Roma Tre News 1/2017

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Periodico di Ateneo

Anno XIX, n. 1 - 2017

L’arte contemporanea a Roma Tre


Sommario

Editoriale

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Se l’arte entra all’università, esce dai musei? Dimensione estetica dello spazio e qualità della vita universitaria a Roma Tre Anna Lisa Tota

Primo piano L’arte contemporanea a Roma Tre L’università come officina artistico-culturale Mario Panizza

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La collezione d’arte dell’Ateneo Un patrimonio prezioso per la comunità accademica e per la città Pasquale Basilicata

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Giuseppe Salvatori Elogium di Mariastella Margozzi

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Artisti a Roma Tre Le opere d’arte che accompagnano la vita quotidiana Paolo D’Angelo

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«Happiness is expensive» The art in interplay with everyday routine Florian Elliker

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L’Università per l’arte Mettere in mostra Roma Tre Vito Zagarrio

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Il museo come luogo di apprendimento Una ricerca sulla fruizione dell’arte negli studenti universitari Stefano Mastandrea

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Il teatro nell’aula Il docente universitario e l’artista di strada Gilberto Scaramuzzo

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Gli artisti accademici di Roma Tre

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Tommaso Cascella Elogium di Paolo D’Angelo

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Mario Ceroli Elogium di Otello Lottini

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Omar Galliani Elogium di Mariastella Margozzi

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Palladium

Jonathan Hynd Elogium di Liliana Barroero

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Le Compositrici. Giornata di studio, mostra e festival musicale Milena Gammaitoni

Gianfranco Notargiacomo Elogium di Federica Pirani

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Emilio Farina Elogium di Caterina Bon Valsassina

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Michael Michaeledes Elogium di Otello Lottini

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Luca Maria Patella Elogium di Otello Lottini

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Oliviero Rainaldi Elogium di Duccio Trombadori

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Rubriche 50

Non solo compositrici: le donne artiste al Teatro Palladium Luca Aversano

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Audiocronache Il mondo visto da Roma Tre Radio Maria Genovese

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Post lauream Master Esperti nelle attività di valutazione e di tutela del patrimonio culturale Mario De Nonno

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Il museo per l’educazione permanente Maddalena Capobianco

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Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre Anno XIX, numero 1/2017 Direttore responsabile Anna Lisa Tota (professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi) Caporedattore Alessandra Ciarletti Vicecaporedattore e segreteria di redazione Federica Martellini romatre.news@uniroma3.it Redazione Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo Di Paolo, Francesca Gisotti, Elisabetta Garuccio Norrito, Michela Monferrini, Giulia Pietralunga Cosentino, Francesca Simeoni

Periodico di Ateneo

Anno XIX, n. 1 - 2017

Hanno collaborato a questo numero Luca Aversano (professore associato di Storia della musica), Liliana Barroero (professore ordinario di Storia della critica d’arte), Pasquale Basilicata (Direttore generale Università degli Studi Roma Tre), Caterina Bon Valsassina (direttore generale per l’arte - Mibact), Maddalena Capobianco (area didattica - corsi post lauream - Dipartimento di Scienze della formazione), Paolo D’Angelo (professore ordinario di Estetica direttore del Dipartimento di Filosofia comunicazione e spettacolo), Mario De Nonno (direttore del Master “Esperti nella tutela del patrimonio culturale” - direttore del Dipartimento di Studi umanistici), Florian Elliker (University of St. Gallen), Milena Gammaitoni (ricercatrice e docente di Sociologia generale), Maria Genovese (speaker Roma Tre Radio), Otello Lottini (delegato del Rettore per gli eventi artistici), Mariastella Margozzi (Galleria nazionale d’arte moderna - Mibact), Stefano Mastandrea (professore associato di Psicologia generale), Mario Panizza (professore ordinario di Composizione architettonica e urbana), Federica Pirani (MACRO), Gilberto Scaramuzzo (direttore del Master in Pedagogia dell’espressione), Duccio Trombadori (critico d’arte), Vito Zagarrio (professore ordinario di Cinema, televisione e fotografia) Immagini e foto Valentina Cavalletti, Mario Ceroli, Tommaso Cascella, Emilio Farina, Omar Galliani, Jonathan Hynd, Michael Michaeledes, Sonia Minelli, Gianfranco Notargiacomo, Antonella Profeta, Oliviero Rainaldi, Niklaus Reichle, Giuseppe Salvatori, Gilberto Scaramuzzo, Hans-Peter Schiess, Hannes Thalmann, University of St.Gallen Progetto grafico Magda Paolillo, Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma 06 64561102 - www.conmedia.it Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico www.tommasoderrico.com Impaginazione Mirella Pellegrini per Alredy Toscana - via Vetraia, 11 - Viareggio (Lu)

L’arte contemporanea a Roma Tre

In copertina Dipartimento di Giurisprudenza, corridoio centrale. Sullo sfondo Agorà di Emliano Farina 1994-2014 (foto: Mario Panizza) Fine lavorazione giugno 2017 ISSN: 2279-9206 Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998


Tommaso Cascella, Galleria (parte dell’opera), 2016-2017 ingresso della direzione amministrativa (foto: Valentina Cavalletti)


Se l’arte entra all’università, esce dai musei? Dimensione estetica dello spazio e qualità della vita universitaria a Roma Tre Anna Lisa Tota

che trasmettiamo e produciamo e anche quella del lavoro che svolgiamo può beneficiare della cura e della bellezza che si riflettono anche attraverso le opere d’arte poste nell’ambiente in cui operiamo. Questo tema viene ben evidenziato nei contributi di Mario «L’arte è lo sforzo Panizza e di Pasquale Basilicata, che aprono appunto incessante di competere con la bellezza dei fiori – questo numero. senza riuscirci mai» Le opere e gli artisti che qui presentiamo sono preMarc Chagall senze, silenziose e maestose ad un tempo, che danno forma e identità nuove agli spazi stessi del nostro Ateneo. Tuttavia, in questo caso non è soltanto la dimensione estetica dello spazio ad essere riconsiderata, ma è la stessa idea di fruizione artistica “che Questo numero di Roma Tre News è dedicato alla abbiamo in mente” ad essere sfidata. Non è un caso collezione di opere d’arte contemporanea ospitata dal che il titolo di questo editoriale si interroghi provonostro Ateneo e al progetto culturale, sotteso ad una catoriamente sulle conseguenze di una collocaziotale scelta. Il rapporto tra dimensione estetica dello ne delle opere d’arte in ambienti diversi dai musei. spazio e qualità delle interazioni sociali che esso può Da Jan Mukarowski a Roland Barthes, da Umberto favorire non è certo una novità: è stato messo a tema Eco a Wolfgang Iser sono stati numerosi gli studiosi da architetti, filosofi, sociologi, antropologi, psicoloche hanno sottolineato, pur nella differenza e nella gi, ambientalisti, letterati, pedagogisti e da studiosi di varietà delle prospettive, la rilevanza e il ruolo dei molte altre discipline. Nei secoli la capacità delle opeprocessi di ricezione nei processi di attribuzione re d’arte di comunicare stati del significato ad un’opera d’animo, valori spirituali e d’arte. Soprattutto in alcuni Le opere e gli artisti religiosi, emozioni partidi questi contributi viene che qui presentiamo sono presenze, colari ha ispirato la riflesmesso a tema il ruolo dei silenziose e maestose ad un tempo, sione e i pensieri di artisti, contesti: se muta il contesto scrittori e poeti. Non serve di ricezione, mutano anche che danno forma e identità nuove alcuna citazione dotta per i contesti entro i quali saagli spazi stessi del nostro Ateneo rammentarci la natura speranno attualizzati i significifica della comunicazione cati dell’opera d’arte stessa. artistica: spesso, essa è in grado di elevare i nostri Detto così sembra complicatissimo, ma in realtà è processi cognitivi e percettivi ad un livello diverso; una riflessione quasi banale: si tratta semplicemente attraverso la bellezza la conoscenza sembra potersi di riconoscere che l’arte è una collezione di atti di imprimere più profondamente nell’animo umano. La consumo e che, come tale, riverbera di sé gli spazi conoscenza, quando ci emoziona, sembra divenire in che abita. Non soltanto quindi, noi che percorriamo grado di parlare ai livelli più profondi del nostro io. abitualmente gli spazi che ospitano le nostre opere Cosa significa dunque per il nostro Ateneo mettere a d’arte siamo letteralmente costruiti dai significati sitema la qualità dello spazio che offriamo alla nostra lenti che esse ci propongono, ma sono le opere d’arte comunità accademica, al nostro personale amministesse che, interpellandoci con i loro codici estetici strativo, ai nostri studenti e alle nostre studentesse? ed artistici dai muri di Roma Tre, assumono nuovi Significa riconoscere che la qualità della conoscenza significati: quelli che noi vorremo loro attribuire ne«L’arte scuote dall’anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni». Pablo Picasso


Oliviero Rainaldi, Antigone, 2013, Scuola di Lettere, Filosofia, Lingue, scalone interno principale

gli interstizi temporali che si aprono al loro incontro nelle nostre quotidianità. È questa, infatti, una peculiarità del linguaggio artistico, soprattutto quando esso ci parla dal quotidiano e non dallo spazio separato - e talora quasi sacrale - di un museo. Quando incontriamo un’opera d’arte negli spazi in cui studiamo, lavoriamo e facciamo lezione, quest’incontro apre per noi una possibilità: si tratta di un possibile dialogo interiore tra noi e l’o-

pera, tra la bellezza che essa ci propone e lo stato d’animo con cui ad essa ci accostiamo. Si può trattare anche di una frazione di pochi istanti; tuttavia, quell’offerta artistico-estetica che l’artista ci propone e che quello specifico spazio rende possibile, apre un varco nel ritmo del tempo dello studio e del lavoro quotidiano. Dipende soltanto da noi decidere di entrarci.

Non soltanto noi che percorriamo abitualmente gli spazi che ospitano le nostre opere d’arte siamo letteralmente costruiti dai significati silenti che esse ci propongono, ma sono le opere d’arte stesse che, interpellandoci con i loro codici estetici ed artistici dai muri di Roma Tre, assumono nuovi significati: quelli che noi vorremo loro attribuire negli interstizi temporali che si aprono al loro incontro nelle nostre quotidianità


L’arte contemporanea a Roma Tre L’università come officina artistico-culturale Mario Panizza

primo piano

Con la costituzione del CEDAC (Centro d’arte contemporanea), attivo da oltre dieci anni, e il successivo avvio della Collezione d’arte contemporanea (2014), Roma Tre si propone come luogo privilegiato di incontro e di contatto tra artisti italiani e stranieri. La partecipazione degli studenti a questi incontri e, soprattutto, la loro quotidiana frequentazione con

le opere esposte nelle diverse sedi dell’Ateneo testimoniano l’impegno ad avvicinare i giovani a culture ed esperienze diverse e sempre rinnovate. La comprensione dell’arte contemporanea, oltre a educare progressivamente al gusto, è il veicolo principale per proiettare la curiosità verso linguaggi altrimenti poco noti. Portare le opere d’arte nei luoghi di lavoro o di studio ha lo scopo di stemperare il rapporto talvolta ingessato con le esposizioni museali. Per non pochi “andare per musei” genera disagio: significa disporsi nella condizione imbarazzata di dover capire il valore dell’oggetto e rinunciare alla spontaneità e alla disinvoltura necessarie per interpretare con tranquilla soggettività le emozioni percepite. Portare l’arte dentro l’università non è solo un impegno di terza missione, ma un vero e proprio percorso didattico: accompagna la formazione disciplinare dei corsi ufficiali con incursioni in campi da esplorare con serenità, dai quali cogliere suggestioni inattese e, per questo, culturalmente più efficaci.

Emilio Farina, Agorà (parte dell’opera), 1994-2014, Rettorato - Dipartimento di Giurisprudenza, corridoio centrale

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Oliviero Rainaldi, La via purgativa e la via unitiva, 2014, Scuola di Lettere, Filosofia, Lingue, scalone interno principale

Portare l’arte dentro l’università non è solo un impegno di terza missione, ma un vero e proprio percorso didattico: accompagna la formazione disciplinare dei corsi ufficiali con incursioni in campi da esplorare con serenità, dai quali cogliere suggestioni inattese e, per questo, culturalmente più efficaci

Dando spazio alla diffusione, dentro e fuori dalle mura accademiche, di conoscenze selezionate, prodotte anche al fine di renderle disponibili a fasce sempre più ampie di popolazione, Roma Tre si impegna a costruire uno spazio di riflessione e di pratica artistica all’interno del quale le contaminazioni estetiche, la correlazio-

ne tra arti e strumenti espressivi differenti, ne fanno una vera e propria officina artistico-culturale. Molti dei nostri spazi collettivi e di rappresentanza si sono arricchiti di opere ricevute attraverso libere donazioni dagli stessi artisti; opere che fanno dei nostri spazi quotidiani un laboratorio di eccellenza creato per rispondere alla necessità di acquisire, conservare, tutelare, studiare e diffondere l’arte contemporanea, con l’obiettivo di valorizzare e promuovere la creatività. Nell’ambito di queste attività, che esprimono l’attenzione e la sensibilità con cui l’Ateneo guarda alle pratiche artistiche, è stato istituito un riconoscimento, riservato a personalità di maggiore prestigio in campo artistico nazionale e internazionale: il titolo di “Accademico dell’Università degli Studi Roma Tre”, finora conferito allo scultore Mario Ceroli e agli artisti Tommaso Cascella, Emilio Farina, Omar Galliani, Jonathan Hynd, Michael Michaeledes (in memoriam), Gianfranco Notargiacomo, Luca Maria Patella, Oliviero Rainaldi e Giuseppe Salvatori.


La collezione d’arte dell’Ateneo

Un patrimonio prezioso per la comunità accademica e per la città Pasquale Basilicata È con viva soddisfazione che unisco le mie parole a quelle di Mario Panizza, per presentare questo numero della nostra rivista, dedicato alla collezione d’arte contemporanea, che costituisce un unicum artistico-creativo, che non ha eguali, a nostra conoscenza, nelle università italiane. Grazie all’intuizione del professor Otello Lottini e alla disponibilità liberale e sensibilità civile e culturale di tanti importanti e affermati artisti italiani e internazionali, nonché allo straordinario lavoro del comitato scientifico, l’Ateneo sta realizzando una notevole collezione di arte pubblica, a disposizione della comunità di Roma Tre, della città e di tutti gli studiosi e le personalità italiane e straniere, che frequentano la nostra Università. Per quanto ci riguarda, ci adopereremo sempre di più per facilitare lo svilup-

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po della collezione, con una sempre più efficiente collaborazione delle strutture tecniche e operative, che già stanno svolgendo un lavoro encomiabile, in cui hanno maturato rapidamente una competenza professionale specifica, riconosciuta convintamente dal comitato scientifico e dagli stessi artisti. Ho potuto constatare di persona, in diverse occasioni, un elevato grado di apprezzamento delle opere d’arte esposte, da parte della comunità accademica e del pubblico che frequenta il nostro Ateneo, assai spesso sinceramente impressionati dalla qualità della trasformazione degli spazi, in cui sono collocate le opere. Del resto, questo è uno degli obiettivi centrali del progetto artistico: migliorare la qualità estetica degli spazi, arricchendone la vivibilità e la qualità della vita per studenti, docenti e personale tutto. E questo mi sembra un dato da sottolineare. Secondo una re-

il senso di appartenenza e di identità istituzionale e stimola la creatività e il benessere morale. Questa funzione positiva dell’arte, sottolineata dalla ricerca ricordata, significa che l’arte è una esperienza necessaria per approfondire la dimensione spirituale delle persone, per scoprire prospettive e orizzonti diversi della realtà, per conquistare una percezione migliore e più profonda del mondo che ci circonda. Come dice il grande imprenditore francese Pinault, mecenate e collezionista, l’arte dà fiducia nel lavoro e nelle diverse attività che svolgiamo e contribuisce a farci sormontare le difficoltà. È uno strumento efficace per attivare una buona dose di ottimismo e sviluppare anche il pessimismo attivo: quando ci si sente provati e in difficoltà, entrare in contatto con l’arte, osservare e respirare le opere, dona una nuova linfa e nuove energie vitali.

L’arte è una esperienza necessaria per approfondire la dimensione spirituale delle persone, per scoprire prospettive e orizzonti diversi della realtà, per conquistare una percezione migliore e più profonda del mondo che ci circonda

cente ricerca dell’Università Cattolica di Milano (di cui ha parlato La Repubblica, nel settembre scorso), si sta sviluppando nelle strutture private, ma anche, seppure con più difficoltà, nelle istituzioni pubbliche, un costante aumento della presenza di opere d’arte, soprattutto contemporanee, perché le più avanzate ricerche su questi temi sottolineano come la diffusione dell’arte nelle aziende private e nelle pubbliche amministrazioni, il suo uso virtuoso e condiviso con le persone che vi operano, rafforza

Per quanto sta in noi, il nostro dovere e il nostro impegno è quello di prenderci cura della collezione, con perizia e, direi, con passione, mettendo in opera tutti gli strumenti tecnici e operativi necessari per conservare questo importante patrimonio di opere d’arte, non solo per rispetto verso gli artisti e gli attuali utenti, ma anche per tramandarlo alle future generazioni di studenti e docenti che, nel corso degli anni, entreranno a far parte della comunità del nostro Ateneo.

Nella pagina precedente

Tommaso Cascella, Opere dalla mostra Tra memoria e invenzione, nel ventennale dell’Università degli Studi Roma Tre, 1992-2012, Dipartimento di Ingegneria, disimpegno principale


Gli artisti accademici di Roma Tre Nel corso del 2015, il Senato Accademico dell’Università degli Studi Roma Tre ha istituito, su proposta del Rettore Panizza e per la prima volta in Italia, il titolo onorifico di “Accademico dell’Università Roma Tre”. Esso viene conferito a illustri personalità artistiche, scientifiche e del mondo culturale, che non appartengono e non sono appartenute ai ruoli dell’Ateneo e che, per le opere realizzate, le pubblicazioni prodotte e le attività artistico-culturali promosse, hanno assunto speciale competenza nelle discipline di riferimento universitarie e meritata fama a livello nazionale e internazionale. L’obiettivo è quello di soddisfare sempre meglio le esigenze di arricchimento culturale della comunità accademica e studentesca, aprendosi alle eccellenze, che operano all’esterno del perimetro dell’Ateneo, in diversi settori creativi della società italiana. Questa onorificenza è una delle iniziative artisticoculturali più innovative e qualificanti dell’Università degli Studi Roma Tre, che si affianca alla realizzazione della collezione d’arte contemporanea: l’una e l’altra si inquadrano in un orizzonte di intervento strategico nella politica culturale dell’Ateneo, che vede appunto nella diffusione e valorizzazione dell’arte e degli artisti contemporanei un terreno privilegiato per la promozione della qualità e dell’eccellenza della creatività italiana. Proponiamo nelle pagine che seguono ai nostri lettori i testi degli elogia pronunciati in occasione del conferimento dei titoli onorifici.

Cerimonie di conferimento dei titoli onorifici “Accademico di Roma Tre” a Gianfranco Notargiacomo, Jonathan Hynd, Omar Galliani e Mario Ceroli

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Tommaso Cascella Elogium di Paolo D’Angelo

È accaduto già molte volte, in passato, che l’attività artistica di Tommaso Cascella e le iniziative dell’Ateneo Roma Tre si incontrassero, e che le opere di Cascella trovassero una sede espositiva, transeunte o permanente, negli spazi della nostra Università. Ricordo che quando sono giunto a Roma Tre, ormai più di tre lustri fa, due lavori di Cascella ornavano già la sala delle lauree della allora Facoltà di Lettere; poi sarebbero venute la grande mostra per il ventennale della fondazione dell’Ateneo e l’elaborazione del logo per Roma Tre Press. Da poco otto grandi tele di Cascella sono esposte, e questa volta stabilmente, nell’atrio del Teatro Palladium. Chi ha visto la mostra del ventennale, Tommaso Cascella tra memoria e invenzione, sicuramente conserva nel ricordo lo straordinario dispiegamento di colori che ha animato, per qualche tempo, lo spazio espositivo antistante l’Aula Magna dell’allora Facoltà, oggi Scuola, di Lettere. E veramente credo che un discorso sulla pittura di Cascella, specie un discorso rapido e forzatamente sommario come quello che sono chiamato a tenere oggi non possa non muovere proprio dal colore e dall’uso notevolissimo che Cascella ne fa.

