. Ferma nel campo, di fronte il lago ghiacciato. In fila di nuovo ma all’interno di un edificio. Ai fianchi figure nere davano il ritmo ai passi tra grida e frustate” inserirne di nuovi o di altra natura; si sterilizzava introducendo nell’utero composti dello iodio e altre sostanze altamente irritanti. Le vittime spesso morivano. Il fine giustificava il mezzo: le diverse non dovevano più riprodursi. Questi metodi di sterilizzazione laddove non conducevano alla morte si dimostrarono “funzionali” anche per altri obiettivi. Fortunatamente non funzionarono sempre. Per sempre restò la violenza, il dolore subiti. Elga quella mattina pensava ai corpi accatastati, al fetore, alla fame, al freddo, e a quella continua, incessante promiscuità. E ancora, la fame. «È lei che camminava di un passo leggero, piedi nudi sulla terra tremante di Treblinka, dal


luogo di scarico del treno fino alla camera a gas. Sì è proprio lei. L’ho vista nel 1930 alla stazione di Konotop, si era avvicinata al vagone del rapido, il colorito scuro per la sofferenza, e, alzando i suoi occhi meravigliosi, ha detto senza voce, solo con le labbra: Del pane». Fu ovunque uguale, una totale scomparsa dell’essere umano. Non bisogna lasciar morire l’uma- Ingresso del campo di concentramento no nell’uomo, ovunque accada arriva il mostro. Elga pensa che forse dovrebbe accettare. In fondo le avevano detto «fra sei mesi sarai liberata». Avrebbe avuto pasti migliori e una baracca riscaldata, acqua calda corrente. Accetta. Il giorno dopo insieme ad altre quattro compagne viene messa su un treno e di nuovo in marcia ma con destinazione: il Sonderbau, l’edificio speciale di Auschwitz. Ecco un nuovo, conforme obiettivo: il bordello. Tra il 1942 e l’anno successivo su decisione di Heinrich Himmler furono allestiti bordelli nei maggiori campi di concentramento: Buchenwald, Auschwitz, Mauthausen… Un modo per “pre-

miare” i buoni e per arginare l’omosessualità, dicevano. Le donne destinate al bordello venivano scelte perlopiù nel campo di concentramento di Ravensbrück, tra quelle più giovani e ancora presentabili, tra quelle bollate come asociali. I clienti erano inizialmente Kapò e Vorarbeiter e altri soggetti in qualche modo “privilegiati”. Gli ebrei, i rom, i sinti ne erano esclusi. Così come le “prescelte” di Ravensbrück non furono mai ebree. Quando Elga si rende conto di quanto le sarebbe realmente costata quella promessa di vita, avrebbe voluto morire. Arrivata insieme alle altre alla nuova e “confortevole” baracca viene visitata, lavata e vestita. L’edificio è ordinato e pulito. Suddiviso in tante piccole stanze, le loro stanze. In quelle stanze e in quelle di altri campi “lavorarono” decine e decine di donne. Il belletto messo beffardamente a loro disposizione rende le loro espressioni ancora più struggenti. Alcune svuotano bottiglie per anestetizzare la mente, arrivare all’incosciente. Ma in fondo a quegli occhi si possono ancora scorgere frammenti di una remota aspirazione all’esistenza. Si guardano allo specchio e non vedono nulla di ciò che erano; i loro occhi sono andati oltre l’umano. I capelli sono spenti, i seni svuotati eppure sono lì, sotto sguardi impietosi che continuano a strappare via tutto. Elga è una donna, una delle tante a cui è stato strappato tutto e l’ultimo pezzo è stata costretta a strapparlo via lei stessa, pur di sopravvivere all’inferno, alla morte che la circonda. “Lavorerà” per sei mesi poi sarà libera, così le hanno promesso. Arbeit macht frei. Fu liberata dai russi. Quante sopravvissero si chiusero nel silenzio. Poche le testimonianze dirette. Nessun indennizzo. Su di loro aleggiava un terribile interdetto: collaborazionismo. Considerate prostitute del regime. «La memoria di per sé - dice Tzvetan Todorov - non è né buona né cattiva». E al cattivo ricordo è forse preferibile l’oblio. Il campo di concentramento di Ravensbrück fu costruito nel 1939 e fu prevalentemente femminile. Campo di rieducazione lo chiamavano all’inizio. Da qui si “prestava” mano d’opera alle fabbriche territorialmente limitrofe. Nel 1941 fu aggiunto anche un campo maschile e nel 1942 nelle immediate vicinanze fu costruito il cosiddetto campo di sicurezza preventiva giovanile di Uckermark destinato alla detenzione di donne giovani e bambine. Arrivo a Ravensbrück in una fredda mattina di gennaio, tutto è ricoperto da uno spesso manto di neve. Il campo si trova a circa tre chilometri dal paese. Lungo il tragitto che dalla stazione di Fürstenberg conduce al campo incontro

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Alcune sopravvissute

soltanto un’indicazione; ci sono alcuni bivi, non so con precisione quale strada prendere. Vedo arrivare un vecchietto in bicicletta, mi rivolgo a lui. Sto ancora con il dito alzato quando mi passa davanti senza neppure guardarmi. Chissà, forse in quegli anni lui c’era. Mi incammino di nuovo e dopo un paio di chilometri incontro un nuovo cartello, devo essere vicina, penso. La strada scende ghiacciata e fiancheggiata da un bosco. Intravedo il lago, sono vicina. Prima di arrivare al campo vedo sulla destra un edificio piuttosto grande, nuovo. Davanti una targa: lì qualche anno fa tutto era pronto per ospitare un supermercato. Fu bloccato dalle proteste. La memoria può essere buona. Continuo e giungo ai primi edifici: quattro case unifamiliari signorili per gli alti ranghi delle SS del campo, dieci più modeste per i ranghi inferiori. Oggi ospitano una mostra sul personale femminile delle SS e un centro di incontro giovanile internazionale. Non incontro nessuno fino alla libreria e punto informativo; all’interno una signora mi spiega come è organizzata la visita. L’ingresso è gratuito. A ridosso del campo nell’edificio che allora era la sede della direzione SS del lager, oggi c’è l’esposizione principale del materiale documentale, prevalentemente in tedesco. Esco dall’edificio e mi dirigo verso il campo. La neve rende il paesaggio fermo, quasi un monito per chi lo vede. Arrivare in questo luogo in pieno inverno dà appena un assaggio dei tormenti subiti. All’ingresso ci sono sculture in- La prigione

colonnate che quasi mi vengono incontro, puntine di ferro che tengono insieme i frammenti della memoria. Davanti uno spazio ampio delimitato da edifici: furono l’infermeria, la sartoria, la lavanderia, le baracche delle prigioniere. A destra la prigione. È un edificio a due piani, suddiviso in celle. Al primo piano le celle ospitano memoriali donati dai paesi di origine delle prigioniere. Sono toccanti per il dolore che trasmettono. Al piano terra sono state conservate le stanze di punizione - già, in un campo di concentramento si poteva essere puniti ulteriormente - differenti nell’arredo in base al reato commesso: la più “leggera” prevedeva un letto, una sedia e un servizio, quella più pesante, una stanza vuota e completamente buia. A condurre le prigioniere in quelle stanze erano spesso altre donne, donne dotate di frusta, accompagnate dai cani. Esco, sono di nuovo circondata dalla neve. Il freddo è ovunque. Mi rimbomba dentro l’eco di una voce passiva, ho paura. È una voce che può fare tutto. Un ordine eseguito senza battito di ciglia. Pensavano tutti di contribuire al bene del paese. Agivano spinti dal più misero senso del dovere, da un rispetto senza sospetto della legge e della gerarchia. Sotto l’egida del bene di Stato muore l’uomo ogni giorno. «I giusti non cercano il bene ma praticano la bontà». Bisogna tenerlo a mente perché presto non ci sarà né più vittima né più carnefice che sia stato lì.


A Shared Commitment The Cartagena Summit on a Mine-Free World di Arianna Campanelli

