Roma Tre News 1/2011

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P Periodico eriodico di Ateneo

Anno XIII, n. 1 - 2011

Il diritto del corpo vivente «Ego dominus tuus» Avvolta nel mio corpo Desaparecidos in America latina

LE PAROLE DEL CORPO In questo numero: Giorgio Celli, Masolino D’Amico, Alessia Filippi, Raffaella Giordano, Ernesto Laclau, Paolo Rossi


Sommario Editoriale

Rubriche Popscene Ultim’ora da Laziodisu Non tutti sanno che... 3

Primo piano Il diritto del corpo vivente Corpo-persona: una nuova categoria giuridica di Lorenzo d’Avack Conflitti di potere Il corpo, un dinamismo interminabile di Paolo Apolito A sud dell’anima Desaparecidos in America Latina: assenza dei corpi e impossibilità di oblio di Maria Rosaria Stabili «Ego dominus tuus» Osservazioni intorno al corpo nella letteratura di Giuseppe Leonelli Il corpo tra canone e realtà Quando il corpo delle donne generava il mondo e quello degli uomini lo misurava di Giuliana Calcani Come Antigone Il corpo femminile e la polis di Francesca Brezzi

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Tra etnocentrismo e relativismo culturale La pratica delle mutilazioni genitali femminili: una questione di genere di Erika Bernacchi

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La conoscenza è relazione Riscoprire il corpo attraverso la Danza Sensibile di Claude Coldy Avvolta nel mio corpo La forza della parola: il racconto di una studentessa disabile di Adriana Mattorre Aktion T4 L’eliminazione dei corpi disabili di Silvia Cutrera Il cerchio del tai-chi L’auspicato ritorno allo stato originario di equilibrio di Fabrizio Ambrosi De Magistris Annidamento La memoria indelebile dal grembo alla nascita di Expedito Arguello Duarte Abbiamo un corpo solo, anzi quattro Il paradigma unico della biologia di Gino Boriosi Bikini Sotto la veste linguistica, il corpo di Maria Catricalà Sciamanesimo e curanderos: una questione di equilibrio di Michela Monferrini Tra passo e passo Il tango: innamorarsi in tre minuti di Fabiana Fusco

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Direttore responsabile Anna Lisa Tota (professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi)

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Coordinamento di redazione Alessandra Ciarletti Federica Martellini Ufficio orientamento - Divisione politiche per gli studenti - r3news@uniroma3.it

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Orientamento Lo spazio europeo della ricerca L’esperienza degli atenei francesi Anna Laura Palazzo

Samsara La concezione del corpo nella tradizione filosofica buddhista delle origini di Ugo Attisani Razza Umana Quando il corpo è specchio del sociale di Irene D’Intino «Col corpo capisco» Ovvero l’invito di David Grossman a esplorare il sentimento della gelosia di Francesca Gisotti La devozione che riscatta la tragedia L’autore di Piccola storia del corpo sui nudi di Carlo Levi, in mostra a Roma di Paolo Di Paolo Marina Abramović: «Art must be beautiful, artist must be beautiful» di Sarah Proietti Seduce me Il mondo animale dal buco della serratura! di Gaia Bottino Alla ricerca della verità Un eterno divenire: riflessioni su La religione, il mondo e il corpo di Raimon Panikkar di Danilo Campanella Premio “Maria Baiocchi” Diario di una premiazione sugli studi di genere a Roma Tre di Roberto Cecchini Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre Anno XIII, numero 1/2011

Incontri Paolo Rossi. Mistero buffo di Simona Vitale Giorgio Celli. La mimosa è furba come una volpe! di Federica Martellini Masolino D’Amico. «L’atto senza parole» di Michela Monferrini Ernesto Laclau. Il re è nudo? di Valentina Cavalletti Raffaella Giordano. Alfabeto del corpo di Federica Martellini Alessia Filippi. Stimolare la mente con lo sport di Diego Mariottini

Recensioni

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Redazione Ugo Attisani (Ufficio Job Placement), Giacomo Caracciolo (laureato del C.d.L. in Giurisprudenza e giornalista pubblicista), Valentina Cavalletti (Ufficio orientamento), Gessica Cuscunà (Ufficio orientamento), Irene D’Intino (studentessa del C.d.L. in Competenze linguistiche e testuali per l’editoria e il giornalismo), Indra Galbo (laureato del C.d.L. in Scienze politiche), Francesca Gisotti (studentessa del C.d.L. in DAMS), Maria Vittoria Marraffa (studentessa del C.d.L. in Storia e conservazione del patrimonio artistico), Elisabetta Garuccio Norrito (Resp. Divisione politiche per gli studenti), Michela Monferrini (laureata del C.d.L. in Lettere), Monica Pepe (Resp. Ufficio stampa), Camilla Spinelli (laureata del C.d.L. in Comunicazione nella società della globalizzazione) Hanno collaborato a questo numero Fabrizio Ambrosi De Magistris (Accademia di San Luca), Paolo Apolito (ordinario di Antropologia culturale), Expedito Arguello Duarte (medico psicoterapeuta), Virna Anzellotti (Laziodisu), Erika Bernacchi (dottoranda in Women's studies presso University College of Dublin), Gino Boriosi (medico), Francesca Brezzi (ordinario di Filosofia morale e delegata del Rettore per le pari opportunità), Gaia Bottino (studentessa del C.d.L. in Scienze della comunicazione), Giuliana Calcani (ricercatrice di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana), Danilo Campanella (laureato del C.d.L. in Filosofia), Maria Catricalà (ordinario di Linguistica generale), Roberto Cecchini (V. S. C. Comitato pari opportunità di Roma Tre), Silvia Cutrera (Master Didattica della Shoa e presidente Agenzia per la vita indipendente - AVI onlus Roma), Lorenzo d’Avack (ordinario di Filosofia del diritto), Paolo Di Paolo (dottorando in Italianistica), Fabiana Fusco, Giuseppe Leonoelli (ordinario di Letteratura italiana), Diego Mariottini (Ufficio iniziative sportive), Adriana Mattorre (studentessa Facoltà di Lettere e Filosofia), Anna Laura Palazzo (professore associato di Urbanstica), Sarah Proietti (studentessa del C.d.L. in Scienze della comunicazione), Maria Rosaria Stabili (ordinario di Storia dell’America Latina), Alberto Tenderini (Resp. Ufficio iniziative sportive), Simona Vitale (Biglietteria teatrale Agis Roma Tre) Immagini e foto Lidia Bagnara©, Erika Bernacchi©, Claude Coldy, Pietro Bologna©, Alessandro Brasile©, M. Delahaye©, Toni D’Urso©, Laurent Lafolie©, NARA College Park - MD, OMS/ONU©, Matteo Piscitelli, www.schloss-harteim.at, www.ushmm.org Progetto grafico Magda Paolillo Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma 06 64561102 - www.conmedia.it Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico. Impaginazione e stampa Tipografia Gimax di Medei Massimiliano Via Valdambrini, 22 - 00058 Santa Marinella (RM) - Tel. 0766 511644 In Copertina Carolyn Carlson, foto di Claude Le-Anh© Finito di stampare aprile 2011 Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998


«Il corpo colonizzato»? Discorsi egemonici sul corpo e politiche della corporeità di Anna Lisa Tota

I corpi parlano, anzi raccontano. Nel 1958 Alexander Lowen, allievo di Wilhelm Reich, scrisse un libro – The Language of the Body – destinato a influenzare profondamente la pratica terapeutica tradizionale, secondo la quale i sintomi del paziente andavano compresi prevalentemente sul piano verbale. Secondo LoAnna Lisa Tota wen occorreva invece integrare l’analisi dell’espressione verbale e mentale delle emozioni e dei vissuti del paziente con il linguaggio del corpo, cioè con l’analisi della sua capacità di movimento. Secondo tale prospettiva, ripresa successivamente da molti altri studiosi e in ambiti diversi (dalle medicine alternative ad alcune pratiche sportive, dalla danza al teatro), i corpi parlano, basta saperli ascoltare.

“Abbiamo oppure siamo un corpo? L’espressione «avere un corpo» riflette una posizione linguistico-discorsiva significativamente diversa dall’espressione «essere un corpo»” In questo numero di Roma Tre News ci occupiamo delle parole del corpo, delle politiche che lo regolano e delle pratiche sociali quotidiane che a queste politiche rimandano. Analizziamo il modo in cui abitiamo i nostri corpi, interrogando su questo tema antropologi e giuristi, storici, filosofi e letterati, danzatori e studiosi di teatro, medici e sportivi. L’ipotesi di partenza è di tipo identitario e investe la dimensione delle politiche del corpo, cui ci riferiamo nella nostra cultura e che informano il nostro agire. In altri termini, concerne i discorsi egemonici sulla corporeità che abbiamo in mente: abbiamo oppure siamo un corpo? L’espressione “avere un corpo” riflette una posizione linguistico-discorsiva significativamente diversa dall’espressione “essere un corpo”. Antropologi e sociologi ci hanno insegnato che il corpo è un luogo e uno spazio di articolazione del potere. Ogni cultura dispone di elaborate e sofisticate “tecniche del corpo” che regolamentano e disciplinano gli aspetti più

svariati del nostro essere-nel-mondo-in-quanto-corpi. Queste tecniche del corpo altro non sono che la cifra empirica (o meglio, la definizione operativa) delle politiche del corpo vigenti in un dato ambito sociale e sono continuamente riprodotte e/o modificate attraverso le pratiche sociali sul corpo che caratterizzano il nostro quotidiano: il modo in cui ci laviamo, ci vestiamo e ci nutriamo, il modo in cui possiamo esprimere la nostra sessualità, il modo in cui odoriamo, in cui possiamo entrare in contatto con altri corpi, il modo in cui ci ammaliamo e ci curiamo, persino il modo in cui nasciamo e moriamo è socialmente e culturalmente definito da numerose tecniche e politiche del corpo. David Sudnow nel 1967, in una ricerca intitolata Passing on. The social organization of dying, introdusse il concetto di “morte sociale”, intesa come stato di morte che precede la morte clinica del paziente ricoverato in ospedale e che è letteralmente prodotta da una serie di pratiche ospedaliere sul corpo del paziente che l’organizzazione ha individuato e selezionato come “moribondo”. In altri termini, Sudnow rivela come il paziente sia già considerato socialmente morto molto prima del momento in cui effettivamente il suo cuore cesserà di battere e il respiro si fermerà. Persino la morte dunque avviene all’interno di un quadro culturale e sociale, definito dalle tecniche e dalle politiche del corpo che caratterizzano il luogo in cui essa si manifesta (nel caso specifico, i due ospedali americani analizzati da Sudnow).

“Il modo in cui ci laviamo, ci vestiamo e ci nutriamo, il modo in cui possiamo esprimere la nostra sessualità, in cui possiamo entrare in contatto con altri corpi, il modo in cui ci ammaliamo e ci curiamo, persino il modo in cui nasciamo e moriamo è socialmente e culturalmente definito da numerose tecniche e politiche del corpo” Ma quali sono le politiche del corpo che informano e sostengono la nostra vita quotidiana? Quali i discorsi egemonici sulla corporeità che ci definiscono? Pur nella differenza e complessità dei diversi contesti di riferimento, in gran parte delle culture occidentali sembra prevalere una concezione del corpo che risponde ad una logica dualista in termini di dominio/controllo. Potremmo definirla la politica del “corpo colonizzato”, seguendo la definizione proposta


da Iain Chambers e da altri autori. L’identità in questo caso si identifica con la nostra mente – o meglio con la voce narrante del nostro io pensante – e a partire da questo io che narra ed interpreta incessantemente il nostro flusso di esperienza ci relazioniamo con il corpo che abbiamo, che viene interpretato essenzialmente come “mezzo” per conseguire i fini individuati dall’io pensante. Questa modalità di rapportarsi con il corpo sembra rimandare ad una sorta di processo di colonizzazione: il corpo colonizzato è la finzione con cui ci illudiamo di mantenere il controllo sulle nostre vite e su quelle delle persone che ci circondano.

“Secondo la definizione proposta da Iain Chambers «il corpo colonizzato» è la finzione con cui ci illudiamo di mantenere il controllo sulle nostre vite e su quelle delle persone che ci circondano” Ogni tanto tuttavia succede che questa macchina perfetta all’improvviso si ribella (ad esempio, il corpo si ammala) e allora improvvisamente si disvela un’altra possibile prospettiva abbastanza inedita per noi, secondo la quale non sarebbe più l’io pensante a portare a passeggio il nostro corpo nel mondo, ma sarebbe il corpo a stabilire ciò che l’io pensante può o non può fare, i confini del nostro poter essere. In altri termini, ogni tanto succede che al posto di disporre del nostro corpo e di piegarlo alla nostra volontà, il nostro corpo sembra improvvisamente “assumere il comando” e dettare legge. Tuttavia, sarebbe riduttivo e fuorviante parlare di un’unica concezione del corpo predominante nella tradizione occidentale. Le concezioni di corpo circolanti in società sono molteplici e molto diverse fra loro. Ad esempio, le medicine alternative, diffuse ampliamente nei paesi occidentali ci hanno abituato negli ultimi decenni a nuovi tipi di relazione con i nostri corpi, secondo le quali espressioni come “ascoltare il corpo” non ci sembrano più distanti. Inoltre, a seconda degli attori sociali considerati, la definizione culturale del corpo può variare sensibilmente: per esempio, coloro che praticano sport a livello professionale oppure i danzatori – che si confrontano con i limiti del loro corpo ogni giorno attraverso i continui esercizi con cui sviluppano la loro capacità di dare forma al movimento – condividono concezioni del corpo molto diverse rispetto ad altri individui, che svolgono professioni e mestieri dove il corpo è meno in primo piano. Lo stesso si può dire anche rispetto ad attori sociali che soffrono di gravi malattie o disabilità: rispetto ai cosiddetti “individui normodotati” – un’espressione poco felice con cui siamo soliti considerare noi stessi il metro e la misura con cui valutare e giudicare le capacità corporee di tutti gli altri – gli individui diversamente abili spesso possono sviluppare una mag-

giore consapevolezza corporea. Per questi ultimi la finzione del corpo colonizzato e del dominio incontrastato dell’io pensante è contraddetta costantemente dall’esperienza quotidiana, secondo cui le loro differenti abilità li obbligano a confrontarsi continuamente con ciò che il corpo può o non può fare. Ciò a parziale riprova del fatto che Rosi Braidotti ha ragione quando sostiene che se stiamo ai margini, negli interstizi rispetto all’egemonia dominante (perché ad esempio alcuni nostri tratti non corrispondono al cosiddetto modello egemone) possiamo vedere altro ed elaborare posizioni talora più ricche e interessanti. Una persona disabile oppure gravemente ammalata avrà maggiori probabilità di fare esperienza dei limiti della metafora del corpo colonizzato rispetto ad un “normodotato”. Le modalità, con cui in questo numero abbiamo scelto i punti di vista sul corpo da interrogare, rispondono proprio anche a criteri di scelta di tipo fenomenologico: diamo voce ai margini, in quanto dare loro visibilità significa comprendere meglio il funzionamento dei discorsi egemonici sulla corporeità. Proprio in tale prospettiva un altro tema che inizia a delinearsi negli studi sul corpo concerne la relazione tra corpo e memoria. La questione è abbastanza centrale: il corpo ricorda oppure il processo del ricordo è legato esclusivamente alla nostra mente? Molti teorici nel campo dei memory studies trascurano questa questione, ritenendo che la memoria sia prevalentemente conscia e che, pertanto, abbia a che fare con le cellule cerebrali.

“Ogni tanto succede che questa macchina perfetta all’improvviso si ribella (ad esempio, il corpo si ammala) e improvvisamente si disvela un’altra possibile prospettiva abbastanza inedita per noi, secondo la quale non sarebbe più l’io pensante a portare a passeggio il nostro corpo nel mondo, ma sarebbe il corpo a stabilire ciò che l’io pensante può o non può fare, i confini del nostro poter essere” Eppure, noi facciamo esperienza del fatto che le nostre mani talora ricordano sequenze di movimento che la nostra mente ha dimenticato (ad esempio, riprendendo a suonare il pianoforte dopo molti anni) oppure del fatto che i nostri piedi sanno sciare o sanno stare in equilibrio sulla tavola da surf anche dopo decenni che non pratichiamo più quello sport. Ci sono inoltre tecniche di respirazione (come il “respiro circolare”) che ci fanno fare esperienze della memoria corporea difficilmente spiegabili. E allora questo corpo ricorda? E se questo fosse vero, non dovremmo forse ripensare i discorsi egemonici sul corpo che abbiamo in mente?


Il diritto del corpo vivente Corpo-persona: una nuova categoria giuridica di Lorenzo d’Avack

“Il principio etico-giuridico della prevalente inalienabilità del corpo non appare più adeguato alla nuova realtà scaturita dagli sviluppi delle biotecnologie ed è oggi oggetto di un ampio dibattito a livello europeo” In questo contesto sembra di giorno in giorno più difficile difendere principi quali l’indivisibilità e l’inviolabilità del corpo e la sua limitata disponibilità. Principi che non sembrano oggi in grado di fornire da soli risposte univoche sia alle istanze individualistiche e libertarie, sia alle nuove spinte di mercato per l’utilizzazione del corpo umano. Naturalmente in una prospettiva de iure condendo non si possono nascondere le molte difficoltà che si pongono al lavoro del legislatore a fronte di queste nuove e necessitate rivendicazioni.

L’espressione diritto di disporre di se stesso può avere come referente: a) il potere di disporre della propria vita, ovvero b) il potere di disporre del proprio corpo sia dopo la morte che in vita (disposizione di organi o di cellule). Tralasciando la prima accezione e con riferimento alla seconda, si può innanzitutto osservare come il potere di disporre liberamente del cadavere non ponga delle difficoltà interpretative. Gli ordinamenti giuridici più evoluti hanno in genere considerato il diritto di disporre del proprio corpo dopo la morte come ricollegabile a valori di libertà e di solidarietà naturale piuttosto che a un diritto soggettivo. Nei confronti del cadavere il diritto reagisce principalmente come se si trattasse di una cosa. Un bene che conserva una sua sacralità e impone rispetto in considerazione di ciò che ha rappresentato nel passato – e ciò spiega la configurazione di illeciti penali in caso di vilipendio del cadavere – ma pur sempre continua a trattarsi di una cosa. Ma siamo, dunque, lontani da una configurazione proprietaria post mortem della relazione fra la persona defunta e i propri organi. Ben diversa è l’analisi giuridica del potere di disporre del vivente, come cellule, gameti, tessuti e organi diversi.

“In medicina il corpo non è più quello del malato, ma piuttosto un corpo malato, parcellizzato, tecnicizzato, spezzettato tra differenti specialità” Ricondurre, da una parte, questo potere allo schema classico del diritto soggettivo e attribuire, dall’altra, ad esso la qualifica di jus in re (diritto opponibile a tutti e la facoltà di disporre liberamente di sé) comporta restringerlo nella signoria assoluta del volere, identificarlo in un diritto di proprietà. Ne scaturisce una visione che suscita perplessità, forse poco rigorosa e certamente priva di quella immaginazione giuridica oggi tanto auspicata per la regolamentazione del fenomeno stesso. Schema di riferimento altrettanto superato, dettato dall’immediato accostamento del fenomeno al diritto civile classico e all’utilizzazione del modello e della struttura contrattuale come referente primario, è quello che assimila gli atti di disposizione del proprio corpo a donazioni inter vivos o mortis causa. Il collegamento con l’istituto della donazione non sembra tecnicamente corretto quanto meno considerato come il termine rileva in una accezione strettamente civilistica. Anzitutto l’atto di disposizione non potrebbe mai essere un dono. Lo stesso termine dono è utilizzato in questo contesto in modo simbolico, per sottolineare il carattere di gratuità, l’assoluta libertà e spontaneità dell’azione, il valore di solidarietà, certo non per qualificare giuridicamente la disposizione. Non è casuale che i donatori, che identificano sovente il diritto con l’obbligazione o la costrizione, insistano su

primo piano

Nell’ambito del rapporto corpo-persona il principio etico-giuridico della prevalente inalienabilità del primo (il corpo è raramente disponibile ed è fuori dal commercio) non appare più adeguato alla nuova realtà scaturita dagli sviluppi delle biotecnologie ed è oggi oggetto di un ampio dibattito a livello europeo. D’altronde lo sviluppo Lorenzo d’Avack scientifico e tecnico della ricerca e della medicina rinforza la tendenza al riduzionismo e al materialismo. Nella biologia è la necessità scientifica che spinge verso l’eliminazione della nozione di soggetto e della complessità psicosomatica del corpo. E in medicina il corpo non è più quello del malato, ma piuttosto un corpo malato, parcellizzato, tecnicizzato, spezzettato tra differenti specialità. Lo stretto legame, poi, stabilitosi tra lo sviluppo scientifico e l’industria conduce di fatto nel campo della vita a mettere in opera delle tecniche commerciali che sono direttamente influenzate dalle leggi di mercato. Si pensi alla tendenza economica a recuperare gli investimenti attraverso l’introduzione e la circolazione sul mercato di prodotti fabbricati con tessuti o cellule di origine umana e attraverso l’utilizzo in estensione di prodotti destinati a fini non terapeutici. Le diverse offerte – più o meno potenziali – che provengono dalle nuove tecniche incrementano e provocano la domanda al di là dei benefici ottenuti semplicemente nel settore medico. L’essere umano diviene così un prodotto, un bene come altri, sottoposto alle logiche di mercato.

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questo aspetto del loro gesto: più che esercitare un diritto a donare il loro sangue, i loro organi, essi esercitano la loro libertà a vantaggio di un loro simile o della società. Anche la terminologia più attuale non è quella di donatore, bensì in materia di fecondazione di datore e in materia di trapianto di cedente.

“Gli ordinamenti giuridici più evoluti hanno in genere considerato il diritto di disporre del proprio corpo dopo la morte come ricollegabile a valori di libertà e di solidarietà naturale piuttosto che a un diritto soggettivo”

L. 26 giugno 1967, n. 458, in deroga all’art. 5 c.c. - fa espresso riferimento al compimento di un atto di solidarietà sociale). Tutto ciò ci spinge a considerare i diritti di disposizione del proprio corpo come appartenenti ad una categoria intermedia tra le libertà (fisiche) ed i diritti soggettivi propriamente detti. Si potrebbe parlare di libertà individuali che, a seconda delle circostanze, possono essere sia imbrigliate dall’indisponibilità, sia dall’interesse generale, sia ricondotte ad una prerogativa a carattere patrimoniale. D’altronde, come già osservato, al preteso diritto di disposizione non corrisponde alcuna obbligazione reciproca.

“Lo stesso termine dono è utilizzato in questo contesto in modo simbolico, per sottolineare il carattere di gratuità, l’assoluta libertà e spontaneità dell’azione e non per qualificare giuridicamente la disposizione. Non è casuale che i donatori insistano su questo aspetto del loro gesto: più che esercitare un diritto a donare il proprio sangue, i propri organi, essi esercitano la propria libertà a vantaggio di un simile o della società”

Ma a parte ciò, è da dire che la donazione codicistica è fatta intuitu personae, cioè in considerazione diretta delle qualità proprie del donatario e del legame tra il donante e il donatario. Salvo casi eccezionali (es. donazione del rene: L. 26.06.1967, n. 458), chi si separa da una parte del proprio organo a vantaggio di qualcun altro il più delle volte non conosce il destinatario: il dono è generalmente anonimo. Così nella donazione degli organi ex mortuo. In materia di procreazione medicalmente assistita nell’ipotesi di eterologa è prevalente la contrarietà alla cessione dei gameti a favore di persone determinate e conosciute dal donatore. In verità se si vuole assolutamente conservare un modello contrattuale, bisognerebbe ammettere che questo contratto non assomiglia ad alcun altro e deve essere riconosciuto come una realtà È un diritto senza un vero creditore e se vogliamo privo giuridica sui generis. Tanto più che l’esigenza nell’ambito anche dell’oggetto del diritto, perché, trattandosi della perdelle disposizioni del proprio corpo del consenso informato sona stessa, si ricade nella ben nota obiezione già avanzata scaturisce soltanto dal diritto all’autonomia della volontà, alla teoria del diritto di proprietà: il corpo non è un bene. cioè dal diritto per il soggetto di liberamente determinare le E le condizioni indispensabili a cui donatore/ricevente e/o proprie disposizioni e le proprie sperimentatore/paziente debbono scelte. Ma da ciò non scaturisce nelle legislazioni attuali uniformarquel principio proprio del mondo si rassicurano altresì che questa otcontrattuale pacta sunt servanda tica individualistica e libertaria non che implicherebbe – salvo rare si traduca certo nel principio che eccezioni – l’adempimento delle tutto debba essere lasciato alla libeprestazioni concordate e promesra autonomia dell’uomo. se. In effetti, invece, tutti sono Bisogna dunque innanzitutto invend’accordo – come è ben noto – tare categorie giuridiche nuove che nel riconoscere al soggetto della permettano di qualificare il vivente sperimentazione, al donatore dei umano distaccato dalla persona. Esso propri organi, il diritto assoluto di non rientra oggi né nella categoria uscire dall’impegno assunto ogni delle res derelictae né in quella delle qualvolta lo desideri. res publicae né in quelle delle res Inoltre la tendenza degli ordinaprivatae. Da tali future categorie dimenti giuridici e della dottrina nel penderanno le regole che dovranno valutare la validità degli atti di disgovernare i titolari, l’uso o la destiposizione del corpo si mostra, conazione di questi nuovi beni né cose me in precedenza ricordato, semné soggetti. L’attuale incapacità prepre più sensibile a considerazioni sente in molti ordinamenti giuridici di ordine sociale, così da ritenere di pensare il diritto del corpo vivente necessaria la presenza di uno scopo e depersonalizzato è una delle ragiomoralmente e socialmente valido ni primarie del caos che regna in per consentire all’agente la facoltà questa materia e delle difficoltà che d’incidere sulla propria integrità fila società trova nell’affrontare quesica (ricordo che la legge sul tra- Gustav Klimt, L’albero della vita (pannello centrale), stioni pratiche che si pongono con pianto del rene di persona vivente - 1905-1909 sempre maggiore frequenza.


Conflitti di potere Il corpo, un dinamismo interminabile di Paolo Apolito

Quando Maurice Leenhardt chiese al suo informatore indigeno della Nuova Caledonia, Boesoon, cosa i bianchi avessero portato al suo popolo, sorprendentemente si sentì rispondere, “il corpo”. Solerte missionario protestante e scrupoloso antropologo della prima metà del Novecento, Leenhardt non si aspettava questa Paolo Apolito risposta. Riteneva che l’anima fosse la novità culturale da lui, dagli occidentali, introdotta. Lo spirito ce l’avevamo già, invece gli disse Boesoon, voi ci avete portato il corpo. Leenhardt rifletté a lungo su questa risposta e dopo di lui, altri antropologi. E missionari. Perché avremmo portato il corpo e non invece un principio spirituale? Perché per il Paradiso occorre predisporre il corpo, l’anima ne viene di conseguenza, avrebbe potuto argomentare Boesoon. Voi ci avete portato il vostro corpo occidentale, spingendoci – convincendoci o costringendoci – a trasformare i nostri corpi nei vostri corpi. E dunque a farne oggetto di attenzione, cura, educazione. Di metamorfosi. «Questo sì, potete conservarlo; questo non più, dovete abbandonarlo; quest’altro, nuovo, dovete adottarlo, è obbligatorio». Lo stupore più pungente che provò Colombo quando sbarcò nel Nuovo Mondo fu di trovare indigeni privi di indumenti, corpi nudi senza vergogna. Adamo ed Eva coprirono i loro corpi dopo il peccato e la cacciata dall’Eden. Come si poteva andare in giro nudi? Erano umani questi esseri trovati sull’isola dello sbarco? Ma allora erano vittime del demonio? Ecco alcune domande che aprirono lunghi dibattiti in Europa. Da allora, la conversione alla “vera” religione ebbe da passare attraverso una trasformazione del corpo. Ciò che s’era sempre fatto andava abbandonato, il corpo andava rieducato. Riplasmato. Per meritare il Paradiso occorreva liberarsi dalle stimmate che il demonio aveva depositato sui corpi degli indigeni sparsi per il mondo: la nudità, la sessualità, la trance. O che comunque erano segno di arretratezza, inciviltà, selvatichezza, subumanità: strani usi del corpo, strane fogge, strani atteggiamenti. Il corpo non è mai stata una faccenda esclusivamente fisica. Il corpo, i corpi, da sempre sono stati oggetti e soggetti culturali. E nodi di conflitti di potere. Pochi istanti dopo la nascita, un neonato avvia una strettissima interazione con la mamma o con chi se ne occupa, fatta di vocalizzazioni, movimenti, gesti, sguardi, che la mamma anticipa o cui risponde rinforzando e duplicando l’impulso del neonato a entrare in relazione con lei. Quasi una danza,

dicono gli studiosi, quasi un concerto musicale, di cui loro due sono impareggiabili esecutori. In tal modo il neonato nel corso di pochi mesi, spinto nell’alveo della cultura di appartenenza, cui sarà vincolato per il resto del suo addestramento e poi della sua vita, apprende il suo corpo culturale.

“Lo stupore più pungente che provò Colombo quando sbarcò nel Nuovo Mondo fu di trovare indigeni privi di indumenti, corpi nudi senza vergogna. Adamo ed Eva coprirono i loro corpi dopo il peccato e la cacciata dall’Eden. Come si poteva andare in giro nudi? Erano umani questi esseri trovati sull’isola dello sbarco? Ma allora erano vittime del demonio?” Nel 1936 il grande antropologo francese Marcel Mauss pubblicò uno studio, destinato ad aprire un fertile campo di approfondimenti e studi, dedicato alle “tecniche del corpo”. In esso mostrava che i corpi sono strutture biologiche che ricevono un addestramento psicologico e culturale per cui diventano organismi complessi, che raccontano e mettono in azione nel loro vivere origini, abitudini, valori, istituzioni. Dal movimento più semplice, il camminare, a quello più elaborato, il lavorare per trasformare il mondo, il corpo impara ad agire osservando, imitando, subendo, provando e riprovando e infine acquisendo la forma giusta secondo il mondo culturale nel quale gli è capitato di venire al mondo e crescere. Proprio come i missionari ri-modellavano i corpi da convertire alle nuove idee religiose e poi morali, economiche, sociali, ogni “cultura” modella i corpi non solo perché compiano i gesti tecnici giusti, ma perché essi siano coerenti con le idee, i valori, i processi simbolici condivisi o dominanti. Perché ne siano forma corporea, espressiva, comunicativa. E perché “incorporino” le regole, i ruoli, le aspettative, le discipline sociali. E persino si abituino alle dinamiche di conflitto pratico e simbolico per ottenere le risorse necessarie a sopravvivere, vivere, a farsi soggetto agente. A cominciare dalla “risorsa” della salute, del benessere, contesa non solo (e spesso per niente) alla “natura”, ma agli altri, agli equilibri sociali. I codici culturali e sociali della salute e della malattia si trasferiscono nel corpo. Nel senso che le idee e le azioni relative allo stato di salute e di malattia entrano nel corpo vivente e lo plasmano, lo fanno vivere e persino morire secondo le forme che la “cultura” gli conferisce. V’erano società nel mondo in cui era presente la cosiddetta morte vudu. Quando un membro di una tale società

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Michelangelo, La cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso, Cappella Sistina (1508-1512)

veniva con un sortilegio condannato a morte, egli sentiva che la fine gli si approssimava e insieme a lui lo pensava tutta la sua comunità. «Da quel momento in poi – scriveva Lévi-Strauss – la comunità si ritrae: tutti si allontanano dal maledetto, si comportano nei suoi confronti come se fosse non solo già morto, ma fonte di pericolo per quelli che lo circondano; in ogni occasione e con tutti i suoi comportamenti, il corpo sociale suggerisce la morte alla sventurata vittima, che non pretende più di sfuggire a quel che considera come suo ineluttabile destino… L’integrità fisica non resiste alla dissoluzione della personalità sociale».