Questo dato immediato, se non puramente sensibile certo fenomenologicamente prioritario, si collega subito alla pittura di Cascella e la rende ipso facto, anche in senso letterale, memorabile. È spesso un colore puro, un rosso, un azzurro, un giallo, un arancio, squillante, vivo, luminoso, che il contorno o il segno spesso nero circoscrive o interrompe ma non smorza, non attenua. Il colore di Cascella non contrasta con la luminosità ma sembra possederla al suo interno, sì che la posta in gioco della sua pittura sembra consistere veramente, per riprendere una formula coniata da Dino Formaggio nel suo libro su Van Gogh, nel fare più luce con più colore. Fare più luce con più colore: ecco un compito che non ha nulla di facile, e che sembra anzi sfidare quella lunga contesa, quella antica inimicizia tra luce e colore che attraversa tanta parte della storia della pittura. La luce, se è pura luce, tende ad attenuare e a sbiancare il colore, come si vede espressamente nel chiaroscuro, che sembra espungere il colore relegandolo al contrasto tra il chiarore della luce e il buio dell’oscurità. I colori sembrano proprio sorgere sul confine tra luce ed oscurità, nella interazione tra la polarità rappresentata

Tommaso Cascella, Opere dalla mostra Tra memoria e invenzione nel ventennale dell’Università degli Studi Roma Tre, 1992-2012, Teatro Palladium, foyer


Tommaso Cascella, Galleria (parte dell’opera), 2016-2017, ingresso della Direzione amministrativa

dalla luce e la polarità opposta rappresentata dal buio. Questa parentela del colore con l’assenza di luce è stata usata come arma di battaglia nella polemica che ha opposto il Goethe della Farbenlehre, ma dopo di lui lo Schopenhauer di Sulla vista e i colori e tutta la scienza romantica, alla teoria newtoniana del colore. Lo stesso Hegel, che pure dissentiva dal Goethe scienziato in molti punti, su questo lo seguiva con convinzione: «ognuno sa – cito dalle Lezioni sulla filosofia della Natura della Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio – che il colore è oscuro rispetto alla luce. Anche il giallo, rispetto alla luce, è oscuro. Newton dice: la luce non è luce, ma oscurità, è composta di colori, quindi la luce è l’unità di queste oscurità». E ancora: «Secondo la nota teoria di Newton, la luce bianca, cioè incolore, consiste di cinque colori, o di sette – perché quanti siano esattamente, la teoria non lo sa. Non c’è parola energica che basti a qualificare codesto barbarismo, per cui si concepisce la luce come qualcosa di composto, e si fa che il chiarore consista di sette oscurità, al modo stesso che si potrebbe far consistere l’acqua chiara da sette specie di terra». Mi guardo bene, naturalmente, dall’esprimermi circa la fondatezza di queste critiche dal punto di vista della fisica e dell’ottica; ma certo l’opposizione tra il chiarore della luce e l’oscurità del colore (che, a ben vedere, non è poi il punto di contrasto tra Newton e i suoi

critici romantici) possiede per la teoria artistica una forte suggestione, perché davvero, in pittura, il colore può essere nemico della luce. Non però quello di Cascella. Se ne volete una riprova, prendete proprio l’esempio del giallo, questo colorelimite, per il quale, notava sempre Goethe, «basta un piccolo, impercettibile movimento per trasformare la bella impressione di fuoco e d’oro in una sensazione di sporco, e il colore della gioia e del fasto nel colore della vergogna, del ribrezzo e del disagio»: ebbene, i gialli di Cascella non cedono alla luce, non rivelano quel fondo di oscurità che svuoterebbe la loro ambizione di competere con la luminosità. E questo vale per tutti i colori di Cascella, che sembrano custodire al loro interno il segreto della luce. Ma il colore di Cascella non è solo luce. Questo pittore che rifugge dalla mimesi non rifiuta però il volume, la matericità e il senso tattile della pittura. Non per nulla il pittore Cascella è anche scultore, e sembra unire, anche genealogicamente, le due arti sorelle: pittore e ceramista il nonno Tommaso, scultore il padre Pietro. Ma, come non voglio indugiare su questi lasciti, perché, al postutto, l’arte non si eredita, così non vorrei dare l’impressione, parlando di valori tattili per la pittura di Cascella, evocare l’idea di un artista che fa saltare i limiti tra le arti, e produce magari oggetti che sappiamo sono arte, ma non sappiamo che arte siano.

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Tommaso Cascella, Il guardiano dell’arte, 2017, ingresso della Direzione amministrativa

No, Cascella è certamente artista multiforme, attivo in pittura, in scultura, nel collage, nella ceramica; ma pratica ogni arte iuxta propria principia: è pittore in pittura, scultore in scultura. C’è in lui – e questo forse si può far risalire meno peregrinamente a un imprinting familiare – un forte senso della pratica artistica anche – e non credo che la parola suoni oggi come una deminutio – come artigianato e attività manuale. Ho accennato al colore e al volume. Ma un discorso, anche sinteticissimo, sul lavoro di Tommaso Cascella non può tacere quello che ha tutti i diritti di esser considerato il terzo fulcro della sua attività pittorica, il segno. Le tele di Cascella ospitano linee, grafismi, segni, per lo più neri ma talvolta bianchi, quindi sempre, e non solo categorialmente, altri rispetto al colore. Tra tutti i segni, però, uno in particolare si impone perentoriamente all’attenzione, per la sua natura ricorrente, che può quasi farne una cifra o una sigla di identificazione. Chiunque conosca qualche opera di Cascella avrà notato quella riga scura, il più delle volte spessa, ma talvolta sottile, tracciata col pennello o il carboncino, a formare una sorta di 8 allungato, che può

evocare il simbolo matematico dell’infinito o la curva studiata da Bernoulli e chiamata lemniscata perché evoca un nastro pendente, lemniscus in lingua latina. Questo segno spesso appare allungato, ma di rado arriva ad occupare tutta una dimensione di un’opera; quasi sempre ha proporzioni più ridotte, quasi mai si colloca al centro della composizione. Molte volte è chiusa e completa, e si potrebbe percorrere indefinitamente, come un nastro di Moebius. Raramente è incompleta, e ancor più raramente prosegue il suo dinamismo fino a formare un nuovo intreccio, e allora sembra quasi evocare l’energia inarrestabile della Colonna infinita di Brancusi. Non credo che questo segno vada interpretato sulla base delle associazioni che suscita, a partire da quella col segno matematico dell’infinito. Esso va piuttosto letto come dato formale, come elemento del dialogo che i suoi contorni curvilinei instaurano con le forme riquadrate da rette e angoli emergenti dai colori e dalle linee di contorno nelle tele di Cascella. Dunque, la lemniscata di Cascella è innanzi tutto una linea curva in un universo pittorico che sembra conoscere solo il confine rettilineo. Ma la curva, in un mondo dove l’inorganico sembra affidarsi solo alla linea retta e alla spezzata, evoca immediatamente l’immagine della vita di fronte all’inorganico. E c’è un collage di Cascella in cui la prosecuzione della curva in successivi incroci sembra quasi evocare la spirale del DNA, questa sorta di monogramma moderno della vita. Sicuramente chi legge avrà presente il famoso ritratto in cui William Hogarth si rappresentò col suo carlino, oggi alla Tate di Londra. Sulla tavolozza del pittore è incisa una linea, una curva aperta come una S molto allungata, e la scritta: The line of Beauty. La linea curva è la linea della bellezza. Ora, se prendete due linee come quella di Hogarth, ma speculari, e le congiungete, ottenete all’incirca il segno di Cascella. E nel suo trattato L’Analisi della Bellezza, Hogarth aggiungeva alla linea della bellezza la linea della grazia, che è quella che si ottiene avvolgendo un filo attorno a un cono in un moto spiraliforme. La linea della grazia, insomma, altro non è che un derivato della famosa figura serpentinata, che dal De Pictura di Leon Battista Alberti arriva fino a Leonardo, che raccomandava «il serpeggiare delle figure», a Lomazzo e a Michelangelo, che avrebbe richiesto, nella testimonianza del trattatista, «che la figura sia serpentinata, piramidale, moltiplicata per uno, per doi, per tre». Nella fabula de lineis et coloribus che veramente è, forse più di ogni altra pittura, la pittura di Cascella, si sedimenta insomma una nobilissima tradizione, che lega questo artista, per tanti versi così contemporaneo, alla grande tradizione artistica italiana.


Mario Ceroli

Elogium di Otello Lottini

La prima personalità artistica a ricevere il titolo di Il suo lavoro si presenta con segni e immagini di stra“Accademico dell’Università Roma Tre” è lo scultore ordinaria qualità artistica, che hanno reso unico e irriMario Ceroli (Castel Frentano, Chieti, 1938). Da olpetibile il suo gesto creativo, conferendogli il profilo tre mezzo secolo, vive e lavora a Roma, dove la sua e la dimensione di un classico della scultura contemattività creativa ha costituito, nel corso degli anni, un poranea. punto di riferimento costante per l’arte italiana, a partiNel suo lavoro, partendo da materiali umili (legno, sore dai primi lavori alla fine degli anni Cinquanta e fino prattutto, vetro, pietra, terre colorate etc., oltre al bronai nostri giorni. La sua grande Casa-Museo di via della zo, alla tela etc.) va alla ricerca dell’essenza delle cose, Pisana è diventata da tempo un prezioso spazio di rifeal di là della loro realtà fenomenica e, con sublime atto rimento artistico e culturale della Capitale, meta di increatore, estrae il senso da ciò che è casuale e insignifinumerevoli estimatori e collezionisti di tutto il mondo. cante intorno a noi. Egli, cioè, non si limita a vedere il Un recente segno della sua inesauribile creatività, è il reale passivamente, ma mediante un sottile processo di ciclo di tele intitolato Onde gravitazionali, realizzato tra il 2014 e il 2015, alla soglia degli ottant’anni. Si tratta di una serie di opere di straordinaria freschezza pittorica e ricchezza problematica, in cui, partendo dalla suggestione delle parole del filosofo Manlio Sgalambro e dalla musica di Franco Battiato, è riuscito a “comporre” una partitura di segni, con acutezza ideativa, varietà di colore e fluidità compositiva, basata sulla sinuosità delle linee e sull’eco emozionale di vere e proprie variazioni musicali, in una cosmica sinfonia. Ma sempre attento alle dinamiche sociali più attuali (il problema delle nuove coppie) e alla dimensione dell’arte, anche con tratti impertinenti (un riferimento alle pitture licenziose pompeiane). E proprio all’inizio del 2016, come si sa, sono state scoperte effettivamente le onde gravitazionali, ipotizzate da Einstein un secolo fa (1916). Anche questi lavori dimostrano che Ceroli è un artista che ha sempre folgoranti e innovative intuizioni creative. Ceroli è una delle personalità più alte dell’arte italiana e internazionale della seconda metà del Novecento e di queMario Ceroli, Noi Europa: figlia del libro, 2006, Dipartimento di Scienze politiche, ingresso sti primi anni del Duemila.

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interpretazione ideale e culturale, lo trasfigura, pervenendo all’elaborazione di valori artistici superiori, che rendono fecondo il nostro contatto con esso. Il complesso del suo lavoro artistico, documentato in centinaia di mostre personali e collettive in Italia e nel mondo, costituisce una delle più importanti imprese culturali dei nostri tempi, in quanto espressione visiva e concettuale della realtà, depurata e ordinata in una superiore dimensione di significazione estetica e sociale. Nel corso degli anni, Ceroli ha elaborato un percorso artistico, che lo ha portato a interpretare e spesso ad anticipare, con visioni da pioniere, le esperienze e le sperimentazioni d’avanguardia: dall’uso dei materiali poveri (nella prima metà degli anni Sessanta, quando utilizzava i tronchi d’albero per realizzare le sue opere), al rapporto tra materia, opere e ambiente (per esempio, il suo famoso Teatro all’aperto di Porto Rotondo, con una straordinaria abilità nella gestione dello spazio), ma anche tra arte e passato dell’arte (il suo dialogo continuo con l’arte etrusca, greca e romana, per esempio, i bronzi di Riace) e con quella rinascimentale (il suo costante dialogo con Michelangelo, Raffaello etc.), tra dimensione scenografico-teatrale dei suoi lavori (qui si apre un enorme capitolo, ancora non del tutto esplorato: pensate che ha lavorato in teatro di prosa con Luca Ronconi, ma anche, nella lirica, con Pavarotti, Monteserrà Caballé e in teatri come il Bolscioi, La Scala, Teatro di Roma, oltre che per la televisione e il cinema) e approfondimento spirituale nei suoi grandi edifici religiosi (anche qui opere importanti come la Chiesa di Tor Bella Monaca, la chiesa di San Lorenzo a Porto Rotondo, quella del Centro direzionale a Napoli), fino all’attenzione verso le dinamiche istituzionali e sociali dell’arte, che, con tutta evidenza, lo accreditano come un grande artista civile e nazionale. Forse, è uno dei pochi artisti oggi in Italia la cui figura e le cui realizzazioni suggeriscono una concezione nuova e peculiare della partecipazione dell’artista

Mario Ceroli, Noi Europa: figlia del libro (particolare), 2006, Dipartimento di Scienze politiche, ingresso

all’affermazione di una società più libera e civile, più moderna e aperta, più pluralistica ed europea. Questa sua visione costituisce un importante segnale di riconciliazione dell’arte contemporanea con la politica e la storia e Ceroli, con le sue risorse e le sue intuizioni creative, ci ricorda che l’arte è ancora in grado di elaborare nuovi valori e nuovi orizzonti di senso (e qui voglio ricordare solo il complesso di opere realizzate per la Scuola Superiore di polizia: cappella, sacrario, sala conferenze, sala riunione, cenacolo). Ciò che conta, nel suo cammino artistico, non è la variante o la ripetizione, ma la deviazione e lo scarto, rispetto a ogni ipotesi di gruppo, di scuola o di canone. Per cui, realizza le sue opere in modo così diverso tra di loro, che non sono mai ripetizione l’una dell’altra, ma espressione di un arsenale creativo, unico e irripetibile, in una illimitata possibilità di senso. Ogni sua opera nasce dalla felice confluenza di condizioni obiettive (la materia) e soggettive (il talento). Le due condizioni sono sempre presenti e imprescindibili. Il talento, nel suo caso, non è qualcosa di magico e di inesplicabile (il genio o l’ispirazione nell’accezione dei romantici), ma è un Fare che è un Saper-Fare, pratico e mitico, una sua tenace e rigorosa applicazione alla costruzione dell’oggetto artistico, che è perfettamente descrivibile, in quanto depositata in una struttura accessibile all’analisi. Le sue opere sono frutto di un complesso lavoro costruttivo, in cui lo scultore si dimostra un prodigioso artista della forma: anzi, è uno dei più grandi inventori contemporanei della forma artistica e, perciò, le sue opere sono destinate a restare tra i segni più alti del nostro tempo. A ben vedere, l’artisticità delle opere di Ceroli non sta tanto nel loro contenuto, ma nella loro costruzione, cioè nella loro “messa in forma”: e l’efficacia estetica nasce dall’intero organismo o struttura. Ceroli progetta la forma come sintesi di materia, luce e colore, ne seleziona i valori essenziali, che inserisce nelle opere o negli spazi su cui interviene, consentendo al fruitore una percezione più lucida del reale e avvolgendolo in una atmosfera estetica diffusa, che ne aumenta il benessere psicofisico, al di là delle frivolezze o delle stravaganze espressive, con cui ci circonda spesso l’arte contemporanea. In questo senso, l’arte di Ceroli provoca nel fruitore nuove emozioni e nuovo sapere, suscitando una vitalità organica potenziata, una espansione virtuale di energie e una liberazione della fantasia e dell’immaginazione. Con le sue opere, insomma, Ceroli produce oggetti - valore come modelli ideali, in una visione umanistica e spirituale della vita e della cultura. Ed essi costituiscono un patrimonio italiano da conservare, curare e tramandare alle generazioni future.


Omar Galliani

Elogium di Mariastella Margozzi

«Il quadro è sempre un luogo in cui si adombra il desiderio del contatto con una realtà ideale a cui si vorrebbe donare un corpo. È la materializzazione dello spirito che rinuncia alla sua erranza nella sfera del fantastico per congiungersi non senza ferirsi alla realtà. Voglio rituffarmi nell’ombra del desiderio. L’opera è un corpo desiderante», scrive Galliani nel 1986. L’artista vuole guardare se stesso e il mondo mentre cerca, e trova, il corpo della sua opera e una volta raggiunto, ma forse mai afferrato, lo mette a disposizione di chi a sua volta guarda la sua opera, con la stessa pudicizia dell’offerente che ha in mano un dono prezioso quanto enigmatico e ancora nascosto, nonostante l’apparenza. «L’opera è un corpo desiderante» L’arte di Omar Galliani ha esplorato, fin dagli anni Settanta dei suoi inizi, le categorie del tempo e dello spazio. Per “tempo”, intende la riappropriazione culturale del passato, la sua concentrazione nel presente e il suo slancio vitale verso il futuro. Un “tempo circolare”, nel quale l’artista vive nella contemporaneità, con la sensibilità di una carta assorbente, tutte le conquiste e le emozioni dell’arte del passato. Per “spazio”, intende il luogo dell’esistenza del gesto artistico, non limitato dalla superficie dove accade il fatto artistico, ma proiettato fuori da esso, in avanti, o

dentro. Fino a confondersi con il “tempo”. Tutto questo senza mai perdere di vista l’immagine, nella quale figura e astrazione si contendono il campo, ma non si negano l’una con l’altra, determinando un equilibrio che è vibrazione profonda e che trasforma entrambe in atmosfera, nel senso di “percezione emozionale” di una visione universale. «L’opera è un corpo desiderante» Artista “italiano” per eccellenza, nel senso del suo voler essere prosecutore della ricerca della forma attraverso la materia, Galliani lo è anche nel talento, con il quale segna la “storia” continua della pratica del “disegno” facendone, nella grande dimensione del supporto, non più solo esercitazione virtuosa, ma fonte dalla quale scaturisce l’idea artistica compiuta, idea che non ha bisogno di altri medium per saziarsi della sua rappresentazione. Disegno italiano, infatti, è uno dei titoli delle sue numerose esposizioni di opere negli anni Duemila. Con esse, Galliani «ha portato la cultura del disegno italiano» in Cina, in Nord e Sud America, in Africa, con una serie di eccezionali interpretazioni/evocazioni di grandezze passate (da Bellini, Botticelli, Pollaiolo, Correggio fino a Canova), delle quali egli si fa necessario «corpo passante, filtro e mediatore», perché le esperienze antiche attraversano la mente e il corpo

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dell’artista contemporaneo e riattualizzano nel tempo e nello spazio di oggi il loro eterno esistere nell’eterno mutarsi della loro percezione. «L’opera è un corpo desiderante» Tutto ciò non esclude il mettersi costantemente in relazione con altri stimoli creativi, a partire dalla serie Inremeabilis Error degli anni Ottanta (coesistenze di disegno e di marmo) e passando ai Disegni siamesi degli anni Novanta (suggestive elaborazioni del “doppio”), alle Nuove anatomie del 2001 (nelle quali la ricerca del “corpo” si spinge fino allo scandaglio anatomico), ai Mantra del 2003 (volti accompagnati da versi dal valore taumaturgico) alla serie di Notturno del 2007 (in cui la tecnica si arricchisce di materie per trovare colori essenziali), a quella dei Denti di San’Apollonia del 2008 (sorta di esorcizzazione del macabro nel suo stesso rituale), al ritorno all’uso del colore ad olio nella serie La prima neve del 2009 (che è anche ritorno desiderato al luogo dei natali), all’emozionato cantico a Roma di Omar-Roma-Amor del

2012 (capace di restituire palpito e languore di tutta la storia di questa città), alle sue ultime opere, perpetue sedimentazioni di esistenza ed essenza dell’arte, concepita come un fluire di energia dal passato al presente che è già futuro e che sarà passato. «L’opera è un corpo desiderante» Omar Galliani ha percorso, con la coerenza che gli deriva dalla consapevolezza di appartenere alla élite degli artisti italiani, momenti cruciali della storia artistica d’Italia e internazionale, mantenendo intatti i suoi principi/obbiettivi di “conoscenza di sé” e di “conoscenza del mondo”: principi che ha trasmesso attraverso le numerose “epifanie” che sostanziano le sue opere, apparizioni non compiute fino in fondo e che per questo si pongono come corpi/immagini in “desiderante attesa”. Per questo riconosciamo ad Omar Galliani il ruolo di custode ed elargitore dei valori tecnici e ideali del «disegno italiano diventato pittura» e la sua capacità di attrarre il riguardante, trasmettendogli il flusso continuo del suo sedimentato sapere.