Nel tropicale inverno coaffollate di esperti del tema che hanno analizzato il testo lombiano si è svolta la sedella Convenzione e hanno preso atto dell’effettivo proconda conferenza di revigresso della stessa. I giorni seguenti sono state aperte le sione del Trattato di Ottasessioni ufficiali con gli interventi dei delegati e dei miniwa per la messa al bando stri degli Stati. Tra fotografie, strette di mano e accordi di delle mine antipersona. corridoio, ci si è salutati con un bel arrivederci tra qualche Ben 156 Stati si sono riuanno, suggellato dalla firma del Piano d’azione 2010niti a Cartagena, dal 29 2014, che indica gli obiettivi futuri, per il cui raggiunginovembre al 4 dicembre mento tutti dovranno adoperarsi mettendo in essere i proscorso, per affermare o ripri sforzi e le rispettive capacità. confermare il proprio impegno nell’eliminare com“Per continuare a ottenere successi in Arianna Campanelli pletamente la minaccia umanitaria posta da queste futuro è però necessario che tutti i armi di distruzione di massa. Negli stessi giorni, al piano paesi promuovano il trattato di Ottawa superiore del Centro convenzioni, ha avuto luogo un’altra sia a livello nazionale che riunione, dal nome altisonante e dagli obiettivi altrettanto internazionale, condannando ambiziosi: il Forum dei giovani leader del domani. Un «qualunque attore faccia un qualunque gruppo di studenti, volontari e vittime di mine, provenienti da 35 diversi paesi, di età compresa tra i 16 e i 25 anni. Un uso di un qualsiasi tipo di mina»” insieme di colori, religioni e accenti che si sono incontrati per cinque giorni e hanno lavorato alla stesura di un testo In questo contesto un ruolo fondamentale è giocato dalle comune, la Dichiarazione dei giovani di Cartagena, che è organizzazioni non governative e dalla società civile. Oltre stato poi letto di fronte al plenum dei delegati ufficiali. Al alla Campagna internazionale contro le mine (ICBL), hanforum si respirava un’atmosfera di entusiasmo e ottimino partecipato al summit le varie Campagne nazionali (cosmo che accomunava tutti i partecipanti. Obiettivo condime la nostra Campagna italiana contro le mine), Handicap viso l’eliminazione di qualsiasi tipo di mina, attraverso atInternational, Croce Rossa Internazionale, Centro umanitività di pressione e di lobbying sui governi e di coinvolgitario di sminamento di Ginevra, Human Rights Watch e mento dell’opinione pubblica mondiale. Amnesty International. Tanto i governi, quanto i giovani si sono dunque adoperati A riconoscimento dell’enorme lavoro svolto nella definizione per revisionare nel miglior modo possibile il testo del della Convenzione di Ottawa, nel 1997, la Campagna interTrattato di Ottawa, risalente al 1997, che rappresentò il nazionale e la sua coordinatrice Jody Williams furono inprimo grande passo verso un ampio accordo tra Stati, 122 signiti del Premio Nobel per la pace, per «avere avviato un per la precisione, e che vedeva alla base il comune impeprocesso che è riuscito, nel corso di pochi anni, a trasformare gno per attività di in realtà concreta sminamento e assil’idea visionaria di stenza alle vittime. riuscire a mettere al Il testo, legalmente bando le mine antiuomo». Il Comitato cogente, proibisce di produrre, usare, Nobel norvegese sotconservare, comtolineò anche come merciare e trasferila Campagna fosse re mine. riuscita a «esprimere e interpretare, come Nella prima giornata del summit le samai era avvenuto in le del Centro conprecedenza, un imvenzioni, interapegno diffuso della mente sorvegliato popolazione, inda poliziotti muniti ducendo a farsi caridi fucili non molto co del problema i rassicuranti, erano Youth Leader Forum, prova dimostrativa di sminamento governi di vari paesi.

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Questo impegno si è trasformato in un convincente esempio di azione politica concreta in favore della pace e in un modello per simili iniziative che potranno essere messe in atto in futuro». Per continuare a ottenere successi in futuro è però necessario che tutti i paesi promuovano il Trattato sia a livello nazionale che internazionale, facendo il massimo per far collaborare coloro che non hanno ancora firmato e condannando «qualunque attore faccia un qualunque uso di un qualsiasi tipo di mina». Una definizione così ampia è necessaria per evitare che venga fatta, altrimenti, un’interpretazione limitata e strumentale dei soggetti colpevoli e delle situazioni incriminate. Sono, in effetti, numerosi gli attori, statali e non statali, che fanno ancora uso di mine e, in base al Landmine Monitor Report 2009, circa 78 paesi sono “inquinati” da ordigni inesplosi. Una delle motivazioni alla base dell’utilizzo di tali ordigni è che, pur essendo armi di distruzione di massa, sono le più economiche: una mina costa 2,50 euro. Si tratta, inoltre, di un’arma subdola, progettata e costruita appositamente per

“Le mine rappresentano uno dei maggiori ostacoli alla pace, la loro presenza inficia ogni prospettiva di sviluppo: impedisce l’accesso a vaste aree coltivabili, ostacola il rimpatrio dei profughi, rallenta le campagne di vaccinazione e la distribuzione degli aiuti umanitari” essere mimetizzata col terreno o tra l’erba e, spesso, per essere scambiata per un giocattolo. Non a caso, secondo i dati della Campagna italiana contro le mine, l’85% delle vittime sono civili inermi e, di questi, il 20% sono bambini. Jody Williams ha definito le mine “soldati perfetti”, perché anche a guerra conclusa continuano ad uccidere e mutilare rimanendo in vaste aree e continuando a seminare terrore e a paralizzare la vita di intere società. Le mine rappresentano, per questo, uno dei maggiori ostacoli alla pace. La loro presenza inficia ogni prospettiva di sviluppo: impedisce l’accesso a vaste aree coltivabili, ostacola il rimpatrio dei profughi, rallenta le campagne di vaccinazione e la distribuzione degli aiuti umanitari. Non si può certo dimenticare che l’Italia, fino al 1993, è stata uno dei maggiori produttori ed esportatori mondiali di mine terrestri, ma dalla nascita, nello stesso anno, della

Campagna italiana contro le mine, si è lavorato intensamente e con creatività per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sulla necessità di azioni incisive contro questo tipo di arma, a partire dalla sua messa al bando. I paesi che, invece, hanno presenziato alla Conferenza in Colombia ma che ancora non hanno firmato il Trattato sono: Cina, India, Nepal, Libano, Polonia e sopra a tutti, gli Stati Uniti. Il summit di quest’anno ha, in realtà, rappresentato una svolta storica perché, per la prima volta, gli USA hanno partecipato come osservatori alla Conferenza. Nel discorso ufficiale tenuto da Ian Kelly, portavoce americano dell’Ufficio degli affari pubblici, gli Stati Uniti affermano di aver accettato con piacere l’invito del presidente colombiano Uribe vista la comunanza di obiettivi umanitari con gli altri paesi del mondo. Inoltre, l’amministrazione Obama si dichiara fortemente impegnata nel continuare a dare il proprio contributo per eliminare i rischi posti dalle mine. Contributo che ha visto, soprattutto, lo stanziamento di fondi (1,5 miliardi di dollari) per lo sminamento in zone di guerra. Il nuovo impegno che gli Stati Uniti hanno solennemente annunciato è quello di interrompere l’uso di mine antipersona e anti carro entro dicembre 2010. Fermo restando questo obiettivo, l’amministrazione americana dichiara che ci vorrà del tempo affinché gli Stati Uniti si adattino a tutte le direttive in tema di mine e le applichino a pieno «visto che - spiega Ian Kelly - dobbiamo considerare tutti i fattori in gioco, comprese eventuali alternative per soddisfare le nostre esigenze di difesa nazionale, nonché i nostri impegni per la sicurezza di amici ed alleati, per garantire loro e ai civili di tutto il mondo la protezione delle truppe americane».

“Gli Stati Uniti, insieme a Russia, Cina e India, sono fra i 14 paesi che non hanno ancora aderito al trattato. Questo ci ricorda che, per quanto siano molti i risultati finora conseguiti è ancora lunga la strada da fare per la realizzazione di un effettivo disarmo mondiale da mine antipersona” Gli Stati Uniti, insieme a Russia, Cina e India, sono fra i 14 paesi che non hanno ancora aderito al trattato. E questo ci ricorda che, per quanto siano molti i risultati finora conseguiti è ancora lunga la strada da fare per la realizzazione di un effettivo disarmo mondiale da mine antipersona.


L’Europa del diritto allo studio Strutture accademiche e servizi agli studenti come base per l’eccellenza e la competitività

condizioni sociali e culturali Gli studenti dei nostri ateQuesta impostazione è stata portata all’attenzione del nei hanno ancora poca diConsiglio dei ministri europei in vista di ottenere promestichezza con gli indigressivamente i seguenti obiettivi: rizzi sul diritto agli studi - riconoscere i servizi agli studenti come fattore strategiuniversitari che stanno co per uno sviluppo competitivo nel campo dell’istrumaturando a livello eurozione universitaria all’interno delle istituzioni europee; peo. Come c’era un’Euro- premere in fatto di eccellenza nei servizi di assistenza pa del carbone e dell’aceconomica e sociale per gli studenti, puntando magciaio e ora un’Europa delgiormente sulla residenzialità, sul finanziamento agli le monete - con l’adozione studi come anche sul supporto psicologico agli studendell’euro da parte dei ti; principali Paesi - e della - considerare l’importanza del servizio agli studenti nelcircolazione delle persone Gianpiero Gamaleri l’agenda europea della formazione universitaria aggree delle merci, così sta afgando le organizzazioni impegnate nei servizi agli stufermandosi un’Europa del denti alle altre organizzazioni facenti parte della Confediritto allo studio, che ha una delle sue manifestazioni più renza di Bologna; evidenti nel programma Erasmus. Siamo ormai abituati a - dare alla dimensione sociale la massima priorità per i ospitare nelle nostre università studenti di altre nazioni e a prossimi anni per incoraggiare l’accesso all’università, fruire noi stessi di questa possibilità. Ma sappiamo ancora la mobilità degli studenti, il completamento degli studi poco sui passi avanti del diritto allo studio per cui in proe l’uguaglianza sociale. spettiva ogni studente capace, meritevole e con modeste I servizi agli studenti come base per l’eccellenza e la capacità economiche potrà via via scegliere in tutta Eurocompetitività pa l’ateneo in cui maturare la sua formazione. È nata così una mozione che indica una prospettiva di Dare le stesse opportunità negli studi universitari a tutgrande importanza che si riassume nelle seguenti parole: ti gli studenti europei «Le organizzazioni impegnate nel servizio agli studenti In questa linea si è mosso l’European Council for Student giocano un ruolo importante ai fini di un’istruzione uniAffairs (ECStA) - nell’ambito della Conferenza di Boloversitaria europea competitiva. Le stesse forniscono la bagna. se sociale ed economica per uno studio di qualità in qual«L’eccellenza nell’istruzione all’interno dei 46 Paesi delsiasi paese e situazione. Finanziamenti adeguati, vitto e all’Europa allargata che partecipano alla Conferenza di loggio accessibili, assistenza efficiente, assistenza e supBologna richiede non solo una efficace preparazione nelporto sociale non sono opzioni bensì vantaggi strategici e la ricerca e nell’insegnamento ma anche una infrastruttuvalore aggiunto che le organizzazioni per il diritto allo stura sociale eccellente e competitiva nonché meccanismi di dio garantiscono al modello d’istruzione europeo». supporto per gli studenti d’Europa» ha sostenuto Achim Questo impegno è riassunto dalle parole di Achim MeMeyer auf der Heyde, vicepresidente del Consiglio euroyer auf der Heyde: «I servizi peo per il Diritto allo Studio (ECStA) oltre che Segretario Generaagli studenti costituiscono le le dell’Ente tedesco per il Diritto strutture di supporto necessarie allo studio universitario di Berlidi cui gli studenti necessitano per condurre uno studio di no (DSW), alla vigilia della conqualità senza preoccupazioni: ferenza dei ministri europei sull’istruzione universitaria tenuta a disporre di appartamenti accessibili con servizi di ristorazione, Leuven. fornire informazioni circa le Come si vede, questa impostatasse e le borse di studio, lavozione non prende in considerarare per una integrazione sociazione soltanto le strutture accale che garantisca condizioni di demiche - che pur anno un’imaccesso uguale per tutti, salvaportanza decisiva - ma anche le guardia nel contempo delle dicondizioni sociali e più ampiaversità culturali all’interno delle mente culturali in cui si deve sviistituzioni universitarie euroluppare l’esperienza universitaria pee». Questi sono i fattori chiadegli studenti. ve per qualsiasi campus univerL’Europa del diritto allo studio: Achim Meyer auf der Heyde, presidente del Consiglio sitario europeo. strutture accademiche ma anche europeo per il diritto allo studio