“Per meritare il Paradiso occorreva liberarsi dalle stimmate che il demonio aveva depositato sui corpi degli indigeni sparsi per il mondo: la nudità, la sessualità, la trance. O che comunque erano segno di arretratezza, inciviltà, selvatichezza, subumanità: strani usi del corpo, strane fogge, strani atteggiamenti” La biomedicina è una forma di conoscenza e cura della malattia di grandissima efficacia, non c’è dubbio, scientificamente fondata e ormai universalmente diffusa. Ma sarebbe miope pensare che prima o accanto a essa non vi siano state e non vi siano altre forme di mantenimento dello stato di salute, e di conoscenza e guarigione della malattia. Che prima e fuori della biomedicina, l’umanità sia tutta preistorica. Gli antropologi hanno trovato svariatissime forme “mediche” nel mondo, che spesso fondono insieme livelli che noi teniamo separati. Per molti popoli non c’è distinzione tra quelli che noi chiamiamo livelli sociali, culturali, religiosi, medici, economici, e altro ancora. Noi consideriamo “primitive” le forme di guarigione “magica”, “sciamanica”, ma esse sono procedure in molti casi efficaci che agiscono su un corpo che è reso sensibile a interventi di vario ordine, non solo fisico, ma sociale, morale, religioso. La malattia può essere considerata effetto di disequilibri

sociali, infrazioni religiose, scompensi morali. E allora il corpo registra in sé il male generato altrove. Del resto anche la biomedicina oggi sa che ci si ammala di povertà economica, di disagio sociale, ci si ammala – o si guarisce – di simbolismo religioso e sociale. Il corpo vivente è una straordinaria risorsa del potere sociale. È posta in gioco di conflitti e di egemonie, è luogo di strategie di potere e di consenso: il corpo della donna in moltissime società, per esempio. Nella nostra complessa società poi il corpo è sempre più oggetto di strategie di biopotere, cioè di potere che si estende alla sfera della vita biologica, sia nelle sue forme inclusive, però che delimitano potenzialità, che in quelle escludenti: per esempio che riguardano i migranti, sempre più considerati corpi biologici privi di proprie relazioni umane significative: umani a cottimo. Ma i corpi viventi non sono passivi terminali di strategie di potere sociale e culturale. Ciascuno vive in sé un personale punto di equilibrio tra i modelli culturali e sociali imposti o condivisi della corporeità e il proprio concreto modo di incorporarli. E dunque ciascuno per ciò stesso diventa agente protagonista di trasformazioni incessanti di questi modelli, secondo diversi gradi individuali, evenemenziali, persino casuali.

“Dal movimento più semplice, il camminare, a quello più elaborato, il lavorare per trasformare il mondo, il corpo impara ad agire osservando, imitando, subendo, provando e riprovando e infine acquisendo la forma giusta secondo il mondo culturale nel quale gli è capitato di venire al mondo e crescere” Un corpo vivente agisce in un mondo intersoggettivo (altri corpi) secondo una intenzionalità, cioè una consapevole relazione-con o direzione-a un contenuto. E così facendo trasforma ciò che lo aveva trasformato e circolarmente lo trasformerà, in un dinamismo interminabile fin tanto che non termini la vita stessa.


A sud dell’anima Desaparecidos in America Latina: assenza dei corpi e impossibilità di oblio di Maria Rosaria Stabili Ni su cuerpo para llorarlo (Neppure il suo corpo per piangerlo)! Negli ultimi tre decenni del secolo scorso, in molti paesi dell’America latina, questo doloroso ritornello era ripetuto spesso da madri, mogli, nonne, zie, sorelle alla ricerca disperata dei propri familiari scomparsi. Volevano avere loro notiMaria Rosaria Stabili zie e li cercavano, vivi o morti che fossero. Certamente non erano scappati, non si erano persi nel nulla, ma qualcuno si era impadronito del loro corpo e, forse, della loro anima.

“Per la prima volta veniva applicata su larga scala la «scomparsa forzata» degli oppositori che includeva il sequestro, la detenzione segreta, la tortura, l’omicidio e la sparizione dei cadaveri in fosse comuni o nelle profondità degli oceani gettati dagli aerei militari in volo” Colpi di stato militari e conflitti armati interni della seconda metà del Novecento avevano trasformato buona parte del continente latinoamericano in una landa desolata di repressione e morte senza precedenti. Le strategie repressive messe in atto dagli agenti dello Stato rivelavano la fredda efficienza con cui erano pianificate le azioni tendenti a distruggere non soltanto le formazioni di sinistra e i gruppi di guerriglia armata, ma anche l’opposizione politica democratica e anche semplici cittadini ignari ma considerati “terreno di coltura” del dissenso. Rispetto al passato, diverse erano le novità repressive. La più drammatica era l’improvvisa scomparsa degli oppositori, una tecnica che per la prima volta veniva applicata su larga scala. La «scomparsa forzata» includeva il sequestro, la detenzione segreta, la tortura, l’omicidio, la sparizione dei cadaveri in fosse comuni o nelle profondità degli oceani gettati dagli aerei militari in volo. Utilizzata in precedenza, in forma occasionale, dal 1966 diventa lo strumento principale della repressione inizialmente in Guatemala, poi in Cile, in Argentina, Uruguay, Perù, Salvador e, in misura minore, anche in altri paesi dell’America meridionale. Per quanto fosse molto difficile un conteggio esatto del numero dei desa-

parecidos, un documento delle Nazioni Unite stimava, nel 1985, per tutta l’America latina, un totale di 90.000 persone e considerava questo strumento repressivo la più drammatica violazione dei diritti umani. Le vittime di questa tecnica di repressione venivano rapiti, i loro cari li cercavano nei commissariati, negli ospedali, al cimitero ma non riuscivano a sapere dove fossero detenuti, se erano stati torturati e assassinati.

“Per quanto fosse molto difficile un conteggio esatto del numero dei desaparecidos, un documento delle Nazioni Unite stimava, nel 1985, per tutta l’America latina, un totale di 90.000 persone e considerava questo strumento repressivo la più drammatica violazione dei diritti umani” Era raro che una persona scomparsa la si ritrovasse successivamente viva, in custodia o rilasciata ma era quasi impossibile verificare se fosse effettivamente morta. Corpi mutilati, spesso irriconoscibili, ritrovati sui bordi delle strade o deposti in luoghi pubblici, non erano identificabili e quindi non potevano essere reclamati da nessuno. La loro esposizione aveva la macabra finalità di terrorizzare la popolazione e prevenire potenziali opposizioni. Gli estensori del messaggio erano facilmente identificabili. Violenze così visibili potevano produrre reazioni negative nell’opinione pubblica mondiale, mentre sparizioni in forma segreta e anonima non rendevano evidente il crimine e impedivano il riconoscimento sia della vittima sia dell’autore della violenza. Sembrava essere il crimine “perfetto” perché invisibile ai più, con l’eccezione delle vittime e dei loro parenti e amici. Alla vittima era negato il martirio; ai suoi parenti

«Dove sono le centinaia di bambini nati durante la detenzione?». Un manifesto delle Abuelas de Plaza de Mayo

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era impedito il rito della veglia, della sepoltura e dell’elaborazione del lutto. I “cattolicissimi” e autoritari capi di stato latinoamericani di turno, militari o civili che fossero, infrangevano, dunque, non solo il comandamento di non uccidere ma negavano la sacralità dei cadaveri riconosciuta dalla loro Chiesa e impedivano i riti per onorarli. Non c’è società o religione che non consideri i cadaveri sacri e i riti della veglia e della sepoltura essenziali per l’equilibrio, mentale e fisico, degli individui e della comunità. I cadaveri permettono la fisicità e quindi la visualizzazione della morte senza la quale si perde il senso della vita e si perde la percezione dell’inizio e della fine di un percorso.

“Non c’è società o religione che non consideri i cadaveri sacri e i riti della veglia e della sepoltura essenziali per l’equilibrio, mentale e fisico, degli individui e della comunità. I cadaveri permettono la fisicità e quindi la visualizzazione della morte senza la quale si perde il senso della vita e si perde la percezione dell’inizio e della fine di un percorso” I cattolici che in America Latina sono tanti, credono che l’anima sopravviva al corpo; interpretano la morte come momento essenziale di contatto con Dio e le celebrazioni funebri una conferma dell’avvenuto passaggio al mondo ultraterreno. Per gli indigeni dell’America latina, l’idea della circolarità vita-morte-vita, essenziale nella loro visione del mondo, acquista concretezza nei rituali che raccontano il dolore e la gioia, nei passaggi festosi e talvolta ludici che si consumano prima attorno al cadavere e poi attorno ai luoghi della sepoltura dei loro cari. In alcune comunità si pensa che lo spirito dei morti abbia bisogno di sette anni per staccarsi definitivamente dal mondo dei vivi e i riti a loro dedicati sono essenziali per aiutarli ad allontanarsi in pace. Si crede, infatti, che l’anima di chi non abbia ricevuto onori funebri sia condannata a vagare, inquieta, tra le prime sfere che circondano la terra. È importante allora ufficializzare la morte, ricordare la vita del defunto, esprimere solidarietà alla famiglia e alla comunità di appartenenza. Soltanto così l’elaborazione del lutto è possibile e permette lo scorrere sereno e armonico della vita. Per tutto questo la

sparizione forzata delle persone e la mancata consegna dei corpi alle loro famiglie è considerata una delle più orrende violazioni dei diritti umani inflitte non soltanto ai defunti ma soprattutto ai vivi, alle loro famiglie e alla società nel suo insieme. Ma durante gli anni più bui delle dittature latinoamericane non solo si negava alle famiglie la consegna del corpo degli scomparsi assassinati. Succedeva qualcosa di ancora più terribile. Soprattutto in Argentina, molte delle persone scomparse erano giovani donne incinte. I torturatori, dopo il sequestro e prima di ammazzarle, le facevano partorire. Venendo meno alla promessa fatta loro di consegnare i neonati alle rispettive famiglie, li davano in adozione alle coppie sterili dei militari o a quelle dei loro amici.

“È importante ufficializzare la morte, ricordare la vita del defunto, esprimere solidarietà alla famiglia e alla comunità di appartenenza. Soltanto così l’elaborazione del lutto è possibile e permette lo scorrere sereno e armonico della vita” Alcune volte li tenevano per sé come una sorta di bottino di guerra. Così molte famiglie degli scomparsi si ritrovavano senza corpi per celebrare la morte e senza piccoli corpi, appena nati, per celebrare la vita. Si è calcolato che nella sola Argentina ammontassero a cinquecento i casi di neonati scomparsi. Nella strategia repressiva però non si era calcolato proprio tutto. Poiché non risultava che gli scomparsi fossero effettivamente imprigionati e poi morti, l’assenza dei corpi alimentava la speranza che i desaparecidos potessero essere ancora vivi attivando così un processo che i militari non avevano previsto: la politicizzazione d’intere famiglie e soprattutto delle donne. Era il dramma personale e familiare che spingeva le donne, sin dai primi mesi dei regimi militari, a


lasciare la propria casa alla ricerca d’informazioni su figli e parenti scomparsi. La disperazione e lo smarrimento, l’incontro con altre che vivevano le stesse angosce, la ricerca congiunta di aiuto e di contatti con esponenti del governo e degli alti comandi militari, con la stampa nazionale e internazionale, con gli attivisti delle agenzie internazionali per i diritti umani trasformavano gradualmente la ricerca privata di un figlio o di una figlia in una richiesta politica di democrazia.

“Poiché non risultava che gli scomparsi fossero effettivamente morti, l’assenza dei corpi alimentava la speranza che i desaparecidos potessero essere ancora vivi attivando così un processo che i militari non avevano previsto: la politicizzazione d’intere famiglie e soprattutto delle donne. La ricerca privata di un figlio o di una figlia si trasformava in una richiesta politica di democrazia” Nelle vesti di madri e mogli e in nome della difesa della famiglia le donne si esponevano pubblicamente e creavano le organizzazioni per la difesa dei diritti umani. Nonostante il terrore instaurato, perdevano ogni sorta di paura, rischiavano la vita con atti inediti di disobbedienza civile. Manifestavano nelle strade e nelle piazze portando in mano fiori, candele e soprattutto fotografie dei loro scomparsi; organizzavano scioperi della fame, s’incatenavano agli edifici di governo, bloccavano il traffico. Le forme di protesta inventate dalle madri argentine, famose in tutto il mondo, diventarono il simbolo delle lotte delle donne latinoamericane contro le dittature dei loro paesi. È a partire dunque da una delle più truci violenze perpetrate dalle giunte militari che si generò in America latina un poderoso movimento sociale per i diritti umani che s’impose sullo scenario internazionale contribuendo a porre, con una forza prima sconosciuta, il problema politico e giuridico della loro difesa e a rendere possibile che la lotta alla repressione potesse trasformarsi in possibilità di cambiamento e di speranza. Dagli anni Ottanta del secolo scorso governi di transizione democratica cominciano a insediarsi, gradualmente, in quasi tutto il continente latinoamericano ripristinando lo Stato di diritto. Essi si ritrovano innanzitutto con l’obbligo di accogliere la richiesta di verità e giustizia sui crimini per-

petrati dai regimi militari che li hanno preceduti. Tra le richieste prioritarie c’è quella di recuperare i corpi degli scomparsi per restituirli alle famiglie e dare loro gli onori della sepoltura o, nell’impossibilità di rintracciare i corpi, certificare la loro morte permettendo, finalmente, l’elaborazione del lutto. In Argentina è ancora aperta, da parte delle abuelas, le nonne, la ricerca dei nipoti nati durante la detenzione delle loro figlie scomparse. Alcune di loro li hanno potuti rintracciare, ormai adulti, e abbracciarli. Altre seguono le loro tracce nella speranza di ritrovarli prima di chiudere gli occhi per sempre. Estela Carlotto, presidente dell’associazione Abuelas argentine, donna determinata e combattiva, completamente dedicata alla causa ma senza aver ancora potuto rintracciare il nipote, così qualche tempo fa commentava: «ho avuto la fortuna di poter piangere sul corpo di mia figlia Laura; a mio nipote Guido che era il nome che la madre gli avrebbe voluto dare, dedico ogni giorno pensieri e parole ma non so che volto abbia; la gioia per la democrazia ritrovata nel mio paese non riesce a sciogliere il nodo di dolore che abita il mio cuore».

Desaparecidos Están en algún sitio / concertados desconcertados / sordos buscándose / buscándonos bloqueados por los signos y las dudas contemplando las verjas de las plazas los timbres de las puertas / las viejas azoteas ordenando sus sueños sus olvidos quizá convalecientes de su muerte privada nadie les ha explicado con certeza si ya se fueron o si no si son pancartas o temblores sobrevivientes o responsos ven pasar árboles y pájaros e ignoran a qué sombra pertenecen cuando empezaron a desaparecer hace tres cinco siete ceremonias a desaparecer como sin sangre como sin rostro y sin motivo vieron por la ventana de su ausencia lo que quedaba atrás / ese andamiaje de abrazos cielo y humo cuando empezaron a desaparecer como el oasis en los espejismos a desaparecer sin últimas palabras tenían en sus manos los trocitos de cosas que querían están en algún sitio / nube o tumba están en algún sitio / estoy seguro allá en el sur del alma es posible que hayan extraviado la brújula y hoy vaguen preguntando preguntando dónde carajo queda el buen amor porque vienen del odio da Mario Benedetti, Geografías, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1984

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«Ego dominus tuus» Osservazioni intorno al corpo nella letteratura di Giuseppe Leonelli Il corpo è quell’involucro limitato in cui, diceva Schopenhauer, siamo compressi, che si espande fino ad assorbire il mondo e a identificarsi con esso, in una dimensione che assomiglia all’assoluto, quando guardiamo da dentro il corpo verso l’esterno. L’esterno sono anche i corpi Giuseppe Leonelli degli altri: essi fanno parte del mondo e ne costituiscono, quando guardiamo da dentro il nostro corpo, una parte inscritta nel tempo, legata all’hic et nunc, quindi trascurabile, quasi eliminabile. Il nostro corpo, ne risulta, è indefinito, quello degli altri no: sta tutto, nel migliore dei casi, in un paio di metri di altezza e una media di un metro circa di circonferenza. Da dentro, guardare il mondo significa identificarsi con l’illimitato, essere il mondo.

“I conflitti violenti del corpo sono protagonisti della forma più alta e squisita della letteratura occidentale, la tragedia greca e il grande tema antropologico che la attraversa, l’incesto e i correlati sanguinosi che l’accompagnano, quali l’uxoricidio, il patricidio, il matricidio, le lotte tra fratelli” Il corpo che si estroflette, che esce da se stesso e si ricompone all’esterno nell’infinito, sta all’origine della letteratura: fra le tante definizioni che ne sono state date, tutte discutibili, possiamo pensare la letteratura come il viaggio del sé fuori di sé in cui la componente razionale è presente, ma non prevale: si fa strumento di una profondità che deve bilanciare e, qualche volta, esorcizzare il processo di elaborazione da parte dell’io di quello che Freud ha definito “il principio di realtà”. È una realtà che si struttura sul fantasmatico, un’oggettività soggettiva, se ci si passa l’ossimoro, con il quale il corpo preserva se stesso nel suo rapporto con la realtà e la interpreta a modo suo. La letteratura è il mondo come ce lo immaginiamo e, anche, almeno in parte, come lo vorremmo, un fenomeno che eleggiamo in un atto fantasmatico a noumeno, cosa in sé. Il corpo descrive quel che ha visto, come lo ha visto, con i propri strumenti di percezione, trasformando il vissuto di quel viaggio in parole: protagonista sempre il corpo, anche quando sembra completamente assente. I suoi conflitti violenti sono protagonisti della forma più alta e squisita della letteratura occidentale, la tragedia

greca e il grande tema antropologico che la attraversa, l’incesto e i correlati sanguinosi che l’accompagnano, quali l’uxoricidio, il patricidio, il matricidio, le lotte tra fratelli. Temi su cui si giocano il passato e il futuro degli uomini, l’evoluzione della loro umanità. Nella Divina Commedia, il corpo interroga se stesso con una severità che trova le sue radici in un famoso episodio all’inizio della Vita Nova, il sognovisione di Dante: E pensando di lei mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve una maravigliosa visione, che me parea vedere ne la mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé, che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: «Ego dominus tuus». Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggeramente; la quale io riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa, la quale ardesse tutta; e pareami che mi dicesse queste parole: «Vide cor tuum». E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che la facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente. Appresso ciò, poco dimorava che la sua letizia si convertia in amarissimo pianto; e così piangendo, si ricogliea questa donna ne le sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo; onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato.

Bernardino Mei, Oreste uccide Clitemnestra (1654)


conturbante intensità erotica, sia un luogo infernale. Lo incontriamo nel canto V, il canto dei lussuriosi, quello di Paola e Francesca, ai versi 126-136: Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse: soli eravamo e sanza alcun sospetto. Più fïate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disïato riso esser baciato da cotanto amante, questi che mai da me non fia diviso, la bocca mi baciò tutto tremante.

Amos Cassioli, Paolo e Francesca (1870)

Possiamo identificare in questo episodio, superbamente narrato, il resoconto di una scena primaria, alla base della quale è un corpo di donna posseduto e rapito da un signore misterioso, un padre-padrone (“Ego dominus tuus”), che strappa la madre al desiderio del figlio, murandolo in un’angoscia da castrazione? E la Commedia non sarebbe allora il faticoso cammino in forma di ascensione lontano da quella scena, dall’intrico della “selva oscura” che non lasciò mai persona viva allo splendore del Paradiso, dove tutto svapora e si sublima nell’angelicazione di Beatrice e Dante giunge “al fine di tutt’i disii”, la visione di Dio, nella quale viene assorbito fino al dissolvimento? Lungo è stato il cammino espiatorio da questa visione, tutta terrestre, a quella “mirabile” del cielo preannunciata alla fine della Vita Nova.

“Man mano che Dante sale, distaccandosi dalla voragine dell’Inferno e ascende prima le balze del Purgatorio, poi i cieli del Paradiso, la corporeità dell’essere si attenua prima, poi sbiadisce e si dissolve, fino a trasformarsi in pura luce” Man mano che Dante sale, distaccandosi dalla voragine dell’Inferno e ascende prima le balze del Purgatorio, poi i cieli del Paradiso, la corporeità dell’essere si attenua prima, poi sbiadisce e si dissolve, fino a trasformarsi in pura luce. Il luogo del corpo, nella sua fisicità, è propriamente l’Inferno: un luogo avvilito nella colpa, che appesantisce e in certi momenti abbrutisce la materialità delle anime dannate sparse per i gironi, sempre più pesante e non priva di ripugnanza man mano che si scende, fino alla meta finale del corpo di Lucifero. Possiamo parlare di repressione del corpo, luogo di ogni impurità: ma reprimere implica sempre un contenzioso col represso, fatto anche di attrazione. Così non c’è da stupirsi che il luogo in cui la fisicità del corpo si svincola dalla forza che l’avvilisce e rimbalza alla superficie dei versi danteschi, stagliandosi in una

L’ultimo verso, che abbiamo messo in corsivo, esprime un’intensità erotica completamente iscritta in una flagranza corporale che non sembra attestata nella letteratura precedente e, forse, neppure in quella che seguirà. L’epifania del corpo spunta improvvisa, produce una sorta di corto circuito nell’assetto del canto, che oscura tutto il resto. Neppure Petrarca, così impigliato nelle ragioni del corpo perennemente combattute da quelle dell’anima, ha un momento simile a questo. E forse neppure Boccaccio, benché le ragioni del corpo siano per lui serenamente accettate, al punto che nella novella 1 della giornata 4 del Decameron ascoltiamo da parte di una figlia, Ghismunda, la più appassionata difesa di quelle ragioni contro quelle obiettate dal padre, Tancredi, principe di Salerno.

“Il luogo del corpo, nella sua fisicità, è propriamente l’Inferno: un luogo avvilito nella colpa, che appesantisce e in certi momenti abbrutisce la materialità delle anime dannate sparse per i gironi, sempre più pesante e non priva di ripugnanza man mano che si scende, fino alla meta finale del corpo di Lucifero” Una difesa, commenta Boccaccio, condotta «non come dolente femina o ripresa del suo fallo, ma come non curante e valorosa, con asciutto viso e aperto e da niuna parte turbato». Il peccato di Ghismunda è di aver amato con tutta se stessa Guiscardo, un uomo che non è suo marito e che non potrà mai esserlo perché di condizione troppo inferiore alla sua. Tra le varie ragioni con cui Ghismunda difende il suo amore, fondamentali e indiscutibili sono quelle del corpo: Sono adunque, sì come da te generata, di carne, e sì poco vivuta, che ancor son giovane; e per l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disidero, al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stata maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto disidero dar compimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello a che elle mi tiravano, sì come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi.

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Il corpo tra canone e realtà Quando il corpo delle donne generava il mondo e quello degli uomini lo misurava di Giuliana Calcani «...tutto ciò che dalla nascita allo sviluppo fisico compiuto aveva servito da ispirazione e da insegnamento della natura e dell’arte alla formazione dei corpi, come alla conservazione, al perfezionamento ed all’ornamento di tale formazione, fu posto in opera dagli antichi Greci a vantaggio della loro bella natura, e pertanto è di grandissima verosimiGiuliana Calcani glianza l’opinione che, al confronto dei nostri, i loro corpi avessero il privilegio della bellezza». Così Johann Joachim Winckelmann (Il bello nell’arte. Scritti sull’arte antica, I ed. it. Giulio Einaudi, Torino 1943), figura chiave per la conoscenza dell’antichità classica nel Settecento, gettava le basi per la venerazione estetica della civiltà greca. La bellezza dei corpi, restituita dalle statue antiche, non poteva che essere l’espressione compiuta di una civiltà perfetta e irraggiungibile per i moderni. Il pensiero di Winckelmann influenzò la visione dei contemporanei e dei posteri, creando l’eccellenza greca proprio attraverso la rappresentazione del corpo maschile nudo. Il sensuale “Apollo del Belvedere” divenne l’icona del bello ideale. Nell’eterno confronto tra antico e moderno, il corpo, ovvero la sua rappresentazione artistica, è diventato il simbolo attraverso il quale interpretare epoche lontane e società diverse. «Osservate il pellerossa che veloce, in corsa, insegue un cervo: il suo sangue è fluido, pieghevoli ed agili si sviluppano i suoi nervi e i suoi muscoli, e tutta la struttura del suo corpo è di grande leggerezza». È ancora Winckelmann che scrive e il paragone gli era utile per immaginare le forme degli eroi descritti da Omero. I corpi dei “selvaggi”erano visti dagli intellettuali dell’epoca come testimonianze reali dell’antichità perduta. La vita a diretto contatto con la natura e la nudità degli indigeni, erano i due fattori scatenanti di un confronto semplicista quanto fuorviante. Eppure lo stereotipo resiste e nell’immaginario comune l’antichità si confonde spesso con un eden incontaminato e la civiltà greca la filtriamo ancora con lo sguardo rivolto alla forma statuaria dei Apollo del Belvedere

corpi nudi degli déi e degli eroi. Apollo e Ares, Afrodite e Giunone, Achille ed Eracle, sono i “tipi” fisici attraverso i quali immaginiamo la Grecia di tanti secoli fa e che ci danno ancora il riferimento per bellezze attuali. Una donna formosa la definiamo “giunonica”, i tratti gentili fanno di un uomo un tipo “apollineo” e via dicendo.

“Il pensiero di Winckelmann influenzò la visione dei contemporanei e dei posteri, creando l’eccellenza greca proprio attraverso la rappresentazione del corpo maschile nudo. Il sensuale Apollo del Belvedere divenne l’icona del bello ideale” Ma tutti gli stereotipi si basano su un fondo di verità e la ricerca della perfezione, nell’antica Grecia, passava effettivamente attraverso l’attenzione al corpo, secondo parametri indagati anche di recente (La bellezza del corpo nella cultura antica, Atti del convegno, Bologna 2003, Bologna 2005). L’ideale maschile era rappresentato dal corpo atletico nudo, quello femminile proponeva le morbide forme di buon auspicio per la maternità. Al corpo delle donne, generatrici del mondo, era infatti riconosciuta l’equivalenza mistica con la madre terra, mentre il corpo dell’uomo rappresentava il parametro di riferimento per la gestione del mondo. Nella seconda metà del V secolo a.C. Policleto scrisse il Canone, un trattato in cui il famoso scultore di Argo dettò la regola dell’antropometria. Lo scritto teorico era stato concretamente tradotto da Policleto in una statua, per lungo tempo identificata con il Doriforo, ma della quale ci sfugge oggi l’esatta iconografia. Quello che è certo è che Policleto aveva estrapolato un modello ideale di figura maschile, desumendo da diverse tipologie, le proporzioni del “canone”. Il corpo che ne derivava non era né troppo alto, né troppo basso, né magro, né grasso e così via. Tale modello veniva reso duplicabile sulla base dei rapporti numerici indicati tra le parti, evidenziando la radice pitagorica del numero come essenza del reale e come fondamento ontologico della bellezza. Il “canone” di Policleto, rivisitato


nel IV secolo a.C., fino agli esiti rinascimentali, è l’esempio più immediato dell’importanza del corpo nella società greca. E la ricerca dell’armonia esterna rifletteva l’esigenza di un’armonia anche interiore, come testimonia un passo di Galeno (Sulle massime di Ippocrate e Platone, 5.3) ispirato proprio alla definizione del “canone” di Policleto: «...la salute del corpo nasce dall’esatta proporzione di quelli che sono i suoi elementi, caldo, freddo, secco, umido, e la bellezza dall’esatta proporzione non degli elementi, ma delle parti di un dito rispetto ad un altro dito, di tutte le dita rispetto al carpo e al metacarpo...». E sulla lunghezza media del dito (dactilos), delle due dita (condilos), del palmo (quattro dita), della spanna (la mano completamente aperta), del piede, si sono misurate le parti costitutive di tutti i cantieri edili antichi. Il corpo maschile rappresentava la misura e il parametro di riferimento sia per costruire l’immagine di un’umanità ideale, sia per dare ordine al mondo attraverso il progetto architettonico. Vitruvio (Sull’architettura, III, 1) paragonava la simmetria del tempio a quella del corpo umano: «...senza rispettare simmetria e proporzione nessun tempio può avere un equilibrio compositivo, com’è per la perfetta armonia delle membra di un uomo ben formato».

“Lo stereotipo resiste: nell’immaginario comune l’antichità si confonde spesso con un eden incontaminato e la civiltà greca la filtriamo ancora con lo sguardo rivolto alla forma statuaria dei corpi nudi degli déi e degli eroi. Apollo e Ares, Afrodite e Giunone, Achille ed Eracle, sono i “tipi” fisici attraverso i quali immaginiamo la Grecia di tanti secoli fa e che ci danno ancora il riferimento per bellezze attuali” La stessa conoscenza del mondo viene tradotta dai greci in forme umane, la geografia assume i corpi maschili dalle chiome fluenti per rappresentare i fiumi; quelli di fanciulle con corone turrite per le città. Ma il corpo diventa anche la forma di concetti astratti come la divinità, il tempo (dall’eternità Aion, all’attimo fuggente Kairos), la giustizia, la forza fisica e quella interiore. L’efficacia delle rappresentazioni antiche è proprio quella di esprimere attraverso le caratteristiche del corpo anche gli stati d’animo più sfumati. La mano velata rivela il dolore o il lutto, ma anche il rispetto verso un oggetto che non si può toccare direttamente. È importante decifrare i particolari alla luce dell’insieme. Solo così si è riusciti a comprendere il senso di sculture come quelle di Eros, di Phaeton e di Pothos, ovvero delle rappresentazioni dei diversi gradi dell’innamoramento, della passione che brucia, della nostalgia per l’amore lontano. La personificazione è il processo che i Greci hanno compiuto ponendo il corpo dell’essere umano al centro dell’universo. Il corpo segna la differenza tra lo spazio della civiltà dal caos, perchè solo ciò che assume sembianze umane diventa conoscibile e governabile. Il corpo resta centrale anche nella rappresentazione della so-

cietà romana. Continua l’uso delle personificazioni per dare forma a concetti astratti e nelle divinità, ereditate dal pantheon greco, persiste l’idealizzazione del corpo per esprimere la superiorità divina.