Nella pagina precedente

Omar Galliani, Sul libro e il sapere (parte dell’opera), 2017, Scuola di Lettere, Filosofia, Lingue, aula magna

Omar Galliani, Sul libro e il sapere (particolare), 2017, Scuola di Lettere, Filosofia, Lingue, aula magna


Jonathan Hynd Elogium di Liliana Barroero

Jonathan Hynd, opere varie, 2006-2015, Dipartimento di Ingegneria, disimpegno principale

Il Maestro Jonathan Hynd è nato a Manchester, nel 1950. Da tempo, vive e lavora a Roma. I suoi quadri sono il risultato di un processo di elaborazione creativa, che mette in connessione successiva materia, colore e spazio, in una progressiva stratificazione di senso, di grande densità estetica. Nella sua ricerca pittorica, l’artista inglese di origine e anglo-italiano di formazione, anche familiare (la moglie Luisa Guarneri è una giornalista italiana), considera fondamentale il trattamento della materia-supporto. La caratteristica specifica della sua arte, infatti, consiste nell’uso centrale, ma non esclusivo (infatti, usa spesso anche la tela, il legno etc.) di una materia povera come la carta (specie nel periodo giovanile) e poi del cartone, fissato su legno o abbinato a tela, e trattato con sapienza certosina, con manualità, insieme antica e moderna, fino a trasformarlo in oggetto artistico, con una pienezza creativa in cui confluiscono e si amalgamano le due culture della sua formazione (e anche le sue esperienze di viaggiatore in India, Iran e altrove). Egli stesso ricorda spesso che durante un giovanile viaggio in India, ha «trovato della bella carta fatta a mano, composta da ogni sorta di materiale, compresi stracci riutilizzati. Mi è venuto di pensare a tutte le storie precedenti contenute nella sua realizzazione. Per cosa erano stati utilizzati i materiali che la componevano prima che fossero mischiati con tutto il resto? Il tema del quadro era già lì. Il mio compito era solo quello di farlo venir fuori e stenderlo sulla superficie». Dopo la carta di stracci, è venuto il cartone riciclato, trovato per le strade di Roma e utilizzato per imballa-

re e spedire merci; ma anche il cartone, spesso logoro e malconcio, usato dai senzatetto per proteggersi dal freddo. «A volte – commenta l’artista – uno scatolone di cartone non riesce a stare in piedi da solo. Altre volte, aperto in fretta, porta con sé come una storia di violenza e di sofferenza. Altre volte, la storia è più sottile, e gli strati devono essere staccati uno ad uno per rivelare il passato che si trova al di sotto della superficie». «Spesso – osserva ancora – mi sembra che il processo creativo avvenga quasi automaticamente, quasi al di fuori della mia volontà. Poi le reazioni chimiche, le interruzioni, gli errori suscitano un dialogo e un cambiamento. L’inaspettato consente un mutamento nella percezione; fa il resto la sorpresa, che mi convince a continuare la mia ricerca. Quando un quadro “funziona”, ha una sua propria voce, e può svelare cose sconosciute al suo stesso creatore». Il quale, in un primo momento, sente che la storia è già contenuta all’interno del supporto e che il suo compito sia solo quello di lasciarla emergere; poi lentamente comincia ad aggiungere la propria creatività e la propria volontà artistica. Come si vede, quella di Hynd è una vera e propria “poetica della materia”, che si dispiega nello stretto rapporto tra storia del supporto e immagine e che gli conferisce un profilo creativo originale, noto e apprezzato sulla scena artistica italiana e internazionale, soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove si trovano molti suoi affezionati collezionisti ed estimatori. Il processo creativo di Hynd consiste in una sovrap-

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posizione di differenti strati di materiali e di pigmenti, che, con abile e meditata manualità, accumula fino a raggiungere la superficie finale e la stesura definitiva. Essa si presenta densa e liscia, ricca di suggestioni evocative e di echi visivi, memoriali ed emotivi (segni, graffiti, intersecazioni di materia, fessurazioni etc.), che costituiscono un tratto ben riconoscibile del suo linguaggio pittorico. Al fondo del suo lavoro, vi è il tentativo di fissare intuitivamente e con immediatezza (dietro i mutamenti organici e vitali) un “oltre”, fermo e stabile (sul piano dei significati concettuali e filosofici), che si apparenta all’esplorazione del territorio sconosciuto e problematico dell’inconscio. Sul versante della riflessione estetica e della pratica artistica, invece, il suo lavoro si inserisce nelle esperienze delle ricerche di avanguardia, specie del secondo Novecento, che esaltano la “povertà” dei materiali e li

promuovono a supporti di rango, capaci di attivare un processo di nobilitazione di qualsiasi materia, in virtù della elaborazione demiurgica dell’artista. Privando gli oggetti delle loro forme organiche, l’artista li innalza a una regolarità inorganica superiore, li isola dal disordine e dalla condizionalità temporale, rendendoli assoluti e necessari: lo specifico trattamento della materia, della massa coloristica e della elaborazione segnica, realizzato soprattutto con l’uso di spatole, consentono all’artista di inventare (re-inventare) forme e immagini, che non esistono in realtà (nel suo caso, la forma artistica non è diretta rappresentazione del reale), ma costituiscono entità autonome, che si materializzano e si manifestano grazie al suo intervento demiurgico, che emana dalle sue esperienze emotive e concettuali e dalle sue visioni sociali e problematiche, che diventano essenziali espressioni del suo lavoro artistico.

Jonathan Hynd, Al di là del mare, 2015, Dipartimento di Ingegneria, disimpegno principale


Gianfranco Notargiacomo

Elogium di Federica Pirani

Gianfranco Notargiacomo è un artista dalla formazione e dagli interessi compositi, un ricercatore continuo, un instancabile sperimentatore. Studioso di filosofia, si laurea in Estetica con Emilio Garroni e si diploma all’Istituto d’Arte di Roma. Fin dagli esordi intreccia la ricerca visiva e artistica a un generoso impegno civile e alla passione per l’insegnamento, inizialmente all’Accademia dell’Aquila, poi a Firenze, infine dal 1999 a Roma, dove nel 2015 viene nominato Maestro Accademico emerito.

che riempivano tutti gli spazi della galleria, dal pavimento agli stipiti delle porte, alle finestre, richiamando atteggiamenti e pose dei collettivi studenteschi di quegli anni. L’installazione, anticipatrice sui tempi, venne recensita dall’International Herald Tribune come «the most surprising show», ed effettivamente sancì la definitiva “uscita dal quadro” dell’azione artistica ormai volta all’ambiente, allo spazio, all’azione, alla scena. Già nel 1973, però, Notargiacomo torna alla pittura

Gianfranco Notargiacomo, Equatoriale, 2014, Scuola di Lettere, Filosofia, Lingue, aula conferenze

La prima esperienza pubblica risale al 1969 quando, alla Galleria Arco d’Alibert di Roma, trasfigurò lo spazio espositivo con un’installazione di bancarelle su cui erano poggiati dei vestiti che il pubblico dell’inaugurazione poteva indossare trasformandosi, così, da passivo spettatore in attore protagonista della performance. Poco dopo, nel 1971, con la personale, Le nostre divergenze, invade la Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis, sempre a Roma, con 200 omini di plastilina colorata alti 40 cm, uno diverso dall’altro,

con i suoi Autoritratti, di cui uno capovolto, esposti alla Galleria La Salita, insieme ai lavori di Sandro Chia con cui, peraltro, aveva progettato poco prima un lavoro al Palazzo delle Esposizioni, appendendo un uovo con un filo di naylon al centro della cupola nella sala centrale dell’architettura piacentiniana. È evidente il riferimento alla Pala Montefeltro di Piero della Francesca e al simbolismo legato ai temi della nascita e della resurrezione. Questo richiamo alla pittura e alla storia dell’arte si conferma l’anno suc-

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Gianfranco Notargiacomo, Roma assoluta, 2003, Dipartimento di Ingegneria, disimpegno principale

cessivo con Storia privata della filosofia, una mostra, sempre alla Galleria La Tartaruga, dove erano esposte una serie di ritratti, tutti di uguale dimensione, dipinti in maniera concisa, sintetica e lineare, quasi fossero cammei o figure in posa che formavano una sorta di Pantheon della sua privata filosofia nella quale accanto a Croce, Engels, Nietzsche, Wittgenstein, compare anche Giacomo Balla. Dopo una serie di altre mostre alla Salita e alla Tartaruga che, insieme a poche altre come l’Attico o l’Arco d’Alibert, erano le gallerie più innovatrici e propulsive dell’arte romana, ma anche italiana tra gli anni Sessanta e Settanta, un’altra personale, nel 1979, sempre alla Salita segnò per Gianfranco Notargiacomo un importante passaggio, non solo come decisivo e definitivo recupero dell’esperienza pittorica, ma anche come direzione verso diverse modalità espressive. Con i Takète, del 1979, una specie di grande figura totemica in lamiera a forma di saetta, Notargiacomo, infatti, inventa il suo segno distintivo. La parola Takète ha un’assonanza con il greco tachis (velocità) ma ha anche, con evidenza, un valore onomatopeico che evoca qualcosa che si spezza o un’immagine spigolosa e tagliente. I Takète sono sculture caratterizzate da linee complesse, spezzate, aguzze, prima quasi monocrome

(bianche, nere, grigie, argentee) poi dai colori sgargianti, vibranti, materici, una sorta di solidi raggi di luce che deflagrano al loro scontrarsi scatenando energia. Il Takète è un segno che richiama le linee-forza futuristiche e le Compenetrazioni iridescenti di Giacomo Balla, ma in cui confluisce l’eredità del gesto tipica dell’espressionismo astratto insieme all’energia del pensiero della ricerca concettuale. Le forme dei Takète ricordano sia le frecce che i lampi luminosi. Come ha scritto il filosofo e antropologo francese Gilbert Durand, la freccia, la sagitta, il raggio istantaneo, l’illuminazione, hanno una stretta parentela con il verbo sagire che significa “percepire rapidamente”. Ed è proprio questo il processo creativo seguito da Notargiacomo, quando scrive: «pensavo un quadro e lo consideravo fatto. Il resto era lavoro». La pittura, quindi, si conferma, prima di tutto, “cosa mentale”, come sosteneva Leonardo da Vinci. Il pensiero genera e crea l’opera, cioé viene successivamente, ma immediatamente tradotto. «So bene – ha detto Notargiacomo – che esiste un altro grado di conoscenza che è proprio quello del fare. Si conosce ciò che si fa, solo mentre lo si fa. È una conoscenza profonda e complessa, ma è un’altra cosa rispetto al lampo; o meglio a quella serie di lampi che è pen-


sarla. Ma come avvicinare i due momenti senza che il primo si diluisca troppo nell’altro? A me è venuto naturale correre veloce». Il rigore e la forza che danno vita alla forma dei Takète si ritrovano anche nei tracciati luminosi dei lavori degli anni Ottanta intitolati Tempesta e Assalto, che sembrano prefigurare i conflitti aerei contemporanei, visti attraverso i monitor delle televisioni, ma che ricordano anche i Missili lunari che animano i cieli di Osvaldo Licini. In questo ciclo, presentato nel 1980 alla Galleria La Salita, rilegge la passione del romanticismo storico – dello Sturm und Drang appunto – attraverso un linguaggio espressivo, vibrante, energico, ma razionalmente controllato. Nel 1982, invitato da Luciano Caramel, Notargiacomo espone una serie di grandi dipinti al Padiglione Italia alla Biennale di Venezia; tra gli altri, Omaggio a Lorenzo Lotto. Sono opere di una gestualità vigorosa ed efficace, ma filtrata dal pensiero e stratificata nella storia dell’arte alla quale, peraltro, rimanda lo stesso titolo. Negli anni Novanta, i Takète si accendono di colori. Le loro dimensioni aumentano fino a raggiungere i due metri di altezza e uno e mezzo di larghezza; sono forme mitiche che conquistano lo spazio, figure ancestrali, titani e giganti che popolano la terra. Di quegli stessi anni sono anche le Pitture estreme, grandi spazi ritmati da campi verticali di colore, smalti industriali che si ripetono su tutta la superficie della tela: verde e azzurro, azzurro e giallo, blu e rosso. Una calma solo apparente emana da questi lavori, una cadenza interrotta dall’inserto di lamiere triangolari ondulate, che spezzano e accelerano il ritmo compositivo. Negli anni più recenti, la scansione compositiva sembra invertirsi con la serie Orizzonti, nei quali i vibranti campi di colore hanno andamento orizzontale, fino ad arrivare ai lavori degli ultimi anni, dove cambia la forma

del supporto. Si tratta di grandi Tondi, intitolati, ad esempio, Saturnino, Aurorale, Vulcano, Antartide, A Turner, nei quali il titolo assume valore di completamento dell’opera. Sono opere frementi di atmosfere e citazioni poetiche, dove una rinnovata visione della natura e la struggente percezione del dinamismo cosmico convivono col pensiero razionale. Singolare, all’interno di un percorso artistico sempre di estrema coerenza, è il grande lavoro Roma Assoluta, realizzato tra il 2003 e il 2004, ora proprietà del Comune di Roma. È un grande dipinto di tre metri per cinque dedicato alla Capitale, dove antichi simboli classici, obelischi e cupole, piazze e monumenti sono sovrapposti alla trama delle strade, ai sotterranei della metropolitana, al palinsesto di linee che alludono a un movimento caotico ed incessante. È un omaggio sentito e appassionato alla città dove rivivono i colori e i tramonti di molta pittura romana – da Mafai a Scipione fino alla poesia di Ungaretti – ma nel quale si riflettono anche le contraddizioni laceranti della metropoli contemporanea. Ed è questo dell’impegno e della sensibilità civica un tema che ha accompagnato sempre Notargiacomo, «un’indomabile passione per il presente», come ha scritto Marramao. Nel suo percorso biografico, Gianfranco ha, infatti, intrecciato la militanza artistica con un impegno civile sentito e partecipato, sia attraverso la dedizione all’insegnamento, che nell’attività politica, seppur da tecnico, come assessore alla cultura del Comune di Ripatransone, uno splendido borgo piceno dove trascorre parte dell’anno e del quale è cittadino onorario. Dalle finestre della sua antica casa, si gode un panorama straordinario e probabilmente quelle dolci colline leopardiane, segnate dalle fratture dei calanchi, come per molti artisti marchigiani (da Osvaldo Licini a Mario Giacomelli), hanno suggestionato e ispirano a tutt’oggi il lavoro di Notargiacomo.

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Emilio Farina

Elogium di Caterina Bon Valsassina

Emilio Farina, Agorà (parte dell’opera), 1994-2014, Rettorato - Dipartimento di Giurisprudenza, corridoio centrale

Giovedì 14 dicembre 2014 è stato presentato al pubblico il Ponteggio d’Artista donato da Emilio Farina all’Università degli Studi Roma Tre, esposto presso la sede del Rettorato e del Dipartimento di Giurisprudenza. Il ponteggio fu posto in opera il 19 settembre 1994 in occasione dei lavori di restauro del paramento marmoreo del Pantheon a Roma. Era una delle prime installazioni del genere ad essere realizzata all’interno di un monumento per rendere meno disturbante l’ingombro di un cantiere. Terminati i lavori, il grande ponteggio ligneo dipinto è stato esposto in varie sedi quali il Museo del Canopo di Villa Adriana a Tivoli e le Scuderie Aldobrandini di Frascati. È stato poi riutilizzato, dopo sostanziali modifiche, per un nuovo cantiere di restauro sempre all’interno del Pantheon, al termine del quale è stato conservato in un magazzino. Un altro grande ponteggio, sempre realizzato da Emilio Farina in occasione dei lavori di restauro degli affreschi di Filippo Lippi del Duomo di Prato, de-

nominato il Cristo Bianco della Valle, ha trovato una sistemazione definitiva come pala dell’altare maggiore nella chiesa parrocchiale di San Michele Arcangelo a Sassetta-Vernio (PO). Anche il ponteggio del Pantheon ha trovato una nuova vita: donato dall’artista, è ora esposto in via definitiva con il suo nuovo nome di Agorà. Come accadeva infatti alle opere d’arte nelle antiche piazze greche, sarà testimone e stimolo degli incontri e dei dibattiti culturali degli studenti. Ho seguito sempre il progresso artistico di Emilio Farina, che conosco e apprezzo, avendone visto con attenzione da molti anni i vari momenti del processo creativo; dal richiamo all’antichità classica, ben documentata dai diversi Testimoni, che spesso occhieggiano all’interno della sua produzione: penso ad Adriano, al giovane Antinoo, alla poco amata Sabina, che ci vengono incontro dal lontano passato con l’evidenza dei loro colori, una cifra ricorrente nell’opera dell’artista.


Emilio Farina ha lavorato molto a Roma; ha collaborato a far rivivere il giardino seicentesco di Palazzo Spada, ideato dal Cardinale Bernardino, realizzando i gigli araldici delle sei fontane che ne spartiscono i settori. Inoltre a Palazzo Altemps ha realizzato un’installazione temporanea dal titolo evocativo, Assenza virtuale, collocata al posto del Trono Ludovisi, assente per un’esposizione. L’opera, anch’essa donata dall’artista, verrà collocata presto in modo permanente presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi Roma Tre, dove potrà essere stimolo per i futuri progettisti. Sempre a Roma, nella storica Libraria di Palazzo Altieri, Farina ha realizzato, in due fasi, un’installazione che è rimasta esposta per vari anni dal titolo Al fuoco al fuoco seguita da un’altra dal titolo: Acqua 732, ambedue di grande effetto emotivo e materico, legandosi al grande busto di papa Clemente X Altieri, effigiato nel grande salone che contiene l’archivio di famiglia, riproponendo il clima barocco del ritratto papale. In Palazzo Barberini, sede della Galleria Nazionale di Arte Antica, l’artista ha proposto il Piano del colore delle sale del Seicento e ha predisposto i bozzetti per gli ambienti che accolgono le collezioni del Settecento, realizzati poi da abili artigiani venuti da Firenze. E proprio a Firenze Emilio Farina ha collocato nella sala espositiva del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi la sua installazione dal titolo Colore nel Segno: grandi strisce di memoria verticali che riprendono i colori

dei bozzetti pensati per Palazzo Barberini, attraverso le quali circolano i visitatori aggiungendo il movimento alle dimensioni canoniche. Una sintesi del lavoro pluriennale dell’artista Emilio Farina, contenente la classicità, la trasmissione della memoria e la rivisitazione del Colore nel Segno, è apprezzabile da chi visiterà la mostra personale in corso alla Pinacoteca Comunale Giovanni da Gaeta [N.d.R. la mostra si è chiusa il 10 gennaio 2017]. Nel Museo di Arte contemporanea di Gaeta, infatti, sono collocati alcuni esempi significativi delle opere di Farina, attinenti ad alcuni temi fondanti della sua poetica sopraelencati; partendo dai Testimoni, troviamo esposto un grande tondo su tavola, in due parti, dal titolo Punto di vista che fu esposto alla Biennale di Venezia nel 2011, insieme alle opere recenti composte in omaggio alla storia e al territorio della città ospitante. La complessità delle attività dell’artista può essere sintetizzata nella grande versatilità dei diversi linguaggi, soprattutto contemporanei, con cui esprime la propria identità e sensibilità: materiali poveri, giornali, cartapesta, installazioni, video, fotografia, scenografia oltre agli strumenti tradizionali della pittura e della scultura, costituiscono la cifra identitaria di Emilio Farina che è riconoscibile, anche dal pubblico meno preparato, attraverso gli azzurri intensi e le pennellate accurate e originalissime, il Segno appunto, che sono la caratteristica più evidente e coinvolgente della sua opera.