orientamento

di Gianpiero Gamaleri

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Superare gli ostacoli Una studentessa universitaria racconta la sua esperienza di borsista di Monica Schneider

Nel corso degli anni passati all’università c’è chi decide di fare l’Erasmus, chi va all’estero per scrivere la tesi di laurea, e chi, come me, decide di concorrere per l’assegnazione delle borse di collaborazione e lavorare all’interno dell’Ateneo. Quando decisi di parteciMonica Schneider pare al bando per l’assegnazione delle borse di collaborazione lo feci per due motivi: guadagnare un po’ di soldi e fare un’esperienza lavorativa da poter poi inserire nel curriculum. Non avevo considerato l’aspetto che ora, col senno di poi, reputo il più importante: l’esperienza umana. Il periodo passato presso il laboratorio informatico, infatti, è probabilmente il più significante e rappresentativo del mio percorso universitario. Il primo giorno che mi sono presentata al laboratorio informatico della Facoltà di Giurisprudenza ero piena di paure dovute alla mia timidezza, al fatto che non avevo mai lavorato prima di allora, ma soprattutto, alla mia disabilità. Come avrebbero reagito, vedendomi, i responsabili e gli altri borsisti? E come avremmo superato “l’ostacolo”? I miei timori sono scomparsi dopo pochi secondi dal mio ingresso in quel locale: per loro ero una borsista, niente di più, niente di meno, e così è stato per i due anni in cui ho lavorato lì. Se dovessi esprimere con una sola parola l’essenza degli anni passati all’università, quella più adatta sarebbe, sicuramente, “normalità”; lo so, per chi non vive la disabilità può sembrare un ossimoro che una persona diversamente abile possa considerare normale qualche cosa, eppure è così. Nel periodo in cui sono stata una studentessa universitaria non mi sono solo limitata a seguire le lezioni e a sostenere gli esami, ma ho cercato di svolgere il maggior nu-

mero possibile di attività offerte dall’Ateneo, ho partecipato a conferenze, ho vinto una borsa di studio e ho frequentato il centro sportivo dell’Ateneo sostenendo, come tifosa, la squadra femminile di calcetto. Tutto ciò è stato possibile grazie al mio carattere che non m’impedisce di fermarmi davanti alle difficoltà, ma anche grazie all’aiuto e al supporto dei servizi offerti dall’Ufficio studenti con disabilità. Sono arrivata all’università che ero poco più di un’adolescente, cresciuta tra casa e scuola, e ne sono uscita con un’esperienza e un bagaglio personale incommensurabile che mi hanno aiutato a superare le difficoltà che mi si sono presentate successivamente. Penso spesso agli anni spesi all’università e sono sempre più convinta che sia un periodo della vita che va vissuto intensamente, senza tralasciare niente; e se c’è una cosa che ho imparato è che niente è impossibile e che una studentessa diversamente abile non è particolarmente brava o coraggiosa perché decide di continuare gli studi dopo la maturità o perché passa le sue giornate in Facoltà o svolge delle attività extra curriculari, ma è semplicemente una ventenne che ha deciso di vivere normalmente.

La sede dell’Ufficio studenti con disabilità, in via Ostiense 169

È attivo lo sportello informativo dell’Ufficio studenti con disabilità. Gli studenti con disabilità possono contattare lo sportello per: - ricevere informazioni relative ai servizi specifici, per effettuarne le richieste e disdette e per conoscere la relativa pianificazione; - ricevere le informazioni pubblicate sul portale e sulle guide di Ateneo (servizio per non vedenti); - agevolare i rapporti con le segreterie didattiche di Facoltà e con gli altri uffici di Ateneo. Orari di apertura: da lunedì a venerdì 10.00 - 13.00 e 14.00 - 17.00 tel. 335 6209723 messanger: ufficiodisabili@hotmail.com skype: ufficiodisabili


Oltre l’e-Learning La comunità di pratica come ambiente di apprendimento interprofessionale di Claudio Pignalberi

Italiani popolo di internauti, blogger e frequentatori di social ze di formazione, numerosi leonardo project, progetti fornetwork: nel 2008 si registrano oltre 8 milioni di utenti attivi mativi, corsi istituzionali, attività di ricerca sulle tematiche su internet, che pubblicano e commentano su blog e social del management, della scuola e della sanità e, non ultimo, il network, hanno delle pagine web personali, scrivono su foprimo seminario internazionale di Pedagogia del lavoro, rum. È il cosiddetto Web 2.0 ovvero l’insieme delle applicaComunità di pratica e pedagogia del lavoro: un nuovo canzioni che permettono uno spiccato livello di interazione tra tiere per un lavoro a misura umana e il seminario internal’ambiente virtuale e l’utente. È sufficiente riportare, a titolo zionale Conversazione con Etienne Wenger: voglia di codi esempio, il caso di Facebook, MySpace, YouTube che somunità in azienda, tenutisi il 3 novembre scorso. no entrati a far parte del gergo quotidiano della rete. Tali spaNello specifico, la finalità degli incontri - che hanno richiazi virtuali consentono la nascita di nuove comunità e possomato oltre duecento presenze - è stata quella di proporre rino avere un impatto inaspettato sulla nostra vita sociale e sul flessioni su un tema pedagogico “chiave”: come costruire modo di produrre, di ricevere, di condividere un’informazioambienti di lavoro collaborativi e solidali nei quali il sogne. E grazie alle nuove opportunità del Web 2.0, il modello getto possa sentirsi rispettato per le sue componenti umane. delle comunità di pratica - introdotto da Etienne Wenger sul Ne hanno discusso tra gli altri Etienne Wenger, Giuditta finire degli anni Ottanta - conosce inedite possibilità di apAlessandrini, Paolo Orefice (Università degli studi di Firenplicazione e diffusione. ze), Maria Novella Bettini (Università degli Studi Roma L’aspetto decisamente innovativo del modello delle comuniTre) e Antonio Messia (UIL) insieme a professionisti e a tà di pratica è dettato dal pieno riconoscimento dell’infordocenti e ricercatori facenti parte della Rete universitaria di malità nell’apprendere (l’apprendimento è l’effetto dell’inPedagogia del lavoro e delle organizzazioni (denominata tenzionalità dei soggetti ad interagire per condividere e coRUPLO) costituita recentemente all’interno della Società struire nuova conoscenza) oltre che da tre caratteristiche italiana di pedagogia. strutturali: Dal dibattito scaturito all’interno dei seminari sono emersi - il campo tematico che nella comunità delimita il quadro delspunti di riflessione e proposte concrete. In particolare: rile conoscenze attraverso la partecipazione dei membri, guiscoprire il binomio “individuale/sociale”; agevolare filtri dando l’apprendimento e dando un senso alle loro azioni; tra pratiche realizzate in diversi settori; facilitare “alleanze - la comunità stessa, che crea il “tessuto sociale dell’apprendi apprendimento” tra professionalità diverse; comprendedimento”, incoraggiando l’interazione e lo scambio delle re la “multi appartenenza” degli attori organizzativi nelle conoscenze in rete; nuove comunità; comprendere le nuove forme di comuni- la pratica, definibile come “tesoreria” di idee, strumenti, cazione peer to peer come strumento generativo della informazioni, linguaggi, cornici di significato, storie ed creatività. esperienze condivisi. Il potere trasformativo delle comunità nelle organizzazioLe comunità di pratica sono, dunque, gruppi di persone ni è legato, secondo Wenger, proprio al paradosso di colche condividono un interesse in relazione a qualcosa che tivare strutture informali. Da qui anche l’interesse a creafanno e che, interagendo in modo continuativo, imparano re nuove opportunità di business mediante la rete di neta fare meglio. working tra i “diversi” soggetti, ricostituire e rafforzare Il Centro di ricerca “Formazione continua & comunicaziol’expertise, mettere le imprese in grado di competere sul ne” (CEFORC - www.laoc.eu), attivato presso la Facoltà di talento e per il talento. Scienze della Formazione e diretto dalla prof. Giuditta AlesLe comunità di pratica possono allora realmente trasforsandrini che ha l’obiettivo di mare il modo di seminare la realizzare attività di ricerca crescita del capitale intelletteorico-applicativa nell’ambituale nelle organizzazioni? to della formazione continua Possono diventare la base su nelle organizzazioni, ha spericui costruire nuovi approcci mentato a partire dal 2004 atcomunicativo/organizzativi? tività di formazione sulle coÈ un invito a sperimentare munità di pratica all’interno con coraggio modi diversi di del Master in risorse umane “fare crescita delle persone”, (Gescom). Tra le attività svolsempre meno “corsificio” e te si segnalano tesi di laurea, sempre più coinvolgimento, di dottorato e di master asse- Il gruppo di lavoro dei due seminari sulle comunità di pratica impegno personale e “algnate su specifiche esperien- tenutisi nel novembre scorso leanze di apprendimento”.