“La stessa conoscenza del mondo viene tradotta dai greci in forme umane, la geografia assume i corpi maschili dalle chiome fluenti per rappresentare i fiumi; quelli di fanciulle con corone turrite per le città. Ma il corpo diventa anche la forma di concetti astratti come la divinità, il tempo, la giustizia, la forza fisica e quella interiore” L’immagine stessa degli imperatori divinizzati trasmette potenza attraverso le dimensioni del corpo, più grandi rispetto a quelle dei comuni mortali, se non addirittura colossali. Ma l’ideale dell’uomo che per i greci doveva essere kalòs kai agathòs, cioè bello e buono, si traduce per i romani in mens sana in corpore sano (Giovenale, Satire, X, 356). La celebrazione dei cittadini esemplari segue a stento l’ideale eroico greco e, secondo quanto ci testimonia anche Plinio il Vecchio (Storia Naturale, XXXIV, 18): «...è uso greco non coprire il corpo, i Romani, invece, da soldati quali sono, aggiungono la corazza...». A Roma nasce la forma moderna della rappresentazione sociale con l’abito che si sovrappone decisamente al culto della bellezza del corpo, come espressione simbolica del rango e del ruolo.

Augusto nei panni di Giove

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Come Antigone Il corpo femminile e la polis di Francesca Brezzi

Il tema si presenta immediatamente complesso, ma anche suscettibile di infinite indagini e argomentazioni, una matassa quasi inestricabile che proviene da lontano e si offre alla riflessione contemporanea per un nuovo da-pensare. Qui si vuole solo seguire un filo di tale matassa, intricato e molteplice anch’esso, affrontare la Francesca Brezzi questione corpo femminile - polis, diremo poi politica, utilizzando come criterio ermeneutico il pensiero femminista che a lungo si è interrogato su tale argomento. Innanzitutto va rilevato come sia inevitabile che il femminismo incontri la politica, se solo ricordiamo come il pensiero femminista nasca dal movimento politico delle donne, senza tuttavia che tale origine diventi ideologia, ma anzi riuscendo a mantenere come sue caratteristiche gli elementi di libertà, apertura e soprattutto il desiderio di trasformazione della politica. È stato giustamente notato – soprattutto da parte delle pensatrici femministe (Cavarero e Pulcini tra le italiane) – come si sia verificata nel corso della storia politica e culturale in genere una grande esclusione. Quella delle donne dalla vita politica o pubblica sulla base dell’identificazione del femminile con la corporeità, ovvero con il biologico, il naturale, l’aorgico e lo ctonico, mentre il maschile si caratterizzava come razionale, logico-sistematico e quindi come soggetto di diritto nella polis, autore delle leggi che venivano ad esprimere – e pretendevano – una neutralità astratta e universale, da cui deriva l’inevitabile carattere patriarcale della stessa nozione di cittadinanza e del patto sociale. La politica si afferma come scienza razionale di buon governo e il corpo femminile è escluso, i desideri e le emozioni sono rimosse. Cavarero nota acutamente che se nel corso dei secoli si è affermata l’estraneità dei corpi

alla politica, d’altra parte è presente con frequenza la metafora dell’ordine politico come corpo. Ma la metafora nell’età della comunicazione tecnologica (e torneremo su questo) opera una sostituzione derealizzante, supplisce cioè oggetti concreti con un codice, perdendo così l’esperienza, il corpo, le passioni.

“La politica si afferma come scienza razionale di buon governo e il corpo femminile è escluso, i desideri e le emozioni sono rimosse” Laddove proprio la centralità del corpo può essere esempio, forse paradigma, di un modo diverso di pensare la politica: in questo ambito ritroviamo le ricche riflessioni del pensiero femminista, che, insieme con l’irruzione della donna nel palcoscenico politico hanno cambiato lo scenario. Come giustamente rileva Federica Giardini «non si tratta di definire cos’è la politica, cosa sono i corpi per delineare i loro incontri e scontri. Il lavoro femminista ha infatti reso possibile pensare l’intrinseca politicità dell’esserci corporeo femminile». Il fortunato slogan “il personale è politico”, è solo un aspetto di un concetto più ampio, ovvero, che il legame sociale è sostanziato da categorie “anomale” come il corpo, la sessualità, le fantasie, i processi inconsci. È un modo diverso di pensare la politica: innanzitutto è interessante sottolineare, che gli studi contemporanei non propongono più dicotomie superate e semplicistiche come ragione/passione, sfera razionale/sfera emotiva, da cui poi il contrasto polis/oikos per concludere con maschile/femminile. Il dibattito dei nostri tempi è molto ampio, in particolare si è rilevato come fin dall’antichità il discrimen passi all’interno delle passioni stesse, per cui per esempio nella polis si può trovare “opposizione tra passioni superiori (maschili) e passioni inferiori (femminili), ed anche la modernità, da parte sua, con Hobbes, Smith, ma altresì Locke e Rousseau, non ha difficoltà a caratterizzare le passioni nella sfera pubblica, “passioni acquisitive”, o amore di sé o amore


dell’utile, laddove le donne relegate nel privato sviluppavano una affettività diversa, con caratteristiche di reciprocità e tenerezza, che connotano la costruzione stessa dell’identità. Con Rousseau, secondo Elena Pulcini, tale teoria dell’affettività femminile trova non solo una formulazione chiara, ma anche una valutazione positiva: «Le donne assumono un’inedita dignità e visibilità in virtù delle loro qualità affettive, di cura dell’altro (fisica, psicologica e morale), rapporto con l’altro che è fondato non su inimicizia, competizione, rivalità, conflitto, ma sulla philia». Si tratta, pertanto, di un’emotività altra rispetto alle passioni e conflittualità maschili, evidente nella conseguenza che tale riconoscimento non porterà all’ingresso delle donne nello spazio pubblico, ma le manterrà nell’esclusione, private anche della passionalità dell’eros. Il percorso successivo è quello della storia culturale e filosofica della modernità che ha visto il difficile cammino di conquista della cittadinanza da parte delle donne, cammino non ancora terminato. Come affermano in termini diversi sia Hegel che Lacan – in riferimento ad Antigone e al suo agire, ma vale più in generale – emerge un problema topografico, due territori si fronteggiano, quello della città (polis) e quello del privato (oikos): la tradizione chiede che si debbano rispettare le divisioni mediante la sottomissione, e il dramma irrompe perché non c’è una soluzione.

“Cavarero nota acutamente che se nel corso dei secoli si è affermata l’estraneità dei corpi alla politica, d’altra parte è presente con frequenza la metafora dell’ordine politico come corpo. Ma la metafora nell’età della comunicazione tecnologica opera una sostituzione derealizzante, supplisce cioè oggetti concreti con un codice, perdendo così l’esperienza, il corpo, le passioni” Tuttavia la lettura oggi della tragedia, a nostro parere, mette in scena una doppia questione: l’accesso delle donne all’agorà, quindi il loro diritto a una parola articolata e ascoltata, e la domanda su ciò che vogliono esprimere le donne, attraverso tale parola. Possiamo ricordare, a tal proposito, Virginia Woolf che ne Le Tre ghinee affermava risolutamente, in riferimento alle giovani donne del suo tempo, le figlie degli uomini colti: «esse volevano come Antigone non violare le leggi, ma trovare la Legge... ormai si comincia ad ammettere che esse non furono stabilite da Dio... si tratta di leggi che vanno scoperte ogni volta da ogni nuova generazione con uno sforzo della ragione e della fantasia...». Essendo queste due caratteristiche, continua Woolf, un prodotto del corpo – dal momento che esistono due tipi di corpi, che presentano differenze sostanziali – ne consegue che le leggi devono essere interpretate in modo diverso. La scrittrice allora si chiede «se

Virginia Woolf

sia possibile a ciascun sesso non solo scoprire le proprie leggi e rispettare quelle dell’altro, ma anche condividere con l’altro i risultati delle scoperte reciproche», concludendo poco dopo «ma tutto questo è prematuro». Si è detto che qui risiede il nostro da pensare, e la storia del Novecento ha mostrato il lungo cammino della donna per entrare nell’agorà politica, per ottenere il riconoscimento dei diritti, dal momento che il politico subisce uno spiazzamento non appena il corpo femminile esce dalla posizione impolitica in cui è stato posto, come dice Cavarero, e va a rappresentare il perturbante del politico. Il cammino si può considerare concluso con la “formale” uguaglianza fra uomini e donne. Ma oggi che è esplosa la crisi della politica si deve ripensare la polis, ovvero ripensare la possibilità di un “mondo comune”, spazio pubblico, che sia spazio concreto dell’azione e dell’interazione, radicamento e movimento, di soggetti sessuati. Da cui il disegno di quella che personalmente definisco una cittadinanza non - indifferente, che prenda il posto della cittadinanza neutra, della quale posso solo indicare alcune linee portanti. In via pregiudiziale oggi non si tratta più di avanzare nuove rivendicazioni, ottenere “ulteriori uguaglianze”, ma più in profondità e in maniera più feconda anche se difficile, la riflessione femminista invita a pensare diversamente, a proporre paradigmi finora ignorati, a far emergere significati inesplorati, a formulare inedite riconcettualizzazioni, immaginare un nuovo ordine simbolico. E a questa opera sono chiamati a dare il loro contributo pensatrici e pensatori perché il telos è colto nell’abitare diversamente il mondo, non solo forzare da parte delle donne - i divieti di accesso alla polis. In particolare poi si offrono al dibattito due grandi nodi o aree tematiche, non sufficientemente esplorate: innan-

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zitutto focalizzare da parte della riflessione (femminista e non) il tema del corpo significa coglierne la pregnanza e creativa ambivalenza, racchiusa nel suo non essere riconducibile unicamente né alla dimensione culturale, né a quella biologica, ma vivere del loro difficile intreccio. «Il femminismo rappresenta il primo momento teorico in cui si cerca di porre al centro della riflessione tutta la densità simbolica, linguistica insita nella ambiguità del corpo e di cui oggi cominciamo a vedere gli esiti più specializzati». Tra questi esiti specializzati si deve focalizzare un’altra caratteristica dei Hannah Arendt nostri inquieti tempi, l’irrompere della biopolitica, cioè la partita che si gioca tra politica, scienza e tecnologia per il controllo dei corpi, ed è questione complessa che posso solo sorvolare. Il dibattito contemporaneo oscilla tra smaterializzazione e reificazione, tra discorso scientifico tecnologico e mistica della naturalità, e in mezzo – afferma Maria Luisa Boccia – la politica. Bisogna evitare di pensare il corpo sia come organi e sostanze biologiche intercambiabili (e si pensi al cyborg di cui parla Donna Haraway ), sia anche come esaltante prodotto di naturalità.

“Il lavoro femminista ha infatti reso possibile pensare l’intrinseca politicità dell’esserci corporeo femminile. Il fortunato slogan «il personale è politico», è solo un aspetto di un concetto più ampio, ovvero, che il legame sociale è sostanziato da categorie «anomale» come il corpo, la sessualità, le fantasie, i processi inconsci” La riflessione offre disparati livelli di argomentazioni. Nell’epoca di corpi tecnologici e della città telematica, corporeità e mondo comune sono esse stesse nozioni problematiche, d’altra parte la nostra è anche una civiltà materialistica ed edonistica in cui il corpo, in specie quello femminile, si presenta sempre più nei media, come cosa, oggetto da fruire. Le tecnologie sono viste come i principali strumenti della libera costruzione dei corpi, mentre invece esse la rendono più problematica: la realizzazione di corpi artefatti fa riaffiorare la scissione corpo-mente che il pensiero della differenza – e oggi le neuroscienze – ha combattuto: si arriva alla neutralizzazione del corpo, quello che Baudrillard definisce il delitto perfetto del reale da parte del virtuale. Non Maria Zambrano

solo. Lo sradicamento dal corpo mette in discussione anche la soggettività incarnata, tema centrale nel pensiero della differenza. Da cui nuovi interrogativi : soggettività incarnate, corpi disponibili o corpi virtuali? Io ritengo che si debba ripartire proprio dalla soggettività incarnata che dice impegno esistenziale totale, «essere lì con tutta me stessa» (weil ich dann ganz dasein muss), secondo le parole di Hannah Arendt, o il partire da sé di cui parlano le filosofe contemporanee, che comporta l’incapacità di uno sguardo distaccato. Il pregio dell’assunzione di queste caratterizzazioni consiste nel preservare dall’indifferenza, dall’estraneità, dall’omologazione, categorie queste ultime, dominanti in un’ epoca frammentata quale la nostra. Come Weber ha mirabilmente delineato, con la spersonalizzazione l’individuo competitivo si trasforma nell’individuo atomistico e senza pathos, a-patico, narcisista, secondo Taylor, ovvero l’io chiuso all’altro, privo di tensione comunitaria.

“Bisogna evitare di pensare il corpo sia come organi e sostanze biologiche intercambiabili (e si pensi al cyborg di cui parla Donna Haraway ), sia anche come esaltante prodotto di naturalità” In secondo luogo, se per la donna l’assunzione consapevole della corporeità sta ad indicare il suo essere potenzialmente due e quindi il suo essere già da sempre in relazione, tale consapevolezza deve diventare patrimonio comune di uomini e donne, come anche molti filosofi, Lévinas e Ricoeur fra tanti, hanno mostrato, dal momento che il corpo ci lega alla insostituibile concretezza individuale, ai suoi dolori e alle sue gioie e ciò consentirà di «introdurre un elemento scardinante, inevitabilmente critico dentro l’asettica incorporeità della sfera pubblica». Forza del due, potenzialità del duale, riconoscimento o passione dell’altro e concludo con Antigone: reclamando la presenza della philia nella città, nelle leggi, nei nomoi, la giovane figlia di Edipo porta sul piano politico quello che finora era situato nell’interiorità privata – la pietà per il fratello – e il rischio da correre, che Antigone ha corso ma è stata sconfitta, è quello dello scompiglio, del disordine, anche della conflittualità, che ogni relazione porta con sé. Come afferma Maria Zambrano, è nella passione che le donne troveranno l’affermazione di sé non disgiunta da alleanza con l’altro e con l’anima di tutte le cose.


Tra etnocentrismo e relativismo culturale La pratica delle mutilazioni genitali femminili: una questione di genere di Erika Bernacchi «La memoria delle loro urla che imploravano pietà, che chiedevano che le loro parti intime fossero risparmiate.... “Perché mamma? Perché hai permesso loro di farmi questo?” Quelle parole continuano a perseguitarmi. Il mio sangue si gela quando la memoria mi riporta Erika Bernacchi indietro a quei momenti. Sono passati quattro anni... e le mie bambine ne soffrono ancora le conseguenze». Il fenomeno La testimonianza di questa donna del Gambia descrive bene il dramma vissuto da una madre che decide di sottoporre le figlie alla pratica tradizionale delle mutilazioni genitali femminili (MGF) divisa tra la convinzione che questo atto permetterà alle figlie di essere accettate nel gruppo o comunità, e di avere accesso al matrimonio, e la consapevolezza del male fisico e psicologico loro inferto. Le MGF sono pratiche tradizionali che prevedono l’asportazione parziale o totale degli organi genitali esterni femminili (escissione o clitoridectomia), accompagnata talvolta dalla chiusura, quasi completa, della vulva (infibulazione). Il numero di donne e di bambine che hanno subito MGF è stimato dall’Organizzazione mondiale della Sanità tra 100 e 140 milioni, mentre sarebbero circa 3 milioni le bambine e le ragazze che rischiano di subire queste pratiche ogni anno nel mondo. Le MGF sono praticate prevalentemente in alcuni paesi e zone dell’Africa (vedi mappa) e in alcune parti dell’Asia e del Medio Oriente, oltre che, talvolta, tra le popolazioni immigrate provenienti da quei paesi. Vengono spesso descritte come riti di pas-

Mappa della diffusione delle mutilazioni genitali femminili in Africa - ©OMS/ONU

saggio delle bambine all’età adulta, anche se in molti contesti, sono praticate ben prima della pubertà. Le motivazioni Tra i motivi addotti per la continuazione della pratica ritroviamo l’appartenenza al gruppo sociale, l’approvazione maschile, la preservazione della moralità e anche canoni di bellezza e di salute. Talora vengono addotte anche motivazioni di carattere religioso con riferimento al Corano nonostante sia ormai chiaro che non esiste nessun legame tra la pratica delle MGF e prescrizioni di tipo religioso. Riprova di questo è il fatto che le MGF vengono praticate sia in comunità a prevalenza islamica, che cristiana o animista.

“Le mutilazioni genitali femminili sono praticate prevalentemente in alcuni paesi e zone dell’Africa e in alcune parti dell’Asia e del Medio Oriente, oltre che, talvolta, tra le popolazioni immigrate provenienti da quei paesi” Secondo Nahid Toubia, attivista in molti progetti internazionali contro le MGF, che descrive come una sorta di cintura di castità incisa direttamente nella carne delle donne, il motivo fondamentale è piuttosto legato al controllo della sessualità femminile e alla subordinazione della donna. Sempre Toubia afferma che le MGF sono un mezzo attraverso cui si intende assicurare la verginità prima del matrimonio e successivamente la fedeltà coniugale della donna, il cui desiderio sessuale viene limitato dalle pratiche, mentre si conserva intatta la sua capacità riproduttiva. È chiaro, quindi, come per comprendere le MGF e per costruire una strategia per la loro eliminazione, sia necessario inserire queste pratiche nel contesto più ampio del-

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la discriminazione e dell’ingiustizia sociale e economica che coldonne sono anche protagoniste del cambiamento culturale. Sopisce le donne non solo nei paesi coinvolti, ma in tutto il stiene Laila Aibi, di Nosotras, una delle associazioni intermondo. culturali di donne presenti in Italia e maggiormente impegnate Il dibattito filosofico nella lotta contro le MGF, che queste pratiche sono destinate Nei paesi occidentali la pratica delle MGF è divenuta conoad essere abbandonate e rimarranno solo come un ricordo trasciuta al grande pubblico alla fine degli anni Novanta in pargico della storia dell’umanità. Giustamente Laila Aibi osserticolare a seguito di alcune importanti conferenze internava che anche dietro alla difesa del relativismo culturale può nazionali promosse dalle Nazioni Unite, tra cui la Conferenza sulscondersi un atteggiamento razzista che ha delle culture una le donne di Pechino del 1995. Nel dibattito filosofico sulle concezione omogenea e statica e soprattutto che equipara le culMGF, queste vengono prese a simbolo della diversità culturale ture solo con i loro aspetti peggiori. che sempre più caratterizza le società occidentali suscitando “Talora vengono addotte motivazioni reazioni che vanno da un etnocentrismo che si sofferma in madi carattere religioso, con riferimento niera voyeuristica sulla descrizione delle pratiche ad un relativismo culturale che imprigiona le donne in una visione staal Corano, ma è ormai chiaro che non tistica e essenzialistica della cultura. A mio avviso per evitaesiste nessun legame, dal momento che re di cadere nelle due posizioni sopra esposte è invece fonvengono praticate sia in comunità a damentale collocare le MGF nel contesto più ampio della prevalenza islamica, che cristiana o discriminazione e della violenza che colpisce le donne in tutto il mondo e cercare di comprendere quali siano le ragioanimista. Il motivo fondamentale è ni di una contrapposizione fittizia tra una visione delle donne piuttosto legato al controllo della occidentali come libere ed emancipate e una delle donne del sessualità femminile e alla terzo mondo come subordinate e passive. In questo mi pare parsubordinazione della donna” ticolarmente utile accennare alle analisi condotte nell’ambito degli studi post-coloniali. A partire dall’opera di Edward Said Orientalismo, molti studiosi e studiose hanno mostrato A differenza di un atteggiamento etnocentrico, come pure di chiaramente come la rappresentazione dei popoli non occiuno basato sul relativismo culturale, un approccio che veda neldentali come selvaggi e primitivi sia stata funzionale alla lele MGF una delle molte forme che la discriminazione e la viogittimazione delle diverse imprese coloniali. In questo contesto lenza contro le donne e contro il loro corpo assumono nel monla visione delle donne non occidentali come subordinate, vitdo, metterà al centro l’esperienza delle donne, in particolare di time di violenza e in attesa di essere liberate dall’Occidente ha coloro che lottano per l’eliminazione di questa pratica. giocato un ruolo fondamentale. Per tornare alle MGF, di Negli ultimi decenni sono stati realizzati molti progetti volti alfronte a chi prende queste pratiche come esempio di inferiol’abbandono delle MGF promosse sia da organizzazioni non rità culturale, è bene ricordare che fino agli anni Cinquanta la governative che da organismi internazionali di cui sarebbe imstessa pratica veniva utilizzata in Gran Bretagna e negli Stapossibile dare conto in questo breve spazio. Molti e diversi sono ti Uniti per trattare i sintomi dell’isteria, del lesbismo, della mastati gli approcci seguiti, ma ciò che è emerso chiaramente sturbazione e di altre cosiddette devianze femminili. D’altro come nota anche Cristiana Scoppa di AIDOS, ONG da temcanto chi sostiene che le MGF sono espressione di una diffepo impegnata nel settore - che non è sufficiente far conoscerenza culturale che dovrebbe essere preservata, in nome del rire le conseguenze negative delle MGF affinché queste vengano spetto per le altre culture, condanna le donne dei paesi coinabbandonate. Nonostante le conseguenze sia fisiche che psivolti, e le loro società tutte, ad un immobilismo che non è procologiche possano essere devastanti e spesso permanenti prio di nessuna cultura. Come sostiene Arati Rao quando si (disfunzioni, infezioni, complicazioni psicologiche e sessuaanalizzano pratiche tradizionali che sono in li e purtroppo anche la morte di migliaia di contrasto con gli standard internazionali donne ogni anno), ciò che è fondamentale è dei diritti umani è fondamentale porsi alche il cambiamento coinvolga tutte le articune domande. In particolare, nel caso delcolazioni sociali: dalla famiglia, al villaggio, le MGF, dobbiamo chiederci qual è lo staalla comunità etnico-religiosa, alle leggi e tus di partecipazione nella formazione delistituzioni. Anche lo strumento legislativo, la cultura di quel paese o gruppo sociale in rispetto al quale ci sono stati accesi dibattiti, questo caso delle donne, in quanto gruppo e che è ormai presente in molti paesi africani colpito dalla pratica in questione. Inoltre e europei (tra cui l’Italia), può infatti esseRao sottolinea come le donne siano il grupre di aiuto ma solo a condizione che sia po sociale che ha subito le maggiori violaaccompagnato da programmi di sensibilizzioni in nome della cultura. Ciò si spiega zazione e formazione. In conclusione la con il fatto – come afferma Nira Yuval pratica delle mutilazioni genitali femminiDavis nella sua fondamentale opera Gender li appare chiaramente come una questione di and Nation – che le donne, in tutte le culdiscriminazione di genere che può essere ture, sono chiamate a rappresentare le combattuta solo tenendo in considerazione “guardiane” della cultura del gruppo o delle cause e le dinamiche sociali che costrinla nazione e come tali il loro corpo, com- Logo della campagna europea di Am- gono le donne in posizioni subordinate nei portamento, abbigliamento devono con- nesty International End FGM European paesi in questione, come, con altre forme, formarsi alle regole del gruppo. Tuttavia le Campaign quasi ovunque nel mondo.


La conoscenza è relazione Riscoprire il corpo attraverso la Danza Sensibile di Claude Coldy

Il corpo, per molte filosofie, è il luogo in cui la conoscenza si incarna, il luogo in cui l’esperienza si codifica anche attraverso i tessuti e non soltanto attraverso il cervello, mettendola quindi a disposizione dello sviluppo più complessivo dell’uomo. Al contrario, noi siamo abituati a pensare al corpo come lo strumento di un fondamentaClaude Coldy le organo di comando: il cervello. Grazie a numerose esperienze terapeutiche, supportate da una visione più sistemica del corpo umano, oggi anche in Occidente si fa strada una visione più ampia e più complessa che ci indica come sentire i nostri bisogni più profondi, ascoltandoli con maggiore attenzione: la capacità di sentire è infatti la nostra più antica dote, attraverso la quale fin dal principio abbiamo attivato l’istinto. In questo particolare livello di consapevolezza, l’aspetto cognitivo è perlopiù assente a vantaggio di una maggiore presenza emotiva che ci permette di riattivare la memoria limbica. In questo percorso di consapevolezza la pelle gioca un ruolo fondamentale: è vera e propria frontiera tra il mondo esterno e quello interno, come quando si tocca la coda di un delfino, tutto il corpo vibra, partecipando a quella emozione “periferica”. Questo tipo di reattività è ampiamente riscontrabile nei neonati e nel loro bisogno di contatto con il corpo della madre, attraverso cui passano una serie di informazioni importanti che strutturano il bambino sia nello sviluppo psicofisico che in quello emotivo. In questa prima fase di crescita, il cervello emotivo che attiva la nostra capacità di sopravvivenza è particolarmente presente, tuttavia, noi uomini col passare del tempo ci dimentichiamo del fondamentale ruolo giocato dal sistema limbico, perdendo quelle capacità innate di entrare in contatto con noi stessi e con gli altri. Attraverso la disciplina che ho chiamato Danza Sensibile cerco di riattivare questa memoria antica e più in generale di ristabilire un rapporto organico tra l’uomo e la natura. Nello sviluppo della Danza Sensibile ho attinto a molte conoscenze e competenze di stampo scientifico. I miei primi studi sono stati di carattere meccanico e ingegneristico; poi mi sono progressivamente appassionato alla fisica, che è la disciplina che ci fa conoscere le leggi che regolano la vita su questo pianeta. Un contributo importante viene dalla fisica quantistica, ma il supporto scientifico fondamentale è fornito dall’osteopatia, questa meravigliosa scienza che grazie al contributo di William Garner Sutherland ha avuto una straordinaria evoluzione. Sutherland, infatti, ha intuito nella struttura

umana un movimento di oscillazione simile a quello prodotto dalla membrana di un pesce. È stata una scoperta illuminante perché ha permesso di riunificare non solo concettualmente ma anche fisiologicamente il corpo con la testa. Oggi sappiamo che il movimento di oscillazione è prodotto dalla respirazione craniale, di cui tuttavia sappiamo ancora poco. Più in generale possiamo ipotizzare che il nostro sviluppo filogenetico è in stretta relazione con lo sviluppo della Terra e dell’universo stesso, in base al principio dell’omeostasi, che regola l’equilibrio interno di qualsiasi organismo. Secondo questo principio ogni singola struttura dinamica tende a organizzarsi e riorganizzarsi non solo in relazione con i propri obiettivi ma anche e soprattutto con gli obiettivi dell’organismo in cui realizza la sua esistenza. È fondamentale riappropriarci della consapevolezza che siamo l’interfaccia della natura ed è sul suo libro che bisogna studiare. Non c’è separazione tra interno ed esterno, noi siamo immagine della natura che ci circonda e la natura al tempo stesso riflette il nostro stato di salute più generale. Nel mio lavoro il rapporto con la natura è essenziale. Svolgo da molti anni seminari in natura, in tre specifici ambienti: nella foresta, nell’acqua e nell’uliveto. Ogni volta è sempre una sorpresa vedere quello che avviene quando si entra in contatto con uno di questi ambienti, eliminando il condizionamento sociale e culturale. Si assiste quasi sempre alla rinascita dell’intelligenza del corpo, il cui sviluppo filogenetico si è progressivamente allontanato dalla natura, tuttavia basta risvegliare quella memoria atavica per assistere a un rinnovato bilanciamento energetico. D’altronde anche filosofie antiche ci parlano della relazione tra l’uomo e l’universo. Penso alle danze sufi, per esempio. Attraverso il movimento del corpo si ripropone il movimento dell’universo; infatti i sufi girano come dei soli, riproducendo il movimento delle stelle all’interno delle costellazioni. Lo spazio simbolico in cui si muovono è la rappresentazione dell’universo, viaggiando all’interno

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di queste straordinarie conoscenze matematiche e astronomiche. Il movimento è vita e la vita è movimento. E questo movimento è ovunque. Quando vado in foresta si può sentire e vedere la sottile oscillazione che muove continuamente gli alberi. Gli alberi ci parlano della nostra verticalità e ci restituiscono una conoscenza fondamentale: la necessità vitale di qualsiasi organismo di trovare il suo equilibrio tra terra e cielo. Più ci verticalizziamo più incarniamo la nostra condizione terrestre. Più ci verticalizziamo più creiamo armonia.

“L’osteopatia con Sutherland ha avuto una straordinaria evoluzione: lui ha intuito nella struttura umana un movimento di oscillazione simile a quello prodotto dalla membrana di un pesce. È stata una scoperta illuminante perché ha permesso di riunificare non solo concettualmente ma anche fisiologicamente il corpo con la testa” Questa esperienza è osservabile anche semplicemente camminando: più lanciamo il passo con certezza e senza paura più l’altra gamba deve incarnare le condizioni della vita terrestre. E questo raddrizzarsi, verticalizzarsi è uno dei punti fondamentali della vita perché esprime la nostra potenzialità a vivere concretamente nella nostra condizione terrestre, oltre la quale il corpo si destruttura. Il concetto di verticalità è nel nostro pensiero piuttosto banalizzato, ma basta ricordare che l’uomo ha impiegato millenni per passare dalla quadrupedia alla verticalità per capire quanto invece sia complesso.