Emilio Farina, Agorà (particolare), 1994-2014, Rettorato - Dipartimento di Giurisprudenza, corridoio centrale

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Michael Michaeledes Elogium di Otello Lottini

Il Maestro Michael Michaeledes è nato a Nicosia, nel 1923 ed è morto a Londra, nel 2015. Ha vissuto e lavorato a Londra e a Firenze. Ha studiato Architettura presso l’Università di Milano e il Politecnico di Londra ed ha esercitato la sua attività professionale di progettista in diversi paesi del mondo, ma sempre con base in Inghilterra (sua patria d’adozione). Parallelamente ai suoi lavori di architetto, ha svolto una importante carriera come artista, caratterizzata da oltre cento mostre (personali e collettive), in gallerie private e spazi pubblici, tra cui ricordiamo la partecipazione alla Biennale di Venezia del 1976. Da giovane, inizia come pittore figurativo, ma ben presto, col suo trasferimento in Inghilterra, abbandona la figurazione per aderire alle correnti astratte, sviluppando una originale ricerca artistica, che costituisce una sua specifica cifra stilistica e visiva. A partire dagli anni Sessanta, infatti, in parallelo alle ricerche di Castellani e Bonalumi, in Italia (e di altri artisti in Inghilterra e Germania), progetta il suo lavoro creativo, su una base segnatamente costruttiva, mediante le tele sagomate (shaped convases), quasi

sempre monocromatiche (ma anche, talvolta, con un limitato uso del colore), in cui confluiscono elementi plastici e pittorici. Nel suo caso, l’adesione alle correnti d’avanguardia, si precisa più sul versante scultoreo, che pittorico, anche se, più propriamente, il risultato artistico è espressione di una ambigua e poetica contaminazione dei due linguaggi. Nelle sue creazioni, il telaio non ha più la tradizionale postura costruttiva, ma è variamente articolato e sulla sua superficie si distende e si sovrappone la tela, con la sua leggerezza acromica. Questo uso del telaio (uguale, ma diverso rispetto al passato) di fatto annulla il richiamo alla sua consueta funzione, per trasformarsi in uno strumento di articolazione delle forme, in un gioco strutturale di concavità e convessità, di sporgenze e di rientranze. Da qui, malgrado la leggerezza, la risultante scultorea del lavoro. Sulla base di questo medium, Michaeledes costruisce le sue opere, con differenti modulazioni visivo-formali: alcune si possono avvicinare ai quadri (dunque, si possono appendere alle pareti), mentre altre si presentano come ampie e complesse dimensioni spaziali.

Michael Michaeledes, 4 Square pieces / 4 Elementi quadrati, 1975, Dipartimento di Scienze politiche, ingresso direzione Dipartimento.


Michael Michaeledes, Untitled white relief in 2 pieces / Estraflessione bianco in 2 elementi, 1968, Rettorato, sala riunioni

Le une e le altre hanno una forte capacità di incidere nello spazio, di auto-progettarsi in funzione di una esperienza estetica che, pur nella rigorosa acromia, cattura la luce circostante, che diventa una componente di senso fondamentale di queste realizzazioni creative. Infatti, il trascorrere della luce e dell’ombra, nel corso della giornata, cambia l’aspetto delle opere stesse, modificando il loro impatto sull’ambiente e sullo spettatore. Il Maestro, infatti, non gradiva l’illuminazione artificiale delle sue opere. Infine, un ulteriore sviluppo del suo lavoro, porta Michaeledes ad elaborare le opere sulla base di un gioco strutturale e combinatorio di moduli, asimmetrici o identici, che si possono giustapporre, comporre e ricomporre. È “l’opera aperta” che, come si sa, è stata teorizzata da Umberto Eco. L’artista attiva, così, in maniera più immediata e diretta, anche la collaborazione dello spettatore, che può intervenire sulla distribuzione dei moduli e, dunque, sulla forma e la composizione dell’opera, secondo un gioco di provvisorietà dei componenti strutturali della forma, che, per primo, ha realizzato con le tele sagomate. Le sue opere, insomma, ben riconoscibili nel panorama artistico internazionale, con particolare e specifica attenzione all’Inghilterra e all’Italia, presentano alcuMichael Michaeledes, Leaning / Inclinato (particolare), 1993, Rettorato, direzione amministrativa

ne caratteristiche, che ne definiscono la cifra stilistica e formale: il rigore costruttivo, la leggerezza, l’acromia e, talvolta, la flessibilità e la permutabilità degli elementi. Esse contribuiscono a definire, per l’essenziale, il senso profondo del profilo creativo dell’artista, che si completa con i suoi lavori di architettura e la sua vocazione per la poesia, restituendoci l’immagine di un uomo colto e sensibile, che racchiude in sé diverse radici culturali e sensibilità estetiche.

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Luca Maria Patella Elogium di Otello Lottini

Luca Maria Patella è nato a Roma, nel 1934, dove vive e lavora, fin dagli anni Sessanta, ha operato su un ampio spettro di ricerche sperimentali. È stato tra i primi artisti a sperimentare la multimedialità: dalla grafica alla fotografia, dal libro d’artista al “film-opera” e al video, dall’uso del gesto e del corpo nelle performance all’indagine psicoanalitica, dall’analisi interdisciplinare tra arte e scienza alla regia. Inoltre, è autore di diversi volumi di poesia, narrativa e saggistica, in cui il linguaggio viene esplorato in tutte le sue possibilità e complessità espressive (dai fonemi alla tessitura semantica delle parole, dai giochi sintattici alla disposizione e all’uso degli spazi sulla pagina etc.). È stato uno di primi artisti europei a realizzare una mostra che consisteva solo nella visione di diapositive, o anche a far consistere una mostra in una “azione” o in una “dimostrazione”, in chiave “didattica”, con proiezioni verbo-visive. Nella sua attività artistica e creativa, ha anticipato, con intuizioni da pioniere, alcune correnti artistiche come la Land art, il Comportamentismo e il Concettualismo, pur restando sempre un artista “totale”, autonomo e originale, per niente catalogabile o riconducibile a qualcuna di queste tendenze artistiche. Sono straordinarie la sua versatilità e la sua agilità mentale, che lo hanno portato a impegnarsi in numerose imprese culturali, artistiche e operative, in cui ha saputo fornire contributi di analisi e di ricerca, con atteggiamenti di antesignano e di innovatore. Egli si muove sul palcoscenico della cultura e dell’arte, infatti, con la sua inesauribile fantasia e con la consapevolezza che i linguaggi del mondo siano malati, vittime di patologie mortali, che li fanno soffrire di retorica, logorrea, vuotaggine, tautologia, ripetizioni, per cui con la sua ricerca artistica e la sua analisi critica e clinica, si sforza di ristabilirne la buona forma. Perciò, la sua pratica artistica si incrocia sul versan-

te dell’estetico e del poetico, ma anche del pensiero e della riflessione e i suoi contributi di analisi del reale e la sua inesausta ricerca, gli consentono di operare con efficacia, nel dialogo tra arte e scienza. Con i grandi artisti come Patella, si sviluppa sempre una dialettica tra comprensione e illuminazione. Anzi, uno dei segnali più sicuri che ci avverte quando ci troviamo dinanzi a un vero artista, lo si ha quando ci dice qualcosa che nessuno aveva detto e mostrato prima di lui, ma che, non è affatto nuova per noi. Questo è il misterioso paradosso che si annida nel fondo di ogni autentica creazione artistica: dinanzi alle opere, ci accorgiamo che quello che scoprono e rivelano (un’idea, un’emozione, un’intuizione) ci sembra di averlo saputo da sempre, anzi, sembra la cosa più semplice e più vecchia del mondo. Ma sempre dopo lo svelamento! La verità è che ogni uomo porta dentro di sé idee sul mondo e sulla realtà, anche se non avvertite o non messe a fuoco. E gli artisti come Patella non fanno che sottolineare, mettere in risalto ciò che già possedevamo: l’invenzione artistica come la scoperta scientifica, infatti, hanno il sapore della reminescenza, cioè di qualcosa che l’uomo sapeva e che aveva dimenticato. Insomma, le opere di Patella illuminano e fanno emergere aspetti e problemi della realtà umana e sociale, che erano dentro di noi, ma come inerti sementi e che egli fa improvvisamente germogliare. Patella è uno degli artisti e degli intellettuali italiani più importanti e noti, anche sulla scena culturale internazionale (con particolare attenzione proprio da parte della nuova Tate Modern Gallery di Londra) oltre che nazionale (dal Macro di Roma alla Casa Morra. Archivio dell’Arte Contemporanea di Napoli, guidato da Giuseppe Morra). Innumerevoli sono state le mostre, personali e collettive, in Italia e all’estero a cui ha partecipato (con diverse presenze anche alla Biennale di Venezia), nonché i cataloghi e le pubblicazioni sulla sua attività artistica. Come importante è anche la sua filmografia e la sua videografia. Per il suo straordinario profilo di artista innovativo e originale, per la sua fiducia estrema nella ricerca scientifica e culturale, per la realizzazione di numerosi progetti e opere in Italia e all’estero (uno degli ultimi è la realizzazione della grande Fontana fisiognomica, che si trova nella Piazza del Municipio di Bruxelles), per i suoi vasti orizzonti culturali di artista, poeta e scrittore, meritatamente gli viene conferito il titolo di “Accademico dell’Università Roma Tre” nell’Aula Magna, dopo aver ricevuto, nel 2015, l’International Franco Cuomo Award per l’arte, nella Sala Zuccari del Senato della Repubblica.


Oliviero Rainaldi Elogium di Duccio Trombadori

Rinomato in Italia e all’estero, Oliviero Rainaldi è oggi uno scultore di notevole successo, un artista professionalmente più che affermato, e però più noto che veramente conosciuto. Egli ha fatto anche parlare molto di sé a seguito di insulse polemiche sollevate ad arte per il monumento dedicato qualche anno fa alla memoria di Papa Giovanni Paolo II, una delle sue opere più impegnative e coraggiose cui solo il tempo si incaricherà di rendere pieno riconoscimento. Dispiaciuto per «non essere stato capito» da molti, lo scultore ha sempre tenuto a sottolineare – a chi lo criticava sotto il riduttivo pretesto della “mancata somiglianza” – il segno contemporaneo della sua opera nella intenzione di trasfigurare simbolicamente il beato Wojtyla in un «corpo pneumatico» per rispondere a precise finalità religiose. Oliviero Rainaldi è dunque un artista poderoso, efficace, estremamente delicato e colto. Egli è partito nei lontani anni Settanta dall’insegnamento di Emilio Vedova a Venezia e poi di Fabio Mauri a L’Aquila, rivelando fin dal principio la sua vena di narrativo testimone del tempo; ma alle soglie degli anni Novanta si è venuto distaccando dalle pratiche sperimentali e neoavanguardiste, dal minimalismo all’arte povera, per rivolgersi ai valori e alle tecniche della tradizione, realizzando disegni, pitture e una scultura dai tratti originali che interroga il fondamento religioso della esistenza umana. Figure isolate, corpi e frammenti di corpi diventano nell’opera di Rainaldi testo e pretesto di un meditato incontro tra arte e liturgia, e manifestano al tempo stesso legami e riferimenti con tratti figurali arcaizzanti sul tema della trasmigrazione delle anime, sul limitare di vita e morte, tra dimensione funeraria e rituali di fertilità vitale. Su questa linea espressiva si sono avvicendati cicli di opere come Gisant (1988-1993), per poi passare ai Battesimi umani (1994) e ai Caduti (1995), con evidenti richiami ai capitoli della Genesi, alla creazione del mondo e dell’uomo con il tema del rinnovamento spirituale-battesimale. L’impianto filosofico-teologico della pittura e della scultura di Rainaldi si è venuto via via precisando per passaggi formali studiati in un continuo confronto di passato e presente, lungo una linea di continuità stilistica ed espressiva che arriva fino ai giorni nostri: basti pensare al ciclo delle Conversazioni dei primi anni Duemila o ad opere come Ultima cena, del 2007, che recuperano modelli classici rastremando il segno e la materia in un pulviscolo di luce e forma trasfigurante. Il timbro morale del culto delle forme classiche si riscontra anche nella sublime staticità scul-

torea delle Vergini o nelle acrobazie lineari sottolineate dagli eleganti disegni dei Fenomeni (2006-2007) che aprono la ricerca di Rainaldi a nuovi campi di applicazione precisando una fisionomia stilistica coerente e ricca di sfumature espressive. L’artista si è fatto le ossa in una città difficile e maestra d’arte come Roma: ed ha assimilato i valori della scultura a contatto delle forme impeccabilmente tornite di Lorenzo Bernini, per la lucentezza sublime di una materia su cui è capace di imprimere per essenza formale il fuggevole passare della vita. Rainaldi è cresciuto a contatto di una generazione post-avanguardista che ha segnato i pregi artistici più significativi del postmoderno romano negli anni Ottanta (da Nunzio, a Pizzi Cannella a tanti altri). In questo clima culturale, egli ha elaborato l’accento sicuro di uno stile che lo induce ad estrarre dalla scultura valori essenziali e distillati che parlano di luce interna della materia (argilla, bronzo, vetro) e rinviano a pensieri sul fondo mistico della esistenza. Il suo disegno è forte e sintetico. La mano procede sicura a togliere il superfluo fino a suggerire una visione immateriale di apparenze semplificate come ombre va-

Oliviero Rainaldi, La via illuminativa, 2014, Scuola di Lettere, Filosofia, Lingue, aula magna

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Oliviero Rainaldi, La via purgativa (particolare), 2014, Scuola di Lettere, Filosofia, Lingue, scalone interno principale

Oliviero Rainaldi, Niobe, 2015, Scuola di Lettere, Filosofia, Lingue, scalone interno principale

ganti nello spazio del sogno e della preghiera. Rainaldi è mosso da un sentimento religioso che pervade tutta la sua opera, e solo in apparenza si riallaccia a motivi effimeri o impressionisti. La sua vocazione formale dialoga con le ombre del pensiero che nel suo modellato trovano una squisita redazione espressiva. Scultore dell’assenza presente in ogni attimo della vita, la sua opera intende suscitare il segno divino che in esso si intuisce e non si vede. Questa tensione religiosa alla immaterialità, tradotta in solida veste scultorea, è il pregio elevato della sua intenzione artistica. Oliviero Rainaldi procede sicuro in questa contesa espressiva che sottolinea l’originalità di un’opera e di una posizione estetica che lo distingue dai molti esegeti del gusto eclettico chiamato postmoderno e lo colloca tra gli esempi eccellenti dell’arte italiana di oggi. Questa nobile impronta poetica si imprime con successo in tutte le prove della sua opera di plasticatore energico e sottile, che rende omaggio all’arte della scultura rivelandone la qualità di lingua viva senza tempo, a patto che per suo tramite si intenda esprimere fino in fondo il più intimo splendore dell’essere.


Giuseppe Salvatori

Elogium di Mariastella Margozzi

«Chi non ricorda come si trascina una farfalla ferita, toccando la terra con le ali tremanti! Ma chi può vedere, ne’ suoi occhi, l’espressione del suo dolore violento e improvviso! La farfalla va presto a rincantucciarsi, sapendo sparire dalla nostra curiosità. È come qualche cosa, allora, che riesce a non aver contatto con noi, ad evitarci». Federico Tozzi, Bestie, 2006, con illustrazioni di Giuseppe Salvatori.

Giuseppe Salvatori, Doppio regno, 2009, Teatro Palladium, foyer

nella pagina seguente: particolare

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Il percorso artistico di Giuseppe Salvatori inizia alla fine degli anni Settanta con un tenace ritorno alla pittura figurativa. Fa parte dei Nuovi Nuovi, appoggiati da Renato Barilli ed espone in alcune mostre sulla “Nuova immagine”, curate da Achille Bonito Oliva. La tecnica di questo primo periodo è quella meditativa dei pastelli su tela. I temi trattati prendono spunto dalla rivisitazione lirica della pittura italiana della prima metà del secolo, con particolare attenzione alla pittura metafisica. Un fare leggero, quindi, che scandisce una narrazione pittorica pensata più che vista, associando forme naturalistiche che incontrandosi perdono la loro sostanza e creano forme quasi astratte. Il che significa trasformare lo spazio in spazio delle cose e narrare ciò che si pensa. Due percorsi che vogliono ripensare due fenomeni importanti dell’arte italiana tra le due guerre: il Realismo magico di Guidi, Donghi e Trombadori e la Metafisica di De Chirico: «Nulla sine narratione ars», scriveva de Chirico. «Entrò un’ape. Mossi la testa per guardarla meglio. Sbattendo contro i vetri cominciò a ronzare; ma con un ronzio così dolce che mi fece subito un effetto di benessere. Allora mi ricordai dei fichi maturi e di tutte le altre frutta. Chi sa quale odore giù nei campi! Mi pareva, perfino, di sentir sapore in bocca! L’ape girò da un travicello all’altro, e poi tornò alla finestra!» Federico Tozzi, Bestie, cit.

Avanti negli anni Ottanta, Giuseppe Salvatori cambia la tecnica del suo dipingere: passa alla tempera, che gli consente di affrontare superfici più grandi. Cambia anche la distanza dalle cose: tra se stesso e le cose che pensa di dipingere e tra le stesse immagini che, con sapiente gioco mentale, vengono a incontrarsi e a intrecciarsi sulla superficie della tela. Partecipa alla Biennale di Venezia del 1990 e questa è una tappa importante del suo percorso e un riconoscimento meritato. Nei suoi racconti visivi, diventa più evidente la partecipazione emozionale, seppure controllata, con le sue immagini: animali, insetti, fiori, silhouette di figure, monumenti, elementi architettonici, elementi antropomorfi, che pure si trasformano in altri imprevedibili connubi. Epurate dallo sfumato e dal chiaroscuro, le immagini si danno con l’evidenza delle cose che rappresentano. Il pensiero cattura i loro contorni e in esse si solidifica, portandosi dietro il sentimento della loro esistenza. «Finalmente i tuoni si fecero sempre più lontani; l’aria tornò serena. Lampeggiava ancora sopra la città: ma, dalla parte opposta, era apparso l’arcobaleno così

dolce! Riaprimmo le finestre e poi le porte per escire. Allora un contadino, venendo dalla strada, ci fece vedere una rondine, ancora viva, che il temporale aveva abbattuta. Le sue penne eran bagnate e lucide: pareva stordita, e stava da sé nel cavo della mano, palpitando; ma quasi rassegnata. Provai tanta gioia che battei le mani». Federico Tozzi, Bestie, cit.

All’inizio del nuovo millennio, Salvatori ha optato per i colori acrilici e per dei supporti che, a dispetto di una presunta neutralità di impatto, contribuiscono con la propria struttura naturale a dare il là alla sua poetica: i legni naturali. Tavole di pioppo chiarissimo suggeriscono un percorso figurato che poi il pensiero dell’artista fa germogliare in attimi di vita vissuta, condensati in poche immagini, che pure mantengono nel loro criptico intreccio ogni minima individualità di contorno, quindi di esistenza. Rivivere le emozioni non può prescindere dal rappresentarsi le cose, stratificate nella memoria, che quelle emozioni hanno provocato. Ecco che il cipresso si associa all’obelisco di piazza del Popolo o che il germogliare delle rose avvenga in precisi punti della geografia della sua memoria. I colori sono netti, decisi eppure mai arroganti. Il segno nitido, trasparente, mai confuso. L’idea, mai certa e tuttavia precisa nel suo offrirsi, alla fine nell’opera finita. Le suggestioni dell’artista, covate nel suo mondo interiore, sono le stesse del poeta. Il linguaggio è diverso, ma la poesia può essere scritta anche senza parole e perfino… dipinta. La serie Diomira è l’exemplum dell’universo interiore di Salvatori. Ecco perché ha illustrato tanti libri: da Bestie di Federico Tozzi a Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo fino ad Angelo con intorno contadini di Stevens. In tutti questi casi (e in altri), l’assonanza, il comune sentire unisce certi uomini nei sentimenti e anche nel fare, qualunque sia il loro destino di artisti: scrittori, poeti, pittori. «La siepe, addirittura nera, tagliava le spiazzate dei campi, verdi o arati, l’uno accanto all’altro, l’uno addosso all’altro. Gli uccelli volavano con un volo sempre più basso, tremolando un poco; impauriti delle quattro nuvole, quasi quadrate, che avevano coperto il tramonto: le quattro carte da gioco. Nel Pian del Lago c’era nebbia, a strisce sempre più sovrapposte e larghe; Montemaggio e la Montagnola di un verde più nero della siepe; e voli di colombacci che a stento proseguivano, randelloni, con le ali appiccicate nel cielo d’un turchino che voleva smettere». Federico Tozzi, Bestie, cit.


Artisti a Roma Tre

Le opere d’arte che accompagnano la vita quotidiana Paolo D’Angelo

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Quasi all’inizio di uno dei più celebri racconti di Anton Čechov, Una storia noiosa, il protagonista, un anziano professore di Medicina, va, come sempre da almeno trent’anni, a fare lezione.