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Ultim’ora da Laziodisu

rubriche

di Salvatore Buccola

In concomitanza con i concorsi banditi da Laziodisu per l’anno accademico 2009/2010, l’Adisu Roma Tre ha avviato con risorse interne la progettazione di un nuovo sito web istituzionale, non dunque un semplice restyling, ma un vero e proprio rinnovamento nei contenuti, nella veste grafica e nella logica di navigazione. Ad un tale cambiamento strutturale siamo giunti spinti non solo dal desiderio di rinnovamento ma, soprattutto, dalla volontà di offrire all’utenza uno strumento operativo efficace e sempre aggiornato. Il nostro obiettivo è costruire relazioni, rapporti di fiducia con gli utenti, attraverso lo scambio reciproco di informazioni e la pubblicazione di contenuti aggiornati ed interessanti. Il 16 dicembre 2009 il nuovo sito, ideato e realizzato da un nostro funzionario, Marco Maggi, che da oltre dieci anni opera all’interno del settore Benefici a concorso, è stato, finalmente, messo in linea e le nostre aspettative non sono certo state disattese visto che ad oggi, fine del mese di febbraio 2010, il numero di visitatori del sito sfiora le 39.000 unità. La veste grafica ripropone il leit motiv già utilizzato nella Carta dei servizi pubblicata a luglio 2009. Per quanto concerne i contenuti abbiamo raggruppato le pagine in sezioni

specifiche suddividendo una parte istituzionale, una dedicata ai sevizi a concorso, una ai servizi generali, una alle news e una alle informazioni utili. Particolarmente apprezzato il nuovo servizio “Info”, al quale lo studente invia le proprie domande inerenti i servizi erogati dall’Adisu, e da cui riceve risposta in tempi brevissimi. In continuo aggiornamento è la sezione dedicata agli ausili culturali, dove vengono pubblicate le locandine e i resoconti delle diverse attività patrocinate da Laziodisu. Constatato l’elevato gradimento riscosso dal sito stiamo procedendo alla costituzione di un gruppo di lavoro composto da tre unità in forze all’Adisu Roma Tre che si riunirà settimanalmente con lo scopo di analizzare i contenuti da proporre. Questi incontri saranno un momento importante di confronto e di promozione di progetti, il cui suggerimento potrà anche essere esterno. Per le notizie il gruppo di lavoro si affiderà, oltre che alla propria produzione, anche a tutti i responsabili di settore nonché agli utenti che potranno proporre una loro analisi ed esprimere le loro opinioni in merito ai temi da trattare. Gli articoli ricevuti saranno pubblicati sul sito in tempo reale. L’indirizzo del nuovo sito web è: http://www.adisu.uniroma3.it.

Non tutti sanno che… Elezioni rappresentanze studentesche Il 12 e 13 maggio 2010 si rinnovano le rappresentanze studentesche negli organi di Ateneo e di Facoltà (Consiglio Nazionale Studenti Universitari, Senato Accademico, Consiglio di Amministrazione, Consiglio degli Studenti, Comitato territoriale Adisu Roma Tre, Consigli di Facoltà, Organi Collegiali dei Corsi di Studio). Potranno votare gli studenti regolarmente iscritti e muniti di documento di identità. Maggiori informazioni prossimamente sul sito: http://host.uniroma3.it/uffici/ucre/index.php o scrivendo a: cfarina@uniroma3.it. Genere, Costituzione e professioni Si è svolta il 6 marzo scorso la prima lezione del corso Genere, Costituzione e professioni. Il corso è un progetto dell’Università Roma Tre organizzato su proposta del Comitato pari opportunità per promuovere e favorire la cultura e le politiche di parità fra donne e uomini in un’ottica multidisciplinare e integrata: dalla filosofia al diritto, dall’economia alla politica, dalle scienze alla medicina. Genere, Costituzione e professioni è un modulo sperimentale d’insegnamento accessibile agli studenti di tutte le Facoltà dell’Ateneo ed è articolato in dodici incontri per trentasei ore di didattica frontale, con una prova finale ai

fini del riconoscimento dei crediti per gli studenti. Il progetto ha coinvolto molti docenti delle varie Facoltà dell’Ateneo e alcuni esperti esterni. Il calendario del corso, che si chiuderà il 5 giugno prossimo, è disponibile sul sito web del Comitato pari opportunità: http://host.uniroma3.it/comitati/pariopportunita/ Per informazioni: Comitato pari opportunità di Roma Tre Via Ostiense 165 - 00154 Roma tel. 06 57332225 - e-mail: cpo@uniroma3.it orario di apertura al pubblico: mercoledì 10.00-12.00 Cineforum: Cinecittadinanza incontri di approfondimento sulle tematiche legate all’immigrazione Su iniziativa di C.L.I.C. Corsi e laboratori interculturali per la cittadinanza e con il patrocinio del Dipartimento di Studi storici geografici e antropologici si è aperto il 26 gennaio scorso il cineforum Cinecittadinanza. Tutte le proiezioni, che si protrarranno fino al 18 maggio, si svolgono alle ore 17.00, presso la Sala del Consiglio del Dipartimento di Studi Storici Geografici Antropologici. Il calendario degli appuntamenti è disonibile sul sito di C.L.I.C.: http://host.uniroma3.it:80/dipartimenti/stusto/iniziative.htm Per maggiori informazioni: clic@uniroma3.it


Communicative Variation in Time and Space L’esperienza di un corso intensivo internazionale realizzato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia

Nell’autunno del 2009 si è svolto il corso in Communicative Variation in Time and Space, organizzato dalle Università svedesi di Göteborg, Lund e Umeå, nell’ambito di una collaborazione tra le suddette università svedesi, l’Istituto svedeFrancesca Cantù se di studi classici a Roma e l’Università degli studi di Roma Tre. L’idea è nata in seguito al dialogo instaurato dai tre organizzatori, professoressa Eva Wiberg, italianista dell’Università di Lund, professoressa Gunhild Vidén, latinista dell’Università di Göteborg e professor Jonas Carlquist, scandinavista dell’Università di Umeå, con il professor Raffaele Simone dell’Università Roma Tre. Per gli atenei coinvolti il progetto è scaturito dalla comune convinzione dell’importanza di promuovere e sostenere la dimensione internazionale degli studi e dell’insegnamento come uno degli strumenti fondamentali per la costruzione di uno spazio europeo dell’istruzione superiore, secondo quanto auspicato dal cosiddetto processo di Bologna. Grazie all’accordo firmato dal prorettore Mario Morganti, dalla preside della Facoltà di Lettere e Filosofia Francesca Cantù, dalla direttrice dell’Istituto svedese, Barbro Santillo Frizell e dalle tre università svedesi, è stato avviato un corso che ha coinvolto studenti svedesi e italiani, iscritti a corsi di laurea magistrale, in ricerche sul campo e attività seminariali. Lo scopo del corso era di comprendere e identificare in prospettiva contrastiva, per farne poi oggetto di riflessione, alcuni significativi fenomeni di comunicazione nella città di Roma intorno a tre temi principali: potere, estetica e quotidianità. Gli otto studenti italiani, selezionati tramite concorso bandito dalla Facoltà di Lettere, provenivano da vari ambiti scientifici, come per esempio italianistica, archeologia, filologia, teoria della comunicazione. I diciotto partecipanti svedesi erano studenti o dottorandi di storia dell’antichità e archeologia, logopedia, teoria della comunicazione e linguistica. L’incontro fra gli studenti coinvolti è servito a realizzare uno degli obiettivi fondamentali del progetto, che intende promuovere la creazione di contatti, la reciproca conoscenza, nonché la comprensione della comunità scientifica di appartenenza degli studenti. Tale incontro, inoltre, si è ri-

velato particolarmente proficuo perché ha consentito di avviare nuovi scambi fra gli studenti coinvolti e fra i partner dell’accordo a livello scientifico. Per gli studenti svedesi il corso è iniziato in Svezia con studi condotti a distanza, Eva Wiberg con il supporto di una piattaforma virtuale (Luvit) e di un programma di videoconferenza (Marratech). L’incontro tra gli studenti svedesi e italiani è avvenuto a Roma nel mese di novembre, nelle due settimane di studi intensivi, con seminari la mattina e lavoro pratico nella città nel pomeriggio. La lingua di comunicazione è stata l’inglese. I seminari si sono svolti presso l’Istituto svedese di studi classici a Roma, situato nel parco di Villa Borghese. Il 18 novembre scorso la Facoltà di Lettere ha ospitato il gruppo di studenti e professori. Dopo il saluto di benvenuto e la presentazione dell’Università e della Facoltà da parte della Preside Francesca Cantù, sono state tenute due relazioni: una sulla storia dello sviluppo architettonico dell’ateneo romano, tenuta dall’architetto coinvolto nei lavori Andrea Vidotto, e l’altra sullo sviluppo storico della zona Ostiense, tenuta da Manfredi Merluzzi. Gli studenti hanno poi visitato la Facoltà. Durante la prima settimana di attività seminariali e lavori sul campo sono stati introdotti i tre temi, articolati in quattro sottotemi, uno per ogni gruppo di studenti: per esempio, Antiquity meets the 20 th (and 21st) century, The Vatican meets Italy, The centre of Power of contemporary Italy, relativi al tema Potere; Non canonical vs canonical art, Hidden borders in the city e Death, relativi al tema Estetica; Pedestrians in the streets of Rome, Intercultural symmetrical and asymmetrical interaction e Everyday life of Romans, relativi al tema Quotidianità. I professori romani coinvolti hanno scelto argomenti molto adatti ai tre temi del corso, ispirando gli studenti nel loro field work: Edoardo Lombardi Vallauri ha tenuto un’introduzione alla comunicazione linguistica della pubblicità in campagna elettorale; Paolo Mattera e Paolo Broggio hanno contribuito alla comprensione della città nel passato nel quadro del tema Potere; Isabella Poggi ha tenuto una relazione sul significato dei gesti; Enzo Borsellino ha parlato della visione di Roma negli