Il contatto con l’acqua, invece, ci ripropone immediatamente le nostre emozioni. L’acqua, riportandoci alla memoria marina ci riporta alla memoria fetale. Si attiva una sensibilità e una forza che rilancia dentro di noi il grande principio dell’omeostasi, ovvero la dignità di un corpo di ricreare il suo equilibrio: che sia una vertebra spostata o un respiro costretto, basta consentire alla nostra intelligenza organica di trovare la strada per ristabilire un buon livello di salute. Nel laboratorio di Terra si lavora sul risveglio delle nostre radici. Si tratta di un vero e proprio viaggio nella terra, anche piuttosto fisico: la terra ci ripropone immediatamente una dimensione di dualità in cui è evidente la ciclicità. A differenza di come siamo abituati a pensare, le cose non sempre vanno come vogliamo, ma si orientano invece secondo le grandi leggi della vita governata dalla condizione terrestre. Ciò che accomuna questi tre diversi ambienti è la straordinaria capacità di riattivare nell’uomo i centri della sopravvivenza del sistema limbico, la memoria rettiliana, e la memoria degli anfibi. L’esperienza in acqua risveglia in noi lo stato della tartaruga, ed è sorprendente vedere come i sensi danno un messaggio al sistema motorio per raggiungere rapidamente il mare e mano a mano che il “viaggiatore” si avvicina all’acqua il suo sistema motorio si innalza, il suo impulso muscolare aumenta. Nella vita di tutti i giorni siamo orientati e usiamo il nostro sistema motorio per prendere il treno o la macchina, per andare in ufficio, per stare davanti al computer, e tutto questo avviene talvolta in disaccordo con l’impulso più profondo alla sopravvivenza. E quando c’è questo disaccordo, nascono dei cortocircuiti, dei conflitti da cui originano spesso anche molte malattie. Durante i seminari che propongo è sorprendente vedere come una persona stanca e con poca energia ha difficoltà a ritrovare un corretto uso delle gambe nello stimolo prodotto dal contatto con la sabbia, riesca a recuperare in breve questa funzione motrice. Per ridare vita alla funzione motrice è importante risolvere alcuni conflitti interiori che si manifestano in conflitti di movimento e di direzione. Lo stimolo che può risolverli è generato dalla forte relazione con la Natura che si instaura durante questo tipo di pratiche, che facilitano la conoscenza di sé: quando parliamo di conoscenza dobbiamo tenere presente che la conoscenza è relazione. Un altro disturbo che spesso si risolve con specifiche pratiche è quello delle vertigini. Riproponendo al sistema corpo la percezione fisica della terra gli diamo la possibilità di ristabilire un certo equilibrio. Mi diverto spesso a fare questa simmetria: siamo come piloti che devono sapere dove è la terra attraverso il proprio strumento di bordo. Quando accade di perdere il riferimento con la terra, come nel caso delle vertigini, è opportuno riproporre la percezione della terra con il corpo stesso. Se il disagio nasce dentro di noi, esiste comunque una capacità del corpo, per la famosa legge dell’omeostasi, di ristabilire l’equilibrio o una parte di equilibrio. Più in generale non dobbiamo perdere la nostra relazione terrestre e la nostra relazione con le diverse specie che vivono la Terra, ricordandoci che se noi uccidiamo il mare all’esterno, uccidiamo il mare che è dentro di noi. Quando noi inquiniamo il mare all’esterno, inquiniamo il nostro mare interiore.


Avvolta nel mio corpo La forza della parola: il racconto di una studentessa disabile di Adriana Mattorre

Forse si può pensare che rispetto alle persone normali il corpo di noi disabili sia anestetizzato, ma accanto alle emozioni abbiamo segni del nostro vivo corpo che dimostrano di ruotare con esse. Il nostro corpo si “dopa” con le emozioni e nei muscoli si acuisce il potere di sentire le vibrazioni delle sensazioni mascherate Adriana Mattorre da illogiche aggressive contrazioni. Un momento particolarmente significativo che ha segnato un cambiamento della mia vita, è stato quando ho iniziato a comunicare attraverso l’uso di una tastiera. Prima di allora, avvertivo solo ronzii e dondolii: prendevo tutto come se mi venisse dato dall’alto, senza troppe riflessioni e dipendendo quasi completamente dagli altri.

“Avvertivo un fiume di sensazioni e tutto ciò che mi arrivava era così forte e intenso da sentirmi inondata: provavo emozioni che mi invadevano fino a creare una tensione interna che ho sempre definito ronzio interiore” Avvertivo un fiume di sensazioni e tutto ciò che mi arrivava era così forte e intenso da sentirmi inondata: provavo emozioni che mi invadevano fino a creare una tensione interna che ho sempre definito “ronzio interiore”. A questo, seguiva un vuoto opprimente: più forti erano le sensazioni e le emozioni, più il vuoto mi sembrava insostenibile. Ciò nonostante, era proprio quel vuoto a mettere fine al “caos”, dandomi l’impressione che la tempesta fosse finita. Tolleravo poco la presenza di persone che mi toccassero e mi spingessero da una parte al-

l’altra, facendomi sentire un molle sacco di patate privo di volontà. Gli altri non esistevano se non per procurarmi protezione e assistenza: più mi proteggevano e più li incorporavo nel mio mondo, escludendo tutti gli altri dalla mia percezione. Ad un certo punto, mi avviarono, utilizzando una tastiera, alla comunicazione scritta e fu così che le parole iniziarono a diventare, anche per me, il mezzo per comunicare con gli altri.

“Quando iniziai a digitare cominciai anche ad acquisire gradatamente il controllo del movimento dell’avambraccio, in sintonia con il mio pensiero. All’inizio di questo faticoso avvio alla scrittura, le parole che utilizzavo, in realtà, le conoscevo già, perché erano nel mio pensiero sin da quando avevo iniziato a sentire e a vedere, cioè da sempre: era come se avessi custodito nel tempo le parole, per poi usarle” Dopo il primo periodo di instabilità e fatica che il nuovo metodo mi imponeva, le parole cominciarono a prendere il posto dei ronzii e il mio corpo rallentò i dondolii: iniziavo a tradurre le sensazioni in parole e poi, organizzando quelle parole, a comporre poesie capaci di comunicare i miei stati d’animo. È iniziato così quel lungo processo che mi ha portato prima a comunicare giocando con le parole e poi a cercare di organizzare quelle parole nel tentativo di riferire saperi e pensieri che, via via, si andavano sistemando nella mia coscienza. Quando ho intrapreso l’avvio della comunicazione tramite la scrittura, ero già una studentessa della scuola media. Ricordo le lunghe giornate trascorse su un tappetone di colore azzurro che lasciava il mio corpo poco

Adriana Mattorre frequenta la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università Roma Tre. La situazione di handicap in cui vive sin dalla nascita l’ha costretta, per anni, nel silenzio e in un mondo di solitudine che, grazie all’uso del computer e ad una nuova tecnica riabilitativa, è riuscita ad infrangere per conquistare la comunicazione con il mondo in tutta la sua freschezza e il suo dolore. Non ha l’uso della lingua né del linguaggio gestuale, ma le sue parole, i suoi versi sono la testimonianza della meravigliosa avventura esistenziale di una giovane che, dotata di particolare sensibilità, ha operato il “miracolo” di capovolgere l’impietosa diagnosi dei medici che le avevano negato la possibilità di un futuro nella società civile. (dalla quarta di copertina)

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controllato, così come il mio pensiero. La mia vita ha cambiato prospettiva quando mi hanno fatto sedere su una sedia: i miei riferimenti non appartenevano più ad un mondo visto dal basso, dove era il soffitto a stabilire il confine; ora tutto era in orizzontale. Non è stata solo una questione di prospettiva fisica, ma vedevo come gli altri e dopo ronzii e dondolii, reagivo agli stimoli fotografando le posizioni del mondo. Iniziavo a fatica a puntare l’indice della mia mano per scrivere alla tastiera, e quando iniziai a digitare, in realtà, cominciai anche ad acquisire gradatamente il controllo del movimento dell’avambraccio, in sintonia con il mio pensiero. All’inizio di questo faticoso avvio alla scrittura, le parole che utilizzavo, in realtà, le conoscevo già, perché erano nel mio pensiero sin da quando avevo iniziato a sentire e a vedere, cioè da sempre: era come se avessi custodito nel tempo le parole, per poi usarle. Dopo tanti anni di scuola, anch’io ho concluso gli studi superiori con gli esami di stato, è stato pubblicato il mio primo libro di poesie e quando ho preso posto in un’aula dell’università, per seguire la mia prima lezione di Letteratura italiana il mio mondo non era più fatto di ronzii e dondolii. Oggi si moltiplicano ancora le sensazioni della mia particolare disabilità, ma trovo anche la soluzione agli aspetti negativi di esse, abbandonandomi alla mia pace interna che il nascente ruolo di studente universitario mi suscita, in questo modo riesco a modificare anche le mie apprensioni.

“Aspetto la solitudine del mio corpo per sentire che solo silenziosamente risorgono le mie emozioni” Anche avere il peso doloroso del mio corpo non autonomo influenza il mio “sentire”; duro è accettare le mani di persone che ti curano, così io cerco semplicemente di accogliere il loro lavoro annoverandolo tra le ansie più sopportabili. Aspetto la solitudine del mio corpo per sentire che solo silenziosamente risorgono le mie emozioni. Sulla sensazione di ammaestrare il mio corpo avverto solamente il mio amaro duro senso di fallimento, solo con le forti stimolazioni non solo verbali delle persone vicine riesco a padroneggiare il mio corpo. Il vero problema forse sta nelle mie atipiche, penso, facoltà di trasmettere i dormienti stimoli nervosi ai muscoli. Silenziosamente il muscolo del mio corpo decide di vibrare e finalmente risponde al mio comando. Fino a quando la mia volontà decide di eseguire un movimento io riesco a coordinarmi, poi credo di subire il silenzio dei muscoli. Sicuramente tutto ciò mi provoca una sensazione di smarrimento e si palesa come un oltraggio alla mia volontà. In particolari momenti, l’aspetto della mia disabilità che mi offende di più trovo sia quello quando gli altri mi guardano e mi valutano solamente dall’aspetto esteriore. Avverto l’imbarazzo e l’incredulità sui loro visi e mostrando la mia immagine esteriore vedo librare nell’aria la normalità della paura. Il mondo silenzioso dei miei pensieri è prigioniero del mio corpo.

Tentazioni Un gioco naturale rubato ho guardo la notturna luce umori increduli vuoti bui celeri nuvole gioventù universale futuri occhi mi guardano eppure tu vivi già l’immortalità giochi nascosti giochi onirici tolgo i miei buoni lumi gioisco i miei interessi *** Volevo nuvole nuove Volevo nuvole nuove ma bianche non ci sono vedo colori scuri cimiteri moltiplicati come nuvole nere ammuffite domani più limpide saranno niente potrà fermare la speranza di un futuro migliore *** Fili d’oro Il meno può diventare più solo se un altro meno è presente io ho mirabili meno che si eguagliano essere fortemente il meno giova ai molteplici onirici illimitati sogni di una vita felice cieli di nere nubi diventano fili d’oro che reggono speranze di una vita diversa ho ruminato le mie speranze fendendo il mio cuore di oltraggiose vili silenziose certezze *** Settimo giorno Erranti grandi futuri antichi ossi di settimo giorno dopo la creazione furono creati in serie moltiplicando mani e piedi simili a divinità chi sbagliò il set durante la creazione generando uno stuolo di handicap *** Rifiuto l’anima riottosa Rifiuto l’anima riottosa degli uomini moderni io immigrata nel mondo devo fare tutto per onorare l’umanità da Adriana Mattorre, Sassi disagiati, Vibo Valentia, Qualecultura, 2006


Aktion T4 L’eliminazione dei corpi disabili di Silvia Cutrera All’inizio di quest’anno, durante i lavori di ampliamento di un ospedale regionale ad Hall nel sud Tirolo austriaco, sono stati trovati, in una fossa comune, i resti di duecentoventi corpi appartenuti presumibilmente a persone affette da disabilità fisica e mentale. Il sospetto è che si tratti di alcune Silvia Cutrera delle vittime del “programma eutanasia” perpetrato dai nazisti dal 1939-45 anche in territorio austriaco visto che, con l’annessione al Terzo Reich, l’Austria aderì anche alle politiche di sterminio nei confronti delle persone disabili. La notizia non ha suscitato particolare clamore, ora una commissione cercherà di risalire all’identità delle vittime e alle cause della loro morte, nel frattempo i lavori di ristrutturazione dell’ospedale sono stati temporaneamente sospesi.

biologica della società collegandole con la ricerca medica del tempo, il diritto, le applicazioni medico-scientifiche e gli obiettivi politici il cui esito fu il genocidio. La politica del regime nazista contemplava che per appartenere alla razza superiore i tedeschi ariani dovessero avere determinate caratteristiche tra cui bellezza e purezza. Lo aveva anticipato Hitler nel 1924-26 scrivendo nel Mein Kampf: «Chi non è sano e degno di corpo e di spirito, non ha diritto di perpetuare le sue sofferenze nel corpo del suo bambino. Qui, lo Stato nazionale deve fornire un enorme lavoro educativo, che un giorno apparirà quale un’opera grandiosa, più grandiosa delle più vittoriose guerre della nostra epoca borghese». Hitler nutriva per i disabili una forte repulsione, il problema andava risolto alla radice, doveva esserne impedita la riproduzione. Nel luglio del 1933, pochi mesi dopo la sua nomina a Cancelliere del Terzo Reich, fu emanata la legge che prevedeva la sterilizzazione di persone affette da svariati disturbi fisici e mentali. Essa venne applicata a una grande varietà di condizioni: cecità, sordità, difetti congeniti e stati di invalidità come piede deformato da talismo, labbro leporino e palatoschisi. Il

“Corpi disabili che non rientravano nella logica nazista di costruzione di uno stato superiore razzialmente puro. Esseri rappresentati come gusci privi di esistenza e pertanto vite senza valore. Le teorie eugenetiche dei primi anni del secolo scorso sostennero e influenzarono il razzismo nazista” Altri resti umani, risalenti allo stesso periodo nazista, erano depositati, sino a pochi anni fa, presso i locali dell’ospedale Otto Wagner di Vienna, settecento cervelli di bambini, uccisi durante il nazismo nel reparto pedagogico dello Spiegelgrund, a causa della loro presunta disabilità. I cervelli erano conservati in giare di formalina, utilizzati, per studi e ricerche, fino al 1998. Cervelli di bambini, interi o sezionati, conservati in barattoli di vetro per alimenti, etichettati con nome, data di nascita e morte, diagnosi. Nell’aprile del 2002 durante una cerimonia funebre pubblica, si è provveduto a cremare e inumare i resti delle piccole vittime. Corpi disabili che non rientravano nella logica nazista di costruzione di uno stato superiore razzialmente puro. Esseri rappresentati come gusci privi di esistenza e pertanto vite senza valore. Le teorie eugenetiche dei primi anni del secolo scorso sostennero e influenzarono il razzismo nazista. Hitler propugnò concezioni di matrice

«Stai sostenendo questo peso! Il costo di una persona affetta da malattia ereditaria fino al raggiungimento dei 60 anni è di circa 50.000 marchi». Immagine riprodotta in un manuale di biologia - Ushmm collection Jakob Graf

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Norvegia dopo l’invasione del 1940. Alle madri incinte, sia sposate che nubili, veniva fornita casa e assistenza sostenendole in modo da poter far crescere i figli senza preoccupazioni economiche. Alla fine della guerra vi erano dieci sedi Lebensborn in Germania, nove in Norvegia, due in Austria, una in Belgio, Francia, Olanda, Lussemburgo e Danimarca. Purtroppo parte degli archivi fu distrutta dalle SS non permettendo di rintracciare le identità dei bambini. Alcuni di loro, abbandonati, furono adottati, altri restituiti alle famiglie, ma la sorte peggiore riguardò i bambini nati in Norvegia: le SS non riuscirono a distruggere gli archivi. Nel dopoguerra le donne e i loro figli furono fortemente discriminati, picchiati e chiamati “maiali nazisti” da insegnanti, parenti e compagni di scuola. Il governo norvegese inviò oltre 14.000 tra donne e ragazze, che avevano avuto rapporti con i soldati della Wehrmacht, nei campi d’internamento. Il direttore del maggiore manicomio norvegese sostenne la pazzia delle donne che avevano avuto rapporti sessuali con i tedeschi e concluse che l’80 per cento dei discendenti era da considerarsi ritardata e molti di loro furono rinchiusi in istituti per la cura mentale.

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«60.000 reichs marks è il costo di questa persona alla comunità. Camerata sono anche tuoi soldi». Mensile del NSDAP - www.schloss-harteim compito di prevenire l’insorgenza di malattie ereditarie attraverso le tecniche di sterilizzazione fu affidato ai medici. Il numero dei pazienti ricoverati negli Istituti, che presentavano tali caratteristiche, era di 410.000. Tutti i medici dovevano segnalare all’autorità sanitaria ogni caso a loro conoscenza ampliando la sfera dei destinatari anche ai familiari dei soggetti ritenuti “contaminanti”. Furono istituiti speciali “Tribunali per la Sanità Ereditaria” composti da due medici e un magistrato e Corti d’appello ma, ad esempio nel 1934, più del 90 per cento delle petizioni non fu accolta e meno del 5 per cento degli appelli fu accolto. Ovviamente tale parvenza di legalità nascondeva decisioni arbitrarie. Una diagnosi di debolezza mentale poteva basarsi sul comportamento morale e politico di una persona e quindi colpire elementi ostili al regime, viceversa bisognava avere molta prudenza con i fedeli al partito. Si stima che tra il luglio del 1933 e l’inizio della guerra furono sterilizzate a vario titolo circa 300.000 persone, il 60 per cento donne, ma nei cinque anni successivi la cifra aumentò. Medicina e biologia si adoperarono per garantire la sanità del volk selezionando corpi adatti a rivitalizzare questo Stato di superuomini. Un cenno merita il progetto Lebensborn voluto da Himmler nel 1935 per incoraggiare le SS e gli ufficiali della Wehrmacht ad avere bambini con donne ariane per costruire una nazione formata da un’élite biologica di ariani nazisti. Queste unioni, combinate per fini riproduttivi, prevedevano che entrambi i genitori superassero test di purezza razziale tramite i quali era possibile accertare l’ascendenza ariana fino alla terza generazione e avere, preferibilmente, capelli biondi e occhi blu. Durante i dieci anni del progetto almeno 7.500 bambini nacquero in Germania e altri 10.000 furono concepiti in

“Si stima che tra il luglio del 1933 e l’inizio della guerra furono sterilizzate a vario titolo circa 300.000 persone” Fondamentale fu il ruolo della propaganda nazista che produsse film, documentari, manifesti volti a persuadere i tedeschi circa la necessità di eliminare i soggetti deboli. I testi scolastici di ogni ordine di istruzione, riportavano riferimenti alle teorie biologiche naziste corredate da esempi utilitaristici. In un manuale di matematica in uso negli anni Quaranta nelle scuole elementari si poteva trovare questo problema: «Un pazzo costa allo Stato 4 marchi al giorno, uno storpio 5,50, un criminale 3,50. In molti casi un impiegato statale guadagna solo 3,50 marchi per ogni componente della sua famiglia e un operaio specializzato meno di due. Secondo un calcolo approssimativo risulta che in Germania gli epilettici, i pazzi etc., ricoverati sono circa 300.000. Calcolare: quanto costano complessivamente questi individui ad un

1939 lettera di Hitler che autorizza la “morte pietosa” per i malati incurabili - NARA Cellege Park, Md


costo medio di 4 marchi? Quanti prestiti di 1.000 marchi alle coppie di giovani sposi si ricaverebbero all’anno con quella somma?» Nell’ottica di potenza ed espansione del Terzo Reich, l’offensiva nei confronti dei disabili non si limitò alla sterilizzazione, le loro esistenze rappresentavano un costo per le risorse tedesche, un peso da eliminare.

“Nell’ottica di potenza ed espansione del Terzo Reich, l’offensiva nei confronti dei disabili non si limitò alla sterilizzazione, le loro esistenze rappresentavano un costo per le risorse tedesche, un peso da eliminare” Il Ministero dell’Interno il 18 agosto 1939 emanò un decreto con il quale ordinò alle ostetriche e ai medici di dichiarare tutti i bambini nati con specifiche patologie quali sindrome di Down, microcefalia e idrocefalia, deformità, paralisi. Presso gli ospedali e case di cura furono istituiti ventidue reparti infantili che promettevano cure specialistiche, ma dove in realtà venivano adottati provvedimenti di “eutanasia” nei confronti di bambini sotto i tre anni di età affetti da “gravi malattie ereditarie”. Il metodo di uccisione preferito era l’uso di farmaci quali morfina-scopolamina, bromuro, luminal, veronal in compresse o forma liquida somministrati in dosi massicce per far insorgere complicazioni mediche, in particolare, la polmonite che alla fine provocava il decesso. L’avvelenamento era così camuffato da morte naturale. La politica di uccisione delle vite indegne di essere vissute proseguì con gli adulti e fu avviata ufficialmente con una lettera inviata da Hitler nell’ottobre del 1939: «Al capo [della Cancelleria] del Reich Bouhler e al dottor Brandt viene affidata la responsabilità di espandere l’autorità dei medici, che devono essere designati per nome, perché ai pazienti considerati incurabili secondo il miglior giudizio umano disponibile del loro stato di salute possa essere concessa una morte pietosa». La lettera fu retrodatata 1° settembre 1939 per fornire copertura ad uccisioni già avvenute e collegare il programma “eutanasia” al conflitto bellico iniziato con l’invasione della Polonia, ma l’azione di sterminio era già definita dal punto di vista ideologico e programmatico dai criteri eugenetici degli anni precedenti. Fu attuata con determinazione e portata avanti in modo “industriale”. Prevedeva un iter meticoloso e controllato, con il coinvolgimento di personale medico, amministrativo e tecnico, e la creazione di apparecchiature dalla tecnologia innovativa. Gli adulti disabili furono uccisi nell’ambito del progetto Aktion T4 termine che nasce dal nome di una via di Berlino, Tiergarten Straße, in cui si trovava, al numero 4, l’ufficio responsabile dell’attuazione di questo progetto. Era una villa immersa nel verde, confiscata ad una famiglia di ebrei. L’Azione fu pianificata nei minimi particolari fin dall’autunno del 1939. Attraverso un censimento che riguardò gli ospedali tedeschi vennero rilevati i pazienti affetti da patologie fisiche

mentali e sensoriali non produttivi. Fu costituita una Compagnia trasporti con il compito di trasferire i selezionati, nei sei luoghi di uccisione adattati appositamente per eliminare persone considerate delle zavorre per il Terzo Reich. Si trattava di edifici isolati, ex caserme, penitenziari, case di cura nei quali esperti ingegneri avevano allestito le prime camere a gas utilizzando il monossido di carbonio e nelle vicinanze avevano predisposto il crematorio dove i corpi disabili diventavano cenere. L’operazione T4 era coperta da segreto, le vittime venivano trasferite senza l’autorizzazione dei familiari ai quali veniva comunicata la notizia del decesso con l’invio di un’urna funeraria contenente della cenere e un certificato che dichiarava che la morte era avvenuta per cause naturali e che il corpo era stato cremato per impedire il propagarsi di epidemie. In un anno e mezzo furono uccise 70.274 persone.

“Gli adulti disabili furono uccisi nell’ambito dell’Aktion T4 termine che nasce dal nome di una via di Berlino, Tiergarten Straße, in cui si trovava, al numero 4, l’ufficio responsabile dell’attuazione del progetto. L’Azione fu pianificata nei minimi particolari fin dall’autunno del 1939. Attraverso un censimento negli ospedali tedeschi vennero rilevati i pazienti affetti da patologie fisiche mentali e sensoriali non produttivi” Nell’estate del 1941, la prima fase dell’Aktion T4 si interruppe ma poi riprese nella forma di “eutanasia selvaggia” all’interno degli ospedali dove medici e infermieri continuarono ad uccidere i pazienti disabili con iniezioni e farmaci letali seppellendo talvolta i loro corpi, come abbiamo visto, in fosse comuni. Si stima che circa 250.000 persone furono uccise, tra cui 5000 bambini. I responsabili della T4, utilizzando stesse procedure e tecniche, furono successivamente impiegati nello sterminio del popolo ebraico: trasporti, selezioni, camere a gas, corpi bruciati, vite ridotte in fumo e cenere.

Bus della Gekrat utilizzati durante l’Aktion T4 - www.ushmm.org

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Il cerchio del tai-chi L’auspicato ritorno allo stato originario di equilibrio di Fabrizio Ambrosi De Magistris mile a una danza, una successione ininterrotta di movimenti La leggenda narra che un armonici eseguiti in piedi e con lentezza ritmica, a formare giorno Chang San Feng, maecon tutto il corpo coreografie dal nome poetico di animali, stro taoista di arti marziali momenti della natura e della vita. (XIII sec.), fu richiamato dal rumore della lotta tra un serpente e una gru, nei boschi “I racconti sull’origine di questa Arte dei monti Wudang in Cina. sono numerosi e diversi, spesso Osservando il combattimento, affondano nella notte dei tempi legati alla vide il serpente schivare gli vita di maestri leggendari, sino alle soglie attacchi diritti e potenti dell’uccello scivolando fluidadell’età moderna, ma è un fatto che la mente sui lati con movimenti disciplina sia nata dagli antichi stili cinesi Fabrizio Ambrosi De Magistris circolari e leggeri, per poi tidi combattimento, diventando poi rarsi su e attaccare. La gru apcultura fisica e canone marziale classico” parentemente più forte e avvantaggiata non ebbe la meglio e il combattimento terminò senza vinti né vincitori. Così, si diLo svolgimento delle sequenze tradizionali sembra essere ce che da questo episodio il maestro abbia capito come la senza un inizio e una fine, si coglie la rotondità dei gesti, cedevolezza poteva ben contrastare la pura forza fisica, e abl’attenzione e la gradualità nel passaggio da una figura albia intuito la via per applicare all’arte marziale i principi di l’altra, senza accelerazioni improvvise. Gli spostamenti nelle quei movimenti leggeri, soffici e “rotondi” mostrati dal servarie direzioni seguono le curvature del cerchio, o meglio pente. In quei movimenti infatti egli aveva visto fluire la ancora della sfera tridimensionale all’interno della quale è lo corrente del Chi, l’energia vitale profonda e potente che vispazio d’azione, e il praticante stesso è impegnato a mantebrava al di là del vigore muscolare esterno. Questa energia, nere un assetto in cui il corpo si dispone naturalmente e dolpresente ma inafferrabile, mobile e mutevole come le nuvocemente sull’ideale curvilineo dell’arco. Per nessun motivo le, è alla base dell’Arte del Tai-Chi (Suprema Energia, Grangambe, braccia e dorso saranno mai de Termine, simbolicamente l’Universtesi o irrigiditi, e i gesti seguiranno so) e tutta la disciplina è centrata sulla sempre linee spiraliformi. A differenza capacità del praticante di farla scorrere di gran parte delle tecniche ginnicoin sé e permearne l’intero essere. I racsportive occidentali che puntano al miconti sull’origine di questa Arte sono glioramento della condizione attravernumerosi e diversi, spesso affondano so la resistenza, il potenziamento munella notte dei tempi legati alla vita di scolare e la reattività, il Tai-Chi chiama maestri leggendari, sino alle soglie della fluidità, il rilassamento e la concenl’età moderna, ma è un fatto che la ditrazione, soprattutto insegna ad utilizsciplina sia nata dagli antichi stili cinezare la forza strettamente necessaria, si di combattimento, diventando poi interiorizzando la consapevolezza del cultura fisica e canone marziale classimovimento. La presenza mentale infatco (Tai-Chi-Quan) con tutto il suo corti permette di seguire e anticipare l’aredo di colpi e posizioni. Dai canoni zione con la visualizzazione, esalta il del combattimento, il Tai-Chi si è poi controllo sui gesti e arricchisce l’atto di sviluppato nel corso del tempo con il pienezza e pulizia. Alla fine, come nelcontributo di scuole prestigiose, tocla grande tradizione orientale, il Taicando campi come la medicina, l’aliChi si rivela simile a una meditazione mentazione, la musica, per diventare che si genera attraverso il movimento e infine una scienza dell’uomo completa che si attualizza concretamente in una e un sistema di vita olistico basato suldisciplina per lo sviluppo di tutte le pol’armonia naturale tra corpo e mente. È tenzialità psico-motorie individuali, asstato così codificato un metodo pratico Chang San Feng è considerato il creatore del sicurando funzionalità fisica e fermezper il ritorno allo stato originario di sistema di esercizi noto come Tai-Chi-Ch’uan. equilibrio, e per il mantenimento di vi- Secondo alcuni visse tra il 1391 e il 1459, secondo za mentale, supportata inoltre dalle cotalità e salute durante tutta l’esistenza. altri durante la dinastia Yuan (1278-1368); per altri noscenze della medicina tradizionale cinese. I capisaldi teorici poggiano sulPer chi osserva, il Tai-Chi si mostra si- ancora visse durante la dinastia Sung (960-1278)


Esercizio dei cinque animali: Tigre, Cervo, Scimmia, Orso, Gru

l’antica visione taoista dello Yin e dello Yang, una filosofia della creazione codificata nella Cina del IV secolo a.C. durante il periodo degli “Stati combattenti”, ma con una radice culturale più antica di secoli. La dottrina parla di un Assoluto, il Tao, detto ancor prima Wu-Ji (il Vuoto) immutabile e imperscrutabile, da cui promanano lo Yin e lo Yang, le polarità contrapposte e correlate che esprimono in un rapporto dialettico la natura duale di tutta la manifestazione: lo Yin passivo, “vuoto”, femminile, lunare, freddo, e lo Yang attivo, “pieno”, maschile, solare, caldo. Questi principi si manifestano in costante mutamento e alternanza, si integrano reciprocamente e subentrano progressivamente l’uno all’altro trasformandosi armonicamente in un gioco dove nulla si crea o si distrugge. Ecco allora il cerchio del Tai-Chi, l’alternanza del respiro, del giorno e della notte, delle stagioni, dei moti celesti dettati dall’intreccio di forze centrifughe e centripete. Nella pratica il taicista vive questi due opposti con l’esperienza diretta del passaggio da una condizione all’altra, e li attualizza armoniosamente nell’esecuzione con tutta una serie di spostamenti coscienti e calibrati del peso corporeo, aperture e chiusure degli arti, impegno e rilascio delle muscolature, avanzamenti e arretramenti, in un continuo “riempire” e “svuotare”. In sostanza realizza l’unione di microcosmo individuale e macrocosmo naturale percependo alternativamente lo Yin e lo Yang. Ma, attraverso l’esperienza di ciò che muta incessantemente, il taicista va oltre e si avvicina pian piano a ciò che invece rimane fermo dentro di sé, al “centro della sfera”, prende coscienza del punto di forza addominale (dan-tien) e da questo fa partire il movimento. Allo stesso tempo allinea l’intera figura sull’asse d’equilibrio verticale (zhong-ding) che genera un baricentro stabile nella stasi come nel movimento, tutt’uno con l’appoggio al terreno dove i piedi si radicano. Questo permette un assetto in grado di affrontare qualsiasi cambiamento di situazione e, se necessario, neutralizzare l’avversario nel combattimento. In questa condizione di equilibrio tra gli estremi è dunque la chiave di ciò che si definisce “azione senza sforzo” (wu-wei), punto fondamentale dell’Arte, ossia quell’agire che nasce libero, spontaneo, assolutamente funzionale e non dispersivo. La modalità viene descritta simile a quella dei bimbi quando giocano o esplorano il mondo circostante, fluida come l’acqua che si adatta perfettamente ad ogni contenitore, si disperde e si ricostituisce senza mai perdere la propria essenza. Nell’azione “che non lascia traccia” la men-

te logico-razionale tace e lascia spazio alla mente intuitiva libera da schemi prestabiliti, che accede a potenzialità creative normalmente inespresse. In questa libertà il maestro avanzato può arrivare a dissolvere la propria individualità e rendersi spettatore neutro di un movimento che sembra muoversi da solo, guidato e sostenuto dall’energia interna del Chi. Quando non c’è dispersione, non c’è stanchezza, e la fine della sequenza lascia una piacevole condizione di tonicità, che va oltre il momento della pratica. È chiaro che tutto questo non può essere se non c’è una buona condizione di rilassamento che permetta al Chi di fluire nel corpo come un soffio di vento, senza trovare impedimento nelle rigidità articolari e muscolari causate dalle tensioni. Ma nel Tai-Chi lo stato di rilassamento (song) ha un carattere particolare, e non è visto come un abbandono inerte, un distrarsi dai pensieri o una condizione di vago riposo. Se sciogliere le tensioni di ogni tipo, interne ed esterne, rimane un punto base su cui lavorare, in realtà si parla di “rilassamento dinamico” e anche in questo caso di un equilibrio estremo di Yin e di Yang, ovvero della capacità di governare l’attività e la passività secondo i momenti e le circostanze. Il praticante esperto, infatti, è come posizionato sul fulcro di una bilancia ed è in grado di passare a volontà dall’una all’altra delle due polarità, sia sul piano fisico che mentale. Spesso a questo proposito viene richiamata l’immagine del gatto che può starsene fermo e placido, ma è capace di balzare di colpo sulla preda che gli capita a tiro. Le forze sottili che l’Arte è in grado di risvegliare sono racchiuse nel corpo umano come perle in uno scrigno e la tradizione le indica come livelli evolutivi che il taicista consegue attraverso gli esercizi per lo sviluppo dell’energia interiore (nei-gong). Si parla infatti di forza elastica (chen-jin), forza spiralizzata (zhan-ssu-jin) e forza esplosiva (fa-jin). Sono forze che esaltano l’insieme delle fuzionalità corporee, dove tutto l’apparato muscolare, profondo e superficiale, opera in armonia con la struttura ossea e il sistema articolare, senza tensione ma con il dovuto sostegno, sfruttando potenzialità nascoste e trasformando letteralmente la percezione che il praticante stesso ha del proprio essere. A quel punto, ogni gesto sarà “totale”, perché sarà l’unità corpo-mente ad eseguire, non più una singola parte, allo stesso modo degli animali o dei fenomeni naturali, e ciò che è esercizio dell’Arte può diventare carattere e poi attitudine di vita.