«Ed ecco la porta scura, da gran tempo non restaurata, dell’Università. Su di un giovane sbarcato di fresco dalla provincia, e che si immagina che il tempio della scienza sia davvero un tempio, questa porta non può produrre una buona impressione. […] Ecco pure il nostro giardino. Dall’epoca in cui ero studente non è mutato, mi sembra, né in meglio né in peggio; non mi piace. Sarebbe preferibile che in luogo di questi tigli tisici, di queste acacie e di questi lillà magri e ritorti, ci fossero dei grandi pini e delle belle querce. Lo studente, la cui disposizione d’animo è determinata, il più delle volte, da ciò che lo attornia, non deve vedere nel luogo in cui s’impartisce la scienza se non cose elevate, forti e belle. Dio lo preservi dagli alberi magri, dalle finestre rotte, dalle muraglie grigie, dalle porte imbottite di tela incerata a brandelli…»

portanti artisti italiani e stranieri, di quella che ormai è una ricca collezione di opere d’arte contemporanea. In principio fu l’Uomo di Mario Ceroli al Dipartimento di Scienze Politiche; poi sono venuti i due grandi bronzi di Oliviero Rainaldi sullo scalone della Scuola di Lettere, Filosofia, Lingue; la parete destra del grande atrio del Dipartimento di Giurisprudenza è stata in gran parte coperta dalle tavole dipinte che vanno a formare Agorà di Emilio Farina; la Sala delle Lauree al piano terra sempre di Lettere ora ospita tre grandi tondi di Gianfranco Notargiacomo. Il foyer del Teatro Palladium è arricchito dalle opere di Tommaso Cascella e di Giuseppe Salvatori. Il grande corridoio dell’edificio della Vasca Navale, che ospita il Dipartimento di Ingegneria, è ormai una galleria popolata di grandi tele di Jonathan Hynd, Omar Galliani, e ancora Cascella e Notargiacomo. E sicuramente ci saranno (alcune sono già in corso) altre acquisizioni, così che i locali dell’Ateneo continueranno a popolarsi di queste vive presenze.

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Troppe volte, nel secolo scorso, il museo, intendo dire l’istituzione museale, soprattutto il museo d’arte, è salito sul banco degli imputati. Da Paul Valéry a Hans Georg Gadamer, da Nelson Goodman a Peter Sloterdijk, contro il Museo si è detto di tutto: che recide il legame tra le opere e il loro contesto, impedendo di apprezzarle nella loro funzione originaria; che accumula gli oggetti artistici con criteri storico-filologici che Proprio così, e lo non sono i più favosappiamo oggi ancor revoli per la fruizione «Lo studente, la cui disposizione d’animo meglio che ai tempi da parte del visitatore; è determinata, il più delle volte, di Čechov: per una che spesso (in partida ciò che lo attornia, non deve vedere nel luogo colare nell’Ottocento) buona vita universitaria sono necessari allestisce il proprio in cui s’impartisce la scienza spazi di studio e di percorso con un critese non cose elevate, forti e belle» aggregazione che rio epico-celebrativo siano ampi, salubri, per ragioni identitarie luminosi, funzionali. Ma Nikolaj Stepànovič, il profeso nazionalistiche che ci appaiono obsolete. Il museo è sore della novella di Čechov, ci dice qualcosa di più: stato accostato, irriguardosamente, al penitenziario e al che lo studente, nei luoghi in cui studia, dovrebbe vemanicomio, al cimitero ma anche al bordello. Impiedere cose elevate, forti e belle. tose ricerche empiriche hanno calcolato il tempo che Roma Tre, che va perseguendo da anni una politica il visitatore medio dedica ai grandi capolavori esposti edilizia espansiva, per dotare tutte le sedi di spazi adein un museo: pochi secondi, e altrettanto impietose inguati, e che ha intrapreso da un lato un’opera di riquadagini hanno verificato che il visitatore medio non è in lificazione di importanti edifici del quadrante Ostiengrado spesso di citare, all’uscita della galleria una sola se, dall’altro di realizzazione di nuove costruzioni di tra le opere che ha visto o meglio che avrebbe dovuto elevata qualità architettonica, non si è arrestata, per vedere. cosi dire, all’indispensabile, e ha fatto un passo verso Può darsi che tutto ciò sia vero, anzi è vero senz’altro; le cose elevate, forti e belle dotando le proprie sedi, ma non riguarda per nulla le opere raccolte a Roma Tre, grazie alle donazioni, ai comodati e ai prestiti di ime non perché si tratta di opere di arte contemporanea

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Omar Galliani, opere varie, 1986-1989, Dipartimento di Ingegneria, disimpegno principale

(un’arte che ha, ad evidenza, un rapporto col museo del tutto diverso da quello dell’arte del passato), ma per una ragione più radicale: le opere esposte nelle varie sedi non costituiscono in nessun modo una raccolta museale, ma anzi ne sono la più piena antitesi. Basta riflettere un momento sulla collocazione di queste opere per rendersene conto. L’ultimo, in ordine di tempo, dei critici del museo appena ricordati, Peter Sloterdijk, afferma che il museo è il luogo dell’estraneità, e che ogni visita a un museo è un esercizio di xenologia. Ma le opere esposte a Roma Tre sono invece proposte innanzi tutto alla familiarità con i frequentatori degli spazi universitari, in primis agli studenti. I quali incontrano quotidianamente le opere raccolte, transitando negli atri e nei corridoi dei loro Dipartimenti, assistendo alla discussione di tesi di laurea, andando la sera a vedere gli spettacoli al Teatro Palladium. Non per nulla, dall’elenco sommario fatto prima ho escluso proprio le opere con una collocazione più appartata e più tradizionale, come quelle di Michael Michaeledes o di Marino Haupt, negli spazi del Rettorato. Dal punto di vista dell’esperienza che se ne fa, le opere raccolte a Roma Tre non assomigliano in nessun modo a quelle che si incontrano nei musei, ma ricordano piuttosto il rapporto che abbiamo con le opere che stanno nelle nostre case. E se qualcuno obiettasse che l’esperienza che ne fanno gli studenti è un’esperienza distratta e per così dire automatica, un po’ come quella che

abbiamo dei quadri alle pareti dei nostri appartamenti, sarà facile rispondergli che questo è indubbiamente vero, ma che spesso proprio questa fruizione distratta e indiretta è quella che agisce più profondamente: basti pensare al modo in cui facciamo esperienza della maggior parte degli edifici architettonici, quando non li visitiamo col reverente timore con cui entriamo in una cattedrale o in un tempio greco. Familiarità vuole dire anche imparare a convivere con le opere d’arte, a rispettarle e ad amarle non come epifanie eccezionali, ma come presenze che ci accompagnano anche nella vita ordinaria.

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In tema di familiarità, bisogna infine segnalare che le modalità scelte da Roma Tre per la propria “collezione” di opere d’arte contemporanea puntano a superare l’estraneità non solo dalla parte del fruitore, ma anche dalla parte del produttore, dell’artista. Mentre la musealizzazione consueta segna normalmente la rottura del rapporto tra autore e opera, quel rapporto che in qualche modo l’esposizione nella galleria privata o l’acquisizione in una collezione ancora mantengono, al punto che anche questa rottura è diventata uno dei rimproveri consueti rivolti alla organizzazione del museo, Roma Tre cerca in ogni modo di mantenere saldo il legame non solo con l’opera, ma anche con l’artista. Lo fa acquisendo non pezzi isolati ma più opere della medesima mano, lo fa garantendo all’artista la possibi-


Dal punto di vista dell’esperienza che se ne fa, le opere raccolte a Roma Tre non assomigliano in nessun modo a quelle che si incontrano nei musei, ma ricordano piuttosto il rapporto che abbiamo con le opere che stanno nelle nostre case. E se qualcuno obiettasse che l’esperienza che ne fanno gli studenti è un’esperienza distratta e per così dire automatica, un po’ come quella che abbiamo dei quadri alle pareti dei nostri appartamenti, sarà facile rispondergli che questo è indubbiamente vero, ma che spesso proprio questa fruizione distratta e indiretta è quella che agisce più profondamente

lità di intervenire in spazi elettivi (ieri il Teatro Palladium per Cascella, domani l’aula Magna della Scuola di Lettere, Filosofia, Lingue per Galliani). Ma lo fa anche seguendo i “propri” artisti in iniziative fuori dalle mura dell’Ateneo, come le mostre di Rainaldi e quella di Galliani in uno dei luoghi architettonicamente più suggestivi di Roma, il tempietto del Bramante e la vicina accademia di Spagna a Roma. Lo fa, soprattutto, rinsaldando il legame con gli artisti dando loro l’opportunità di avere occasioni di scambio e di incontro con tutta la comunità accademica. Non solo e non tanto le mostre temporanee, quanto il conferimento del titolo di Accademico di Roma Tre. Si tratta di un riconoscimento che hanno ottenuto prima Mario Ceroli, sulla cui opera Roma Tre ha anche realizzato un video, poi

Tommaso Cascella, Omar Galliani, Jonathan Hynd e Gianfranco Notargiacomo nell’aprile dello scorso anno, e ancora, nel Novembre del 2016, Emilio Farina, Michael Michaeledes (in memoriam), Luca Maria Patella, Oliviero Rainaldi e Giuseppe Salvatori. Al di là del riconoscimento, e della cerimonia, si tratta di un modo di mantenere vivo il dialogo con l’artista. Certo, in questo caso il rapporto si consolida soprattutto con i docenti e gli esperti d’arte, e gli studenti sono meno coinvolti. Ma qualcosa arriva fino a loro. E poi, in definitiva, non è anche ai docenti e alla comunità accademica tutta che l’ambiente universitario deve sforzarsi di assicurare, per riprendere un’ultima volta le parole di Čechov, oltre alle cose necessarie, «cose elevate, forti e belle»?

Gianfranco Notargiacomo, Il caos e i giganti (storia astratta della filosofia), 1995, Dipartimento di Scienze politiche, ingresso

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«Happiness is expensive»* The art in interplay with everyday routine Florian Elliker The University of St. Gallen (HSG) is spatially spread out across the town of St. Gallen, with quite a few departments having rented office spaces in diverse locations in the city. The center of the university – hosting most of the administration and many of the lecture foto © Niklaus Reichle halls – is located on top of one of the hills that overlook the city and consists currently of two sites: the further education center (1995) and the main campus, the latter consisting of a library building (1989) and a core set of buildings first built on the site at the beginning of the 1960s.1 It is this initial set of buildings used since 1963 that established a specific tradition of relating art to architecture, a tradition that continues to inform discussions about buying and placing art in the university spaces: art at the HSG is

strongly linked to and needs to be understood within its built architectural environment. There is a specific aesthetic quality when approaching and entering the complex of loosely connected buildings that constitute the center of the university. Large uncluttered faces of seemingly “raw” concrete appear “en masse”, alternating with equally large stretches of the outer façade that are composed of dark metal structures and window strips. The concrete is textured by the wooden sheeting used during construction. There is not a single round shape to be discovered: the whole structure is entirely composed of straight lines and – with very few exceptions – right angles. From the hallway lamp to the inner arrangement of floors to the outer shape of the buildings: rectangular and square elements only. Entering the main building, one finds herself in a large foyer, cast in semi-darkness despite extensive window areas. Part of this hall extends without ceiling to two of the three upper floors, the open space dominated by the massive freestanding concrete staircase that spirals its way up – one of the few exceptions where diagonal lines add a dynamic element to the massiveness of the structure. In short: the aesthetics acknowledge the heaviness and mass of the building materials, a bold structure with sculptural qualities displaying traces of its construction2 - in its radicalness a distinct break with the previous spaces the university was located in. At the same time, this radical aesthetics of clear cut and straight lines was meant to signify a specific vision of what the work done at universities consisted of, namely rational and coherent thinking, inward reflection, and striving for utmost clarity and consistency. The project name chosen for the architectural competition was ‘tête’ (the head), particularly well symbolized by the top floor of the central building, also called the crown. The crown originally hosted the library and

Alberto Giacometti, © University of St. Gallen * Much of the information for this article is based on the Art in Architecture guide, published by the University of St. Gallen and available on its website in English and German (www.unisg.ch). 1 Main building: Walter M. Förderer (1928-2006), Georg Otto (1924-2003), Hans Zwimpfer (1930–2012); Library Building (1989) and Further Education Centre (1995): Bruno Gerosa (*1928). 2 An architectural style also referred to as Brutalism, originating in the 1950s and 1960s.


Alexander Calder, © University of St. Gallen - Hannes Thalmann

was – for this very purpose – only endowed with skylights, preventing any distraction that the views over the city were thought to have generated. Not only does the architectural conception convey a clear vision of what the scientific endeavor was imagined to be, it combines «an appreciation of the university as a noble institution of education with a certain sense of monumentality» (Art Guide, p. 22). Art is positioned in a dialectical relationship to the architectural environment, a contrast to the massiveness, straight lines, and rectangular shapes, a contrast to the symbolic expression of rationality, coherence, consistency, and clarity. The art pieces – and only the art pieces – consist of organic, round, irregular, figurative shapes, symbolizing amongst other domains the non-rational, spontaneity, and the fantastic.3 The art, however, even though in stark

contrast or opposition to the building structure, was not meant to be simply “added” or to be “on display”; rather, many of the art pieces in the main building were integrated into the architecture from the beginning, either produced on site or produced off-site, but with the specific characteristics of the architectural environment in mind.4 Approaching the terrace of the main building, one encounters a group of sculptures5, made of the same material as the concrete wall towering behind them, their surface structure, however, coarser and more uneven than that of the buildings. Located on a small green lawn, the organically shaped sculptures suggest a connection to nature, from which the wall supporting the terrace seems sharply disconnected, and in their taken-for-grantedness of the asymmetrical form pose a counterpoint to the straight and even large face behind

Art is positioned in a dialectical relationship to the architectural environment, a contrast to the massiveness, straight lines, and rectangular shapes, a contrast to the symbolic expression of rationality, coherence, consistency, and clarity. The art pieces – and only the art pieces – consist of organic, round, irregular, figurative shapes, symbolizing amongst other domains the non-rational, spontaneity, and the fantastic 3 Many of the artists who created these art pieces are associated with Surrealism. 4 Thanks to a very small number of individuals dedicated to contemporary art, particularly Walter Adolf Jöh and Eduard Nägeli, and the successful cooperation with the architects, an outstanding collection of art pieces was assembled in only six years (Art Guide, p. 15). 5 Untitled work (11 parts, concrete) by Alicia Penalba (1913-1982)

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them. Once upon the terrace from which one enjoys a view over the city, the sculptures below invite one’s gaze in a playful manner to wing into the large open space over the valley of St. Gallen. Turning on the terrace away from the city towards the main building, a bronze sculpture6 comes into sight, standing next to a pond on one of the many concrete cubes spread over the terrace. Where the concrete surface of the terrace and the cubes do not leave much room for imagining organic growth and form, the bronze figure grows into the sky in a tree-like shape, consisting of uneven yet clear-cut bowls that are mounted upon each other, suggesting natural growth and the interruption thereof at the same time. Once in the building, one finds, somewhat hidden in the semi-darkness of the hall, a ceramic frieze7 mounted on the wall above some of the ground-floor offices, extending across the entire length of the wall. In contrast to the grey concrete surroundings, the panels radiate a soft light, their ochre background shades interwoven with fields of bright colours that highlight dark forms reminiscent of Far Eastern calligraphy, forms that are hardly constrained by the panels as they sometimes seem to dissolve into ever smaller particles. Due to the placement in the hall, the frieze interacts with the architecture in a specific

way: «Since there is no overall view of it, one is prompted to consider it in sections, to change vantage point, to read the black characters as a sequence rather than in synoptic purview as when studying an image from the front» (Art Guide, p. 44). Amongst one of the major elements obstructing the view is the central staircase. Heading up this staircase, one encounters a set of red floating steel panels8, suspended in the air like a mobile. Composed of heavy material yet seemingly weightless, the panels move with the air, which in turn used to be set in motion by the large flow of people heading up and down the staircase and entering the building through the main door. While the static staircase, a massive pillar, evokes a sense of stability, the mobile composition is based on movement and flow, dynamically changing how the panels are situated to each other and to the winding staircase. Reaching the top floor, the so-called crown formerly hosting the library, a woman stands9 next to the stair case. Prominently placed for anybody entering the staircase on the way down, she is surprisingly easily overlooked when one is hurrying up, headed for what are nowadays study spaces. Only 59 cm in height and condensed to an uncomfortable degree of slenderness, she seems to be lost on her large square concrete foundation, lit

Hauptgebäude Aussen, © University of St. Gallen - Hannes Thalmann 6 7 8 9

Schalenbaum by Hans Arp (1886-1966) (French title: coupes superposées) Ceramic frieze by Joan Miró (1893-1983) in collaboration with ceramic maker Josep Llorens i Artigas (1892-1980) Untitled work (sheet metal) by Alexander Calder (1898-1976) Standing women by Alberto Giacometti (1901-1966)


Luftaufnahmen Hauptgebäude, © University of St. Gallen - Hannes Thalmann

In the main building the art is integrated into the architecture to such an extent that it is easily moved into the perceptual background of one’s everyday routines, particularly when focused on “daily business” or maybe not overly sensitised to art. Signs and markers that these are indeed art pieces are small, inconspicuous, and hard to discover. yet also exposed by a skylight above. As if her entire existence was compressed into her sculptural core, the uneven, rough, and disproportionate figure may evoke a sense of being distorted by forces larger than oneself, forces to which one is unwillingly exposed; instead of eyes there are large gaps, creating the impression of an emptied and haunted face, worried about her existential torment and about acknowledging the full extent of it. If one was to continue this tour to the library building (1989) – in addition to the library hosting one the largest lecture halls – the changes in art and architecture would become obvious: the building consists of and displays a seemingly more eclectic combination of a wider range of colours and shapes, has a lighter and more transparent atmosphere to it with the passage way setting the “tone”, covered by a glass roof, open

10 14 video works by Roman Signer (*1938)

to its surroundings. While the main building’s top is a closed concrete cube, the library building features a less dominant roof element, a glass pyramid that serves as skylight in the center of the library. Unlike the main building in which art and architecture were conceived as dialogue between clearly delineated positions, the newer building allows for an interweaving of architecture and art, at times softening and dissolving the boundaries between the two domains. Returning from the library building to the main building again, one passes through an underground concrete passage in which videos10 are projected against one of the walls. The more dialectical relationship of architecture and art becomes evident again: the videos capture, amongst other phenomena, movement and action and thereby extend sculpting to include moments of rapid and abrupt change, to include

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Architektur Hauptgebäude, © University of St. Gallen - Hans-Peter Schiess

the explosion of existing structures and relations, to include seemingly random yet implicitly governed acts of (self-)destruction and material erosion to the point where action comes to a halt. Thus, art in the initial set of buildings suggests a connection to nature, shapes concrete – the dominant architectural material – in a taken-for-granted manner into abstract and irregular forms, alludes to organic yet interrupted growth, resists the notion of a single perspective but forces us to perceive phenomena from different angles, dynamically moves as the atmosphere changes, partially conveys human existence and experience as haunted, and sculpts explosion and change of existing structures – a stark contrast to the massive and static concrete structures shaped by rightangles and straight lines, which exemplify a quest for rationality, coherence, inward reflection, and clarity. In the main building, however, the art is integrated into the architecture to such an extent that it is easily moved into the perceptual background of one’s everyday routines, particularly when focused on “daily business” or maybe not overly sensitised to art. Signs and markers that these are indeed art pieces are small, inconspicuous, and hard to discover. Many students seem only little aware of the sophisticated art and architecture and their dialogical interplay. This has sparked a

11 - Neon writing ‘happiness is expensive’ by Alejandro Díaz (*1945)

controversial discussion of how art is best “invested” in: while some would like to see more efforts to raise awareness for the art amongst the students, others rather see the funds invested in new art pieces. One of the art pieces, however, appears to be more frequently discussed by students, be for its central placement in an underground passage leading to the cafeteria, be it for its light that the neon tubes radiate in the semidark concrete tunnel, the tubes mounted on the wall and shaped into the words “happiness is expensive”.11 Particularly known for its business administration and economics studies and for educating an important segment of the management elite, the university’s discursive atmosphere amongst students is partially shaped by notions of profit, efficiency, rational action, and an entrepreneurial spirit, focusing on individual characteristics rather than structural conditions as causes for personal success and happiness. The piece invites to reconsider this focus, to question the material qualities happiness has come to be associated with in consumerist societies, to interrogate one’s biographical trajectory to be positioned to view such an expensive art piece on a daily basis, to question whether notions of economic efficiency and the so-called “invisible hand” of the market are indeed the best ways to produce and distribute the means to achieve happiness.