recensioni

di Francesca Cantù e Eva Wiberg

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artisti del passato; Anna Lisa Tota ha tenuto una relazione sulle memorie dislocate e Franca Ruggieri ha parlato degli stranieri a Roma nel passato. I docenti dell’Istituto svedese a Roma hanno presentato la quotidianità nell’antichità in visione virtuale (prof. Frizell e dott. Westin), e gli itinerari nell’antica Roma (prof. Malmberg). Durante la seconda settimana di lavoro, gli studenti hanno scelto uno dei tre temi da approfondire in vista del paper finale. Il lavoro di preparazione teorica e il lavoro sul campo sono stati condotti in gruppi costituiti in base alla scelta tematica. Nell’ultimo giorno i gruppi hanno presentato una prima relazione orale dei risultati della ricerca compiuta durante la settimana. Il corso è stato organizzato secondo una pedagogia alternativa, con variazione tra seminari, field work, discussioni in gruppo, presentazioni individuali in classe, valutazioni e commenti, nonché il paper finale scritto in inglese. Il metodo, pur essendo meno conosciuto dagli studenti italiani, è stato molto apprezzato, a giudicare dai commenti. Gli studenti svedesi hanno ammirato le conoscenze storiche e culturali degli studenti italiani e apprezzato la loro disponibilità a trasmetterle. Gli studenti hanno socializzato anche al di fuori dell’orario di studio. A gennaio si è tenuto un incontro on line in vi-

deoconferenza (Marratech) durante il quale è stato discusso il lavoro in corso dei paper individuali degli studenti. I paper vengono pubblicati sulla piattaforma virtuale del corso, con commenti da parte degli altri studenti. In conclusione emergono soprattutto giudizi positivi: come quello espresso nella straordinaria sorpresa provata dagli studenti italiani nel vedere la propria città in modo contrastivo («Now I can see important Roman districts with fresh eyes!»). Nelle valutazioni espresse al termine del corso, gli studenti italiani e svedesi hanno giudicato positivamente la possibilità di poter sperimentare per un breve periodo una pedagogia diversa da quella tradizionale. Una studentessa scrive: «It has been the kind of experience which allows students to widen their minds». L’opportunità di comunicare in inglese e di fare conoscenza con studenti stranieri è stato uno dei motivi che hanno indotto gli studenti italiani a scegliere di partecipare al corso. Per gli studenti svedesi, un motivo significativo è stato quello di scoprire nuovi aspetti della comunicazione presente e passata nella città di Roma, insieme agli studenti italiani. In primavera sarà effettuata una valutazione del corso in vista della possibilità di ripeterlo nell’autunno del 2010.

Nel novembre scorso la Facoltà di Lettere e Filosofia ha ospitato il gruppo di docenti e studenti che hanno partecipato al corso


Quel che è di Cesare Un incontro con Rosy Bindi sul rapporto fra religione, etica e potere di Letizia Ciancio

L’incontro con Rosy Bindi, svoltosi nel novembre scorso presso la Facoltà di Scienza della Formazione nell’ambito del Master in Formatori ed esperti pari opportunità e del corso Donne politica istituzioni, è stato preceduto dagli interessanti interventi di Giacomo Marramao e Paolo Nepi, entrambi sviLetizia Ciancio luppatisi sulla sottile linea di confine tra etica e politica, tra religione come strumento di fede o religione come logica di appartenenza, spesso anche politica. Prendendo spunto dal libro appena pubblicato Quel che è di Cesare (Laterza, 2009) ci si è interrogati proprio su questo assunto fondamentale: cosa dare a Cesare? Cosa è di Cesare e cosa è di Dio? Ed infine, i cattolici in questo paese hanno ancora qualcosa da dire? Se sì, cosa? Con chiarezza Rosy Bindi partendo dal presupposto forse dimenticato - che in Italia i cattolici non sono tutti eguali, ha ricordato che in un’epoca in cui ancora la gran parte di loro temeva la democrazia, il primo movimento dei Cattolici democratici nacque proprio agli inizi del Novecento su stimolo e impulso di un prete, Don Sturzo, il quale fondava tutta la sua azione su profonde radici cristiane. Non solo, ma come dimenticare il forte contributo dato da parte dei cattolici nell’ambito dell’assemblea costituente, ove più che mai si realizzò un perfetto esempio di ‘meticciato’ tra le varie anime liberali, comuniste, cattoliche, socialiste e radicali. La Costituzione - proprio in virtù di questa sintesi di valori e idee - è riuscita a far superare all’Italia il periodo nero del terrorismo, evitando svolte autoritarie. Occorre quindi oggi, secondo Bindi, tornare a conside-

rare l’incontro di culture, etnie, religioni come momento imprescindibile di arricchimento reciproco; in particolare poi per quanto riguarda la situazione politica italiana occorre tendere più che ad un bipolarismo, a una democrazia dell’alternanza; a una modalità mite di esercizio del potere, ove si concretizzino norme che non impongono comportamenti ma inducano cambiamenti. E soprattutto occorre che nessuno pretenda di conoscere la verità, ma che tutti accettino umilmente di cercarla assieme. Solo partendo da questi presupposti basilari potremo affrontare con la dovuta saggezza tutti i delicati nodi etici che irrompono quotidianamente all’interno del dibattito politico spinti e sostenuti dallo sviluppo scientifico. Quando si parla di soglia dell’intervento medico-scientifico, ad esempio, di interventi sul codice genetico, di fine vita, è chiaro per tutti che si apre un panorama vastissimo di implicazioni etico-politiche che mettono in discussione dinamicamente e periodicamente il confine tra politica e fede. La dimensione dell’etica è in primo piano e non eludibile. E per gestire questa complessità occorre affrontare due ordini di problemi: da un lato rilanciare l’universalismo nel rapporto tra laici e cattolici e definire quale tipo di universalismo politico vogliamo; dall’altro ripartire da una teologia politica rovesciata, ovvero che abbia come baricentro l’autorità di coloro che soffrono. Quindi «A Cesare dai la moneta, non la libertà della persona, perché le persone sono di Dio». E Bindi afferma: «se la fede è parte della mia vita non può restarne fuori: ma di certo non si sostituisce alla fatica di trovare un punto di incontro con gli altri, non elimina la responsabilità di elaborare norme e leggi in cui tutti possano riconoscersi e sentirsi vincolati» e conclude, ricordando Simone Weil che «il dio che dobbiamo amare è assente, ha piantato la sua tenda tra gli uomini ma ci lascia liberi alle nostre responsabilità».

Quel che è di Cesare, edito lo scorso ottobre da Laterza, è una lunga intervista a Rosy Bindi a cura della giornalista Giovanna Casadio. Nel libro Bindi riflette sul rapporto fra fede e politica nel tentativo di superare quel reciproco pregiudizio fra credenti e non credenti che ruota intorno al valore della laicità. «In fondo la critica più radicale al potere assoluto e al cesarismo si trova nel Vangelo, perché a Cesare si restituisce la moneta e non si consegna mai la persona, la sua libertà e la sua dignità». Rosy Bindi racconta il suo impegno di cattolica che ha scelto la politica e va al cuore del principio di laicità. In un colloquio franco e diretto affronta le questioni cruciali della nostra democrazia. Scommette sul dialogo tra credenti e non credenti per superare reciproche scomuniche e afferma l’attualità del cattolicesimo democratico. Rilancia la dimensione etica della politica come servizio e ricerca del bene comune. (www.laterza.it)

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Niki de Saint Phalle Autobiografia a colori di una donna dalla parte delle Nanas di Michela Monferrini

L’arte per Niki de Saint Phalle equivaleva a un atto doloroso, ad una lotta da cui l’artista non si esentava, ma cui anzi partecipava con generosità, gettandosi in imprese a volte titaniche. «Io ho ucciso la pittura» diceva, «ma è rinata. È una guerra senza vittime». La pittura, ma occorre dire l’arte in geneMichela Monferrini re (Niki è stata anche scultrice, regista, realizzatrice di plastici), hanno fatto parte del suo destino in modo sin quasi paradossale: l’arte salva Niki (nata nel 1930 a Neully-sur-Seine da una ricca famiglia di banchieri che però, l’anno prima, ha subìto il noto tracollo finanziario), quando, giovane bellissima fotomodella che studia recitazione per diventare attrice e scrive poesie (è sposata allo scrittore Harry Mathews), viene ricoverata a Nizza per una grave crisi nervosa. Dalla clinica Niki esce, dichiaratamente, soltanto grazie alla “scoperta” della sua vera strada: la pittura. È una rinascita che ha il sapore della nascita vera e propria, se si considerano i trascorsi tragici della