Il serpente e l’uccello

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Annidamento La memoria indelebile dal grembo alla nascita di Expedito Arguello Duarte

Per capire meglio l’argomento è utile innanzitutto definire nei limiti possibili, il corpo, per poi addentrarsi. Qui parleremo del corpo umano come il luogo in cui avviene il “fenomeno formidabile” dell’archiviazione degli eventi positivi e negativi della vita. Chiamo questa archiviazione il fenomeno dell’incontrollaExpedito Arguello Duarte bile e della memoria cellulare. D’altronde, sappiamo bene quanto il corpo di ogni persona sia un’integrazione olistica delle parti psico-neuro-endocrino-immunologiche nella formazione fisica dell’individuo. È per questa ragione che quando una di queste parti viene colpita e sollecitata da eventi esterni e interni si può ripercuotere, “in bene o male” su tutto l’essere della persona. Il corpo umano è senza dubbio il nucleo di una complessa struttura che sintetizza la storia biologica, psicologica e sociale di ogni persona. Da questo punto di vista, per così dire privilegiato, possiamo considerare il corpo umano come una realtà “bersaglio” di tutto ciò che genera, provoca e condiziona la storia personale, dal concepimento in poi, intendendo il concepimento come annidamento del corpo biofisico dell’embrione nella parete dell’utero. Perché l’annidamento? Perché è l’inizio dello sviluppo della vita di ogni persona che prenderà forma e sostanza nel corso della sua specifica esistenza. Nel momento dell’annidamento ciascuna cellula ripete ciò che ha memorizzato e perfezionato durante l’evoluzione filogenetica. L’embrio-feto oltre a percepire nuove informazioni attraverso le modalità di relazione – anzitutto con la madre – incamera tutto ciò che accade dentro e fuori il grembo materno. I pensieri e le emozioni, sia della madre sia degli altri, arrivano senza filtro al piccolo essere in formazione, cioè la vita della persona in fieri. Insisto su questo concetto di persona in fieri perché è fondamentale comprendere che lo sviluppo

fisico e cognitivo è in stretta relazione con la memoria emotiva del singolo – in questo caso l’embrio-feto – e delle persone che lo accompagnano fin dall’inizio del suo viaggio terrestre. Così, ogni singola cellula per minuscola che possa essere archivia senza eccezione elementi genetici ed emotivi non solo del corpo di cui fa parte, ma di tutto il patrimonio genetico di quella determinata famiglia, dei propri avi e dell’ambiente in cui la storia di quella determinata famiglia si realizza.

“Il corpo umano è senza dubbio il nucleo di una complessa struttura che sintetizza la storia biologica, psicologica e sociale di ogni persona” La memoria cellulare è il risultato di tutto ciò che è accaduto nella storia umana ed è una risorsa che permette all’embrione di svilupparsi: è per questa ragione di riferimento e di attaccamento vitale che esso è in relazione, innanzitutto, col suo stesso nucleo, con l’utero che lo avvolge e lo contiene, sebbene senza lo sviluppo della coscienza. In particolare, un embrione annidandosi nella parete uterina acquisisce una prima fondamentale esperienza che sarà punto di riferimento vitale per il suo “domani”; questa primordiale esperienza si inscriverà in maniera indelebile nella sua memoria. È in questo modo che la memoria cellulare diventa capacità di registrazione esperienziale dell’embrione che si è annidato. All’embrione arrivano, infatti, tutti gli stimoli fisici, chimici, spirituali come anche i pensieri e le emozioni associati al contesto materno-paterno e sociale, siano essi positivi o negativi. Così l’embrione reca in sé, come fenomeno, tutta la potenzialità della memoria cellulare per ripetere ciò che è stato registrato dalla prima o dalle prime due cellule che ci consentono addirittura di risalire ai nostri primi antenati cellulari. Diversamente dal determinismo filogenetico genitoriale, il momento dell’annidamento è quello in cui inizierà ad accumularsi nelle cellule


dell’embrione la nuova esperienza del vissuto. Questo caratterizzerà l’individualità strutturale del nascituro, determinando la costante diversità individuale nell’evoluzione umana. Ed essendo questo embrione-feto, come abbiamo detto, bersaglio di sentimenti e pensieri, può sviluppare nella sua memoria tracce ingombranti che si manifesteranno come disturbo nell’adulto. Questa memoria è tanto più condizionante in quanto non esiste coscienza del vissuto cellulare, ma è soltanto un reattivo automatico a ciò che è accaduto.

“Ogni singola cellula per minuscola che possa essere archivia senza eccezione elementi genetici ed emotivi non solo del corpo di cui fa parte, ma di tutto il patrimonio genetico di quella determinata famiglia, dei propri avi e dell’ambiente in cui la storia di quella determinata famiglia si realizza” Sostengo che nella dimensione psicofisica della persona si riscontrano due elementi fisiologici e psicodinamici, che si formano proprio nel momento dell’annidamento dell’ovulo fecondato, che chiamo memoria cellulare e fenomeno dell’incontrollabile. Essi possono essere rintracciati nella vita adulta che soffre di reattività in momenti cruciali della propria esistenza, senza che in essi si possa apparentemente riscontrare un collegamento con la reattività stessa. In questo senso possiamo dire che l’uomo è il risultato della propria storia. Ora, se la memoria cellulare diventa un incontrollabile di reattività a ciò che è successo al momento dell’archiviazione, durante i primi giorni dello sviluppo embrionale, al tempo stesso questo sfugge alla coscienza e perciò diventa deterministico fino a che non si riesca a filtrare attraverso la consapevolezza, per uscire dall’incontrollabile della reattività e dal malessere esistenziale.

Ci sono molti esempi clinici delle contaminazioni dell’io persona nell’esperienza di ogni psicoterapeuta. Una conseguenza invalidante dell’incontrollabile nell’adulto, osservata nell’ambito della psicoterapia, è l’attacco di panico che può essere provocato da numerosi situazioni esistenziali verificatesi durante il tempo uterino: minaccia d’aborto, stupro, il non essere voluto… tutte sensazioni di angoscia primaria percepite e archiviate nella memoria cellulare dell’essere in sviluppo. Mario Troiano in Guarire dagli attacchi di panico (Roma, Editori Riuniti, 2000) si esprime dicendo che l’attacco di panico si manifesta proprio in una eruzione incontrollabile di emozioni spiacevoli sia per la nostra psiche che per il nostro corpo. Altri esempi di manifestazione dell’incontrollabile sono dati dalle malattie della pelle, dall’asma, dalle riniti, che possono essere provocate da una nascita “dolorosa” attuata col forcipe o con la ventosa… che si riverberano in emozioni dolorose e stati emotivi in disequilibrio che ci limitano nella vita affettiva e relazionale.

“Il momento dell’annidamento è quello in cui inizierà ad accumularsi nelle cellule dell’embrione la nuova esperienza del vissuto” La terapia a ritroso ci permette di verificare che la storia del malessere esistenziale e delle nevrosi delle persone si accumulano fin dall’annidamento: in sostanza possiamo dire che la vita dell’adulto sarà espressione del vissuto emotivo di quel particolare momento che è l’annidamento. Ovvero, la memoria di quel momento sarà pronta a scattare come risposta reattiva a qualsiasi stimolo che risvegli quel vissuto antico di cui la cellula si è impregnata in assenza di coscienza. E se questa reattività condiziona il benessere esistenziale il modo di sanarlo è riportarlo attraverso il percorso a ritroso al livello della coscienza.

Con un linguaggio piano e scorrevole, destinato sia a un pubblico di addetti ai lavori che a quanti vogliano, da profani o semplici curiosi, addentrarsi nei misteri della vita intrauterina e del frammento di memoria che portiamo con noi nell’esistenza adulta, Expedito Arguello Duarte, ha composto un’opera ottima dal punto di vista della divulgazione, ma anche estremamente rigorosa e coerente da un punto di vista scientifico. Manuale operativo per psicologi, terreno di discussione per medici e terapeuti, Annidamento è anche una lettura utile per le donne in attesa di un bambino che in queste pagine troveranno alcune risposte per vivere serenamente e con consapevolezza la propria maternità. (dalla quarta di copertina) Expedito Arguello Duarte, Annidamento. La memoria indelebile dal grembo alla nascita, Civitavecchia, Spartacolibri, 2007

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Abbiamo un corpo solo, anzi quattro Il paradigma unico della biologia di Gino Boriosi

La medicina antroposofica come biglie ubriache e tornavano indietro, descrivendo non è in alcun modo alterin cielo degli anelli poco compatibili con il loro allognativa: tutto ciò che proviegiamento in una sfera. Apollonio di Perga, un astronomo ne dalla ricerca scientifica greco del III secolo a.c., tentò di risolvere il problema costituisce la base del noinventando il sistema degli “epicicli”: una complicata stro studio, del nostro construttura celeste in cui il pianeta non gira più su una sintinuo aggiornamento. Ma gola sfera, ma su un sistema di sfere molto simile agli chiunque riconosca i pur ingranaggi di un orologio meccanico. Per poter calcolagrandi progressi della mere con esattezza i moti del cielo, i greci costruirono un dicina attuale non può nemeraviglioso meccanismo, rinvenuto il secolo scorso gare di sentirsi un po’ estranei fondali delle Cicladi: avevano inventato il sistema neo a una cultura scientifidifferenziale delle automobili, ma non lo sapevano. Gino Boriosi ca che si interessi solo a processi fisici, come se la “Il corpo umano è talmente complesso, malattia fosse inquadrabile unicamente nei dati di laboche non può essere spiegato in base ad ratorio, nelle immagini della radiologia. Come se il paun unico paradigma, in quanto è ziente non avesse un nome personale, un suo ambiente formato da quattro principi lavorativo e familiare, una sua storia. Se mi rivolgo a un medico, mi sento spersonalizzato e questo non dipende strutturali, ciascuno dei quali dalla sua maggiore o minore professionalità, ma princiorganizza la materia fisica in modo palmente dal fatto che la cultura medica si fonda sull’idiverso, secondo leggi proprie” dea che i processi dell’organismo umano siano analoghi a quelli che si possono riprodurre in laboratorio. L’antroposofia, fondata da Rudolf Steiner, considera però i Il meccanismo di Anticitera, anche se in anticipo di oltre processi del corpo fisico solo una parte del nostro comun millennio e mezzo sulla tecnologia corrente, non baplesso organismo e invita, sulla base di osservazioni stava a spiegare tutti i moti del cielo: il sistema geocenobiettive, ad ampliare il punto di vista scientifico. trico fu definitivamente scardinato da Copernico, il quaGià negli anni Sessanta Thomas Kuhn aveva sviluppato le aveva talmente paura del suo nuovo paradigma, che la una riflessione sull’unilateralità della scienza: il percorsua scoperta dovette essere pubblicata postuma. so scientifico procede nei secoli attraverso grandi paraOggi nessuna persona istruita dubiterebbe più del paradigmi, generali ipotesi di lavoro, che servono a sistemadigma copernicano eliocentrico, ma i calcoli per mandare e ordinare i dati sperimentali. Quere una sonda su Marte si basano ancosti paradigmi sono dei cassetti, dei ra sul vecchio sistema geocentrico. classificatori nei quali noi organizziaLa morale di questa storia è che il mo le nostre osservazioni della natucorpo umano è talmente complesso, ra, nel tentativo di creare un quadro che non può essere spiegato in base complessivamente coerente. Quando ad un unico paradigma, in quanto è alcune osservazioni non armonizzano formato da quattro principi strutturali, con le altre, le consideriamo ecceziociascuno dei quali organizza la mateni; quando le eccezioni sono troppe, è ria fisica in modo diverso, secondo ora di cambiare paradigma. Un esemleggi proprie. pio famoso è quello della cosmologia Poniamoci davanti agli occhi la nasciantica. Il modello geocentrico risponta di un cristallo di quarzo. Il gel di sideva a un’esigenza di ordine e armolicio scorre nelle profondità della ternia: la terra è il perno dell’universo e ra, si espande e si contrae sollecitato tutto il sistema di astri le ruota attorda intense pressioni e diverse tempeno, solidamente strutturato in sfere rature, finché si consolida in una forconcentriche. Il problema, che angoma che è unicamente espressione di sciava già Platone, stava nel fatto che forze fisiche. Possiamo dire altrettanto alcuni pianeti, anziché procedere redella forma del corpo umano? Nel golarmente lungo la loro sfera, cammomento in cui questo fosse retto unibiavano improvvisamente direzione Il meccanismo di Anticitera camente da forze fisiche sarebbe un


cadavere, pronto a dissolvere i suoi tessuti nello stesso ordine della loro maggiore o minore vitalità: prima i tessuti più attivi, come il sangue o la linfa, poi gli organi viscerali e da ultime, le ossa. I processi della vita Al cadavere manca qualcosa che non è in alcun modo inquadrabile nelle leggi fisiche. Nell’essere vivente esiste qualcosa che si oppone continuamente alla forza di gravità, qualcosa che il corpo umano condivide con tutti gli esseri vegetali. Considerate un filo d’erba, lo stelo di una spiga di grano. Potrebbe esistere una struttura fisica, una torre, un grattacielo con le stesse proporzioni tra base e altezza? Pensate alla linfa che scorre nel tronco di una sequoia, alta quanto il Duomo di Milano: credete davvero alla favola che ci raccontano i botanici, per cui la linfa scorre per capillarità? Nessuno può onestamente spiegare il suo movimento verso l’alto, se non ammettendo che gli esseri viventi devono i loro processi vitali ad una forza antigravitaria, alla quale la tradizione esoterica occidentale dà il nome di corpo eterico. Noi ce ne siamo dimenticati, ma le antiche culture conoscevano bene questo organismo: gli indiani lo chiamavano “prana”, da “pran” = pieno, come il latino “plenum” ed era davvero una forza che riempiva di linfa vitale ogni essere, che gonfiava di succhi le gemme dell’inverno, che straripava nei liquidi della riproduzione, nel latte del seno materno. I cinesi lo chiamavano “qi” e lo raffiguravano in un ideogramma che mostra nuvole di vapore che salgono da un mazzetto di riso: una forza ascensionale che permea l’intero universo, come il respiro del mondo. Non è un’entità teorica,

Rudolf Steiner, filosofo e pedagogista austriaco, è il fondatore dell’antroposofia oltre che l’ispiratore dell’agricoltura biodinamica

la si può valutare dal colorito del volto, dalla pienezza dei polsi radiali, dalla compattezza del tessuto dell’iride, dall’energia della voce. Tutta l’impostazione delle scuole a indirizzo pedagogico steineriano, si fonda sul fatto che l’organismo eterico non è soltanto il substrato di tutti i fluidi che circolano nell’organismo, ma anche l’energia primaria dell’attività di pensiero, della memoria. Tutto ciò che vive nel pensiero, nella fantasia, nella creatività nasce da un impulso di leggerezza, non da una forza gravitaria. Il nostro stesso cervello non potrebbe neppure esistere, schiacciato dalla sua massa di un chilo e mezzo, se non galleggiasse nel liquor, che ne riduce il peso a mezz’etto. Tutto questo suona un po’ inconsueto, ma bisogna ammettere che il punto di vista a cui ci ha abituati la scienza attuale è piuttosto unilaterale, applicando le leggi fisiche a qualsiasi fenomeno naturale. La pedagogia steineriana considera che ogni attività intellettuale come il calcolo matematico o l’apprendimento a memoria sottrae energie ai processi vitali del corpo eterico, al metabolismo, alla crescita del bambino. L’insegnamento nelle scuole steineriane è di conseguenza improntato ad attività artistiche, a modalità più affini all’organismo eterico del bambino. L’attività formativa dell’anima e il calore dello spirito Ogni organismo eterico tende a ripetere continuamente lo stesso modulo in mille varianti: la pianta riproduce foglie, fiori e frutti secondo una simmetria costante. Nell’animale questa simmetria viene mascherata da una forza plastica, che noi chiamiamo anima. Quanto più questo elemento di sensibilità interiore si inserisce negli animali superiori, tanto più la simmetria viene persa. L’anima e la vita sono così interconnesse tra loro, che anticamente venivano quasi considerate come un’unità. Il termine Prana, pur riferendosi all’organismo vitale, esprimeva la forza del respiro, il Qi dei cinesi univa nel suo ideogramma un elemento vegetale (il riso) e uno animico (il vapore). Ma anima deriva da anemos, vento: così come la vita si lega ai processi fluidi, l’anima si muove nei fenomeni dell’aria. Come un vento che aliti sopra uno specchio d’acqua, l’attività dell’anima plasma di continuo il complesso dei nostri liquidi, contribuendo alla formazione degli organi. Questa visione dei processi animici può sembrare un po’ azzardata, ma da qualche anno la scienza medica sta scoprendo con grande sorpresa una serie di gas prodotti dall’organismo (come l’ossido d’azoto) e attivi sui fluidi organici, principalmente quelli della circolazione. Ogni minima variazione di ossigeno nei diversi tessuti organici modifica localmente il flusso di sangue, plasmando di continuo il nostro organismo. Se non temessimo di superare il limite redazionale delle 7.500 battute, potremmo vedere come nell’embrione sia proprio il sangue, guidato dall’elemento gassoso del corpo, a formare il cuore. Più che da un meccanismo di pompa in un circuito chiuso, il sangue dunque viene guidato negli organi dalle particolari funzioni gassose regolate dai vasi sanguigni. Ogni nostro impulso volitivo vive in questi processi di calore attivi nell’organismo dell’Io, il quarto elemento del nostro corpo.

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Bikini Sotta la veste linguistica, il corpo di Maria Catricalà Il rapporto tra corpo e habitus è sempre stato, per ovvi motivi, di primaria importanza, nonché particolarmente complesso e vario. È anche vero, però, che di recente si stanno registrando tendenze all’ibridazione del tutto nuove, tali da rendere sempre più sottili i confini tra l’indumento (connesso al greco dýô ‘avvolgo’) e la pelle, tra il corpo Maria Catricalà tecnologico e la macchina, tra dimensione interna e superficie. Gli stessi neologismi del tipo abito camicia, abito sottoveste in italiano, bustier dress, sweater dress in inglese, robe-foulard in francese o bufandas-capa in spagnolo, danno la misura del fenomeno che vede sfumare progressivamente la distinzione tra ciascun capo di vestiario (come nello stigma del cappello-scarpa di Elsa Schiaparelli). Questa nuova végétation d’objets-vêtements (come la chiamerebbe Baudrillard) non è più classificabile in termini naturalistici, così come è avvenuto tradizionalmente, e anche l’esaustività definitoria dell’enciclopedismo di stampo settecentesco non sembra più sufficiente a descrivere le nuove fogge del guardaroba postmoderno. Fra le molteplici cause cui ascrivere la commistione e la sfumatezza del vocabolario della moda, è qui opportuno ricordare l’indebolimento del rapporto tra comunità e fasi di produzione e tra comunità e territorio, legati l’uno ai processi di industrializzazione, l’altro a quelli di globalizzazione. Non solo. È, infatti, regola d’oro per il lessico della moda quella individuata da Simmel fin dal 1898 e attiva nell’intero complesso del sistema di forme e fogge vestimentarie assurte a stru-

Ciò favorisce un’inarrestabile pressione verso la neologia più sfrenata: si pensi, per esempio, alla recente serie delle retroformazioni monokini, unikini, tankini, trikini, burkini derivate da bikini, nome che nulla ha a che fare con il doppio, essendo quello di un atollo dell’Oceano Pacifico. Da un’altra parte, però, si registra una rapidissima diffusione delle nuove voci e, al contempo, una frequente obsolescenza e imprevedibili recuperi. Così, se ci si chiede quanti chilometri di broccato separino il lessico del quattrocentesco Libro del Sarto da quello del primo numero del Corriere delle dame (1804), oppure quanto sia lungo il filo del discorso che dai palchi ottocenteschi è stato intrecciato insieme al tulle per arrivare a decorare gli abiti delle prime vallette dei varietà televisivi, o quali siano le imbastiture conversazionali e di rayon delle pellicole del cinema muto che scorrono ancora oggi tra i flutti telematici, non è sempre possibile rispondere con riferimenti cronologici o diatopici certi e inequivocabili.

Il cappello-scarpa di Elsa Schiaparelli

Il burkini

menti d’identità sociale, di comunicazione e di rappresentazione simbolica. In base a tale norma, ogni fenomeno di moda rivela al contempo una tendenza collettiva all’imitazione quanto una inarrestabile esigenza alla differenziazione, cerca insieme il consenso e il disappunto sociali, l’omologazione e la singolarità dell’eccezione.

“Ogni fenomeno di moda rivela al contempo una tendenza collettiva all’imitazione quanto una inarrestabile esigenza alla differenziazione, cerca insieme il consenso e il disappunto sociali, l’omologazione e la singolarità dell’eccezione”


Deformazioni di stilisti orientali: Miyake, Kawakubo e Yamamoto

Di qui la seconda regola propria del codice della moda e, cioè, quella che impone a modanti e modaioli uno spiccato gusto per gli internazionalismi e l’abbattimento di molti confini geografici, sì che sulle riviste patinate compaiono insieme il francese chiffon, il giapponese kimono, l’amerindiano eskimo, e per uno stesso modello di pantaloni si registra l’arabo zuava con lo spagnolo bombacho e l’inglese knickerbockers (derivato dal nome dello scrittore Dietrich Knickerbocker, che in Storia di New York, suo romanzo del 1889, descriveva gli immigrati olandesi con tale indumento). La tendenza a mantenere questo genere di tracce toponomastiche (come quelle presenti nei tessuti san gallo, mussola, cachemire, denim, ecc.), è funzionale a dare un carattere esotico e stravagante ad abiti e accessori. Ma ad accentuarne la valenza di costumi che aiutano a vestirsi quotidianamente, mascherandosi, decorandosi e deformando il proprio corpo, concorre ancora più profondamente la dimensione retorica e metaforica del lessico di moda. Frequenti sono gli eponimi derivati da personaggi storici (camicia alla garibaldina), famosi militari (montgomery, raglan), inventori (jacquard, mercerizzato), industriali (borsalino), nobili (cardigan,), figure teatrali (fedora), letterarie, di fantasia e cinematografiche (berretto alla Peter Pan), protagonisti del mondo della musica (giacca Michael Jacksons) e famosi stilisti (tailleur Armani, jeans Cavalli, abito Prada, accessori Dolce e Gabbana, collezione Fendi etc.). Non solo: abbondano le metafore da artefatti (manica a palloncino, pantaloni palazzo), da piante (abito tulipano, manica a calla, gonna a corolla), da fenomeni naturali (abiti a onde, ad arcobaleno, a cascate) e traslati zoomorfici d’ogni tipo (tasca canguro, scarpa a becco d’oca, papillon, pantaloni a zampa d’elefante). Nonostante tutto ciò e per quanto il lessico dell’abbigliamento sia tra i più fantasiosi, eterogenei e innovativi del repertorio delle più diverse lingue di ieri e di oggi, conserva sempre uno o più indizi del rapporto fondamentale che lega gli indumenti al corpo. Molte delle parole vestimentarie conservano, infatti, anche in maniera opaca un riferimento, oltre che alla decorazione, alle altre due funzioni che il massimo esperto di psicologia della moda, John Carl Flügel, riteneva primarie dell’abito e, cioè, protezione e pudore. Per quanto riguarda i primi due aspetti, quello che si connette al bisogno di difendersi dal freddo, dal caldo, dagli animali e da altri elementi esterni, quanto dal sentimento di vergogna per la nudità, basta ricordare che il nome stesso dell’abito maschile per eccellenza dell’antica Roma, la toga, era connesso a tegĕre “coprire, nascondere” e che vestem lo era a una radice greca

per “inviluppare, circondare”. Né sembrano molto diversi i legami semantici nelle lingue amerindiane, in cui il nome dell’abito per eccellenza è legato etimologicamente a elementi naturali, come la corteccia o la buccia, che avvolgono le parti più vitali di frutti e piante: per esempio, in lingua maya, huipil “abito femminile” deriva da wee che significa per l’appunto “buccia”.

“Quanti chilometri di broccato separano il lessico del quattrocentesco Libro del Sarto da quello del primo numero del Corriere delle dame (1804)?” E appare non a caso come una sorta di tronco il soprattutto indossato all’inizio del Novecento da molti contadini del sud, simile alla nostra cappa (dal latino capĕre “prendere, contenere”), al turco kapak e all’arabo koeb, che sono dei mantelli collegati sempre all’idea del racchiudere. Insomma, al di là delle specifiche declinazioni, l’idea che sta alla base dell’abito secondo gli schemi concettuali delle più diverse culture è quella del contenuto/contenitore e a confermarlo troviamo anche un’altra ricca serie di termini. Mi riferisco in particolare a quelli che derivano dal nome della singola parte corporea che rivestono: pensiamo all’italiano corpetto, gambaletto, ginocchiera, manicotto, spalline etc., al francese bustier, al tedesco handschuh “guanto” (propriamente “scarpa per le mani”), all’inglese leggins, allo spagnolo cuello, collar etc. Per non parlare dei numerosi composti come copricapo (V+N) o doppiopetto (Agg.+N) o girocollo (N+N) che includono in maniera trasparente una sorta di istruzioni per l’uso e chiare marche spaziali. Si aggiunga, però, che tali forme non sono più produttive e che ad assottigliare in maniera oscura e intensa le configurazioni tradizionali dei limiti tra corpo e habitus agiscono anche altri fenomeni cui abbiamo accennato all’inizio e sopratutto il gusto dei giovani per la corpografia e i piercing. Sembra, infatti, che il codice vestimentario non sia più sufficiente per raccontare la propria storia e comunicare un’identità autentica quanto i tatuaggi e i segni e disegni della pelle. Parallelamente, forse non del tutto casualmente, la moda stessa si fa sempre più spesso ethical e le grandi case promuovono iniziative umanitarie, progetti ecologici e campagne sociali. Si pensa, insomma, a un nuovo modo di configurare pur sempre un rapporto più concreto col corpo, sia con quello della società, sia con quello percepito da ogni singolo nel suo abbigliarsi quotidiano.

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Sciamanesimo e curanderos: una questione di equilibrio di Michela Monferrini

Secondo alcune correnti di pensiero, le malattie del corpo nascerebbero sempre e in ogni caso dalla psiche: ci sarebbero cause psicologiche dietro le forme più varie di malessere, dietro il dolore, dietro i tumori, persino dietro allergie o problemi creati accidentalmente. La ricerca delle connessioni tra psiche e Michela Monferrini corpo umano è uno degli ambiti maggiori dai quali potrebbero arrivare importanti risposte per la medicina: una delle più dure battaglie che oggi vanno combattute è quella contro lo stress psicofisico, che sarebbe alla base di molte degenerazioni del corpo umano a vari livelli, così come una delle parole più usate nelle pubblicazioni sulla prevenzione alle malattie è la parola equilibrio. Equilibrio che, non a caso, si trova anche al centro del sistema di cura più antico del mondo, ormai praticato solo in zone limitate dell’America Latina (Bolivia, Colombia, Cile e soprattutto Perù), dell’Africa e del Sud-est asiatico: quello degli sciamani (i saggi, come dice la stessa radice della parola, da ša di šaman, “monaco”, che è anche la radice del nostro “sapere”), che sono sempre curanderos (i quali, al contrario, possono non essere sciamani, in quanto il potere guaritivo è solo una delle facoltà sciamaniche), e secondo i quali alla base della malattia ci sarebbe appunto un cattivo equilibrio tra uomo, natura e universo. Prima dell’avvento dei monoteismi, lo sciamanesimo era religione piuttosto diffusa: oggi, relegato in piccolissime aree, ha perso la forza di sistema religioso mantenendo, però, presso molti seguaci (non soltanto originari

delle aree in cui è ancora diffuso), quella di indirizzo specifico per il mantenimento del proprio benessere, attraverso l’analisi dei sintomi psicosomatici e soprattutto attraverso un rapporto di fiducia che deve necessariamente essere instaurato tra paziente e curandero, poiché l’eventuale mancanza di questa è considerata prima causa di insuccesso della guarigione. Altra causa di fallimento e vera incognita del lavoro sciamanico sul malato, è una causa “esterna”, e cioè la volontà collaborativa degli “spiriti”. Infatti, la guarigione avviene attraverso il viaggio che lo sciamano compie in stato di trance (aiutato da erbe che nel mondo occidentale sono considerate vere e proprie droghe) verso un universo parallelo abitato appunto da spiriti: creature prive di forma che per guarire necessitano di un intermediario, il curandero, che a sua volta, rappresentando l’unico canale di comunicazione, deve mantenere il proprio corpo in stato di salute (di equilibrio) perfetto, e che per far questo lavora duramente su sé stesso per tutta la vita, seguendo una serie di regole e restrizioni ben precise. Così come l’uomo che diventa sciamano suo malgrado ricevendo in un primo momento la “chiamata degli spiriti” e vivendola come un dramma poiché a questa chiamata è vietato rispondere negativamente e poiché sa bene che il percorso da intraprendere lo porterà a mettere a dura prova il suo equilibrio psicofisico, anche il semplice curandero vive un suo personale e fortissimo momento di crisi e anzi, deve viverla e deve essere curato da uno sciamano, per poter diventare curatore a sua volta. A lui si affideranno quindi i malati, a lui e alla sua intuizione, che è parte attiva in questo processo e che può farlo passare indifferentemente da un trattamento a base di erbe (aloe, agave, cotone selvatico) a una cura fatta di musiche, danze e canti. Tutto funzionerà, comunque, purché ci si creda fermamente.