L’università per l’arte

Mettere in mostra Roma Tre Vito Zagarrio

«Toglie il fiato camminare in mezzo a tali opere d’arte». Così dice, parlando in voice over, la giovane studentessa protagonista del video di Ateneo A Young University for Young People che presenta Roma Tre a un pubblico internazionale. In questo video, infatti, da me diretto e prodotto dal Centro Produzione Audiovisivi, c’è una sequenza dedicata a come nella nostra università siano coniugate le attività accademiche (didattica e ricerca) a un contesto artistico eccezionale. La ragazza protagonista passeggia ammirata lungo il corridoio del Dipartimento di Ingegneria, che assomiglia più a una galleria d’arte che a un luogo universitario, la vediamo poi nell’ampia hall di Giurisprudenza, anch’essa con-

trappuntata di opere d’arte. Opere d’arte che arricchiscono anche alcuni spazi di Scienze politiche, impreziosita in particolar modo da un’opera di Mario Ceroli: un colosso di legno che sembra reggere una parete, creando un effetto dinamico nei confronti della profondità di campo. Ecco, Ceroli. Il video mostra una breve sequenza della speciale onorificenza che l’Ateneo ha attribuito al grande artista (insieme al premio speciale a un altro grande maestro, Tommaso Cascella), a dimostrazione di come l’arte sia un elemento essenziale non solo per adornare gli spazi di una università moderna, ma per far respirare un’atmosfera di alta cultura dove la cultura si fa e si forma. Sull’opera e l’esperienza artistica del grande scultore e scenografo io ho avuto l’onore e il piacere di dirigere un altro prodotto audiovisivo dell’Ateneo: il documentario Mario Ceroli. Una vita per l’arte. Fortemente voluto da Otello Lottini, delegato del Rettore per gli eventi artistici, il video è stato anch’esso prodotto dal CPA, con la fotografia di Antonio Di Trapani e Francesco Crispino (due ex studenti del Dams che sono adesso a loro volta docenti di Filmmaking allo stesso Dams, oltre ad essere dei bravi registi) e il montaggio di Marco Venditti.

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Sull’opera e l’esperienza artistica di Mario Ceroli ho avuto l’onore e il piacere di dirigere il documentario Mario Ceroli. Una vita per l’arte. Le telecamere dell’università sono entrate dentro il grande hangar dove sono conservate ed esposte molte opere del grande scultore e scenografo, nel suo studio vicino al raccordo anulare. L’esperienza, per il visitatore, è straordinaria, ma per un regista o un operatore l’esperienza è ancora più intrigante, perché l’obiettivo della telecamera diventa quello di un curioso voyeur, che spia dentro i dettagli della vasta e variegata opera di un artista geniale. Le telecamere dell’università sono entrate dentro il grande hangar dove sono conservate/esposte le molte opere di Ceroli, nel suo studio vicino al raccordo anulare. L’esperienza, per il visitatore, è straordinaria, perché attraversa la carriera e l’opera di un grande artista. Ma per un regista o un operatore l’esperienza è ancora più intrigante, perché l’obiettivo della telecamera diventa quello di un curioso voyeur, che spia dentro i dettagli della vasta e variegata opera di un artista geniale. Nel nostro caso, lo stesso Mario Ceroli faceva da guida dentro la sua opera. Avevo scelto, infatti, di non fare un reportage tradizionale, con la consueta intervista all’artista e il montaggio del materiale di repertorio, ma di affidare allo stesso artista il compito di condurre lo spettatore nel suo viaggio speciale dentro “una vita per l’arte”.

Seguendo Ceroli dentro i meandri del suo spazio espositivo, ne ho potuto apprezzare la naturale simpatia, l’ironia, il sorriso franco. E al tempo stesso la delicatezza con cui accarezza alcune superfici del suo legno, o lo sguardo che segue le curve delle sue onde o dei suoi cavalli. Un grande artista, ma anche una persona straordinaria, che il Rettore Panizza ha giustamente voluto premiare con il titolo di “Accademico dell’Università degli Studi Roma Tre” (31 marzo 2016; in questo ultimo biennio, sono stati premiati, con Ceroli, altri artisti: Emilio Farina, Michael Michaeledes - in memoriam - , Luca Maria Patella, Oliviero Rainaldi, Giuseppe Salvatori, Omar Galliani, Jonathan Hynd e Gianfranco Notargiacomo, oltre al già citato Tommaso Cascella). Dicevo delle emozionanti riprese. Ma ovviamente è stato il montaggio il momento importante di


Nelle foto: fotogrammi tratti da Mario Ceroli. Una vita per l’arte (per gentile concessione di Vito Zagarrio)

creazione e di finalizzazione. Un montaggio basato sulla musica e sugli attacchi musicali che contrappuntano l’investigazione delle immagini di Ceroli. Le musiche sono: Sergej Vasil’evič Rachmaninov - Piano Concerto n° 2, C minor, Op.18 - II. Adagio Sostenuto; Sergej Vasil’evič Rachmaninov - Piano Concerto n° 2, C minor, Op.18 - I. Moderato; Sergej Vasil’evič Rachmaninov - Six Morceaux for piano duet, Op.11. Franco Battiato - La Cura. Rachmaninov perché Ceroli gli ha fatto un esplicito omaggio; Battiato perché l’ultima ricerca dell’artista è stata proprio ispirata dalla musica del cantautore siciliano. Il video si chiude dunque sulle note di Battiato che commentano le Onde gravitazionali di Ceroli. Un modo per accostare due mondi apparentemente diversi, ma complementari. Ceroli è attento all’avanguardia, ma anche al “popolare”, come del resto Battiato. Come Battiato è un raffinato artista, ma anche un sublime artigiano. D’altra parte, per meglio entrare dentro il mondo di Ceroli, rimando all’intenso testo di presentazione di Otello Lottini pronunciato in occasione del conferimento del titolo di Accademico dell’Università degli Studi Roma Tre: «Ceroli progetta la forma come sintesi di materia, luce e colore, ne seleziona i valori essenziali, che inserisce nelle opere o negli spazi su cui interviene, consentendo al fruitore una percezione

più lucida del reale e avvolgendolo in una atmosfera estetica diffusa, che ne aumenta il benessere psicofisico, al di là delle frivolezze o delle stravaganze espressive, con cui ci circonda spesso l’arte contemporanea. In questo senso, l’arte di Ceroli provoca nel fruitore nuove emozioni e nuovo sapere, suscitando una vitalità organica potenziata, una espansione virtuale di energie e una liberazione della fantasia e dell’immaginazione. Con le sue opere, insomma, Ceroli produce oggetti-valore come modelli ideali, in una visione umanistica e spirituale della vita e della cultura. Ed essi costituiscono un patrimonio da conservare, curare e tramandare alle generazioni future». Per concludere, dirigendo sia il video su Ceroli che quello promozionale dell’Ateneo, ho avuto modo di toccare con mano le bellezze di Roma Tre. Si percepisce il senso di un’arte diffuso, che sta da un lato nella presenza fisica delle opere d’arte che popolano gli spazi dell’università; sia nella riflessione sulla bellezza che l’architettura dell’università impone: gli edifici riciclati (il Mattatoio, la Vasca Navale, la Vetreria, l’Alfa Romeo, una fabbrica di strumenti ottici, una fabbrica di paracaduti), le strutture postindustriali, il restauro e la trasformazione del vecchio nel nuovo conservando il sapore dell’antico, tutto ciò rende “bello” studiare a Roma Tre, e rende orgogliosi di farne parte.

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Il museo come luogo di apprendimento Una ricerca sulla fruizione dell’arte negli studenti universitari Stefano Mastandrea Il museo ha la funzione di promuovere il lavoro di conservazione, tutela e recupero del patrimonio culturale di una comunità. In senso lato ha il compito di diffondere conoscenze specifiche: artistiche, storiche, scientifiche e tecniche. L’istituzione museo può essere inserita all’interno di un sistema culturale che ha le sue fondamenta nel sistema scolastico di ogni livello (Hooper-Greenhill, 2005). Ma il museo è considerato comunemente uno spazio formativo-culturale esterno al settore dell’educazione tradizionale; comporta modalità di apprendimento di tipo informale, alternative e complementari a quelle scolastiche (Nardi, 1999). Il museo non è né intrattenimento né aula scolastica; è un luogo dove avvengono conoscenze, scoperte, dove si attiva l’immaginazione e la curiosità e dove viene

promossa la riflessione intellettuale. La visita al museo dovrebbe sollecitare un rapporto interattivo con gli oggetti esposti allo scopo di attivare un processo di costruzione e di conoscenza relativa a eventi artistici, storici, scientifici e tecnologici (Antinucci, 2004). Il museo svolge inoltre una funzione educativo-formativa attraverso la promozione di modalità di apprendimento che si possono realizzare lungo tutto l’arco della vita di una persona (Nuzzaci, 2002; Vertecchi, 1997). Non da ultimo il museo partecipa alla costruzione e all’acquisizione dell’identità individuale e sociale di un popolo; le opere esposte in un museo sono l’espressione della peculiarità di una comunità a diversi livelli: locali, regionali, nazionali e internazionali. È opinione comune che i giovani (in particolare gli adolescenti) non abbiano una forte attrazione per il museo e che da questo elemento ne consegua una frequentazione da parte loro piuttosto scarsa (Bollo, Gariboldi, 2008). Partendo da questo assunto, abbiamo voluto verificare con un’indagine quale fosse l’atteggiamento e la reale frequenza museale di un campione di studenti dell’Ateneo Roma Tre (Mastandrea, Maricchiolo, 2016).

Il museo non è né intrattenimento né aula scolastica; è un luogo dove avvengono conoscenze, scoperte, dove si attiva l’immaginazione e la curiosità e dove viene promossa la riflessione intellettuale. La visita al museo dovrebbe sollecitare un rapporto interattivo con gli oggetti esposti allo scopo di attivare un processo di costruzione e di conoscenza.

La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea (Roma)


È opinione comune che i giovani (in particolare gli adolescenti) non abbiano una forte attrazione per il museo e che da questo elemento ne consegua una frequentazione da parte loro piuttosto scarsa La ricerca una rappresentazione fredda considerandolo un luogo Il campione era composto da 522 studenti (57% donne, distante e non confortevole. media di 22,9 anni ) provenienti da quattro Dipartimenti dell’Ateneo Roma Tre: Giurisprudenza, Ingegneria, Le visite museali negli ultimi dodici mesi Lingue, letterature e culture straniere e Scienze della Complessivamente il 24,5% degli studenti non ha viformazione. La ricerca è stata condotta attraverso sitato alcun museo negli ultimi dodici mesi. Articolato la somministrazione di un questionario, creato tra i quattro Dipartimenti risulta che non ha varcato la appositamente, con domande sia chiuse che aperte. porta di un museo negli ultimi dodici mesi: il 15,2% Nelle domande si chiedeva di fornire una definizione degli studenti di Giurisprudenza; il 18,1% degli studi museo (domanda aperta), il numero di musei visitati denti di Lettere e Filosofia; il 26,8% degli studenti di negli ultimi dodici mesi e una spiegazione della Ingegneria; il 34,5% degli studenti di Scienze della mancata visita per coloro che non avevano visitato Formazione (in tabella 1 sono riportate le percentuali nessun museo. Le due domande aperte prevedevano una articolate per il numero di visite). Circa un quarto del risposta scritta di circa tre righe. L’elaborazione delle campione non ha dunque mai visitato un museo negli risposte è stata condotta attraverso un’analisi testuale ultimi dodici mesi e, trattandosi di studenti universitadel contenuto mediante l’impiego del software Spad-T ri, questo è un dato sicuramente rilevante. (Systéme Portable pour l’Analyse des Données Textuelles, software statistico utilizzato per l’analisi N. di visite Zero 1 2-3 4-6 7-9 10 o più esplorativa di dati testuali). Dipartimenti

Definizione di museo Giurisprudenza La rappresentazione del museo che emerge dalle risposte fornite Lettere dagli studenti può essere classifiIngegneria cata in tre categorie: 1) Definizione calda. Il museo è Sc. Formazione visto come un laboratorio attivo in cui sono messe in mostra le opere, dove si riscontra una buona interazione col pubblico, e come un luogo che permette al visitatore di comprendere il significato dell’arte attraverso differenti modalità didattiche (pannelli, didascalie etc.). 2) Definizione fredda. Il museo è considerato uno spazio dove le opere sono semplicemente conservate ed esibite; detto con le parole di un partecipante: «il museo mi dà l’idea di collezionare il passato». Altri hanno definito il museo come un luogo noioso e distante. 3) Infine il museo come Sistema culturale di conoscenza. I processi di apprendimento, secondo gli studenti che ricadono in questa definizione, si svolgono nel museo attraverso una modalità di conoscenza di tipo informale che parte dall’esperienza visiva delle opere e degli oggetti esposti. Si tratta di un luogo dove la creatività può essere sviluppata. Le persone che definiscono il museo con una definizione calda e con la rappresentazione dei processi di apprendimento sono quelle in grado di apprezzare l’esperienza della visita perché si sentono più a loro agio in questo contesto, rispetto alle persone che definiscono il museo attraverso

15,2%

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Tabella 1. Percentuale delle visite in musei o gallerie negli ultimi 12 mesi da parte degli studenti dei quattro Dipartimenti.

Per quanto riguarda le tipologie di musei visitati, si è riscontrata complessivamente una maggioranza di frequentatori dei musei di arte moderna e contemporanea, espressione di linguaggi che gli studenti sentono più vicini al loro mondo. I musei di scienza e tecnica sono maggiormente frequentati dagli studenti di Ingegneria. Motivazioni alla non visita Alle persone che non hanno mai visitato un museo negli ultimi dodici mesi (come abbiamo visto, circa un quarto del campione), abbiamo chiesto di spiegarne le ragioni con una domanda aperta. Attraverso l’analisi del contenuto e delle componenti principali siamo stati in grado di sintetizzare le risposte nelle seguenti tipologie: mancanza di interesse, mancanza di tempo, mancanza di opportunità, mancanza di persone con cui andare, mancanza di informazioni, elevato prezzo del biglietto. Dai dati emerge che una parte del campione (minoritaria) non esprime alcun interesse verso l’espe-

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Il museo MAXXI, Museo nazionale delle arti del XXI secolo - Zaha Hadid (foto: Antonella Profeta https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)

L’esposizione a opere d’arte in contesti non tradizionali, come i luoghi di studio e di lavoro universitari, rappresenta un’occasione di avvicinamento involontario al mondo dell’arte rienza della visita museale. D’altra parte ci ha sorpreso positivamente, nell’analizzare una parte delle risposte, il fatto che numerosi partecipanti affermino di non andare al museo per mancanza di occasioni; un partecipante ha risposto: «perché non ho avuto occasione ma non mi dispiacerebbe farlo». La mancanza di occasioni indica il desiderio di condividere socialmente l’esperienza della visita. Una delle cause della non-visita è attribuita anche al costo elevato del biglietto. Discussione e conclusioni Possiamo leggere i dati in una duplice maniera: il 75% circa del campione ha visitato almeno un museo negli ultimi dodici mesi. I dati internazionali sulla frequenza museale riportano percentuali molto più basse (Mason, McCarthy, 2008; Williams, Keen, 2009); è dunque un buon dato. Rimane una percentuale del 25% che però non ha mai visitato un museo nell’ultimo anno. Trattandosi di studenti universitari è un dato non molto confortante. Si tratta di studenti che vivono a Roma o che la frequentano quasi quotidianamente. Per molti giovani potrebbe essere difficile fare distinzioni tra l’idea del museo e quella di scuola/università (Baldoni Brizza, 2007). Molto spesso viene implicita-

mente operata un’associazione tra queste due istituzioni. L’apprendimento formale, strutturato, che si svolge nella scuola/università corre il rischio, agli occhi dei giovani, di essere percepito anche nella modalità didattica informale che si esplica nel museo. I ragazzi passano buona parte del proprio tempo a studiare e imparare; l’approccio sostanzialmente educativo e didattico dei musei potrebbe essere vissuto come un carico di lavoro aggiuntivo e come tale non attraente. Una possibilità di modificazione di questo atteggiamento, al fine di promuovere e incrementare le visite museali, dovrebbe provenire dalla scuola, possibilmente sin dalle elementari, attraverso l’inserimento nei programmi scolastici di momenti istituzionalizzati rivolti in maniera più incisiva al contatto con l’arte. Ciò per consentire di far crescere nei giovani allievi interesse e passione nei confronti dell’arte così da avvicinarli in modo naturale all’esperienza estetica. L’esposizione a opere d’arte in contesti non tradizionali, come i luoghi di studio e di lavoro universitari, rappresenterebbe un’occasione di avvicinamento involontario al mondo dell’arte. Questo approccio potrebbe creare le condizioni di curiosità, interesse e desiderio di conoscenza capaci di spingere l’osservatore a continuare e approfondire il proprio rapporto con l’arte.


Il teatro nell’aula

Il docente universitario e l’artista di strada Gilberto Scaramuzzo

Viene facile notare che spesso le aule in cui facciamo lezione sono allestite come spazi teatrali. Ci sono tante seggiole per gli spettatori rivolte verso un palco, più o meno grande, dove prenderà posto chi insegna. Oppure si riprendono le linee essenziali di un teatro greco, con l’orchestra posta in basso, quale spazio dove agisce il docente, e l’area destinata agli spettatori realizzata con sedute in salita graduale. E molte sono le caratteristiche di un buono spettacolo teatrale che possiamo ritrovare in una lezione ben riuscita. La costituzione di uno spazio sacro d’ascolto. Una comunione di presenze fisiche e spirituali. Un luogo che si abita con la ragione e con il sentimento. Aristotele nella Poetica descrive sinteticamente quel che caratterizza un’opera teatrale tragica. Questa è una creazione – una poiesi – che attraverso paura e pietà ha la forza di suscitare la catarsi nello spettatore. Se estendiamo il senso di paura e pietà riconoscendoli come luoghi di intensa compartecipazione umana; dove la paura è quella profonda di rimanere nell’ignoranza e di sprecare la propria umanità, o quella di entrare in uno spazio smisurato senza la certezza di poter ritrovare una propria misura; e pietà è quell’empatia con cui partecipiamo al sentimento dell’altro, ma anche al suo pensiero (e al movimento del suo pensiero); ecco possibile riconoscere la lezione universitaria come un agire che raggiunge la perfezione quando da essa si genera una purificazione negli allievi (e nei docenti) che vi prendono parte; purificazione che possiamo anche leggere come una ri-armonizzazione tra il mistero del vivere e del pensare umano con il mistero dell’universo di cui siamo parte. E se pensiamo alla formazione dell’attore così come la declinava il grande maestro del teatro italiano, Orazio Costa Giovangigli, è facile vedere come questa formazione costituisca un metodo per guadagnare quei caratteri umani che rendono bello e buono l’agire non soltanto di chi è attore ma anche di chi è docente.

Orazio Costa, che era stato, a sua volta, allievo di Jacques Copeau, in continuità con il suo maestro, riteneva che la formazione dell’attore debba essere, prima di tutto, una formazione pre-occupata dell’umanità di quell’essere umano che salirà su un palcoscenico: la sua umanità, infatti, dovrà essere così vasta, e così capace di penetrare nelle profondità più autentiche, da poter consentire all’artista di dar vita sulla scena ai personaggi nati nelle fantasie di autori di ogni luogo e di ogni tempo. Con questi intenti, Orazio Costa, ideò, e sviluppò attraverso le ricerche di una vita, il suo Metodo mimico. Costa insegnava ai suoi allievi: a essere quel che si dice; a esprimere in modo da essere intesi; a parlare celebrando la parola affinché questa rinasca dal silenzio e costruisca dialogo; a servire il testo dell’autore rendendosi simile con tutto il proprio esserci a quello svelamento che ogni capolavoro dell’arte teatrale secerne nelle parole dei personaggi, al fine di accendere nel pubblico un ri-conoscimento di una verità che nutra la nostra umanità. Ma se tutto ciò è nobile, e seppure queste analogie tra il fare in ambito teatrale e il fare di chi insegna possano dare un contributo non irrilevante per ripensare al nostro essere docenti; se ascoltiamo quello che afferma, intorno alla difficoltà dell’insegnare, un docente eccellente quale era Heidegger ci rendiamo conto che, forse, serve ancora altro: «Infatti. Insegnare è più difficile che imparare. Lo si sa bene; ma non ci si pensa spesso. Perché insegnare è più difficile che imparare? Non perché chi insegna debba possedere una quantità maggiore di conoscenze che deve in ogni momento avere a disposizione. Insegnare è quindi più difficile che imparare, perché insegnare significa: far imparare. Chi propriamente insegna non fa imparare null’altro che questo imparare. Per questo motivo spesso la sua azione dà l’impressione che presso di lui non si impari propriamente nulla, finché con la parola “imparare” si intende inavvertitamente soltanto l’acquisizione di conoscenze utili. Chi insegna precede i discenti unicamente per il fatto che deve imparare anche più di loro, dovendo imparare il far imparare. Chi insegna deve poter essere più docile dei discenti. Chi insegna è molto meno sicuro del fatto suo di quanto non lo siano i discenti del loro. Per questa ragione, nel rapporto tra chi insegna e chi impara, se il rapporto è vero, non entrano mai in gioco né l’autorità di chi sa molto, né l’influenza autoritaria di chi occupa una posizione ufficiale. Ed è per la stessa ragione che diventare insegnante resta una cosa elevata, che non ha nulla a che fare col fatto che ci sia un docente di fama» (Heidegger M., Che cosa significa pensare?, Milano, SugarCo, 1978, vol. I, pp. 107-108).