Niki de Saint Phalle, Hon/Elle (1966) Stockholm, Moderna Mosset

sua infanzia, gli abusi sessuali da parte di suo padre, che tanto, poi, lasceranno traccia - nelle forme, ricorrenti, di teschi o mostri - nell’opera artistica («Il mio lavoro - affermerà - è la mia autobiografia»). Paradossale però che poi proprio l’arte, questa compagna salvifica e mai abbandonata, la conduca alla morte: Niki scompare infatti prematuramente, nel 2002, per una malattia ai polmoni causata dalle esalazioni dei suoi spray da lavoro, gli spray che le servono per ottenere ciò che più ama: il colore. Grazie a vere e proprie esplosioni di colore, negli anni Sessanta, l’artista diviene celebre: è la serie dei Tiri, pannelli a cui sono appese o appoggiate sacche di vernice colorata verso i quali il pubblico è invitato a sparare, letteralmente. In un video inserito nel percorso della mostra antologica che il Museo della Fondazione Roma ha da poco dedicato alla sua opera, si vede Niki, i lunghi capelli rossi sciolti, il volto concentrato e un’espressione a tratti rabbiosa che poi però si trasforma in ghigno, sparare e colpire le sacche, nell’atto di creare l’opera. Ma contro cosa spara? Contro le scelte americane nella politica estera, dichiara lei, riferendosi alla guerra del Vietnam. Ma forse, il dramma personale è presente più di quanto lei non voglia far capire. Presente nel trasformarsi, subito dopo, in un femminismo che ha da subito caratteri personali: c’è la rivendicazione di diritti, c’è la denuncia sociale in senso lato, ma poi, accanto, è soprattutto raccontata la violenza sui bambini, il suo amore - dichiarato ad alta voce - per i bambini (spesso invitati dall’artista stessa, a interagire con le opere), la difesa della loro innocenza, l’invito a tutte le donne a sentirsi libere, leggere, felici, a riconoscere i doni che sono spettati loro, tra i quali il dono supremo, la maternità, che le rende divine portatrici di grazia. Le Nanas hanno smesso di soffrire per le discriminazioni della società maschi-


The Empress, la casa utilizzata da Niki de Saint Phalle all’interno del Giardino dei tarocchi. «This garden was made with difficulties, love, wild enthusiasm, obsession, and most of all, faith. Nothing could have stopped me. As in all fairy tales, before finding the treasure, I met on my path dragons, sorcerers, magicians and the Angel of Temperance» Niki de Saint Phalle

lista: sono femministe che hanno già vinto mentre ancora il femminismo si va delineando in quelli che saranno i suoi caratteri tipici. Ancora oggi, chi visita la città di Hannover e il suo centro storico, vede esultare le tre immense figure femminili che fanno parte del lavoro monumentale Le Nanas conquistano la città. Gli stereotipi della bellezza femminile vengono così abbattuti: le sue donne, alcune di imponenti dimensioni (come Hon/Elle, realizzata per il Moderna Museet di Stoccolma, distesa, incinta, lunga ventotto metri, larga nove, alta sei, dentro la quale i visitatori entrano dal sesso come per un parto rovesciato) hanno le forme di Botero, ma sono leggerissime e volteggiano, quasi per mancanza di forza di gravità, con pose e una potenza di colore che ricordano La danza di Matisse. I volti non contano (il messaggio è rivolto a tutte le donne) e sono cancellati, i costumi sgargianti ne esprimono - per usare un’altra espressione che rimanda a Matisse - la joie de vivre. Non abbiamo merito della nostra bellezza, sembra dire la bellissima Niki de Saint Phalle alla società femminile, in un messaggio che all’epoca è inserito in un contesto già di per sé rivoluzionario: siamo nate donne, e questa è già una fortuna, i canoni estetici non devono interessarci, guardate Marilyn, guardate la sua fine: e Niki realizza, nel 1964, due anni dopo la scom-

parsa dell’attrice, un assemblage, un fantoccio che rimanda a una Marilyn diversa da quella entrata nell’immaginario di tutti, rappresentando in realtà un volto in decomposizione. Quest’altalena tra la vita e la morte, tra la grazia e l’orrore, questa sorta di entusiastico, ma al tempo stesso razionale carpe diem, si riscontra nell’intero percorso artistico di Niki de Saint Phalle: l’artista sembra gettarsi in imprese che le facciano dimenticare la propria ferita, che la rendano davvero felice, e che continuino, però, a parlare di lei anche oltre la sua presenza terrena, che è solo - e se ne percepisce la dolorosa consapevolezza - momentanea. È il caso del Giardino dei Tarocchi, situato a Garavicchio, presso Capalbio, e motivo per cui l’Italia deve ringraziare Niki de Saint Phalle: lei inizia a lavorarci già nel 1979 (colpita dal Parco Güell di Gaudi, a Barcellona), insieme al suo secondo marito, lo scultore Jean Tinguely. Per realizzare le ventidue sculture che è possibile incontrare all’interno del parco e che sono ispirate alle figure dei Tarocchi, la coppia si autofinanzia lanciando una linea di profumi che ha fortuna, e comincia a situare quelle immense statue di cemento armato decorate con specchi, ceramiche, vetro: quel giardino sarà - affermeranno Niki e Jean - il loro personale Eden, e resta il luogo dove più facile è immaginarli.

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Sex-Zwangsarbeit Una mostra racconta la prostituzione forzata nei campi di concentramento nazisti di Alessandra Forteschi

Il pianeta della prostituzione è connotato da una molteplicità di dimensioni, che si sviluppano lungo un asse che ai due estremi vede la prostituzione come libera scelta e la prostituzione forzata. Tra questi due poli i nodi e le dimensioni che si dipanano possono essere molto dissimili tra loro, ma anche molto vicini: la scelta della prostituzione volontaria, le diverse forme di prostituzione, quella maschile, quella transessuale, dei privè e dei locali scambisti, le rivendicazioni di autonomia, di riconoscimento e di diritti portate avanti dal movimento delle sex workers a cui fanno da contraltare la costrizione alla prostituzione operata da genitori, parenti, conoscenti e amici, a cui ci si avvicinano le/gli adolescenti scappati da casa, le persone con problemi di tossicodipendenza o anche di dipendenza dal gioco, le bambine, i bambini e le donne vittime della tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale e tutto il circuito criminale che grazie a questo traffico guadagna cifre inverosimili. Il mondo della prostituzione è un mondo ambivalente, un contenitore di storie di vita diversificate e contraddittorie che non è possibile contenere in uno schematismo predefinito o raccontare in poche righe. La scelta operata qui è, quindi di focalizzarsi su un evento che di recente ha richiamato l’attenzione della stampa nazionale e locale: la prostituzione forzata durante la seconda guerra mondiale, nei lager nazisti. L’argomento è oggetto di una mostra, portata in Italia dalla Cooperativa Be Free e ospitata dal Museo della Liberazione di via Tasso (Roma), che affronta per la prima volta in Italia un capitolo di storia lasciato volontariamente in ombra, come del resto è accaduto a tutti gli aspetti direttamente collegati all’oppressione delle donne, all’esigenza di normarne i corpi e la sessualità, all’esistenza di torture e punizioni legate al “genere”. Organizzata dal gruppo Die Aussteller di Vienna (Baris Alakus, Robert Vorberg ed al.) e da un gruppo della Universität der Künste Berlin (Dominique Hurth, Katja Jedermann, Irina Novarese, Zala Unkmeir, Sabe Wunsch), getta luce sulle vicende delle donne che, come racconta la viennese Irma Trksak, sopravvissuta all’inferno di Ravensbrück «…erano rottami umani quando furono liberate alla fine della guerra. Ogni giorno dovevano concedersi ad un’infinità di uomini. Uscirono dai lager distrutte, rovinate per sempre, molte sull’orlo della morte». «Quasi nessun altro argomento nella storia dei campi di concentramento è stato talmente nascosto e taciuto come la prostituzione forzata» ha affermato la direttri-

ce della Città della memoria di Ravensbrück, la dott.ssa Insa Eschebach. Se già fin dal Medioevo la prostituzione comparve anche al seguito degli eserciti, regolari e mercenari per il “sollievo dei soldati”, non stupisce dunque che Heinrich Himmler abbia indicato la necessità di utilizzare donne che fornissero servizi di sottomissione sessuale per cementare lo spirito maschile e motivare maggiormente tanto i propri militari quanto i prigionieri dei campi. Porta la sua firma il decreto dell’11 giugno 1942 che autorizzava i comandanti dei lager «a fornire femmine nei bordelli ai detenuti più laboriosi». Il provvedimento era illustrato come «un incentivo» per la produttività dei deportati che dovevano lavorare nei lager a sostegno dell’economia bellica. “Un premio di produzione” per i più instancabili. Ovviamente, i bordelli erano destinati anche e soprattutto alle SS e alle guardie dei campi. Per questo motivo, da quanto viene riportato nei documenti ufficiali finora rinvenuti, le donne prostituite nel lager dovevano appartenere alla razza ariana: provenivano soprattutto dall’Ucraina, dalla Polonia, dalla Russia Bianca, dai Paesi Bassi e dalla Germania stessa. Se inizialmente le prostitute erano reclutate su base volontaria (se di base volontaria si può parlare poiché l’alternativa era la vita nel campo di concentramento), in seguito venivano reclutate già al momento dell’appello all’ingresso al campo e le donne scelte non avevano idea di cosa aspettasse loro fino all’ingresso nel bordello. Di solito venivano reclutate tra coloro che entravano registrate come prostitute, criminali comuni e asociali; in quest’ultima categoria vi erano anche le lesbiche (la cui persecuzione nel terzo reich meriterebbe una esposizione specifica ed esaustiva in altra sede). È fondamentale ricordare che secondo la morale nazionalsocialista, anche una ragazza madre, in quanto nubile, era considerata una prostituta. Di solito le donne venivano schedate come operaie destinate “a scopi speciali”, definizione che richiama “le donne di conforto”, destinate ai soldati Giapponesi sempre durante la seconda guerra mondiale, e alle “licenze portatili”, destinate ai soldati Americani nella guerra del Vietnam. Poche chiesero un risarcimento per quanto subito; la paura dello stigma sociale è forte e diffusa ancora oggi, non solo tra le poche ancora in vita delle guerre passate, ma anche per tutte coloro che nelle guerre successive (come la ex-Jugoslavia, il Rwanda, l’Afghanistan, l’Iraq), sono ancora costrette alla prostituzione.