Tra passo e passo Il tango, innamorarsi in tre minuti di Fabiana Fusco

Il rapporto tra uomo e donna che l’ideale bolla d’aria che li isola dal resto del mondo si negli ultimi anni è stato affidissolva. Il corpo reagisce ancor prima della mente alle soldato sempre più alla tecnololecitazioni e alle indicazioni che gli vengono date, solo così, gia. Dietro schermi grandi o senza parole, senza che il pensiero “devo allungare il passo piccoli si consumano oggi all’indietro” o “devo attendere che il suo piede passi prima gioie e dolori. Però può capidi muovere il mio”, ad esempio, è possibile quella concatetare che, portati per caso da nazione di reazioni che vanno da uno all’altro, anche nei un amico o dopo aver visto momenti più concitati. Si deve gestire il proprio corpo, tromagari un video su youtube, vare un punto d’incontro da condividere e insieme arrivare si approdi a una delle tante lealla consapevolezza di un individuo con quattro gambe che zioni che il panorama del tanattraverso la tecnica funziona come un orologio. go offre e ci si ritrovi improvFabiana Fusco visamente a quattr’occhi con “Più di qualsiasi altro ballo sociale, il qualcuno che non si conosce. tango si basa sulla comunicazione che Non più la discoteca dove vige il “tutti insieme ma ognun uomo e donna riescono a stabilire per sé” ma la milonga, così si chiama il luogo in cui si celeattraverso il contatto” bra il rito del tango, con i suoi codici e le sue consuetudini. Chi dopo il primo abbraccio resiste e decide di procedere nel viaggio ne resta letteralmente risucchiato tanto da impostare Potrebbe sembrare facile se non fosse che il tutto avviene in la propria vita in funzione del ballo. Perché? Tutto è nella pochi minuti! Questa condivisione di anima e cuore perfetta, magia dell’abrazo. Più di qualsiasi altro ballo sociale, il tanquando si verifica, crea una sorta di innamoramento, che gego si basa sulla comunicazione che uomo e donna riescono a nera a sua volta una piacevole illusione data dalla consapestabilire attraverso il contatto. Un linguaggio fatto di passi e volezza che durerà il tempo del ballo. Tuttavia questa benesequenze che entrambi apprendono e che reinventano nelvola dipendenza porta giovani e meno giovani a affacciarsi l’improvvisazione di ogni incontro. La musica media il diaormai quasi tutte le sere nelle milongas cittadine alla caccia logo; suggerisce e ispira l’uomo nella scelta della “marca” e spasmodica di quella sensazione di benessere e felicità totali delle sospensioni, permette alla donna di intessere i suoi che nella vita reale è più difficile da assaporare. Il tango diadornos tra le gambe del partner. L’importanza dell’abbracventa così la condensazione di una relazione amorosa che, cio, che dà vita al fluire senza intoppi anche se a detta dei più, sembra essere e malintesi di questa conversazione, è il preludio perfetto a un incontro tra le la prima cosa da apprendere. Maestri e lenzuola, ne diventa la sublimazione. ballerini non saranno mai stanchi di riSensuale, in alcuni atteggiamenti petere, lezione dopo lezione, quanto sfrontato, nasconde ed esemplifica biun buon tango dipenda dalla riuscita sogni e sofferenze del rapporto tra i di questo passaggio di informazioni due sessi. Un rapporto che nello spache avviene tra un individuo e l’altro. zio di un brano musicale vive tutte le In pista uomo e donna non hanno sue fasi: il primo incontro, le farfalle molto tempo per spiegarsi, l’intesa denello stomaco, la conoscenza, un amove essere quasi immediata. Lui deve re intenso, profondo e l’abbandono studiare lei: come si muove, che lunche nella maggior parte dei casi non ghezza hanno i suoi passi, su quale lascia l’amaro in bocca come succede piede ha il peso, quanto sarà disposta nella “vita reale”. Chi vi spiegherà in a concedersi, per far sì che dopo il primaniera superficiale come si balla il mo tango della serie di quattro che getango condenserà il tutto in «l’uomo neralmente compongono una tanda, porta, la donna segue», quasi una mesiano in grado di creare quella sincrotafora, neanche tanto velata, di «Io conicità, quell’equilibrio delicatissimo mando e tu obbedisci». In realtà uomo che può essere perso in un istante. È e donna si pongono all’ascolto l’uno sufficiente, infatti, che uno dei due dell’altra. L’uomo ispirato dalla musisposti la propria attenzione dall’altro e ca e dalla propria compagna dà inizio da quello che stanno costruendo insie- Nella fotografia Julia Portas, ballerina e insegnante ai passi che sarà però lei a concludere me per far sì che la magia si infranga e di tango a rendere compiuti e completi, non

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L’abbraccio e il piacere dato dal consenso a una distanza ravvicinata

una somma di passi, dunque, ma un unico movimento. Spesso si invitano le signore a chiudere gli occhi per meglio percepire le sensazioni date dai segnali impartiti dal proprio compagno. Si cerca così di escludere la vista che può distrarle per far sì che la concentrazione sul proprio corpo e su quello dell’altro sia totale. Molte di queste restano ad occhi chiusi anche durante il ballo, al di fuori della lezione, per ragioni diverse: l’ascolto dell’altro che ne trae giovamento, il trasporto, l’immaginazione che permette loro di sognare il partner che vorrebbero tra le braccia e del quale percepiscono solo il respiro. Un’esperienza illuminante in tal senso è stata la performance ideata da Paola Lo Sciuto nell’ambito del Festival del Tango che si è svolto all’Auditorium Parco della Musica di Roma lo scorso settembre. Accessibile solo al pubblico femminile coinvolgeva la loro capacità di affidamento e le loro più intime sensazioni.

chiamata milonga, che difendono gelosamente e restii a condividere con l’esterno i momenti che dedicano a questo speciale ballo, come se la contaminazione con la realtà possa far incrinare il loro piccolo pianeta fatto di donne che svestono i panni della quotidianità per scivolare in abiti femminilissimi e seducenti e di uomini che, come Clark Kent, tolgono gli occhiali e si sentono invincibili. Come in ogni “paese” che si rispetti il chiacchiericcio ai bordi della pista è il pettegolezzo, fatto dai commenti lanciati a chi balla, i pregi e i difetti degli avventori, e non ultimo l’abbigliamento e la cura di sé. Quest’aspetto, per ovvie ragioni di vicinanza, non va trascurato. Le scarpe più belle non fanno una brava ballerina, ma sicuramente attirano l’attenzione dei signori in cerca di una dama, come un uomo curato e profumato invoglia un abbraccio più stretto e ci si ritrova così, a fine serata, con addosso un po’ di ogni partner che ha condiviso con noi le danze. Ma a ben guardarli si nota la propensione a proteggere i sentimenti segreti, le emozioni vere che coinvolgono dai tacchi alla cima dei capelli quello che, come diceva Carlos Gavito, notissimo milonguero scomparso nel 2005, «succede tra passo e passo» e che si ha pudore a esprimere a voce alta, come se questo comportasse il perderle. Tutto racchiuso in un abbraccio, un gesto d’affetto semplice ma che si fa con pudore e che del tango è l’essenza, il segreto, non la condivisione di uno spazio che, a seconda dello stile, è più o meno stretto, ma l’appartenersi di due anime a tempo determinato. È la malattia del tango che al primo respiro del bandoneon fa chiudere gli occhi.

“Il corpo reagisce ancor prima della mente alle sollecitazioni e alle indicazioni che gli vengono date, solo così, senza parole, è possibile quella concatenazione di reazioni che vanno da uno all’altro, anche nei momenti più concitati” Al buio, guidate da una linea fosforescente, venivano invitate a sedersi nell’attesa che una mano, invisibile e sconosciuta, le portasse a danzare al centro della stanza. Il risultato? Le si vedeva uscire confuse, sorridenti, perse e una volta risvegliate dal sogno una domanda affiorava sulle loro labbra “ma chi sarà?” Questo non lo sveliamo, resta però la certezza che sicuramente tutte hanno portato via con sé la possibilità di affidarsi senza riserve, di sentire il proprio corpo adattarsi a quello dell’altro, il dialogo petto a petto, cuore a cuore, il dissolversi l’un nell’altra e la tensione leggera ma costante di un passo nel buio. Come non restarne rapiti! Per gli uomini, l’abbraccio rappresenta il piacere dato dal consenso a una distanza ravvicinata, è la condivisione di un’emozione comune, di un comune sentire. L’abbraccio è una sicurezza propria da poter donare alla partner. È la capacità di farle chiudere gli occhi nella malìa della musica. Così il suo abbraccio sarà solido ma non asfissiante e il petto, da cui irradia ogni direttiva di movimento, al contatto con il suo, le segnalerà i passi che più si accordano con la musica che li circonda. Sono uomini e donne abitanti di una città magica

«Quello che succede tra passo e passo», diceva il milonguero Carlos Gavito


Mistero buffo Intervista a Paolo Rossi di Simona Vitale

Ho assistito al tuo spettacolo Il mistero buffo di Dario Fo (p.s.: nell’umile versione pop), che stai portando in scena nei teatri italiani. Molta parte della comunicazione poggia sul linguaggio non verbale, su tecniche del corpo pre-espressive e despressive. Da quali luoghi della tradizione hai maggiormente “rubato” in questo senso? Ho fatto i corsi serali, quelli per studenti lavoratori, alla Civica accademia d’arte drammatica di Milano. I corsi erano principalmente sulla Commedia dell’arte, sul mimo e sull’happening: il lavoro sul corpo era decisamente privilegiato e non si studiava dizione o fonetica. Poi con alcuni compagni introducemmo il livello verbale. C’è una battuta di uno spettacolo in cui dico che dopo sei mesi di corsi di mimo sono stato espulso perché parlavo. Sono stato effettivamente espulso, ma non è stata questa la ragione. In seguito ho fatto un laboratorio con il Living Theatre, ho lavorato con Dario Fo e con Strehler, la cui assistente, Marise Flach, era la prima allieva di Etienne Decroux. Il lavoro sul corpo è stato quindi sempre molto presente. Il corpo è lo strumento del tuo lavoro. Come lo “accordi”? Hai un training? Un barbarico stretching prima di andare in scena, giusto per non stirarmi. La cosa che ho imparato è la tecnica del surplus, cioè tu ti carichi di tensione e di energia nei momenti in cui stai fermo e sei rilassato nel movimento. In questo modo dai un’illusione di grande forza, di spreco di energia quando sei in azione, ma in realtà ti stanchi molto di più quando sei fermo. Ad esempio, in Mistero buffo, il momento dello spettacolo in cui mi stanco di più è quando Lucia Vasini recita il mistero di Maria sotto la croce: non posso ‘mollare’ perché rischio di far affondare la scena dalla mia parte. E lì mi stanco di più.

Da alcuni anni sei capocomico di una compagnia di giovani, la Compagnia di Teatro Popolare. Mi è parso di capire che in questa esperienza ci sia da parte tua anche una vocazione pedagogica. Se è così, qual è la modalità che adotti per trasmettere il lavoro? Non è una vera e propria compagnia, la definirei piuttosto una confraternita. Sono stato prima maestro, ora sono capocomico. Insegni e impari. È la tecnica ‘del vampiro’. Io prendo da loro, prendendo gli do delle cose. Rubo loro delle cose e rubando gli insegno a rubare.

incontri

Paolo Rossi comincia la sua carriera sui palcoscenici dei club milanesi, come comico/cabarettista. Esordisce come attore nel 1978 in Histoire du soldat per la regia di Dario Fo. Lavora a lungo con la compagnia del Teatro dell’Elfo di Milano. Nel 1985 è tra i protagonisti del film Comedians di Gabriele Salvatores. In teatro lavora tra gli altri con Giorgio Strehler, Carlo Cecchi, Giampiero Solari. Raggiunge il pubblico delle platee televisive con la trasmissione Su la testa! (Rai 3, 1992). In teatro l’attore si è confrontato con una personale rilettura dei classici, volta a un’efficace descrizione della contemporaneità (Rabelais, 1996; Romeo & Julietserata di delirio organizzato,1998; Questa sera si recita Molière-dramma da ridere in due atti, 2003). Nel 2007, dall’incontro con la compagnia BabyGang, nasce la Compagnia del Teatro Popolare, della quale l’attore è capocomico. Paolo Rossi è attualmente in scena con lo spettacolo Il mistero buffo di Dario Fo (p.s.: nell’umile versione pop).

“Il laureato ebbe un impatto epocale rispetto al corpo, soprattutto maschile. Lì, cambiò tutto. Io portai tutte le ragazze a vederlo, l’avrò visto sette, otto volte. Mi comprai anche l’impermeabile bianco come Dustin Hoffman” La cosa più difficile che ho dovuto imparare negli ultimi tempi è stata dire la verità. Se ti viene data l’autorevolezza e i più giovani ti chiedono, tu devi rispondere. Poi ognuno farà ciò che vuole, può anche mandarmi al diavolo. La prima volta è stata durissima: c’era questa ragazza che voleva sapere cosa pensassi delle sue possibilità attoriali e le ho dovuto dire che secondo me non sarebbe mai stata una prima attrice, ma avrebbe potuto essere un’ottima caratterista. Pensavo di distruggerla, invece ne ho fatto la persona più felice del mondo, perché adesso lei sa. Mi ha persino detto che in fondo è meglio così, perché potrà lavorare più a lungo. È la verità... Nello spettacolo dici che il fatto di essere basso ti ha

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Mistero buffo (foto Lidia Bagnara©)

facilitato sulla strada del comico. Cosa ha significato sul piano della biografia? Quando stavo per diventare adolescente e poteva cominciare ad essere un problema ci fu una grande rivoluzione dei modelli fisici sia maschili sia femminili. Si combinò il femminismo con l’uscita di un film, Il laureato, che ebbe un impatto epocale rispetto al corpo, soprattutto maschile. Lì, cambiò tutto. Io portai tutte le ragazze a vederlo, l’avrò visto sette, otto volte. Mi comprai anche l’impermeabile bianco come Dustin Hoffman. Superato il problema... Ho avuto tre mogli e sono tutte molto più alte di me. Tu dici che gli anni Settanta devono ancora cominciare. Prevedi che cominceranno? E quando avverrà, il corpo delle donne sarà finalmente liberato? Quando dico che gli anni Settanta non sono ancora cominciati mi riferisco al livello creativo, non al livello politico della questione. C’era un enorme fermento, tensione, elettricità, voglia di sperimentare, curiosità. Tutto si disperse in quello che accadde nelle pieghe integraliste dello Stato, ma anche di quella stessa generazione. Per questo dico che gli anni Settanta non sono ancora cominciati: c’è stato un gioco a tradirsi che non gli ha permesso di avere uno sfogo, un’evoluzione. Sono stati abortiti. Non so se (ri)cominceranno, ma credo sarebbe giusto riallacciare i fili di un discorso, in un altro modo, chiaramente. Adesso si vive questa cosa del corpo delle donne, e pensando al femminismo quello che accade oggi in questo paese è piuttosto paradossale. Personalmente mi inquieto quando vedo che a delle giuste indignazioni si

affiancano dei moralismi che non condivido. Si confondono le cose: a fianco di chi protesta per l’uso che del corpo fanno alcune donne per accedere al potere si affianca chi dice che questo è ciò a cui ci ha portato l’aborto, la libertà dei costumi. È un segnale preoccupante, bisognerebbe distinguere. È come con i giudici: io appoggio i giudici, però i giudici non li sopporto, come concetto.

“Sono stato prima maestro, ora capocomico della Compagnia di Teatro Popolare. Insegni e impari. È la tecnica «del vampiro». Io prendo da loro e prendendo gli do delle cose. La cosa più difficile che ho dovuto imparare negli ultimi tempi è stata dire la verità. Se ti viene data l'autorevolezza e i più giovani ti chiedono, tu devi rispondere.” È un momento strano. Va benissimo il tricolore, però c’è una differenza tra patria e nazione. La patria sono gli affetti, gli odori, i ricordi. È la cultura. La patria ha un valore di solidarietà. La nazione è un’altra cosa: è chiaro che se qualcuno viene ad attaccarmi devo difendermi, ma io non attaccherò mai nessuno. Credo che sia un periodo in cui la parola “distinguere” dovrebbe essere molto presente.


La mimosa è furba come una volpe! Linguaggi, inganni e piccole bugie del corpo degli animali (e delle piante): intervista a Giorgio Celli di Federica Martellini

Giorgio Celli è uno dei più noti etologi e divulgatori scientifici italiani. Ha insegnato entomologia all’Università di Bologna, dove è professore emerito. Come entomologo ha studiato le api sia sul versante della ricerca ecologica, come possibili indicatrici del livello di inquinamento da pesticidi e da piombo, sia sul versante etologico. Da sempre ha affiancato l’attività di scienziato a quella di scrittore: è autore di numerosi romanzi, soprattutto gialli, e di testi teatrali. Collabora con il quotidiano La Stampa. In televisione ha condotto il programma di divulgazione Nel regno degli animali. Nel 1986 ha inoltre curato l’audiovisivo Arte e biologia nel Novecento per la sezione "Arte e scienza" della Biennale di Venezia. Fra le sue opere ricordiamo: L’omosessualità negli animali (1972), Ecologi e scimmie di Dio (1986), Le farfalle di Giano (1989), Bestiario postmoderno (1990), Bugie, fossili e farfalle (1991), Etologia della vita quotidiana (1992), Oltre Babele: scienza e arte a confronto (1994), La vita segreta dei gatti (1994), Il gatto di casa: etologia di un’amicizia (1997), Il prato di Proust: una passeggiata tra insetti, uccelli e fiori (2000), I gatti di Casanova. Come gli animali ci svelano le arti della seduzione (2001), I sette peccati capitali degli animali (2006), La mente dell’ape. Considerazioni tra etologia e filosofia (2008), Le piante non sono angeli. Astuzie, sesso e inganni del mondo vegetale (2010).

Il suo impegno scientifico riguarda prevalentemente gli insetti e le api in particolare. Ho letto un suo recente articolo in cui propone una suggestiva analogia fra l’istinto per la parola che il semiologo Noam Chomsky ipotizza come inscritto nel patrimonio genetico dell’uomo e l’istinto delle api foraggiatrici ad apprendere e utilizzare una particolare grammatica di movimenti. In quanti modi comunicano gli animali? E noi, che usiamo ormai quasi esclusivamente la dimensione verbale, cosa ci siamo persi per strada? Si può fare una distinzione, nell’ottica di una semiologia un po’ selvaggia direi, fra il linguaggio degli animali che è fatto di segnali e il linguaggio degli uomini che è fatto di segni. La differenza sta nel fatto che gli animali non comunicano fra loro cognizioni ma emozioni. Mi spiego meglio: immaginiamo un gruppo di uccelli alla pastura in un prato: uno di essi vede un falco, lancia un grido di allarme e tutti fuggono. Se avesse visto un gatto più o meno il grido sarebbe stato lo stesso e tutti sarebbero fuggiti. Quindi cos’ha comunicato l’uccello sentinella agli altri? Ha comunicato la paura del falco, quindi un’emozione. Se invece un gruppo di cacciatori preistorici nella savana vede arrivare un leopardo, uno di essi grida «leopardo» comunicando in questo modo una cognizione: nella mente di tutti si forma l’immagine di un leopardo e non per esempio di un leone oppure di uno struzzo. Poi certamente la voce dell’uomo può essere impregnata dell’emozione di aver visto un leopardo, ma non è questo che conta in quella comunicazione. Noi uomini poi in principio avevamo anche un ricco apparato gestuale, che è quello che possiamo riscontrare anche nelle scimmie antropomorfe: espressioni facciali, gesti con le braccia e suoni (vocali ma non verbali) che comunicano emozioni. Il linguaggio gestuale è stato superato dal linguaggio verbale ma non è stato mai del tutto abbandonato: tutti noi gestico-

liamo mentre parliamo e ci sono popoli ed etnie che gesticolano in modo addirittura spettacolare. Bisogna ricordare poi che le parole, e cioè i suoni che indicano una certa cosa, sono arbitrari ed è questa la ragione per cui esistono le lingue. Per noi il suono di “cane” significa cane, ma per i francesi il cane è indicato dal suono “chien”, per gli inglesi dal suono “dog”, per gli spagnoli dal suono “perro” e così via… Questo legame, essendo arbitrario e non legato a nessuna ragione biologica, è una classica creazione umana, una convenzione che i popoli hanno creato nel corso della storia; per cui esistono le lingue perché popoli di diverse aree geografiche hanno deciso per convenzione di utilizzare suoni diversi per indicare la stessa cosa. Anche nel caso degli animali esistono dei “dialetti”, che sono delle piccole variazioni. Si sa ad esempio che uccelli della stessa specie di aree geografiche diverse introducono delle minime variazioni nei suoni istintivamente ereditati. Ad esempio quando a Roma si è voluto combattere il fenomeno degli storni che si posano sugli alberi al tramonto si è utilizzato un mezzo speciale di zoosemiotica: venivano trasmessi da una serie di altoparlanti dei richiami di angoscia che facevano fuggire via in massa gli uccelli. Poi si è scoperto che il grido trasmesso inizialmente, che proveniva da una registrazione fatta in Svizzera, era meno efficace del grido registrato da uccelli autoctoni. Per quanto riguarda le api c’è invece questa singolare danza, che è l’elemento fondamentale della loro comunicazione. La cosa curiosa che è stata osservata è che nelle api c’è addirittura la comparsa, unica nell’animalità, di un elemento cognitivo: e cioè in questa danza l’ape compie un numero di giri attraverso il quale indica la distanza del cibo (ad esempio di un campo fiorito con molto nettare) e si muove tanto più velocemente quanto più il cibo è vicino e, dal numero di giri che fa, si deduce con una certa approssimazione, molto forte, la di-

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stanza del cibo. Ora questi volanti, sciamano in grande giri non hanno nessun rapnumero, raggiungono le porto biologico con la difemmine, anch’esse alate, stanza e quindi costituisconel volo dove la regina vieno un codice e il codice prene fecondata. Subito dopo suppone che ci sia stata una si stacca le ali e fonda un convenzione e cioè che – nuovo formicaio, mentre il lo dico in termini grossomaschio muore. La vita e il lani – le api si siano messe metabolismo generale del d’accordo sul fatto che un formicaio viene poi gestito determinato numero di giri dalla regina che depone le indica una determinata diuova, dalle operaie che fanstanza. Come sia avvenuta no tutti i lavori necessari, la formazione di questo ele- Wild animal park, zoo di San Diego, California compreso l’allevamento delmento cognitivo nel linle larve, e dai soldati che diguaggio delle api resta tuttora un mistero e finora il tentativo fendono il formicaio. Si tratta di caste ben distinte ed altadi ricostruirne la filogenesi ha dato scarsi risultati. mente specializzate. Ci sono però dei casi in cui un formicaio L’anno scorso si è aggiudicato il premio Pulitzer il ropuò perdere le operaie. Allora i soldati invadono un formicaio manzo Anthill del biologo e naturalista statunitense Eddi altra specie, rubano le larve prima ancora che escano dal ward Wilson. Un caso letterario che attraverso l’epica bozzolo, le portano nel proprio nido e quando queste escono narrazione delle “cronache dal formicaio” ci svela i sedal bozzolo hanno il fenomeno di imprinting, cioè riconogreti di società assai più complesse e articolate di quanscono nelle formiche del nuovo formicaio le proprie sorelle to comunemente si possa pensare e che al tempo stesso ci e serviranno in questo formicaio come schiave operaie. dice molto delle nostre società, spesso cieche di fronte al Quindi lei vede che un fenomeno come lo schiavismo si vefatto che siamo tutti (i singoli e le collettività) parte di ecorifica anche nella società delle formiche. E ci sono moltissimi sistemi più grandi, che è sciocco pensare di poter domialtri fenomeni misteriosi. Si è osservato anche che alcune fornare, ma nei quali al contrario dobbiamo imparare a giomiche, in determinati periodi, si radunano in certe sale interne care bene il nostro ruolo. Quanto siamo distanti oggi, sedel formicaio, dove non si sa bene se celebrino un rito o una condo lei, dalla consapevolezza di questa dimensione? riunione politica… La società delle formiche è ancora in larga parte sconosciuSe paragonata alla nostra società è una società diversa, perta, perché è una società di immensa complessità e allo stesché non ha la tecnologia, non possiede il fuoco, ma è tuttavia so tempo di difficile osservazione dal momento che la magdotata di grande complessità. gior parte delle formiche vive in nidi sotterranei. Mentre nel caso delle api l’invenzione nel Settecento, da parte del re“Ma se esiste un’etologia delle piante verendo svizzero Spitz, di una parete a vetro dell’arnia è stabisogna chiedersi: le piante si ta la chiave di volta per arrivare ad una conoscenza piuttosto comportano? Ebbene sì, le piante si approfondita, per quanto riguarda le formiche ad esempio non sappiamo ancora quale sia il sistema di comunicazione. Si comportano” pensa che sia basato in parte su un sistema di stridulazioni ottenute dallo sfregamento di varie parti dell’esoscheletro e si Uno degli ultimi libri che ha dato alle stampe (Le piante sa poi certamente di una comunicazione chimica che ha un non sono angeli. Astuzie, sesso e inganni del mondo vegeruolo molto importante: ogni formica quando va a raccogliere tale, Baldini e Castoldi, 2010) è dedicato al mondo vegeil cibo sul territorio segna la pista con i feromoni e cioè tale. Contrariamente al luogo comune ci suggerisce che le dei segnali odorosi che creano una sorta di indicazione strapiante non si limitano a vegetare e, attingendo a Darwin dale olfattiva fra il formicaio e il cibo. Anche questa forma di e ad altri grandi naturalisti del passato, propone intercomunicazione tuttavia non può coprire tutte le necessità alrogativi e ipotesi suggestive sull’intelligenza delle piante. l’interno di una società così complessa. Sappiamo quindi che Anche il corpo delle piante, sente, capisce, ricorda, coesiste un linguaggio, in gran parte ancora da scoprire e che munica, rielabora? persino il grande Wilson, che è probabilmente il più grande Sì, in effetti negli ultimi venti anni si è cominciato a sospettare mirmecologo vivente, è riuscito appena ad intuire. che effettivamente le piante non fossero quelle che si era semCi sono poi una serie di indizi che fanno pensare ad una attività pre creduto e cioè delle creature passive. Io direi che questo mentale in questi insetti, e dico mentale in senso proprio. Ad mio libro cerca di far luce su quella che potremmo chiamaesempio quando un formicaio decide di depredare un altro forre l’etologia delle piante. Ma se esiste un’etologia delle micaio delle sue risorse granarie manda il giorno prima delpiante bisogna chiedersi: le piante si comportano? Ebbene sì, la guerra degli esploratori, dopodiché si svolge l’invasione. le piante si comportano. Questa è la teoria del libro. Le facNelle formiche si verifica poi il fenomeno dello schiavismo. cio solo alcuni esempi. Se lei si siede vicino a un ceppo di vite La società delle formiche si divide in diverse caste: ci sono i e lì c’è un viticcio che sporge, lei vedrà che questo rametto soldati che sono provvisti di mandibole piuttosto forti e sono lentissimamente si muove in circolo perché va a cercare un solitamente più grandi e poi ci sono le operaie. Parlo al matutore a cui aggrapparsi, che è il suo destino. Quindi poschile ma sono in realtà tutte femmine. tremmo dire che si muove con un’intenzione. È possibile dire I maschi compaiono soltanto al momento degli amori, sono questo? Certo si tratta di un linguaggio antropomorfo, ma


come dirlo diversamente? Intende trovare un supporto a cui reggersi. Allo stesso modo se lei semina al limite di un campo una cuscuta, che è una pianta parassita che vive succhiando le altre e che per questo si avvolge alle piante, e al centro del campo mette una bacchetta di vetro, che è neutra e non emette alcun odore, vedrà che la cuscuta tende a crescere verso la bacchetta di vetro. E se viene spostata la bacchetta, la cuscuta sposta la propria rotta. Come fa a “vederla”? Non si sa bene, ma di certo ha un’intenzione: quella di raggiungere quella bacchetta per aggrapparsi.