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Spesso le aule in cui facciamo lezione sono allestite come spazi teatrali. Ci sono tante seggiole per gli spettatori rivolte verso un palco, più o meno grande, dove prenderà posto chi insegna. Oppure si riprendono le linee essenziali di un teatro greco, con l’orchestra posta in basso e l’area destinata agli spettatori realizzata con sedute in salita graduale. E molte sono le caratteristiche di un buono spettacolo teatrale che possiamo ritrovare in una lezione ben riuscita Esistono artisti che hanno scelto di praticare una forma d’arte che, a uno sguardo superficiale, potrebbe apparire poco nobile, e il riferimento alla quale, per ripensare l’insegnamento accademico, potrebbe suscitare scandalo; mentre, invece, io credo che da chi pratica quest’arte potrebbero giungerci suggestioni utili per quel che qui interessa. Penso, infatti, che gioverebbe al diventare insegnante, per come l’ha tratteggiato Heidegger, impadronirsi, anche, di alcune delle abilità che sono proprie del teatrante di strada. Come, per esempio, la capacità di far partecipare il

pubblico; o quella di riaccendere la capacità di meravigliarsi; ma anche quella di parlare a persone delle culture le più diverse consentendogli di vivere un sentimento simile; e poi quella di costruire una comunione dove prima era un insieme di solitudini non in relazione; e ancora quella di improvvisare con arte; di conoscere a fondo quel che si presenta ma di costruirlo sempre con il pubblico; di essere, allo stesso tempo, esperti nel proprio campo ed eccellenti nella relazione; di rompere lo spazio scenico e trasformare gli spettatori in attori; di far dell’errore un luogo della sapienza; di mostrare la propria umanità nelle sue fragilità e imperfezioni per poi sorprendere con le proprie capacità acquisite con la disciplina di un lavoro lungo, rigoroso, diuturno. Mi piace, a questo proposito, pensare al lavoro dei migliori clown che dal circo sono passati ad agire in strada. E poi quella capacità di guadagnarsi ogni attimo di presenza e di ascolto, essendo lo spettatore libero di fermarsi o di andare. Quanti dei nostri allievi pur essendo presenti in aula sono altrove con il loro cuore e con il loro pensiero. La mia maestra, Edda Ducci, soleva dire ai suoi studenti che non era sufficiente la presenza fisica per partecipare a una lezione, perché – diceva – in questo senso, anche le seggiole sono presenti, ma io non son qui per far lezione alle seggiole. Quanto dell’esser presenti come le suppellettili in un aula dipende dagli studenti? Quanto da noi docenti?


Dall’artista di strada si potrebbe imparare, forse, anche la capacità di provocare reazioni e l’ironia di chi da solo deve confrontarsi, senza la protezione di regole e di spazi predisposti, con una moltitudine di persone sconosciute, e che grazie al suo lavoro d’artista si trovano ora a con-vivere per istanti di vita. Quell’abilità infine di danzare e di far danzare con lo spirito perché per un momento son cadute quelle barriere che impediscono di esprimerci, oltre ogni storia individuale e diversità fisica o culturale, come partecipanti al gioco serio della riconoscenza, all’alta celebrazione della nostra umanità. Ma forse e, infine, dal grande artista di strada dovremmo carpire la sua capacità di relazionarsi umanamente con tutti i suoi spettatori, di essere attento alla reazioni di ciascuno di loro, perché di quest’arte, quel guitto, conosce il segreto che possiede soltanto chi in-segna davvero. Scrive Gadamer, prima a proposito del suo maestro e poi di se stesso.

«La modalità di insegnamento di Heidegger già era estremamente affascinante, ah sì, retoricamente magistrale! Non direi che i suoi lavori scritti erano ugualmente persuasivi, ma come oratore aveva un’enorme influenza. Enorme, Lei non può nemmeno immaginare. Eravamo tutti completamente catturati. [...] [L] e mie lezioni divennero sempre migliori, e continuo a riconoscere questo effetto persino oggi. Sono diventato un buon oratore semplicemente perché noto con attenzione la reazione del pubblico. E se è scarsamente illuminato... – c’è un auditorium molto buio nella serie di auditorium in cui ricordo di aver tenuto conferenze – e lì credo che parlai male perché non potevo scorgere l’ultima fila!» (Kemmann, A., Heidegger come retore. Intervista a Hans-Georg Gadamer, in “Lo Sguardo”, n. 17, 2015 (I), pp. 22, 27).

Gioverebbe al diventare insegnante impadronirsi, anche, di alcune delle abilità che sono proprie del teatrante di strada: la capacità di far partecipare il pubblico; o quella di riaccendere la capacità di meravigliarsi; e ancora quella di improvvisare con arte; di conoscere a fondo quel che si presenta ma di costruirlo sempre con il pubblico; di far dell’errore un luogo della sapienza; di mostrare la propria umanità nelle sue fragilità e imperfezioni per poi sorprendere con le proprie capacità acquisite con la disciplina di un lavoro lungo, rigoroso, diuturno.

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Palladium

Le Compositrici. Giornata di studio, mostra e festival musicale Milena Gammaitoni

La storia delle musiciste è l’indicatore di un’identità sociale cancellata dalla storiografia affermatasi nell’Europa dell’Ottocento. Fin dal paleolitico si trovano raffigurazioni di donne che suonano uno strumento; nel Libro dell’Esodo Miryam celebrò la traversata del Mar Rosso accompagnandosi con un tamburello, nella Grecia antica Kassia compone musiche liturgiche divenute ufficiali nelle celebrazioni. Oggi è possibile rintracciare e definire anche un numero approssimativo sulla presenza delle compositrici nella storia: nel New Grove of Music se ne contano circa 900, presso Oxford Library 1500, la Fondazione Donne e Musica registra 27.000 tra compositrici, pedagoghe, musicologhe e musiciste presenti in 108 paesi e 84 associazioni. Presenze dimenticate nei conservatori e nella storia della musica, nel sapere formalizzato e istituzionalizzato. La giornata di studio, la mostra e il festival musicale su Le Compositrici, (quest’ultimo a cura di Orietta Caianiello, Andrea Fossà e Francesca Pellegrini in collaborazione con Luca Aversano e Milena Gammaitoni Università Roma Tre), si sono tenuti il 6, 8 e 9 aprile con l’intenzione di aprire una nuova pagina nella storia della musica. Questi incontri sono stati organizzati come parte di un percorso di tirocinio interno, sul tema delle artiste, per le studentesse e gli studenti del Corso di laurea in Scienze dell’educazione del Dipartimento di Scienze della formazione (a cura di Milena Gammaitoni e Luca Aversano). La Giornata di studio, ricca di studiose provenienti da diverse discipline, si è tenuta presso il Dipartimento di Scienze della formazione, dalle 9.30 del 6 aprile (aula 2, via Principe Amedeo, 182), con i saluti in apertura della direttrice del Dipartimento Lucia Chiappetta Cajola, di Luca Aversano, coordinatore dei corsi di studio del Dams (Dipartimento di Filosofia, comunicazione e spettacolo) e membro del comitato scientifico, di Giuliana Pella, coordinatrice didattica della Scuola

popolare di musica di Testaccio, promotore del festival musicale che si è tenuto presso il Teatro Palladium l’8 e il 9 aprile, di Francesco Antonelli, Dipartimento di Scienze politiche e coordinatore della Sezione AIS Studi di Genere. Durante la giornata di studio è stato possibile ascoltare alcune musiche, interpretate dagli studenti del Master in Pedagogia dell’espressione. Teatro, danza, musica, arte, sport: educazione, diretto dal prof. Gilberto Scaramuzzo, e le parole delle compositrici per voce degli studenti del Master I Percorsi dello storytelling. Teorie, tecniche e contesti delle narrazioni, diretto dalla prof.ssa Barbara De Angelis. La mostra fotografica e documentaria Le Artiste, a cura dell’Associazione italiana di toponomastica femminile è stata inaugurata il 6 aprile alle 16.00 (aula 2), e ha offerto l’occasione di scoprire una ad una le storie delle musiciste e di diverse altre artiste a partire dall’antichità fino ad oggi (allestita lungo i corridoi della sede di Via Principe Amedeo, 182) con fotografie e narrazioni biografiche di compositrici classiche, blues, jazz, folk, rock, direttrici d’orchestra, pittrici, poetesse, scrittrici. Carmela Covato, senatrice accademica di Roma Tre, Maria Pia Ercolini, presidente dell’Associazione, Livia Capasso, vicepresidente e Francesca Brezzi, professoressa senior dell’Università Roma Tre, hanno introdotto i lavori e presentato le relazioni delle diverse autrici e autori della mostra, che è rimasta aperta fino al 6 maggio. Dall’analisi dei percorsi biografici, si rileva un paradosso storico: le donne sono state attive e protagoniste nelle arti, presenti nelle recensioni, autorevoli e stimate, attente testimoni della società a loro contemporanea, ma poi dimenticate, censurate nelle enciclopedie universali del Settecento e fino alla manualistica contemporanea. Nel caso specifico delle musiciste, per esempio, sul finire della tradizione gregoriana, Hildegard von Bingen compose espressamente musiche originali per voci femminili, nel Seicento Francesca Caccini creò una delle prime forme di Dramma in Musica e centinaia di altre compositrici in diverse parti del mondo si affermano e divulgano le proprie musiche. La condizione sociale delle compositrici fu spesso una condizione privilegiata, perché nate in famiglie di musicisti venivano introdotte ed educate ad una professione, ma solo agli uomini era permesso esibirsi in chiesa, o divenire Maestri di Cappella. Ci furono alcune eccezioni, tra cui anche quella di Francesca Caccini, compositrice geniale, assunta presso la corte medicea e la più pagata, si esibì nelle chiese italiane ed europee, e scrisse il Dramma in Musica La Liberazione di


nità scientifiche, personaggi istituzionali); i loro nomi sono continuamente presenti nelle recensioni, nella fitta rete degli scambi epistolari con i maggiori intellettuali e artisti del tempo, ma poi cancellate dai manuali di storia della musica, restano però presenti nelle biblioteche di tutto il mondo, nelle fonti ufficiali e non, come i contratti di lavoro, le commissioni, le cronache, le biografie, gli epistolari. In Italia, a Roma, nel Settecento Maria Rosa Coccia compose fin dall’età di quindici anni e venne nominata Maestro di Cappella, una professione fino ad allora esclusivamente maschile. Nel Novecento Emilia Gubitosi entrò ad insegnare in conservatorio a Napoli e fondò la famosa associazione Scarlatti oltre che la prima orchestra sinfonica della RAI; fu un’organizzatrice generosa verso i giovani talenti; Maria Cusenza tra le fondatrici di Soroptimist, fondò il Quintetto Femminile Palermitano, pioniera nelle musiche moderne e contemporanee, Giulia Recli fu insignita del titolo di commendatore della Repubblica e le sue musiche furono eseguite in Italia e all’estero, la prima donna a comparire al Metropolitan di New York; per molti anni fu anche vicesegretaria del Sindacato dei musicisti italiani; Barbara Giuranna, diplomata in composizione a Napoli, dal 1937 insegna al

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Ruggero dall’Isola di Alcina. La Mostra presentava in apertura le Trovatrici: non furono solo uomini, anche donne delle classi inferiori divennero musiciste di corte “trobairitz”, e utilizzarono l’arte dei versi non solo per idealizzare l’amore, ma per denunciare soprusi, tradimenti, infelicità della vita quotidiana. Il percorso proseguiva poi con i ritratti delle compositrici nei conventi, e poi dal Rinascimento alle contemporanee, in diversi paesi europei. Dalle compositrici si passa alle direttrici d’orchestra, alle jazziste, al rock e alla musica folklorica/popolare italiana. Caratteristica dominante e comune di questo variegato universo è quella della vita privata intrecciata alla storia sociale, all’attivismo nel mondo politico e/o intellettuale del proprio tempo. L’agire sociale di queste compositrici fa sì che la vita privata non possa essere altro che il riconoscimento dei diritti della vita sociale, un continuum del principio di non contraddizione tra opera e vita, una concreta realizzazione di quello che Hannah Arendt definì vita activa. Centrale e sicuramente sorprendente è il fatto che ognuna di loro sia stata riconosciuta e ammirata in vita dai contemporanei (editori, circoli intellettuali, comu-

Barbara Strozzi (1619-1677). Compositrice e soprano, nota come virtuosa a Venezia, si esibisce presso l’Accademia degli Unisoni, fondata dal padre, Giulio Strozzi, poeta e librettista. Le sue composizioni comprendono cantate, arie e duetti, di cui sono tuttora esistenti i manoscritti. Compose prevalentemente per voce soprano. In particolare si ricordano Sacri musicali affetti e Ariette a voce sola che non furono pubblicate in vita. Oggi è possibile attingere ad una consistente discografia che ha rivalutato le sue musiche unitamente alla musica vocale da camera del periodo barocco. Condusse una vita libera, ebbe quattro figli senza mai sposarsi.

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Conservatorio di Santa Cecilia, pubblica le sue musiche per le edizioni Ricordi, prima e unica donna a partecipare nel 1937 al Festival internazionale di Musica di Venezia. Non si può dunque ignorare il retaggio culturale del silenzio storiografico sulla presenza delle donne come soggetti attivi nella storia. Il lavoro esegetico non può neutralizzare le differenze per mezzo di un discorso monologico, che impone stereotipi alla socializzazione delle nuove generazioni. Spesso considerata marginale rispetto alle altre arti, la musica sembra condividere le sorti della donna, anch’essa lasciata ai margini della storia.

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Anna Bon (1739-1767). Nata in una famiglia di artisti viaggiò con loro per tutta Europa. A quattro anni studiò la viola all’Ospedale della Pietà di Venezia, entrando poi nel coro. A Brandeburgo ricoprì il posto di virtuosa di musica da camera presso la corte Kulmbach. Dedicò al Margravio Sei sonate per flauto e cembalo, scritte e pubblicate all’età di sedici anni. Con la famiglia cambiò diverse Corti dove compose sempre musica da camera, in onore di principi e principesse. In particolare fu virtuosa presso la corte del principe ungherese von Esterhazy, contemporaneamente ad Haydn.

«Le donne sono prima descritte e poi raccontate, molto prima che parlino esse stesse. Solo le immagini letterarie sembrano, a volte, godere di una maggiore profondità; votate nei secoli al silenzio della riproduzione, ombre nella storia, vivono l’arte nell’intimità dei conventi, sottomesse nelle loro case, un’arte che non vale la pena d’essere tramandata» (G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne, L’Antichità, Roma-Bari, Laterza, 1990 p. V).

. È significativo il fatto che Santa Cecilia, patrona della musica, simbolo di uno dei più prestigiosi conservatori del mondo, non fu mai musicista. Cecilia era una ragazza patrizia che volle consacrarsi alla verginità tanto che fece convertire il suo sposo al cristianesimo e per questo motivo furono entrambi condannati a morte. In seguito Cecilia fu canonizzata e raffigurata con uno strumento musicale tra le braccia. Come scrive Ralph Darendhorf, prima che una norma divenga consuetudine, possono trascorrere decenni, perché i cittadini non interiorizzano facilmente e velocemente diritti sanciti da regole considerate estranee alle proprie abitudini culturali. È così che si può spiegare la marginalità istituzionalizzata di molte compositrici, attive in ambito creativo e sociale; le difficoltà legate alla possibilità di essere ammesse a scuole e corsi riservati agli uomini; di potersi esibire in pubblico; di poter firmare le proprie opere. Tuttora il direttore d’orchestra, il compositore, il liutaio, sono professioni prettamente maschili. Ancora oggi per una donna è raro riuscire a conciliare una

Maria Rosa Coccia (1759-1833). A tredici anni compose l’Oratorio Daniello nel Lago dei Leoni eseguito a Roma nella Chiesa Nuova riscuotendo approvazione e pubblici elogi. Scrisse sempre nello stesso anno L’isola disabitata su testo di Metastasio. A soli quindici anni superò l’esame come Maestra di Cappella presso la Confraternita di Santa Cecilia: la prima donna in Italia a ricoprire un ruolo che fu esclusivamente maschile. A venti anni divenne anche Accademica della Filarmonica di Bologna. Nonostante questi riconoscimenti non ebbe mai un lavoro fisso in qualità di Maestra di Cappella presso un’istituzione religiosa. Dedicò tutta la sua vita alla composizione musicale.


Elke Mascha Blankenburg (1943-2013). Diplomata in musica sacra, direzione di coro e direzione d’orchestra. Nel 1970 fonda il coro Koelner Kurrende con cui ha vinto vari premi. Il suo repertorio include i grandi Oratori di Bach, Haendel, Mozart, Brahms, Mendelssohn, Verdi e Orff. Fonda nel 1978 il circolo culturale “Donna e Musica” che ha come scopo la pubblicazione e l’esecuzione di musiche di compositrici, tra cui Fanny Mendelssohn e Marianna Martinez, scoperte dalla stessa direttrice. Di queste compositrici ha diretto e pubblicato la prima discografia al mondo. Nel 1989 fonda una biblioteca internazionale di musica di compositrici. Nel 2003 ha pubblicato il libro Direttrici d’orchestra nel Ventesimo secolo nel quale presenta 90 biografie di direttrici d’orchestra.

vita familiare con l’insegnamento e il concertismo. La direttrice d’orchestra Elke Mascha Blankenburg, nel suo libro sulle direttrici d’orchestra nel mondo (E. M. Blankenburg, Direttrici d’orchestra nel Ventesimo Secolo, Europaeische Verlagsanstalt, Amburgo, 2003), ha rilevato percorsi esistenziali con caratteristiche analoghe: il grande peso psicologico e fisico affrontato per lavorare in un ambiente esclusivamente maschile e fortemente discriminatorio; una vita privata più faticosa e spesso costellata da incomprensioni con il proprio partner; l’abbandono della carriera concertistica, intorno ai cinquant’anni, secondo l’autrice, dovuta al pregiudizio sociale secondo il quale una donna giovane attrae curiosità, fa spettacolo, mentre una donna anziana sul podio non é socialmente desiderata, tanto che nessuna di loro ha mai ricevuto proposte per dirigere superata la soglia della mezza età. Dai primi del Novecento un numero esiguo di donne

ha avuto la forza di imporsi nella direzione d’orchestra e soprattutto in un ambiente così chiuso, vale la pena citarle: Ethel Leginska, Antonia Brico, Ethel Smyth, Carmen Campori Bulgarelli, Mary Davenport Engberg, americana, Florica Dimitriu, Vitezslava Kaprálová, Elisabeth Kuyper. Resta il rammarico che le direttrici d’orchestra che attualmente dirigono nel mondo non siano a loro volta uno strumento di conoscenza delle musiche scritte dalle donne. Normalmente ci si trova costrette in repertori e programmi già definiti, nei quali nessun direttore artistico di teatri lirici intende rischiare proponendo nomi di compositrici. Già dallo scorso anno il Teatro Palladium e la Scuola popolare di musica di Testaccio rompono finalmente questa radicata consuetudine proponendo il Festival Le Compositrici. La speranza è che queste musiche entrino nei programmi di studio e concertistici di ogni istituzione musicale.