Sociologie del tempo Strategie per uscire dalla trappola del quotidiano di Teresa Di Martino

Mettere a tema la questione del tempo e farla entrare nel dibattito e nell’agenda politica. È questo che Carmen Leccardi intende fare con il suo ultimo libro, un testo che affronta la dimensione temporale come cruciale nella società e rispetto ai soggetti che la abitano, nonché come fondante la relaTeresa Di Martino zione che tali soggetti vivono con la società stessa. Nel passaggio dalla prima alla seconda parte del testo, da “il tempo nella società” a “il tempo dei soggetti”, la sociologa sottolinea lo stretto legame che i tempi individuali intrecciano con quelli collettivi, dando vita di volta in volta a nuove forme di costruzione biografica. L’approccio sociologico al tempo si concentra, in questo libro, sulla cosiddetta società dell’accelerazione, modello delle società occidentali del XXI secolo che sembrano essere quelle più afflitte dal problema del tempo. Il dramma della scadenza, il brevetermismo, l’ansia del futuro, lo schiacciamento sul presente, l’evanescenza oppure la museificazione del passato, sono questi i tratti caratteristici della società che ci troviamo a vivere oggi e Leccardi si sofferma in particolare sui soggetti che, in tale contesto, vivono una condizione di costante incertezza e instabilità del presente, nonché di impossibilità di costruzione del futuro, ma che, nonostante questo, inventano strategie per sfuggire alla trappola del quotidiano: i giovani e le donne. Le “biografie senza progetto” di cui i giovani oggi sono protagonisti, per la difficoltà a individuare punti di riferimento necessari alla costruzione di un tempo biografico lineare, mettono paradossalmente in scena una nuova figura, «quella dell’individuo capace di elaborare in chiave iper-attivistica la propria biografia, pronto a esplorare e ri-esplorare il presente che la società dell’accelerazione tanto enfatizza». I giovani diventano quindi soggetti del proprio tempo, secondo una costruzione di auto (e forse) iper-responsabilizzazione permanente del proprio tempo e dei propri percorsi di azione, qualunque ne sia l’esito. La transizione all’età adulta passa allora attraverso l’enfatizzazione della “soggettivizzazione biografica”, in cui si dà grande rilievo alla responsabilità individuale nella definizione delle scelte e nella capacità di elaborare progetti, ma che si scontra con la netta contrazione degli orizzonti temporali collettivi. Questa condizione, comune ai giovani, maschi e femmine, diventa un “paradosso biografico” quando si parla delle giovani donne: «da un lato, formulare una prospettiva progettuale, strumento per eccellenza per tenere sotto controllo l’incertezza del futuro, diventa per le giovani donne più che mai essenziale; dall’altro, tuttavia, la maternità si sottrae da più punti di vista, a differenza dell’altro tempo bio-

graficamente cruciale, quello del lavoro remunerato, all’universo del progettabile». Il tempo sessuato, il tempo delle donne, messo a tema per la prima volta dai movimenti femministi, ridefinisce il paradigma temporale dominante partendo da «un’esperienza temporale politicamente consapevole del proprio carattere sessuato, sul quale appoggiarsi per battere l’egemonia della visione mercificata del tempo ereditata dal capitalismo industriale e progressivamente estesa all’intero tempo di vita». Il movimento delle donne dà vita a una nuova mappa del tempo, una mappa alternativa in cui il tempo diventa esperienza di un soggetto concreto e incorporato, un tempo plurale, a-centrato, interdipendente e circolare, che trova la sua massima espressività nel tempo feriale per eccellenza, il quotidiano. È da qui, dalla dimensione del quotidiano, quella che restituisce visibilità collettiva a quegli aspetti costitutivi dell’esistenza umana, non mercificati, non misurati e non misurabili attraverso il tempo cronometrico e non scambiabili con il denaro, che si può partire per una possibile “riconquista del tempo”. E le giovani donne, a cui Leccardi dedica un intero capitolo, vivono il quotidiano come dimensione di frontiera, quella dell’attraversamento di più territori temporali senza mai considerare alcuno di essi come meta definitiva. Questa pluralità di tempi esistenziali, questo incrocio di dimensioni del tempo, aprono la via a contraddizioni, che a volte sono dirompenti, ma anche a riserve di senso di grande potenza. La sociologa mette l’accento sulla consapevolezza che le giovani donne hanno dell’ambivalenza, sia come aspetto connaturato alla molteplicità dei tempi che compongono la propria narrazione biografica, sia come risorsa strategica che esse mettono in atto per non perdere la presa sul tempo di vita. La strategia più diffusa consiste nel concentrare attenzione ed energie sulla dimensione del “presente esteso”, «l’area temporale che non coincide con il “presente simultaneo”, ma si allarga allo spazio di tempo richiesto dalla conclusione di azioni già intraprese». Si tratta, a ben vedere, di una strategia di emergenza, pensata per fronteggiare dei tempi che impediscono il controllo, a qualsiasi livello, in rapporto al futuro e che porta con sé, da una parte il rischio che tali traiettorie di azione si contraggano al punto da ridurre il “presente esteso” a pochi mesi con il risultato di un passaggio da un “presente esteso” ad un altro senza soluzione di continuità; dall’altra parte, una sapienza profonda nel momento in cui questa strategia è accompagnata dalla consapevolezza degli investimenti biografici plurimi che le giovani donne fanno, nel tempo del lavoro remunerato, come nel tempo delle relazioni affettive, amicali e amorose. Leccardi, con questo testo, investe sulla dimensione del tempo a tutti i livelli: come oggetto di analisi, come argomento di dibattito accademico, come tema di dialogo tra donne e uomini, come questione di interesse politico-sociale-culturale, come rappresentazione da mettere in scena, potenziale che può consentirci di sbrogliare quella serie di nodi che ci impediscono, oggi, di esprimere la soggettività, di fare un progetto, di pensare un futuro.

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Il cinema e l’omosessualità Il difficile superamento di un tabù di Camilla Spinelli Il mondo del cinema, fatte salve poche eccezioni, ha trascurato a lungo il tema dell’omosessualità e troppo spesso gli omosessuali sono stati definiti solo in funzione della loro sessualità. Inizialmente i film, soprattutto quelli americani, presentavano le caratteristiche sessuali maschili e femminili esclusivamente attraCamilla Spinelli verso l’uso di un travestimento farsesco e l’idea di omosessualità emergeva più come immagine buffa, basata sull’errore di persona, grazie all’uso di costumi azzeccati e la presenza di attori poliedrici. Per lungo tempo il cinema non ha digerito bene la presenza di protagonisti maschili omosessuali, ancora meno quelli femminili. Sporadici casi, come Tristezza e bellezza (Tristesse et Beautè) o il più famoso Il colore viola (The colour purple) presentano un lesbismo “soft”; in quest’ultimo film, Spielberg decise appunto di trasformare la relazione sessuale tra due donne in un qualcosa di meno forte che sarebbe stato accettato più di buon grado dal grande pubblico. Bisogna aspettare gli anni Novanta per vedere personaggi femminili omosessuali protagonisti della scena, sempre però in minor numero rispetto a quelli maschili. Ne è un esempio Basic Instinct il famoso thriller con Sharon Stone, giudicato tuttavia negativamente dalla comunità omosessuale. Ciò nonostante Basic Instinct dà il la a una più disinvolta filmografia sull’omosessualità al femminile sebbene mantenendo ancora caratteristiche negative e violente. È proprio in questo periodo che nel panorama lesbo trova favore la commedia romantica che appare molto più fresca e franca rispetto alle sceneggiature con protagonisti gay. E se nel panorama maschile il drammatico Philadelphia rappresenta l’apice del cinema omosessuale, la stessa cosa vale per A proposito di

donne (Boys on the side). Qui per la prima volta la protagonista è caratterizzata da tratti spiccatamente positivi; non più ambigua e cattiva, ma piena di voglia di vivere la propria personalità. Questo film è una delicata commedia in cui Whoopy Goldberg interpreta una lesbica dichiarata che attraversa l’America con una sua amica etero e una ragazza affetta da AIDS conosciuta poco prima del viaggio. Purtroppo però anche qui come in Philadelphia sembra quasi che il mondo omosessuale sia usato solamente per destare semplice compassione e conseguente commozione; infatti questi due film non sono gli unici casi in cui l’omosessualità viene rappresentata come mero strumento per parlare di AIDS. In generale poi, bisogna notare come il cinema commerciale sia stato estremamente severo nei confronti dell’amore tra uomini e allo stesso tempo curioso verso l’amore tra donne, probabilmente solo in funzione delle esigenze del pubblico eterosessuale. Un discorso a parte è rappresentato invece dal cinema indipendente. Nel 1992 infatti vengono coniate le espressioni New Queer Cinema e New Dyke Cinema con le quali le comunità gay e lesbiche escono finalmente allo scoperto per dichiarare la propria identità. Da questo momento in poi si può parlare della nascita di una vera e propria “altra” cinematografia che si presenta come rampa di lancio per il cinema mainstream. Per quanto riguarda la New Dyke Cinema, il cavallo di battaglia è sicuramente rappresentato da Go Fish diventato poi vero e proprio simbolo del cinema lesbico. Da notare come questi due filoni del cinema indipendente trovino i principali punti di riferimento in alcuni registi europei come Pedro Almodòvar, Chantal Akerman, Isaac Julien ma anche nell’ambito underground come Kenneth Anger e Andy Warhol. Anche se con il passare degli anni la situazione è migliorata, persiste una sorta di rifiuto nel cinema “che conta” a rappresentare protagoniste lesbiche: un eroe non può essere gay. A questo tipo di personaggi continua a essere relegata per lo più una figura di semplice contorno e colore, essendo considerata ancora solo un’appendice della vita etero.