“Le foglioline della mimosa sensitiva quando vengono toccate si piegano all’indietro, come sfuggendo. Se l’operazione viene ripetuta più volte la mimosa sensitiva reagisce sempre meno, finché alla fine non reagisce affatto. Quindi è in grado di apprendere. Apprende che non c’è rischio. Oppure, per così dire, si stanca” Poi naturalmente quando scoprirà che è una bacchetta di vetro si scioglierà di nuovo perché ha bisogno di una pianta vivente da succhiare, perché è come un piccolo vampiro vegetale. C’è poi il caso clamoroso della mimosa sensitiva. Se lei la tocca le foglioline si piegano all’indietro, come sfuggendo. Ora se l’operazione viene ripetuta più volte la mimosa sensitiva reagisce sempre meno, finché alla fine non reagisce affatto. Quindi è in grado di apprendere. Apprende che non c’è rischio. Oppure si stanca, per così dire, come succede anche a noi quando premiamo un dito ripetutamente e a un certo punto perdiamo la sensibilità. A tutto questo si aggiunge il

Una tigre allo zoo di San Diego

fatto che le piante, quando non si muovono veramente come le piante superiori che sono radicate al suolo, hanno scelto, per risolvere il problema della diffusione sul territorio, di fare delle alleanze. Ad esempio ci sono dei semi intelligenti che hanno scelto di allearsi con le formiche carnivore e hanno creato sulla propria superficie una sorta di escrescenza che ha un sapore di insetto, per cui le formiche si avvicinano e, mangiando questa parte, diffondono il seme. I fiori invece stringono alleanze con le api e gli altri insetti che portano in giro il polline e quindi consentono alle piante di rompere la barriera della consanguineità. Clamoroso è il caso di alcune orchidee del genere Ophrys che mettono in atto un triplice inganno: di natura visiva perché il fiore ha una forma che somiglia a quella di un insetto, di natura olfattiva perché emette un odore simile a quello della femmina dell’insetto e di natura tattile perché l’orchidea porta una peluria che comporta l’illusione tattile dell’insetto maschio che vi si avvicina per copulare. Il suo lavoro di divulgazione è anche molto legato agli animali domestici, ai gatti in particolare. Innumerevoli sono i titoli che ha pubblicato in materia. Cosa ci insegna di noi umani il rapporto quotidiano con gli animali? Penso che sono moltissime le cose che possiamo imparare da loro. Innanzitutto il rispetto e l’affetto che si deve a creature che amano e soffrono, che sono capaci di memoria e di gratitudine e che hanno quindi delle possibilità che sono quelle degli esseri umani. La prima cosa quindi è imparare a riconoscersi un po’ in loro. In secondo luogo uno dei grandi messaggi degli animali, soprattutto per i bambini, è che la diversità non è un pericolo ma può costituire un modo per allargare la nostra natura umana, nel senso che la civiltà e l’etica dovrebbero promuovere. Io dico sempre che amare gli animali significa diventare più uomini. Per fare un esempio: i bambini piccoli di fronte a uno sconosciuto, soprattutto se vestito diversamente, con una pelle diversa, nascondono spesso il volto sulla spalla della madre, perché per loro tutto ciò che è diverso può costituire un pericolo. Se invece gli si regala un animale e gli si insegna che non è un peluche ma un amico, che può avere le paturnie, che può desiderare di giocare o anche di non giocare, lui scoprirà che quella creatura così diversa è in realtà molto simile a lui e capirà che la diversità non è qualcosa da temere ma da esplorare. Sarebbe la nascita della tolleranza e della tolleranza in questo periodo storico ne abbiamo un gran bisogno. Periodicamente ritorna il dibattito sugli zoo (o bioparchi come ormai si preferisce chiamarli). Perché ci piace così tanto vedere e far vedere ai bambini leoni e giraffe in cattività mentre a volte non sappiamo più distinguere un serpente da una vipera, un coniglio da una lepre? Oggi che la tecnologia ci consente di vedere dei meravigliosi documentari in 3d hanno ancora un senso gli zoo? Sugli zoo io ho delle tesi che vengono considerate eretiche. Qui ci si divide fra chi pensa agli animali scientificamente e chi pensa agli animali emotivamente, o meglio soltanto emotivamente. Io penso agli animali scientificamente, ciò naturalmente non esclude che li ami, provo per loro una grande tenerezza e mi sento in grande confidenza (adesso ad esempio ho qui in braccio la mia gattina Nera con la quale tutte le mattine gioco non appena mi sveglio). Non

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dimentico però di essere un etologo e per questo quando mi si dice che uno gnu, che abbia a disposizione uno spazio molto vasto, dell’erba, dell’acqua e dei luoghi in cui rifugiarsi, soffre perché pensa alle savane dell’Africa da cui è stato sottratto, penso che sia una cretinata, oltre ad essere sbagliato da un punto di vista scientifico. Significa voler leggere gli animali come non sono. L’animale non sogna le savane dell’Africa, l’animale è legato al proprio personale benessere. Ieri ho visto il filmato di alcuni scimpanzé in uno zoo nelle vicinanze di Amsterdam dove hanno addirittura un bosco a propria disposizione: ecco io dico che quegli scimpanzé vivono lì felicemente, senza sognare le savane dell’Africa, dove peraltro vengono perseguitati e uccisi. Io sono contrario a tutti gli zoo che sono attualmente in Italia, perché sono zoo che non assicurano il vero benessere degli animali, però devo anche dire che gli zoo assolvono un’importante funzione perché io stesso, lo confesso, sono diventato un naturalista andando da bambino allo zoo di Roma. Vedere gli animali in video non equivale a vedere gli animali nella realtà: essere fissati da una tigre, sentire il suo odore, essere presenti alla sua corporeità non equivale a vederla in video. Il video rassicura, diverte, ma vedere veramente una tigre turba, suscita emozioni profonde di natura corporea, non solo intellettuale, fa provare i brividi. La comunanza con gli animali e l’amore per gli animali si alimentano di una conoscenza e di un rapporto che non può essere costruito solamente attraverso i fantasmi visivi che vediamo in video e per questo penso che gli zoo abbiano una loro utilità nella formazione naturalistica dei giovani. Io vorrei che si facesse da noi uno zoo come quello di San Diego. Un solo zoo per tutta Italia in cui gli animali abbiano ampi spazi, dove ci sia la possibilità di osservarli e che sia ovviamente alimentato da animali allevati in cattività oppure soggetti a dei prelievi scientifici. Quindi io non sono, su questo punto, radicale. Poi sul fatto che questi animali possano essere, rispetto a quelli che vivono la vita selvaggia, sacrificati… be’ possiamo pensarli come dei messaggeri di quegli altri, perché anche gli altri vengano rispettati, perché si impari l’amore per gli animali. Spesso quando esprimo questa mia posizione vengo coperto di contumelie da parte di quelle persone che pensano che lo gnu sogni le savane. E si tratta spesso delle stesse persone che tosano il cane in inver-

no per portarlo in giro con il cappottino e il cappellino o che lo proteggono dalla pioggia con l’impermeabile, senza considerare che quella bestia si vergogna come un cane! Ecco tutti gli atteggiamenti che si fondano su questo tipo di mentalità andrebbero combattuti. Gli animali sono animali, conoscere la loro etologia è necessario per vivere con loro secondo un certo benessere reciproco. Questo è un punto cruciale. L’8 novembre scorso il parlamento europeo ha approvato una nuova normativa sulla vivisezione, che attraverso l’introduzione di una serie di deroghe consentirebbe l’uso di cani e gatti randagi e persino di primati nelle sperimentazioni mediche. Le associazioni animaliste sono insorte. Qual è la sua posizione? Penso che sia una normativa assolutamente iniqua. Anche se bisogna tener conto che il caso della vivisezione è, a mio parere, un caso di coscienza. Ritengo che la vivisezione non debba essere praticata mai per scopi di carriera scientifica oppure di cosmetica, come spesso invece viene fatto. Il novanta per cento degli esperimenti di vivisezione non ha senso, obbedisce a criteri puramente economici ed è quindi ignobile. La seconda cosa che voglio dire tuttavia è questa: c’è una sottintesa ipocrisia in chi sostiene che la vivisezione non è assolutamente necessaria. Ad esempio il vaccino di Sabin contro la poliomielite, è stato testato sulle scimmie, perché solo le scimmie possono ammalarsi di poliomielite. Ecco penso che in questi casi la vivisezione diventi un caso di coscienza. È giusto sottoporre gli animali a delle torture per garantire la vita e la salute degli esseri umani? Qui ciascuno risponde nella propria cameretta. Bisogna però stare attenti all’ambiguità di fondo sottesa alle posizioni più radicali. Quante persone che sono contro la vivisezione quando poi si ammalano usano farmaci che sono stati testati sugli animali? Tutti coloro che fanno il vaccino per la poliomielite ai propri figli ammettono che la vivisezione in questo caso è stata legittima. Io devo dire però che il pensiero che si torturino dei cani e dei gatti, soprattutto, nel loro caso, per la ricerca sulle malattie del sonno, mi angoscia. Forse le cose potrebbero esser fatte così: si potrebbe istituire una commissione dove ci siano degli scienziati ma anche degli animalisti e che dovrebbe decidere di volta in volta, caso per caso, e non seguendo norme generali, se la vivisezione sia davvero necessaria.

È comune pensare alla botanica come a una scienza noiosa. Invece il mondo animale, si pensa, è molto più vicino a quello umano per la varietà dei comportamenti e della «moralità». Siamo disposti ad attribuire «intenzioni» a un pesciolino che scaccia un contendente in amore, ma non alle piante. Le piante non si muovono, non pensano, insomma vegetano… E se non fosse così? Giorgio Celli, con il suo tipico humour che stempera il rigore scientifico, ci guida in un viaggio pieno di sorprese e curiosità alla scoperta dei comportamenti vincenti nella lotta millenaria per la sopravvivenza delle piante. Tra patate che mettono in fuga gli afidi segnalando chimicamente la presenza di una coccinella, la loro peggiore predatrice, e certe orchidee che si «travestono» al tatto e all’olfatto da femmina di imenottero così che i maschi, copulando di fiore in fiore, portano con sé il polline, gli esempi di astuzie si moltiplicano come in una commedia degli equivoci. Ma Celli si spinge oltre. Rielaborando sapientemente idee dei grandi naturalisti del passato, da Darwin a Haeckel a Fechner, avanza ipotesi e domande suggestive su un’ipotetica «intelligenza» delle piante. Come spiegare il caso della mimosa sensitiva che si ritrae a mo’ di difesa se viene urtata, ma poi si «abitua» a questo stimolo se ripetuto? La scoperta di un’attività elettrica simile a quella dei nervi umani nelle radici delle piante può spingerci a ipotizzare che sia una forma di sistema nervoso dei vegetali? Di certo, se le piante mentono ai predatori, comunicano fra loro e si adattano alle pressioni dell’ambiente, allora vuol dire che in Natura l’«intelligenza» è un concetto molto più elastico di quanto siamo pronti a capire. (da bcdeditore.it)


«L’atto senza parole» Intervista a Masolino D’Amico di Michela Monferrini

Scrittore, traduttore, critico letterario, sceneggiatore, Masolino D’Amico è ordinario di Lingua e letteratura inglese all’Università Roma Tre. Ha insegnato nelle Università di Edimburgo, di Pavia e di Roma “La Sapienza” ed è stato visiting professor alle Università di Middlebury nel Vermont, al Barnard College e alla Cooper Union di New York. Tra i suoi libri ricordiamo: Scena e parola in Shakespeare (1974), Oscar Wilde: il critico e le sue maschere (1974), Dieci secoli di teatro inglese (1982), Album Hemingway (1988), Lewis Carroll. Attraverso lo specchio (1990), Byron: vita attraverso le lettere (1990), Lampadine (1992), Persone speciali (2004), Altro giro (2006). Ha curato edizioni di opere di Swift, Wilde, Lewis Carroll, Shakespeare, Forster, Rochester, Burns. Ha tradotto opere di D. H. Lawrence, Hemingway, Graham Greene, Virginia Woolf, A. Burgess, Stevenson, Larkin, Samuel Richardson. Scrive di teatro per il quotidiano La Stampa di Torino, e per il palcoscenico ha tradotto più di sessanta lavori (tra gli altri, di Shakespeare, Arthur Miller, T. Williams, E. O’Neill, Wycherley, Wilde). Si è occupato anche di cinema come storico (La commedia all’italiana, 1985), adattatore dei dialoghi e sceneggiatore (Romeo e Giulietta di Franco Zeffirelli, Panni sporchi di Mario Monicelli).

Prof. D’Amico, cos’è il corpo per un attore? E a questo proposito, che differenza c’è tra il teatro e il cinema? Voglio partire da qualcosa che diceva Orson Welles, in proposito: al cinema c’è una sola macchina da presa, mentre a teatro ce ne possono essere trecento, è come se le macchine da presa fossero dappertutto. Al cinema il regista decide cosa deve guardare lo spettatore e mostra soltanto ciò che ha deciso di mostrare; a teatro l’attore è guardato da centinaia di punti di vista, ognuno diverso dall’altro e ogni gesto che fa è registrato da più angolature. Richard Eyre, che ha lavorato con Judi Dench sia al cinema che in teatro, un giorno mi ha spiegato che quando la Dench lavora per il cinema attira tutti verso di sé, è come una calamita, non si può fare a meno di guardarla, mentre in teatro lei esce, si getta oltre il palcoscenico, è lei che va, con un movimento contrario ma che ottiene lo stesso effetto, ad acchiappare ogni singolo spettatore: lei irradia. Il corpo, allora, è sempre importante, ma in teatro diventa fondamentale, perché se al cinema basta alzare il sopracciglio per dire già tutto, riguardo al teatro si deve parlare di un atteggiamento complessivo. Poi ovviamente, in un teatro di parola, l’attore non ha bisogno di agitarsi tanto, ma c’è anche un tipo di teatro che progressivamente si è fatto sempre più fisico andandosi anche a incontrare – questo accade sempre più spesso – con il mondo della danza. Storicamente, il corpo è la recitazione. Basti pensare al primo cinema, ai film muti: l’attore del muto recitava in un modo molto vicino a come si recitava nel teatro elisabettiano, con grandi movimenti esagerati perché aveva bisogno di essere visto da lontano e perché le luci erano ovviamente tenui. Si lavorava di giorno per avere la luce del sole, ma comunque i gesti erano esasperati: quando gli attori dovevano esprimere l’ira, per esempio, si mordevano le mani, e poi si sbracciavano, facevano duelli, corse, gli uomini che interpretavano i ruoli femminili si atteggiavano vistosamente da donne.

A suo avviso, per un attore, il teatro è una prova più complessa di quella del cinema? Le risponderò usando ancora le parole di qualcun altro. Arthur Miller scrisse, quando era marito di Marylin Monroe, il film Gli spostati, appunto con la Monroe e Clark Gable. Alla fine del film, proprio all’ultima inquadratura, Clark Gable doveva guardare intensamente Marylin e Miller aveva scritto sulla sceneggiatura che quello sguardo avrebbe dovuto illuminare il volto dell’attore perché quello doveva essere l’istante non solo finale, ma risolutivo: l’istante in cui il personaggio avrebbe compreso che quella era la donna della sua vita. Girarono quell’ultima inquadratura, il regista riprese Clark Gable e agli occhi di tutti coloro che si trovavano sul set non successe nulla di particolare.

“Al cinema c’è una sola macchina da presa, mentre a teatro ce ne possono essere trecento, è come se le macchine da presa fossero dappertutto” Chiesero dunque al regista se fosse proprio sicuro che la scena andasse bene, che non dovesse essere ripetuta, e di fronte alla sicurezza del regista, le riprese furono terminate. La sera in cui videro la proiezione e guardarono quel primo piano di Clark Gable, si accorsero che effettivamente la sua faccia si era proprio illuminata, il suo sguardo era trasfigurato, gridarono quasi al miracolo. Gable allora spiegò che al cinema si fa tutto con gli occhi e meno si fa, meglio è: un attore di cinema è questo, solo l’obiettivo si accorge del lavoro, che è lavoro di espressività, di sguardi. Non direi che il cinema è più o meno difficile del teatro, sono come due professioni diverse. A volte grandi attori di cinema sono stati o sono anche grandi attori di teatro, ma al-

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tre volte, invece, si è più rò, guardando al nostro paeportati per una sola cosa: se, il teatro più diffuso oggi, Laurence Olivier era un paradossalmente, è un teagrande attore di teatro che tro che va in senso contrainsisteva con il voler fare il rio, è un teatro “di voce”, cinema, ma non gli riuscicome abbiamo detto prima: va affatto allo stesso mosi tratta di monologhi, ando, finché – lo ha raccontache perché in questo moto nella sua autobiografia – mento economicamente degirando Cime tempestose, licato per la cultura, produril regista, non riuscendo re uno spettacolo tradiziopiù a star dietro a quei genale con molti attori è comsti ampi, ai movimenti esaplicato. Si punta allora su gerati, gli disse «La macattori o comici che la televichina da presa è questa, sione ha reso popolari e devi entrare solo qui den- Clark Gable e Marilyn Monroe in Gli Spostati (1960) questi attori reggono la scetro». Sulle prime, lui rispona da soli, portando avanti se «Forse la macchina da presa non è abbastanza grande per un monologo da seduti, oppure in piedi, ma non muovendorecepire una grande recitazione», ma alla fine capì. E ancosi affatto. Contemporaneamente, abbiamo un teatro di ra, mi viene in mente Mastroianni: quando gli chiesero se avanguardia – che certo andando avanti da circa un sepreferisse il cinema o il teatro, lui rispose che a teatro si ha colo non rappresenta più una novità – dove si può fare a una soddisfazione immediata, il pubblico che ride, che apmeno della parola e anche della storia, e si realizzano plaude, che si emoziona, il corpo è a contatto con altri corspettacoli fantasiosi, audaci, trasgressivi, dove i corpi pi, è condizionato dagli altri, mentre al cinema ci sono ore e vengono manipolati, dipinti, spogliati, capovolti, o anore di preparazione per lavorare magari dieci minuti davanti che spettacoli poetici: l’Atto senza parole di Beckett è alla macchina da presa. Mastroianni aggiunse però, poiché anch’esso una trasgressione dalla norma. È difficile venon amava essere retorico, che il teatro l’avrebbe fatto andere una tendenza nella rappresentazione del corpo, perche ogni sera, ma da attore e non da spettatore, ché andare a ché davvero c’è di tutto. vedere un altro lo annoiava. Ci sono anche dei gruppi, e penso alla compagnia RafChe ruolo riveste, nel corpo di un attore, la voce? faello Sanzio, che esibiscono corpi anomali o persino Esiste un teatro che è fatto solo di voce, di voci, in cui il raccapriccianti, mostrando “casi” umani, il nano, il decorpo non ha una gran duttilità: Thomas Betterton, il forme, il mutilato, il matto. E si arriva all’eccesso della grande attore della Restaurazione della fine del Seicento carneficina, degli animali battuti, morti. in Inghilterra, è l’esempio massimo della cosiddetta posizione “a teiera”, con una mano poggiata su un fianco e “Judi Dench quando lavora per il l’altro braccio steso verso l’esterno, con la mano rivolta cinema attira tutti verso di sé, è come in alto in atteggiamento da declamazione, appunto. Ma da allora a oggi il teatro ha vissuto fasi alterne anche da queuna calamita, non si può fare a meno di sto punto di vista: dopo il periodo elisabettiano ci fu un guardarla, mentre in teatro lei esce, si intervallo di circa vent’anni in cui il teatro praticamente getta oltre il palcoscenico, è lei che va, sparì. Al suo ritorno, si fece un teatro per la corte, molto con un movimento contrario ma che influenzato da ciò che si era visto in Francia, molto paludato, con grandi parrucche, gesti lenti, grandi sottane per ottiene lo stesso effetto, ad acchiappare le donne, armi per gli uomini. ogni singolo spettatore: lei irradia” Lì l’attore entrava lateralmente, quindi camminava quasi di sbieco cercando di guardare il pubblico. Nel Settecento ridivenne mobile, più realistico, e infine nell’Ottocento si Certo il teatro tradizionale, il repertorio occidentale, bormisero in scena i salotti, per cui gli uomini recitavano con ghese, con il pubblico che fa da quarta parete e spia ciò le mani in tasca, prendevano il the: erano diventati gentiche succede dentro, cioè sul palcoscenico, esiste e resiste luomini. In Inghilterra, tra l’altro, nella seconda metà dele continuerà a farlo, rispondendo al piacere innato dell’uol’Ottocento, ebbero molto successo gli attori italiani come mo di guardare ciò che gli altri fanno, anche e soprattutto Tommaso Salvini, attori dinamici: Salvini si muoveva comentre sono al lavoro: se i cantieri edili non fossero cirme una tigre, saltava, si agitava. Fu difficilissimo trovare condati da recinzioni, chiusi agli occhi dei curiosi, la genuna Desdemona per lui, perché quasi strangolava davvero te si fermerebbe ai lati a guardare come gli operai lavoral’attrice, la scaraventava sul letto e tutti restavano affascino: è una tendenza umana irresistibile, tant’è vero che la nati perché questo genere di recitazione, in Inghilterra, frase tipica che si rivolge all’attore quando si va a teatro è non si vedeva più da tempo. «Come lavora bene». Cosa pensa della rappresentazione del corpo in certi tipi Pensando a Carmelo Bene, l’attore può vivere questo di teatro contemporaneo, a volte persino eccessivamente suo corpo come un limite? esibizionistica, certamente provocatoria? Carmelo Bene era estremo, lui aveva il culto della phoné, Oggi c’è tutto, noi viviamo nell’epoca che assorbe tutto. Peera affascinato dal fenomeno vocale e non gli bastava nean-


che la semplice voce: c’era tutto un sistema di amplificazione molto raffinato a cui lui aveva lavorato per anni, era diventato il suo marchio di fabbrica. Lui sì, sentiva il suo corpo come un limite, ma invece, per un attore della “vecchia scuola” il gioco consiste proprio nel vedere cosa riesca a fare con il nulla, con sé stesso, con il suo corpo e basta: questo è il suo mestiere. Laurence Olivier in Cime tempestose (1939) Soprattutto in Italia c’è la tendenza per cui non è chiaro dove finisca il ruolo del regista, che impone la sua visione su tutto. Spesso prevarica o ha prevaricato, e quindi ha usato i corpi degli attori come strumenti del suo disegno. Fondatori di questo tipo di regia moderna, come Gordon Craig, dicevano che l’attore ideale è una marionetta totalmente passiva, fa parte di un disegno architettonico, è un soldatino. Ma esiste anche il contrario, esiste anche una linea di tradizione in cui l’attore ha piena

“Penso a Rina Morelli che faceva La locandiera, Mirandolina, e recitava quindi il ruolo di una donna bella e ammirata, non essendo, lei, particolarmente affascinante, perché era molto piccolina, minuta. Sulla scena, però, si caricava di sicurezza e la comunicava al pubblico circondandosi di un’aura che nella vita non sembrava avere. Un attore è questo far dimenticare chi si è realmente” libertà espressiva e interpretativa. È curioso che la prima tendenza abbia preso piede così tanto nel nostro paese, che non aveva una grande tradizione di prosa: la stessa figura del regista, la stessa parola “regista”, sono arrivate in Italia tardissimo. Dopodiché, però, il suo ruolo ha preso talmente tanto la scena, che gli stessi fautori di questo tipo di regia, hanno cominciato a pensare che si dovesse un po’ ridimensionare, che si dovesse restituire qualcosa agli attori. Quanto cambia un testo quando cambia, invecchiando, il corpo dell’attore che lo porta in scena da anni? Uno stesso attore riesce a cambiare il testo non soltanto invecchiando, ma anche da una sera all’altra, anche semplicemente con la sua voce: penso a Eduardo che quando era lontano da Napoli, recitava in un napoletano meno stretto, quindi più comprensibile. Un bravo attore, poi, più va avanti, più migliora quel testo, perché lo fa suo.

Nel teatro tradizionale, di solito l’attore è molto più vecchio dell’età che deve interpretare: l’aderenza importa fino a un certo punto. Penso a Rina Morelli che faceva La locandiera, Mirandolina, e recitava quindi il ruolo di una donna bella e ammirata, non essendo, lei, particolarmente affascinante, perché era molto piccolina, minuta. Sulla scena, però, si caricava di sicurezza e la comunicava al pubblico circondandosi di un’aura che nella vita non sembrava avere. La stessa parte, interpretata da un’attrice molto bella ma un po’ imbarazzata, bloccata, non aveva affatto la stessa riuscita, anzi. Un attore è questo far dimenticare chi si è realmente. E poi gli attori vogliono morire in scena, quindi lavorano davvero fino alla fine della loro esistenza, non c’è nessuna vergogna: Marcello Mastroianni diceva anzi che c’è sfacciataggine nel portare di fronte a un pubblico anche il decadimento, la stanchezza fisica. Un anno fa, Albertazzi ha interpretato il ruolo di un vecchio palestinese che accompagna la figlia in un viaggio in treno e a un certo punto lui dice «Ho cinquantadue anni»: ecco, l’ottantenne Albertazzi, nella parte di un “vecchio di cinquantadue anni”, era perfettamente credibile.

Thomas Betterton nei panni di Amleto

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Il re è nudo? La legittimità del potere tra populismo e personalizzazione della politica: intervista a Ernesto Laclau di Valentina Cavalletti

Ernesto Laclau è un filosofo argentino, tra i massimi esperti di teoria politica a livello internazionale. Negli anni Settanta si trasferisce in Inghilterra, alla Oxford University, dove inizia a collaborare con Eric Hobsbawn e con la New Left Review. È docente presso la University of Essex in Gran Bretagna, dove ricopre una cattedra di Teoria politica presso il Centre for Theoretical Studies in the Humanities and Social Science. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Hegemony and Socialist Strategy, scritto in inglese insieme con la collega belga Chantal Mouffe e influenzato dalle teorie di Antonio Gramsci. Il suo ultimo libro è stato edito da Laterza nel 2008 e s’intitola La ragione populista. Viviamo in un momento di crisi generalizzata su più fronti. Sembra che la politica, sia locale che internazionale, non sappia dare risposte a questa crisi, se non utilizzando le armi. Aumenta la sfiducia nei confronti di chi detiene il potere e i sistemi democratici perdono credibilità. Cosa si è incrinato? Qual è l’analisi di un filosofo della politica rispetto alla situazione attuale? Quello a cui stiamo assistendo è il passaggio da un mondo unilaterale a uno multilaterale, da un mondo unipolare a uno multipolare. Alla fine della Guerra Fredda c’era l’illusione che il mondo potesse essere dominato da un unico polo imperiale costituito dagli Stati Uniti. Questa immagine si è andata sfumando negli ultimi anni: in primo luogo abbiamo assistito al declino economico del potere americano e all’ascesa rapida di potenze che sembravano marginali, come la Cina, che nei prossimi venti anni diventerà invece una potenza mondiale. D’altra parte gli Stati Uniti hanno perso il controllo sul loro stesso territorio: hanno provato ad imporre agli stati dell’America Latina il programma dell’Alca (Area di Libero Commercio delle Americhe) per subordinarne l’economia ma questo obiettivo ha fallito progressivamente, soprattutto grazie all’azione di Venezuela, Brasile e Argentina. Oggi assistiamo alla disarticolazione di tutti i sistemi di potere che hanno resistito nel Medio Oriente per più di quarant’anni. L’Europa Occidentale sta vivendo una certa impasse per la mancanza di una reale contrapposizione politica, che mina la possibilità del confronto e del dibattito parlamentare e parallelamente spinge le persone a nutrire una crescente disillusione. Credo che sia essenziale ristrutturare la divisione destra/sinistra per dare nuova vita a una comunità politica critica, attenta e attiva. Infatti nella società non può maturare alcuna forma di entusiasmo collettivo quando si sviluppa l’im-

pressione che le decisioni prese non rispecchiano alcuna specificità ma al contrario appaiono del tutto simili, qualsiasi sia la parte politica che le propone. Pertanto ci troviamo di fronte a una totale ristrutturazione del panorama mondiale in cui tutte le vecchie forme di dominazione politica subiscono dei profondi cambiamenti. Ne La ragione populista lei si chiede: «Il populismo è davvero una fase transitoria, frutto dell’immaturità degli attori sociali, destinato ad essere superato sempre in un secondo momento, o è invece una dimensione costante dell’azione politica, che necessariamente affiora (con grandezze diverse) in tutti i discorsi politici, sovvertendo e complicando le operazioni delle ideologie cosiddette mature?». Il populismo sembra essere una forma attuale della democrazia e una risposta alla sua crisi. Quali sono i suoi tratti caratteristici e le differenze con il populismo novecentesco? Il populismo ha sue specificità in ciascun contesto. Si possono evidenziare alcune somiglianze tra la rivoluzione del 1848, la mobilitazione del 1989, con cui si emanciparono i regimi dell’Europa orientale, e l’attuale mobilitazione del mondo arabo. In tutte e tre le situazioni possiamo rintracciare una serie di trasformazioni che hanno facilitato la costituzione di identità popolari nazionali. Pensando alla situazione dell’Europa nel diciannovesimo secolo possiamo evidenziare come alcuni fenomeni, dallo sviluppo della ferrovia alla diffusione del telegrafo, permisero a comunità lontane di cominciare a identificarsi le une con le altre, a condividere le domande e finalmente a costituire un popolo. La stessa situazione si è presentata nell’89 e si sta verificando anche oggi nella mobilitazione del mondo arabo. In questo caso lo sviluppo delle nuove tecnologie, di internet e di tutti i fenomeni a questo associati stanno giocando un ruolo deci-


sivo. Come si sa, ho contestato un’immagine necessariamente negativa del populismo perché credo che il populismo sia un modo di pensare le identità sociali, un modo di articolare le domande disperse, e semplicemente una forma di costruzione del politico che concede alle masse popolari la possibilità di entrare a far parte dell’arena politica, attraverso l’identificazione con un certo leader. Questo può succedere sia a destra che a sinistra: la figura di Mussolini in Italia è emblematica per quanto riguarda il populismo di destra, la figura di Mao in Cina lo è per il populismo di sinistra. Nel caso dei fenomeni latino-americani, si è sviluppata una forma molto specifica di populismo che si radica nel fatto che la forma istituzionale liberale tradizionale rappresentava la continuità del potere oligarchico. Infatti in quasi tutti questi paesi si è dato forma a interpretazioni collettive armate che necessariamente hanno preso possesso dell’intero complesso istituzionale.

“L’Europa Occidentale sta vivendo una certa impasse per la mancanza di una reale contrapposizione politica, che mina la possibilità del confronto e del dibattito parlamentare e parallelamente spinge le persone a nutrire una crescente disillusione” Questo numero della rivista è dedicato al corpo. L’analogia fra corpo umano e corpo politico ha una storia molto antica. Nella Repubblica Platone scriveva che la polis è l’uomo scritto in lettere maiuscole e l’ordinamento sociale romano è stato paragonato da Menenio Agrippa al corpo umano, in cui senato e popolo, come fossero un unico corpo, con la discordia periscono, con la concordia rimangono in salute. Qual è il rapporto tra corpo e politica oggi? Il problema del corpo può essere interpretato in varie maniere, ad esempio all’inizio del Leviatano Hobbes parla della società come se fosse un corpo e fa un’analisi in cui la metafora del corpo è evidentemente preponderante. Nel tempo questa metafora si è banalizzata nell’idea che il corpo politico è semplicemente un modo per parlare della comunità politica. Dal mio punto di vista è importante vedere come un certo corpo in un determinato momento può diventare il significante di un’azione collettiva più vasta. Il corpo di Perón in Argentina fu certamente fondamentale per l’unificazione del popolo: il peronismo infatti rappresentò un grande sviluppo dal punto di vista della partecipazione delle masse al sistema politico. Giustamente perché ci sia un significato specifico basta avere un significante più dominante. Secondo la psicoanalisi lacaniana il corpo è intriso del significante, e secondo Freud il corpo funziona esattamente

così: organi diversi, corpi distinti possono rappresentare aspetti differenti a livello della coscienza globale. Pertanto non credo che si possa parlare semplicemente di una funzione del corpo ma piuttosto di una proliferazione delle metafore relative al corpo e alla corporalità. Ernst Kantorowicz nel suo celebre libro I due corpi del Re ha evidenziato la duplicità insita nel corpo del sovrano, che si estrinseca nella definizione del corpo naturale da un lato, con la sua fragilità e mortalità, e nel suo significato politico dall’altro, nell’accezione simbolica, immortale, universale e soprattutto rappresentativa che gli permette di farsi corpo dello stato. Oggi la funzione rappresentativa è fortemente legata alla sovraesposizione mediatica del «corpo del Re», alla spettacolarizzazione e alla personalizzazione della politica. Il Re è nudo e non lo sa. Come può riacquistare credibilità? Come ridare legittimità al potere? Una versione basata in parte su Kantorowicz ma che ha una linea analitica distinta è quella di Claude Lefort, secondo cui fintanto che il corpo del re assunse un significato simbolico poteva anche incarnare la legittimazione della società. Ma l’invenzione democratica della modernità ha sganciato il potere dal corpo del sovrano. Dopo questa rivoluzione, il potere appare come un luogo vuoto che può essere occupato da chiunque. Lefort sostiene che la legittimità non è legata alla specificità di un corpo egemonico, sottolineando che esiste una maggiore transitorietà nell’esercizio del potere.