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Non solo compositrici: le donne artiste al Teatro Palladium Luca Aversano

Le ultime stagioni del Palladium si sono caratterizzate per una spiccata attenzione alle figure femminili della storia dello spettacolo e delle arti. La presente, dal settembre 2016 al giugno 2017, non fa eccezione. Al contrario, rafforza l’impegno del teatro nella ricerca e nella valorizzazione dei contributi artistici delle donne, di ieri e di oggi. Milena Gammaitoni, in questo stesso numero di Roma Tre News, racconta del Festival Le compositrici, andato in scena al Palladium tra l’8 e il 9 aprile con l’intento di illuminare diverse autrici di composizioni musicali, alcune poco conosciute, se non del tutto ignorate dalla storiografia corrente. Al di là di questa iniziativa, il programma primaverile del teatro ha proposto altri eventi dedicati a donne attive nel mondo dell’arte. Il 7 aprile, nell’ambito della seconda edizione della rassegna “Aprile in danza”, è andato in scena Saknes, radici: uno spettacolo nato dalla ricerca dei legami artistici della coreografa Benedetta Capanna con la nonna Mirdza Kalnins, celebre artista lettone, che ha ricevuto tra l’altro il patrocinio dell’Ambasciata della Repubblica di Lettonia in Italia.
Entrambe danzatrici, con differenti stili ma di comune genìa, Benedetta e Mirdza si ritrovano armonicamente in un percorso di paroMaria Callas interpreta Violetta in La Traviata alla Royal Opera House (1958) (foto di Houston Rogers)

le non dette, immagini sfocate e voci senza volto che proprio attraverso la danza esplicano una comunione di intenti ispirati alla musica, al ricordo, alla passione e nei quali relazioni trasparenti si ricongiungono ricoprendo gli spazi del vuoto della vita. Il 5 maggio è andato in scena invece uno spettacolo dedicato a una celebre protagonista della vita teatrale, musicale, culturale e sociale della seconda metà del secolo scorso: Maria Callas (1923-1977). Quest’anno ricorre infatti il quarantennale della morte della soprano greca, e il Palladium ha pensato di celebrare la ricorrenza con una serata speciale, che ha ripercorso le tappe più significative della carriera artistica della “Divina”, anche attraverso i ricordi di personaggi che l’hanno conosciuta o hanno lavorato con lei. Lo spettacolo, curato da chi scrive


Et manchi pietà - Artemisia. Teatro Palladium, 6 maggio

insieme con Jacopo Pellegrini, ha inteso offrire al pubblico di oggi la possibilità di avvicinarsi al mito di Maria Callas, descrivendo la parabola di un’artista che conobbe un’ascesa scabrosa benché non avara di riconoscimenti, fino a un culmine breve, e a una prolungata, malinconica discesa verso una brusca morte misteriosa. Il suo canto, ora osannato ora censurato, il suo stile interpretativo paragonato alle grandi voci dell’Ottocento, le sue riconosciute facoltà di attrice riportarono prepotentemente l’opera lirica al centro del dibattito intellettuale, aprendo nuovi sentieri nel repertorio e rafforzando in Italia il ruolo della regìa operistica. Maria Callas ispirò romanzi, poesie, testi teatrali e musicali, spettacoli di danza, film, programmi radiofonici e televisivi. Lo spettacolo ne rievoca la poliedrica figura, attraverso la sua ricezione nell’arte e nella cultura della seconda metà del Novecento. Il 6 maggio ha visto infine sul palco del Palladium un’altra potente protagonista femminile della storia dell’arte: Artemisia Gentileschi. Et manchi pietà,

prodotto dalla Fondazione d’Arcadia e realizzato dalla compagnia Anagoor, evoca per immagini la figura emblematica della pittrice, la cui produzione iconografica si legò fin da subito, nell’immaginario collettivo, agli scenari di una vita tempestosa e violenta. Lo spettacolo concepisce un apparato visivo che dialoga in equilibrio con una “colonna sonora” costituita da brani di musica antica, creando un affascinante contrasto tra arcaicità della percezione acustica e contemporaneità della sperimentazione visuale. Et manchi pietà realizza dunque una perfetta fusione tra musica e video art, in un affresco di suoni e immagini composto da tredici grandi quadri: tredici stazioni di vita, che sposano altrettanti brani musicali di Monteverdi, Merula, Strozzi, Castello, Landi, Rossi, Falconieri, Fontana, Trabaci, Marini, traducendone l’umore ora melanconico, ora violento, ora esuberante, e legandolo indissolubilmente ai temi pittorici di Artemisia e alla potenza rabbiosa del suo gesto artistico, la cui eco risuona come un fantasma anche a distanza di secoli.

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Audiocronache

Il mondo visto da Roma Tre Radio Maria Genovese

A quasi tre anni dalla sua nascita, Roma Tre Radio, la radio web ufficiale di Ateneo, è oggi una realtà che si configura come laboratorio, luogo di sperimentazione e di formazione che produce contenuti che vanno ben oltre il mondo universitario. In un’ottica di scambio, confronto, a volte anche di scontro, la radio continua a rappresentare un percorso di crescita per tutte le persone che ne fanno parte. Hanno accettato, e per ora vinto, la sfida la professoressa e caporedattrice Marta Perrotta, gli station manager Marco Cocco e Oriella Esposito e tutti gli studenti che hanno dato vita a redazioni e format che costruiscono quotidianamente il palinsesto e che garantiscono la messa in onda occupandosi anche degli aspetti tecnici. Creare una radio web all’interno di un luogo di studio come l’università significa, da sempre, aprire soprattutto uno spazio di riflessione artistica che in quel luogo si configura e di esso diventa parte integrante. Riflessione artistica che in questo caso è partita necessariamente dal fatto che la radio da tempo non è più fatta di stazioni, manopole e fili e che chi ascolta non pensa quasi più ad un oggetto che trova spazio in un luogo specifico della casa. La radio continua ad essere per eccellenza un medium che vive di oralità ma internet prima e i social dopo ne hanno cambiato inesorabilmente la percezione e la fruizione. La rete ha proposto il suo punto di vista e, quando si pensa alla radio di oggi, si pensa al modo attraverso il quale quella radio riesce a comunicare. Non solo studio, voci, suoni, cuffie e microfono ma pc, sito internet, streaming, pagine social, loghi, player, app, podcast. Un vero mood grafico, che rende immediatamente visibile e riconoscibile la radio che stiamo ascoltando. In questa ottica di cambiamento e di commistione di linguaggi, la riflessione si è sempre di più spostata su come il racconto radiofonico ha modificato se stesso e il radioascoltatore, che diventa parte attiva dello stesso racconto e con esso interagisce, lo modifica, proprio attraverso le possibilità introdotte dal web. La radio si dota dunque di un’immagine e il pubblico costruisce la sua personale visione d’ascolto. Appare evidente

che l’esperienza radiofonica per gli studenti di Roma Tre Radio crea uno spazio formativo in continuo movimento dato che si trovano contemporaneamente ad avere il ruolo di chi la radio la fa e l’ascolta, ma anche di chi è parte integrante di un laboratorio di formazione che ha lo sguardo costantemente puntato sull’innovazione. Date le premesse e i mezzi a disposizione, dunque fare radio oggi può voler dire anche fare arte? Sicuramente vuol dire poterla raccontare, cosa che la radio ha sempre fatto fin dall’inizio passando dal radiodramma alle opere liriche, dal teatro alla musica classica, dalla fotografia alla letteratura e così di seguito. Ma cosa hanno in comune l’arte in genere e il mondo radiofonico? Di certo non le immagini così come siamo abituati a pensarle, ad esempio, guardando un film o una mostra fotografica. Colori, forme, geometrie, effetti, attraverso una voce dietro a un microfono si possono solo immaginare, almeno finché si “rimane fermi” durante l’ascolto e si rinuncia a quell’esperienza che la rete è oggi in grado di offrire. L’opera d’arte in genere e la radio, si rivolgono ad un pubblico molto vasto ma di fatto nella fruizione continuano a privilegiare il rapporto uno a uno. E questo garantisce in qualche modo quel senso di intimità che solo la radio può creare, quando dalla regia arriva il segnale “in onda” e si ha sempre la netta percezione di parlare ad unico ascoltatore. Si è tenuto conto di tutte queste riflessioni nel dar vita ai vari format, in particolare a quelli che si occupano di cinema come Go Ciak Yourself, o di teatro come Dietro Le Quinte che di visioni si nutrono e vivono. Ma anche a quelli come Dickens, format che indaga il mondo delle narrazioni nelle sue varie forme. Un programma che prova a raccontare i cambiamenti in atto nel mondo della lettura e della scrittura ma anche le resistenze che questi cambiamenti incontrano. Libri, biblioteche, case editrici, festival, web writing e l’arte di raccontare. Mestieri vecchi e nuovi legati al mondo dell’editoria, perché il concetto di libro, quanto quello della radio, è stato in parte modificato dalla digitalizzazione. Fin da subito Dickens ha dato prova, attraverso lo storytelling radiofonico degli ospiti invitati, di volere andare oltre gli schemi classici di un programma che si occupa di letteratura. Volontà che ha trovato terreno fertile nella possibilità di fare scelte autonome che la direzione della radio nel suo insieme ha sempre garantito e appoggiato. Tra i tanti eventi e progetti che Dickens ha seguito in quasi due anni di programmazione, ricordiamo la VI edizione del Premio Goliarda Sapienza - Racconti dal carcere, l’unico concorso letterario in Europa dedicato a detenuti affiancati da scrittori, artisti e giornalisti nelle vesti di tutor d’eccezione. Concorso che ha visto primo classi-


Maria Genovese con Antonella Bolelli Ferrera e Erri De Luca in studio a Roma Tre Radio

ficato nella sezione degli adulti Michele Maggio con Cemento urlante, tutor il giornalista Sandro Ruotolo e nella sezione minori e giovani adulti “Antonio” con Il biglietto di Rosa Parks, tutor lo scrittore Erri De Luca. E proprio Erri De Luca insieme alla giornalista Antonella Bolelli Ferrera sono stati ospiti della puntata di Dickens, andata in onda l’8 novembre 2016 (riascoltabile nella sezione podcast sul sito http://radio. uniroma3.it/), per presentare il libro Così vicino alla felicità. Racconti dal carcere (Rai Eri), curato dalla stessa Antonella Bolelli Ferrera e con la prefazione di Dario Edoardo Viganò, prefetto della segreteria per la comunicazione della Santa Sede. In telefonica anche lo scrittore Paolo Di Paolo, anche lui nelle vesti di tutor durante il concorso. Un progetto importante che permette ogni anno ai detenuti che partecipano, di capire chi sono, attraverso la possibilità di ripensare la propria vita mettendola su carta, rivedendo le proprie colpe, riuscendo ad andare oltre se stessi e i propri limiti; a chi legge di rendersi conto che a volte basta veramente poco per ritrovarsi a percorre una strada piuttosto che un’altra. In questo caso il racconto radiofonico assume un significato di vera comunicazione sociale, perché riutilizzando il linguaggio della scrittura, che in questo caso si lascia trasformare e amplificare, permette la possibilità di dare voce a chi solitamente voce non ne ha. Una comunicazione che veicolando contenuti fortemente emotivi, attiva i sensi e genera più di una riflessione in chi la riceve, compresa la persona che vocalmente gestisce la puntata. Non manca l’aspetto multimediale del premio che pure in radio è stato raccontato. Con Rai Fiction è in fase di

sviluppo il terzo Corto del Premio Goliarda Sapienza, ispirato a un racconto finalista della scorsa edizione intitolato Le lacrime dell’alfabeto di Federico Marsi, con la regia di Alessandro D’Alatri. Dalla collaborazione fra il Premio Goliarda Sapienza e Rai Fiction, e grazie al sostegno di SIAE, è in corso di realizzazione La scuola della notte, web serie che porta, anche questa, la firma di Alessandro D’Alatri alla regia e che sarà trasmessa su RaiPlay e su Rai4, ma in un’unica puntata. Girata all’interno dell’Istituto Penale Minorile “Cesare Beccaria” di Milano, ha visto la partecipazione di giovani detenuti in qualità di attori oltre alla presenza di Marco Palvetti. Il soggetto e la sceneggiatura sono co-firmati da Federico Ragno, secondo classificato di quest’anno per la sezione Minori e giovani adulti con lo pseudonimo Unknown e già vincitore delle due precedenti edizioni del Premio. Ecco che risulta ancora più evidente quanto sia importante la presenza di una web radio dentro l’università. L’esperienza formativa e di apprendimento di uno studente anche solo durante una singola puntata di un format, può raggiunge dei livelli altissimi. Ho chiesto a Sandra Giuliani una delle fondatrici del progetto Donne di carta e ospite della prima puntata di Dickens, di lasciarmi una suggestione rispetto alla sua presenza nella nostra radio: «l’intimità di dire in una prossimità estrema occhi negli occhi sapendo che invece la voce andava oltre quella stanza senza poter vedere dove e a chi. Intimità ed estraniazione insieme. Sapendo allora che tutto doveva essere dentro le parole e il timbro della voce... Bellissima difficile esperienza». Benvenuti nel mondo di Roma Tre Radio!

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Post lauream

Master Esperti nelle attività di valutazione e di tutela del patrimonio culturale Mario De Nonno

Il Master Esperti nelle attività di valutazione e di tutela del patrimonio culturale nasce da una consolidata esperienza di collaborazione tra docenti di diversi dipartimenti dell’Ateneo – in particolare di Studi umanistici, di Ingegneria (area informatica), di Matematica e fisica, di Scienze – e grazie alla partecipazione di personale altamente qualificato del Ministero dei Beni, delle attività culturali e del turismo – Comando Carabinieri per la Tutela del patrimonio culturale, nonché di importanti realtà private che operano nel settore dei beni culturali. A chi si rivolge? Si tratta di un’offerta formativa biennale di secondo livello erogata in modalità mista, cioè con attività didattiche svolte sia a distanza che in presenza. È rivolta a laureati in Archeologia, Storia dell’arte, Beni culturali, Tecnologie e diagnostica, Legislazione, Gestione e amministrazione del patrimonio culturale, e in corsi di studio equiparabili nei contenuti, che vogliono acquisire ulteriori competenze e strumenti conoscitivi, nonché a professionisti già operanti nel settore pubblico e privato che intendono aggiornare i metodi e gli strumenti di approccio al bene culturale e all’opera d’arte, dall’antichità al contemporaneo. Obiettivi formativi Il Master offre una formazione in grado di rispondere alle nuove esigenze lavorative e alle necessità di aggiornamento del personale già attivo nelle diverse amministrazioni pubbliche, nel settore privato e delle libere professioni nel campo dei beni culturali, grazie alla sinergia di conoscenze e metodologie proprie della “diagnostica umanistica” e della “diagnostica tecnologico-scientifica”. Partendo dalla specificità degli studi già svolti e dall’eventuale esperienza acquisita sul campo, gli iscritti potranno infatti ampliare le proprie conoscenze in accen-

tuata prospettiva interdisciplinare e acquisire gli strumenti necessari all’expertise del reperto archeologico e dell’opera d’arte, e alla loro circolazione e commercio. Tra gli obiettivi del Master rientra anche la formazione finalizzata ad interventi in aree di crisi e ad attività di contrasto alle aggressioni criminali al patrimonio culturale (traffico illecito, contraffazione e falsificazione, distruzione e alienazione per motivi ideologici). Oltre a fornire qualificate conoscenze e competenze nei settori disciplinari oggetto del progetto formativo attraverso attività didattiche online e in presenza, sono previsti anche periodi di stage presso strutture operanti negli stessi ambiti d’interesse del Master. Sbocchi professionali I possibili sbocchi professionali consistono nelle attività di consulenza e di perizia sui beni culturali e d’arte finalizzate alla libera circolazione e al mercato, nonché di supporto agli organismi e alle istituzioni preposte per gli interventi in aree di crisi e per il contrasto alle aggressioni criminali verso il patrimonio culturale nazionale e internazionale. Risultati d’apprendimento attesi L’interazione tra diversi settori disciplinari, sia dell’ambito umanistico sia di quello tecnologico-scientifico, e tra diversi profili di formatori (docenti universitari, personale in ruolo nel Comando CC-TPC e nel MiBACT, professionisti privati) consente di proporre una didattica innovativa nei contenuti e nei metodi, che si dovrebbe tradurre per gli studenti nella capacità di analisi dei beni culturali e delle opere d’arte e nella gestione dei processi culturali nei settori dell’amministrazione pubblica e di competenza privata.

Presidenti del Master sono il Segretario Generale del MiBACT, arch. Antonia Pasqua Recchia e il comandante del Comando CC TPC, Generale di Brigata, dott. Fabrizio Parrulli. Direttore è il prof. Mario De Nonno (Direttore del Dipartimento di Studi Umanistici-DSU)

La Segreteria del Master è coordinata dalla dott. Roberta Rinaldi, del Dipartimento di Studi umanistici Via Ostiense 234 - 00144 Roma email: segreteria.studiumanistici@uniroma3.it http://dipartimenti.uniroma3.it/studiumanistici/


Il museo per l’educazione permanente Maddalena Capobianco

Anche per l’anno accademico 2016-2017 il Dipartimento di Scienze della formazione di Roma Tre si contraddistingue per un’ampia scelta formativa post lauream e, tra i master di secondo livello, due, in particolare, stanno suscitando notevole interesse tra gli studenti: Mediazione culturale nei musei e Standards for museum education. Entrambi i master nascono dall’interpretazione del museo non solo come oggetto culturale complesso ma anche come strumento di rilevante importanza per l’educazione permanente. Il Master in Mediazione culturale nei musei, in particolare, si pone l’obiettivo di andare incontro alla necessità, sempre più sentita nell’ambito dei beni culturali, di elaborare proposte che possano soddisfare le aspettative dei visitatori, intesi come categorie di pubblici distinti in base a variabili sociali, culturali, anagrafiche. Occorre quindi analizzare le esigenze delle varie tipologie di pubblico che si recano al museo e studiarne le peculiarità al fine di formulare programmi che ne soddisfino la domanda culturale. Nel perseguire tale obiettivo, il Corso mira a formare professionisti che siano in grado di individuare le caratteristiche del pubblico di riferimento, di elaborare proposte didattiche ed educative coerenti alle varie tipologie di musei e di progettare interventi didattici in ambito museale calibrati in base alle diverse categorie di fruitori (scolaresche, adulti, pubblici speciali etc.). Il Master internazionale Standards for museum education nasce invece dalla riflessione sul fatto che il museo è sempre più considerato come uno strumento educativo di particolare interesse non solo per il pubblico di élite che lo frequenta tradizionalmente, ma anche per le categorie di visitatori che ne sono ancora esclusi. In Francia, ad esempio, il museo viene utilizzato per sviluppare il senso di appartenenza nelle azioni di recupero dei giovani in difficoltà, per contrastare l’analfabetismo, per integrare l’offerta formativa della scuola nelle zone disagiate. Per raggiungere tali scopi, però, occorre formare mediatori che possano capire i problemi sociali sui quali il museo può intervenire e progettare attività innovative in grado di suscitare l’interesse nelle varie categorie di “non” visitatori. Si tratta di creare figure professionali che siano in grado di rinnovare l’offerta didattica tradizionale dei musei rendendola più dinamica e interattiva, anche con l’ausilio delle nuove tecnologie. Perché l’innovazione possa aver luogo e affinché tale obiettivo possa essere perseguito, risulta indispensabile lo scambio ed il confronto con realtà diverse a livello internazionale. Da qui, l’esigenza di creare esperti che sappiano padroneggiare gli standard museali internazionali, soprattutto tenendo

conto che la funzione di mediazione culturale del museo resta ancora prevalentemente ancorata a modelli nazionali, se non addirittura locali, quando, invece, le esigenze sempre più complesse del pubblico richiedono scambi intensi e regolari tra professionisti di nazionalità diverse. Il Master si rivolge quindi a coloro che vogliono formarsi sugli standard museali in ambito educativo secondo le più recenti aree di ricerca internazionale e punta a conferire competenze in progettazione didattica museale, divulgazione scientifica, valorizzazione e promozione del patrimonio museale, in un’ottica innovativa e internazionale. Non a caso l’offerta formativa prevede la partecipazione di numerosi esperti, provenienti da alcune delle principali organizzazioni mondiali di settore, che contribuiscono a definire la figura di un operatore che sia in grado di progettare esposizioni e percorsi museali, prestando attenzione alle diverse tipologie di visitatori, oltre che occuparsi di ricerca e innovazione nell’ambito della tutela e della valorizzazione dei beni culturali. Per maggiori informazioni su entrambi i percorsi è possibile consultare il sito cdm.uniroma3.it.

Museo storico della didattica “Mauro Laeng” (foto: Lorenzo Cantatore)

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Tommaso Cascella, Galleria (parte dell’opera), 2016-2017 ingresso della direzione amministrativa (foto: Valentina Cavalletti)



UniversitĂ degli Studi Roma Tre - via Ostiense, 159 - www.uniroma3.it


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