Corpi nella storia politica dei corpi Un seminario interdisciplinare per riflettere sul corpo e sul potere di Martina Micillo

Il 20 Novembre 2009 il Dipartimento di Studi storici, geografici e antropologici della Facoltà di Lettere e Filosofia ha ospitato il seminario dal titolo Corpi nella storia politica dei corpi. L’iniziativa, voluta dal Dipartimento e dalla Società italiana delle storiche (SIS), si è svolta in collaborazione con il Martina Micillo neonato Osservatorio interuniversitario sugli studi di genere, parità e pari opportunità, presieduto da Francesca Brezzi, con CLIC (Corsi e laboratori interculturali per la cittadinanza) e con Proteo Fare Sapere Lazio. L’idea di questo incontro nasce da un appello che la SIS ha lanciato circa un anno fa quando, dopo gli scandali sessuali che hanno investito il mondo della politica, si è reso urgente «ripensare parole e linguaggi, ruoli e identità, strumenti e progetti» in un Paese in cui «il rapporto donne e politica/donne in politica» sembra andare in direzione contraria allo sviluppo di un’identità femminile forte a livello economico, sociale e culturale. Un terreno problematico, quello della riflessione sul corpo e sulla sua storia, che tuttavia i gender studies illuminano di nuove possibilità interpretative, come ha ricordato Stefano Andretta, direttore del Dipartimento. La Preside di Facoltà Francesca Cantù, da anni consigliere per l’Università del Ministero per le pari opportunità, ha caldeggiato un forte investimento nella formazione e nella ricerca contro la prevaricazione delle apparenze e degli stereotipi nella presentazione della donna. «Il corpo - ha ribadito la Preside - è una costruzione culturale molto complessa», a partire dalla sua storia concettuale, in particolare quella giuridica, medico-scientifica e quella femminista, come ha precisato nel suo intervento Graziella Bonacchi, della Fondazione Basso. L’orizzonte femminista si è rivelato il terreno d’indagine più originale, in cui il corpo è stato considerato alla stregua di uno specifico linguag-

gio in grado di dar voce ad un un insieme di spie. In questo senso, l’approccio di genere ha rappresentato una vera e propria rivoluzione epistemologica che, secondo Alessandra Gissi, docente di Storia contemporanea specializzata in Storia delle donne e dell’identità di genere, ha mostrato la natura sessuata della politica e dell’organizzazione statuale e il ruolo dell’erotismo corporeo nell’incoraggiamento delle passioni politiche, dei conflitti sociali e delle ansie di rinnovamento. Ne sono la prova le immagini propagandistiche delle due grandi guerre del Novecento mostrate da Alessia Muroni, storica dell’arte, che ha parlato di uso e abuso a proposito del trattamento del corpo femminile nelle arti figurative. Si è passati, infatti, dalla vocazione estatico-religiosa della bellezza femminile nell’arte greco-romana e dal nudo rinascimentale come fonte di verità, alla più banale e mercificante cartellonistica pubblicitaria del Settecento e dell’Ottocento, per arrivare a un’arte contemporanea decisamente più critica e indagatrice nei confronti del ruolo, a volte schizofrenico, che il corpo femminile riveste nella nostra società. Qualcosa con cui cerca di confrontarsi anche la bioetica, rivelando spunti molto interessanti per la politica dei corpi, secondo l’interpretazione suggerita da Caterina Botti, docente di Filosofia morale all’Università La Sapienza di Roma. La dimensione fisica, e in particolare quella femminile, è oggetto di un controllo politico in cui la relazione tra corpo, soggetto e libertà è spesso trascurata a causa di un saldo retaggio culturale, a volte anche lesivo della salute delle donne (è il caso, citato dalla Botti, della legge 40/2004, relativa alle norme in materia di procreazione medicalmente assistita). Legiferare sul corpo è, insomma, attraversare la soggettività: quest’atto si connota spesso di una valenza negativa, come ha infine ricordato Stefano Ciccone, dell’Università di Tor Vergata. Ed è per questo che spetta anche agli uomini reinventare il proprio corpo, luogo contraddittorio per eccellenza, al fine di «vivere una sessualità che sia altro dalla conferma della propria virilità e del proprio potere» ed intraprendere così quel cammino che per le donne e la loro corporeità ha rappresentato, e continua a rappresentare, una difficile conquista.

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Assia Djebar e Fatema Mernissi Due nordafricane in difesa dei diritti delle donne di Rosa Coscia

Nei secoli, la donna è entrata più e più volte nel mondo letterario nella veste di soggetto di scrittura. Ma solo recentemente, dopo un percorso lungo e difficile, ha conquistato finalmente anche il ruolo di scrittrice. È facile immaginare come tali difficoltà siano state ancora maggiori per le donne del mondo arabo, che hanno ottenuto il Rosa Coscia diritto alla voce letteraria soltanto negli ultimi decenni. Quando ci sono riuscite tuttavia i risultati che hanno ottenuto le hanno imposte alla ribalta internazionale e le hanno rese portavoce sulla scena mondiale del desiderio di affrancamento delle donne di cultura islamica. Assia Djebar e Fatema Mernissi, scrittrici nordafricane di grande spessore, ne sono due esempi. Fatma-Zohra Imalhayène, in arte Assia Djebar, scrittrice e cineasta algerina è stata la prima autrice maghrebina ad essere ammessa all’Accademia di Francia. Nata nel 1936 da una famiglia della piccola borghesia tradizionalista. Da bambina ha modo di conoscere le tradizioni orali che le donne si tramandano durante le riunioni tra vicine, all’hamman e in tutte quelle occasioni nelle quali sono a stretto contatto tra loro lontane dagli sguardi maschili. Studia in una scuola francese, senza portare il velo. Diventata scrittrice, il suo principale obiettivo sarà quello di dare voce a tutte le donne che, non avendo avuto la sua fortuna, sono state costrette a subire una vita di violenze, silenzi, abusi e segregazione. Nel 1957 pubblica, con lo pseudonimo di Assia Djebar il suo primo romanzo, La Soif. Il libro scritto in francese, come tutta la sua opera, le vale l’accusa di antipatriottismo in Algeria. L’anno successivo si laurea a Tunisi e pubblica il suo secondo romanzo Les Impatient. Entrambe le opere sono incentrate sui temi della guerra d’indipendenza e sul rapporto fra liberazione e vita patriarcale. Con l’indipendenza dell’Algeria, dopo la guerra anti-coloniale, arriva anche la difficoltà a pubblicare le sue opere e l’esilio a Parigi. Segue un silenzio di dieci anni, in cui si dedica al cinema, con il medesimo obiettivo: far conoscere la situazione delle donne arabe in occidente. Nel 1979 vince il premio della critica internazionale alla Biennale di Venezia con il film La Nouba des Femmes du Mont Chenouba. Il silenzio letterario è interrotto da una raccolta di racconti, Femmes d’Alger dans leur appartement, in cui denuncia l’alienazione del femminile attraverso la strumentalizzazione politica e religiosa della donna, partendo dalle vicende di persone che l’autrice ha conosciuto o da

storie che ha sentito narrare quando, da bambina, ascoltava sua nonna e sua madre parlare nel cortile con le vicine di casa. A partire dagli anni Ottanta la Djebar è il punto di riferimento della letteratura femminista nordafricana, protagonista della battaglia contro la regressione e la repressione sempre in agguato. Negli anni Novanta, mentre in Algeria infuria la guerra civile e le donne senza velo e le intellettuali “occidentalizzate” vengono assassinate senza pietà, decide di trasferirsi negli Stati Uniti per dirigere il Centro di studi francofoni della University of Louisiana Baton Rouge. Dall’autunno del 2001 insegna lingua e letteratura francese alla New York University. Un percorso biografico per molti aspetti simile a quello di Assia Djebar è quello di Fatema Mernissi, sociologa, femminista e studiosa che ha analizzato a lungo la condizione femminile, soprattutto nel contesto islamico. Nata a Fès nel 1940 trascorre gli anni della sua infanzia in un harem, sottomessa all’autorità patriarcale e ai dettami politici e sociali che il Marocco imponeva. È quella un’epoca segnata da una serie di fermenti politici e sociali che interessano molti Paesi arabi e che alimentano la volontà d’indipendenza politica delle élites locali e il desiderio di libertà sociale da parte degli strati oppressi della società, primo fra tutti quello femminile. L’istruzione è l’arma principale per la conquista di una condizione sociale migliore. Anche la famiglia dell’autrice coglie questo anelito di rinnovamento. Fatema si laurea a Rabat in Scienze politiche e completa i suoi studi a Parigi, alla Sorbona. Si trasferisce quindi negli Stati Uniti dove consegue un dottorato in Sociologia. Durante questo periodo, la scrittrice entra in contatto con il movimento femminista americano. Non è facile per lei, nata e cresciuta entro i ferrati confini materiali e ideali di un harem, trovare la piena accoglienza da parte di una società in cui il femminismo era già radicato da anni. Tuttavia, nonostante le difficoltà iniziali, questa esperienza le permette di constatare l’importanza del confronto e del dialogo tra persone appartenenti a culture diverse. Tornata nel proprio paese diventa docente di sociologa presso l’Università di Rabat. Coordina inoltre l’Associazione delle donne tunisine per la ricerca sullo sviluppo e ha ideato Khalifa (Bollettino d’informazione e di collegamento sulla creazione femminile araba). Le sue coraggiose prese di posizione a favore della libertà femminile sono state accompagnate da un attento studio delle varie versioni del Corano, i cui precetti la Mernissi trova perfettamente compatibili con i diritti delle donne per cui si batte. Fatema è nota in Italia per i suoi romanzi e in particolare per La terrazza proibita, un romanzo autobiografico, in cui racconta l’harem in cui è nata e vissuta da bambina, del tutto diverso da quello presente nell’immaginario collettivo.


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