“Ho contestato un’immagine necessariamente negativa del populismo perché credo che il populismo sia un modo di pensare le identità sociali, un modo di articolare le domande disperse, e semplicemente una forma di costruzione del politico che concede alle masse popolari la possibilità di entrare a far parte dell’arena politica, attraverso l’identificazione con un certo leader” Credo che questa versione sia corretta ma in qualche modo eccessiva: a mio avviso, quando certe forme politiche s’incarnano in corpi divenuti egemonici, non è tanto facile destituirle dalla loro funzione. Un’analisi della personalizzazione della politica deve muoversi tra questi estremi: un modello di personalizzazione totale, che corrisponde alla vecchia nozione monarchica, e un modello di assenza di personalizzazione totale. Probabilmente l’egemonia della politica deve trovare una mediazione tra queste due possibilità.

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Alfabeto del corpo Intervista a Raffaella Giordano di Federica Martellini

Danzatrice e coreografa, Raffaella Giordano inizia a studiare danza con Carla Perotti e Anna Sagna nel 1978 presso la scuola Bella Hutter di Torino. Nel 1980 entra nella compagnia Teatro e Danza La Fenice di Venezia‚ diretta da Carolyn Carlson. Nel 1981 danza con il Wuppertal Tanztheater diretto da Pina Bausch. Nel 1984 insieme a Michele Abbondanza‚ Francesca Bertolli‚ Roberto Castello‚ Roberto Cocconi e Giorgio Rossi fonda la Compagnia Sosta Palmizi con la quale‚ come danzatrice e coreografa‚ crea gli spettacoli Il Cortile (1985)‚ Tufo (1986) e Perduti una notte (1989). Nel 1987 firma la sua prima coreografia, Ssst.... per sette danzatori‚ in coproduzione con Bois de la Bâtie di Ginevra‚ a cui seguono nel 1989 Inuit e nel 1995 Il Volto di Aria, per la compagnia Folkwang Hochschule di Pina Bausch. È stata coreografa per l’opera Rosamunde al Teatro La Fenice di Venezia (regia di L. Codignola, 1988) e nello spettacolo di prosa La Medea di Portamedina (regia di A. Pugliese, 1991). Quando la Compagnia Sosta Palmizi si scioglie, Raffaella Giordano fonda e dirige l’Associazione Sosta Palmizi‚ con Giorgio Rossi. Fra le sue altre produzioni ricordiamo: I Forestieri (1992); Fiordalisi (1995); …et anima mea (1996); La Notte Trasfigurata (1998); Il Canto della Colomba (1998); Quore. Per un lavoro in divenire (1999); Senza Titolo (2002); Tu non mi perderai mai (2005); Cuocere il mondo (2007). Per due volte, nel 1990 e nel 1999, le è stato assegnato il Premio della critica “Danza&Danza”. Nel 2000 si è aggiudicata il Premio speciale UBU per Quore. Per un lavoro in divenire. Svolge una costante attività di formazione in Italia e all’estero. Inizierei da un tuo pensiero: «Il corpo è crocevia di forze‚ miracolo di connessioni‚ punta di un iceberg‚ figlio di spirito e materia. Rivelatore di poteri forti che coinvolgono l’essenza del nostro esserci e poi non esserci più». E ancora: «Prima del lavoro sul gesto, l’attenzione si concentra sulla totalità della presenza. Perché ogni corpo è già di per sé un racconto, prima ancora di agire». Come metti in relazione nel tuo lavoro i corpi e lo spazio in cui agiscono? È una relazione fondamentale: non esiste un corpo senza il limite che lo definisca e non esiste movimento senza lo spazio che lo possa accogliere e permettere. Vivo lo spazio come una condizione profondamente intrecciata al tempo. Sono le due grandi categorie attraverso le quali si fonda il teatro, insieme alla nostra presenza, e sono particolarmente sensibile al loro mistero. Quando lavoro ho bisogno innanzitutto di creare un terreno e un ambito di ascolto e di fiducia, questo accade attraverso differenti pratiche del corpo, anche semplici, che riguardano la capacità di stare in silenzio, di lasciar decantare il tempo. È un lavoro sostanziale che permette poi di poter ascoltare, percepire e muoversi con un altro ordine di prospettiva e di sensibilità interiori. È un riscaldamento, come si chiama volgarmente, ma non prettamente muscolare; si accende un campo di ascolto, di concentrazione e di qualità, attraverso il quale si sviluppano le dinamiche successive di studio sul movimento. È una domanda complicata perché è un po’ come chiedere il mistero della creazione: la genesi è misteriosa, non si può dire come e da dove scaturisca. Sicuramente il centro della mia osservazione è questo misterioso individuo incarnato: osservo, ascolto e poi induco, offro delle tracce di movimento, di qualità di relazione e a un certo punto le co-

se si impongono e dall’errore, dallo sbaglio, dallo stare, dal costruire si vengono a formare delle architetture che in qualche modo mi risultano (o ci risultano) più credibili di altre. Lentamente si va imponendo una scrittura che permette di indagare e riflettere sugli aspetti formali e tematici che ne compongono il tessuto. Ogni creazione è un viaggio che illumina territori e percorsi molto diversi fra loro, perché ci sono delle domande più forti di altre che emergono di volta in volta. Non inizio quasi mai da riferimenti precisi, l’urgenza di mettere a fuoco alcuni aspetti che riguardano la natura delle cose si delinea e muta anche in relazione alle differenti persone con cui lavoro, dando delle risposte diverse. La forza del teatro è anche quella di giocarsi nel presente. Allo stesso tempo sono molto attenta alla precisione delle cose: perciò si crea una tensione direi struggente fra l’esigenza di rigore e questo desiderio di apertura, a quel presente che non è mai uguale a se stesso, dove sempre vi sono delle minuscole implicazioni che cambiano, perché siamo vivi e la vita è estremamente mossa. D’altro canto però forse il rigore è richiesto sempre nell’attenzione e anche nella consapevolezza delle misure all’interno delle quali lo spazio si sta generando e delle misure o energie del proprio corpo. In fondo a volte riduco tutto proprio a una questione di misure. Spesso siamo abituati a guardare la forma, l’oggetto, la cosa e il corpo nella loro matericità e molto meno invece a percepire lo spazio che sta fra le cose, le porzioni di spazio che i corpi nel loro stare o muoversi lasciano apparire e scomparire. E questo aspetto invece è interessante perché rivela un paesaggio diverso, un’estensione piena di vita. Lo spazio è il luogo dove si manifestano il buio e la luce, dove viaggiano, per così dire, le informazioni generate dai corpi e dalle presenze, siano


esse organiche o inorganitura oggettiva, più permetche. Le relazioni dei corpi tiamo all’ordine spirituale lasciano la parola allo di manifestarsi e di svelare spazio come ad un vero una sensibilità sottile che interlocutore che ha delle realmente lascia intendere, cose da dire, e quindi da intuire, presagire ciò che ascoltare. C’è una forte non si vede. Più metto in interazione e coevoluzioluce la presenza concreta e ne della materia con lo oggettiva delle cose e delle spazio vuoto che è inteso persone, più si rivela e svecome campo portatore di la la presenza di ciò che energia, un tramite depovedo e non vedo. sitario di molta sostanza. Sei una scrittrice del geCuocere il mondo, per sette interpreti, 1h15’, 2007 (foto di M. Delahaye©) Nella tua arte c’è un che sto, il tuo è un alfabeto di di filosofico e di poetico, gesti, una grammatica di di estremamente concreto ma anche di spirituale. A movimenti, una sintassi di corpi difficilmente traducibiquale dimensioni ti appelli nel tuo processo creativo? le e raccontabile in altre forme di linguaggio, siano esse C’è indubbiamente il punto di vista filosofico perché di fatnarrative o iconografiche. Senti mai i rischi di un codice to la domanda che sta sempre al centro riguarda la meravispesso tacciato di autoreferenzialità? glia dell’esistenza con tutte le sue problematiche, i suoi Sì, da un lato l’autoreferenzialità è indubbiamente un riconflitti e allo stesso tempo la sua bellezza, il suo potere schio. Però mi piacerebbe distinguere. Perché autoreferenumano. Nel lavoro, d’altro canto, mi rivolgo all’aspetto ziale significa innanzitutto una mancata relazione e un forconcreto perché si tratta proprio di essere e stare nella carte restringimento del campo di azione e di riflessione. Una ne, di stare nella materia e di sviluppare un costante rapchiusura sul proprio sé che tende a manifestare uno spazio porto con la concretezza dell’azione: questa mano, questo fortemente egoico e che allora diventa un tragico rischio. stare qua, questa spinta. La dimensione fisica è sostenuta Capisco che ci possa essere molta ambiguità al riguardo, io dal respiro e dal soffio che ci attraversa ed è un fatto reale stessa sono stata più volte criticata per questo motivo. Allo che immediatamente implica ai miei occhi, l’esistenza di stesso tempo – e allora in questo senso mi dico che è un riun ordine spirituale. schio da prendere e una sfida da percorrere – io non posso che essere, anche inconsapevolmente, il mio primo referen“Il centro della mia osservazione è te perché porto me stessa nel mondo e mi riferisco alla mia questo misterioso individuo incarnato: esperienza, a quello che mi è stato dato. Ognuno di noi viene al mondo con una dote, con un bagaglio ricco di essenza osservo, ascolto e poi induco, offro già inscritto nella propria conformazione, nella propria codelle tracce di movimento, di qualità, stituzione. E poi c’è l’incontro con tutti gli altri, l’apprendi relazione e a un certo punto le cose dimento, le cose, attraverso il tuo bolo, che restituisce un si impongono e dall’errore, dallo ordine di sensibilità nel quale tu vai ad agire, che non è mai fisso, ma è in evoluzione e si continua ad auto interpellare. sbaglio, dallo stare, dal costruire si Ecco tutto questo dà origine a un modo di portare il proprio vengono a formare delle architetture. vissuto che è imprescindibile. Il teatro è una porta aperta Lentamente si va imponendo una sulla relazione che abbiamo, intimamente, nei confronti scrittura” della vita e del “mondo”. In questo senso non parlerei di autoreferenzialità ma piuttosto di naturale partecipazione Per anni ho cercato di tutelare a modo mio questa parola, dell’essere che porta con sé il proprio bagaglio di memoria, lasciandola nel silenzio, perché è una parola abusata – tutte di tensione, di immaginazione. Penso anche che ciò che le parole più dense di significato sono state abusate nel noviene tacciato di autoreferenzialità o di ombelicalità sia un stro secolo – e questo abuso, da cui deriva una perdita di po’ figlio dell’esplosione dei sistemi codificati che è prosenso, mi fa soffrire. Ma nel tempo è diventato difficile napria delle ultime generazioni. Dal momento in cui si è anscondere la forza e ineludibilità del potere della dimensiodato a infrangere il sistema codificato si è entrati in un bone spirituale, che informa continuamente il nostro esserci. sco di gesti e differenti linguaggi, a volte assai complessi Il mio compito però è sempre quello di agire attraverso da decodificare. Ma poter ricevere i gesti anche quando questa carne, questo corpo che mi è dato. Ed anche il rinon sono connotati strettamente in un codice è un fatto pochiamo all’oggettività, se pure da un lato non può essere sitivo, una buona educazione perché ogni gesto esiste in totalmente fedele perché di fatto ognuno legge la realtà in quanto tale, non ce n’è uno che esiste meno di un altro: un modo diverso, è di estrema importanza. Se io guardo quebraccio teso non significa qualcosa di più di un braccio mal sta sedia, più o meno oggettivamente, posso riconoscere riposto rispetto a una determinata codificazione del linche ci sono delle gambe verticali e un piano orizzontale e guaggio. Detto questo, il rischio c’è, esiste e si può giracon il corpo è la stessa cosa: ci sono cinque dita, due bracre in tondo, pur nelle migliori intenzioni. Per questo è cia, due mani. Riportare l’attenzione su questo punto è per fondamentale accendere continuamente lo spazio di reme fondamentale. Proprio in questa direzione, più riuscialazione fra le parti, continuare a sollevare la propria permo ad aderire alla fisicità dell’atto e a comprenderne la nasonale responsabilità la quale è in stretto rapporto con il

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mio primo referente che nel tuo lavoro? E del della sono io e che a sua volteatro-danza ta è in continua mutaBausch nella danza zione, interdipendente contemporanea? dal nostro desiderio di Col senno di poi si legaprirci alla relazione. gono le cose in maniera Dici che «il corpo aiudiversa e io allora ero ta a ricordare». Ma veramente molto giovanon è vero anche il ne, avevo diciannove ancontrario ovvero che ni: sono stata letteralla memoria “si incarmente travolta. E comna” nei corpi, che è il mossa anche, da questo corpo innanzitutto a incontro, nel vedere per portare i ricordi (e la prima volta alcuni non la mente)? Come sprazzi di immagini del ricorda il corpo in sce- Quore. Per un lavoro in divenire, per quattro danzatori, 55’ 1999 (foto di suo lavoro. È stata un’atna? Mi immagino che Laurent Lafolie©) trazione fatale, come una ogni volta possa essere calamita. Io conoscevo un nuovo divenire e farsi della memoria… poco ma – ed era totalmente istintivo e irrazionale – potevo Sì ogni volta avviene in maniera diversa. Questo è un camriconoscere nel suo lavoro qualcosa di molto vicino, una po molto complesso e anche le neuroscienze e le diverse sensibilità, una maniera di far muovere una danza. Il suo punte di evoluzione di pensiero affrontano questo argolavoro mi ha toccato delle corde molto profonde. Mi semmento cercando di comprendere la reciproca influenza e le brava di riconoscere delle persone ed era come se non veconnessioni fra le parti, di mettere in evidenza l’unione di dessi più i danzatori ma persone più vicine alla vita e alla molte cose che fino a non molto tempo fa erano considerarealtà che si esprimevano e che agivano attraverso quella te completamente slegate. Il corpo è un paradosso perché lingua. Ho incontrato un mondo, una porta aperta su un collega, tiene unito e in questo senso vorrei avvicinarmi almondo, una possibilità, ho pensato: allora è possibile! Il rela parola religione che significa anche ri-legare. Per me il galo più grande che un autore può restituire al pubblico è corpo è veramente il detentore del nostro mistero. Nel moquello di lasciarlo entrare in un luogo di cui non sospettava mento in cui io mi addestro a un ordine di sensibilità piutl’esistenza, di accompagnarlo dentro un altro dentro, genetosto alto – che è ciò che ci richiede l’addestramento del larando e dando forma a ciò che prima non ne aveva ancora voro sul, nel e attraverso il corpo – attraverso di lui emerge e di riuscire a dirti che è possibile andare più in là, più promemoria, letta poi in modo più o meno chiaro dal pensiero fondamente nella vita. È stata una persona e una donna meo per meglio dire dalla ragione logica che spesso è separata ravigliosa che ha avuto una forza incredibile, le sono proo che ha un proprio binario di funzionamento, mentre il fondamente grata. Mi dispiace vedere – ed è altrettanto inpensiero inteso come intelletto è anche lui incarnificato incredibile – quanto il mondo abbia una memoria corta. La sieme a questo corpo. Quello che mi sembra di aver colto Bausch ha saputo nella sua arte aprire delle strade rispetto attraverso l’esperienza è che il corpo (ma anche gli oggetti alle quali non si può tornare indietro, ha spostato dei muri e il mondo naturale) lo vivo e sperimento come un coagulo di convenzioni, ma invece oggi troppo spesso sembra che materico, di maggiore densità, che si affaccia a questo spatutti inventino l’acqua calda. Voglio dire che oggi c’è un zio vuoto ed è come se riconoscesse una stessa sostanza fra modo di prendere a prestito ciò che è stato con molta e ciò che è materico e ciò che è immateriale ed io posso amtroppa leggerezza e di scimmiottare un certo teatro-danmaestrare la permeabilità della frontiera di questo corpo (il za, senza veramente sapere e conoscere quello che è sucrespiro in questo senso non è cosa da poco) e attraversarla cesso, di risolvere scenicamente situazioni e danze, attindall’una e dall’altra parte. Allora in questo senso lo spazio, gendo a quell’esperienza, ma in modo molto superficiale: è come un tramite, come un conduttore, anche lui detiene nel momento in cui un individuo vede per la prima volta la sua intelligenza, la sua memoria. Tutto questo è strepiuna combinazione poi può utilizzarla senza cognizione di toso. È un sentimento forte che vivo, a tratti anche di folcausa, perché qualcuno ne ha sancito il permesso, la lilia, di perdita, perché tutto si allarga, si amplifica. E anceità. E c’è una grande differenza perché in quel caso, che qui allora è fondamentale il richiamo all’oggettività uno ha vissuto sulla propria pelle tutto il coraggio e il riche cerco di dare durante il lavoro, a me stessa e agli alschio di spostare un limite e di aprire una direzione verso tri: tornare alla concretezza e alla matericità del corpo. una forma nuova. Mi arrischio a pensare, col passare del Trovo che il tentativo di oggettivare la materia sia molto tempo, che il teatro-danza sia solo della signora Bausch, semplice anche se difficile da praticare perché riconcilia, un modo di costruire che appartiene solo alla sua poetica. ma non per rassicurarci. È un continuo andare e tornare e Hai collaborato, con altri coreografi e performers, alla penso che questo potere umano abbia un valore rivolurealizzazione della coreografia dell’ultima puntata di zionario, nel senso che provoca proprio degli spostamenVieniviaconme, ispirata alla cena di Trimalcione. Le coti di prospettiva incredibili. È qualcosa di molto forte, di reografie curate da Roberto Castello sono state forse molto toccante. È una direzione evolutiva dell’essere. l’elemento più rivoluzionario di quello che è stato acclaHai lavorato con un’icona della danza contemporanea mato come un evento culturale e televisivo, certamente come Pina Bausch, qual è il portato di quell’esperienza bello ma tutto sommato molto canonico. Che tipo di


esperienza è stata per te? Una grande occasione di visibilità per lo spettacolo contemporaneo, che così poco spesso si affaccia alla ribalta televisiva (almeno in Italia)? Cosa si perde sul piccolo schermo rispetto allo spettacolo dal vivo? Sono due ordini di comunicazione incomparabili che utilizzano strategie molto differenti. Era importante essere partecipi in questa trasmissione vicino a Saviano, nell’affrontare alcuni aspetti drammatici del nostro paese. Ed è stata una sfida significativa che ha permesso a molte persone di poter sfiorare l’esistenza di un ambito creativo a loro totalmente sconosciuto e l’opportunità di far scoprire una realtà qualitativamente alta ma del tutto sommersa e lontana dai canali di comunicazione di largo consumo. È stato sorprendente vedere come anche nella scatola più prossima dove abbiamo agito, cioè gli studi della Rai, tutti, dai costumisti ai truccatori hanno partecipato all’avvenimento con aria stupefatta: non potevano immaginare l’esistenza e la dignità, prima di tutto, del nostro mestiere, di esseri pensanti che non fossero soltanto seducenti venditori di merce corpo. Una reazione certamente provocata dalla degenerazione, così forte negli ultimi anni, del modo di vivere, vendere e abitare il corpo, dall’invasione di piacenze impazzite, violentemente propinate alla gente dal mercato dell’immagine. È stata un’esperienza molto doppia: da un lato affascinante e curiosa, per il fatto di non essere nel proprio ambiente, e buffa nel ricevere attenzioni del tutto dissimili dalla dura vita che noi tutti teatranti siamo abituati a fare, ma dove ho anche registrato un forte senso di spaesamento e la certezza di essere in uno spazio-tempo davvero lontano dalla mia natura: l’angoscia per i tempi di lavorazione strettissimi, le diaboliche velocità e la promiscuità comunicativa di difficile gestione. Roberto è stato bravo, creativo, molto tattico e diplomatico nel gestire un’avventura che definirei verosimilmente inverosimile. Non so però immaginare, nonostante l’inaspettata partecipazione dei telespettatori, come, un intervento di questo genere possa rimanere nella memoria o possa contribuire al sostegno e alla conoscenza della danza e del teatro. Il punto è quello di domandarsi se sarebbe davvero possibile all’interno di programmi televisivi mantenere la qualità di autonomia poetica essenziale al nostro linguaggio; io che sono – oserei dire – un’integralista direi di no, ma certamente dare la possibilità al pubblico di sapere e vedere una forma qualitativamente migliore e di diverso ambito è un fatto importante che offre argomento di riflessione. Qual è lo sguardo di un’artista come te, che ha scelto il corpo come fonte e mezzo della propria espressione creativa, su una realtà come quella attuale in cui sin troppo spesso si ostenta una faci- Senza Titolo, per otto danzatori, lità di relazione con il pro- Bologna©)

prio corpo e con quello degli altri? E questa ostentazione non è sintomo piuttosto di disagio e ignoranza del proprio corpo? Sì penso che sia il segnale di un disagio forte. Siamo molto indietro, in parte anche senza saperlo. Ancora una volta vedo questa grande intelligenza che si va evolvendo e che ha un suo valore straordinario, ma il corpo sociale oggi fa fatica a rivolgersi a questo sapere e rimane imprigionato nella ruota violenta di una futile vanità. C’è molta paura e molta vergogna, una difficoltà nascosta dietro questa esuberanza. È un atteggiamento che cela il dolore: c’è un corpo di dolore forte negli individui, nella società, e quindi aprire quella porta, se non siamo accompagnati con strumenti idonei, può essere troppo e ancora più doloroso. Questo poi si collega con un atteggiamento omertoso, che è quello di non voler veramente sentire e vedere; è un mondo che non vuole vedere il limite delle cose, non vuole onorare e vedere la morte, non vuole vedere la bellezza e l’utilità della vecchiaia, non vuole vedere il dipanarsi organico delle cose, aspetti che hanno invece una forza, anche simbolica, del senso della vita. È un sistema che continua testardamente ad appoggiare la sua esistenza su altri valori, che non accetta di fruire e sviluppare risorse che non siano monetizzabili. Oltretutto questa apparente libertà di esporre è una falsa libertà, dove non si espone niente peraltro, se non una superficie deturpata di sé, a scapito della vitalità interiore. Quando si adoperano trucchi e mezzi estranei alla natura per cambiare la propria forma, si sottrae anche molta sensibilità al corpo, si perde terreno nei propri confronti gettando una luce ancora più sinistra e tutto sommato emblematica sulla situazione attuale. Anche dal punto di vista di una maggiore emancipazione della sfera intima, quindi del piacere sessuale, sensuale e erotico delle cose, l’attenzione si sposta altrove inseguendo forme e curve perlomeno bizzarre. È chiaro che ognuno fa quello che vuole, il mio non è un giudizio, ma credo ci sia un profondo scollamento che complica ulteriormente le nostre ampie difficoltà relazionali. Un contatto umano è un insieme di fattori altamente sofisticato, un territorio che coinvolge ed implica la totalità del nostro essere. È tutto legato. Per fortuna sono tante le persone che lavorano e operano in una direzione diversa e lo fanno nonostante la forte pressione che questo comporta con grande forza d’animo, fiducia e rispetto per l’esistenza, in questo modo, spingono il nostro potenziale costruttivamente verso orizzonti di cui penso seriamente non potremo fare a meno ancora a lungo. È un mondo che non urla, più silenzioso, più invisibile che richiede un tempo lungo e dedicato ma che inesorabile trova lo spazio per entrare nel nostro modo di intendere, insieme a loro io cerco di fare la mia parte. 1h45’ 2002 (foto di Pietro

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Stimolare la mente con lo sport Intervista alla campionessa di nuoto Alessia Filippi di Diego Mariottini

Alessia Filippi ha iniziato a nuotare a tre anni. I successi e le prime vittorie ottenute nelle categorie giovanili la portano presto alla convocazione in nazionale. Alle olimpiadi di Atene 2004 si classifica sedicesima nei 400 misti, ma la fama internazionale arriva nel 2005 con l’oro nei 400 misti ai Giochi del Mediterraneo, insieme al record italiano e l’oro nei 200 dorso. A marzo 2006, ai mondiali di nuoto in vasca corta di Shanghai vince l’argento nei 400 misti stabilendo il nuovo record italiano. Ancora medaglie ai campionati europei di Budapest dello stesso anno: oro nei 400 misti con la prima prestazione mondiale del 2006 e quarta prestazione mondiale di sempre. È la prima donna italiana a vincere l’oro in un campionato europeo. Il 16 luglio 2008 ai campionati italiani stabilisce il nuovo record europeo dei 1500 m stile libero (e terza prestazione mondiale di tutti i tempi). Alle olimpiadi di Pechino 2008 conquista l’argento negli 800 m stile libero. Nel 2009, ai Campionati del mondo di nuoto a Roma, conquista la medaglia d’oro nei 1500 stile libero femminile, stabilendo anche il nuovo record europeo e dei campionati mondiali con la seconda prestazione mai nuotata al mondo.

Quella di Alessia Filippi è una bella storia italiana, per certi versi poco italiana. Nel nostro Paese, infatti, la meritocrazia non sempre ha diritto d’asilo. I successi di Alessia nel nuoto sono invece il risultato della forza dell’individuo e di un’alleanza fondamentale: quella fra mente e corpo. A 23 anni Alessia Filippi è, insieme con Federica Pellegrini, la punta di diamante del movimento natatorio italiano. È l’attuale campionessa mondiale dei 1500 metri stile libero e di questo potrebbe vantarsi, ma ha l’intelligenza di non farlo. Parlandoci, Alessia appare una ragazza senz’altro consapevole dei propri mezzi, ma semplice e diretta, per nulla reticente quando racconta di sé e della realtà sportiva e politica, del quartiere da dove proviene. E non ha problemi a parlare del suo corpo, statuario quanto si vuole (1,87 cm. d’altezza), ma un semplice strumento se non supportato da una mente vigile e da una volontà di ferro. Una volontà che deve superare la prova del fuoco della carriera universitaria. Ma per una campionessa nel corpo e soprattutto nella mente come lei, nessun obiettivo è precluso. Soltanto questione di tempo e di tempo a disposizione. Alessia, in quale tipo di rapporto sei con il mondo universitario? In buoni ma complicati rapporti. Sono iscritta allo IUSM Foro Italico ma per motivi legati all’attività agonistica, sempre più intensa, non riesco a frequentare le lezioni che pure mi interesserebbero moltissimo. Ho comunque un tutor per gli studi che mi aiuta e con lui spero di riuscire presto a riprendere il terreno perduto. Come ben sai, lo sport si sta inserendo, sia pure con grande fatica e malgrado la crisi economica che non risparmia alcun settore, anche nella programmazione degli Atenei italiani. Ti sei fatta un’idea circa quello che viene definito “lo stato dell’arte”? Farsi un’idea precisa e dettagliata è molto complicato, specialmente se uno vive fuori da determinate dinamiche. Quello che posso dire è che le università, almeno quelle romane,

stanno compiendo sforzi importanti per includere lo sport al proprio interno, ma quando c’è una situazione di crisi economica, in Italia lo sport viene sempre sacrificato per primo. Questo non vale soltanto per l’università, ma anche e soprattutto per la scuola. Alle medie o nei licei le attività sportive sono ridotte al minimo, di norma c’è la pallavolo e spesso neanche quella, e le strutture sembrano nascere già vecchie e comunque insufficienti. Lo Stato investe poco nello sport e talvolta sembra crederci ancor meno.

“I successi di Alessia Filippi nel nuoto sono il risultato della forza dell’individuo e di un’alleanza fondamentale: quella fra mente e corpo” Dal tuo punto di vista, come dovrebbe muoversi un Ateneo per quanto riguarda la valorizzazione dello sport al suo interno? Dovrebbe innanzitutto investire parecchio, proprio come avviene negli Stati Uniti, dove lo sport è finanziato e incentivato in ogni modo. In fondo, se si vuole che i talenti sportivi emergano, bisogna pur mettere le persone nella possibilità di mostrare le proprie capacità. C’è però anche da dire che quando un ragazzo va all’università, è ormai fisicamente e mentalmente formato. Non si può chiedere a un Ateneo di risolvere tutti quei problemi che bisognava avere affrontato e risolto fin dalla tenera età. Diciamo che l’università fa quel che può, ma interviene troppo tardi. Passando a note più personali, un campione dello sport è sempre il risultato di rapporto ottimale fra corpo e mente. Come sei riuscita a trovare questo necessario equilibrio? Sono stata brava e fortunata. Brava, perché ho impiegato ogni mia risorsa fisica e psichica per arrivare ai risultati che mi ero prefissa e non ho nulla da rimproverarmi in tal senso.


Fortunata, perché spesso l’applicazione da sola non basta. Bisogna avere il destino dalla propria parte. A volte un incidente grave o una malattia può incidere enormemente e avere ragione anche di una volontà di ferro. Nel mio caso, posso inoltre dire che lo sport mi ha aiutato a migliorare il carattere e la capacità relazionale. Da bambina infatti ero molto timida e introversa. L’ottimizzazione delle capacità fisiche hanno perciò aiutato la mia vera indole a uscire fuori senza timore. Il tempo ha poi lavorato verso il miglioramento di un equilibrio che ero riuscita a trovare fra il corpo e la mente. Vista la tua risposta, segue una domanda quasi obbligatoria: che cosa consiglieresti a uno studente che voglia conciliare sport a buoni livelli e alto rendimento universitario? Sviluppare il senso dell’organizzazione del tempo. In secondo luogo, essere determinati anche se non si devono ottenere risultati agonistici a tutti i costi. Quando si riescono a dominare questi due aspetti, come d’incanto si gestiscono meglio le pressioni e si affronta la vita con la mente più sgombra. Gli effetti si vedranno nei rapporti interpersonali e anche nella gestione del corpo. Almeno, nel mio caso ha funzionato. Tornando a te, la tua è la bellissima storia di una ragazza di buona volontà che tramite il proprio talento è riuscita a emergere rispetto alla realtà di uno dei quartieri più duri di Roma (Tor Bella Monaca, NdA). Ma come dicevamo, anche in questo caso il talento da solo non è sufficiente… In qualche modo, le possibilità fisiche hanno fornito una chiave per uscire da una realtà abbastanza complicata, oltre che dall’anonimato che spesso condanna in partenza chi nasce in periferia. Anche qui c’è stato un mix di elementi che mi hanno aiutato. Il primo è indubbiamente rappresentato

Alessia Filippi alle Olimpiadi di Pechino 2008

dalla mia famiglia, che ha spinto sia me sia mio fratello a fare sport fin da piccolissimi. Io nuoto da quando ho tre anni e il fatto di essere sempre stata impegnata fra la scuola e lo sport mi ha tenuto distante dalle possibili cattive compagnie. In fondo, se nelle periferie delle grandi e delle piccole città si portassero strutture valide in cui praticare bene lo sport, la delinquenza troverebbe maggiori difficoltà nell’arruolare giovani e giovanissimi. Bisognerebbe fare in modo che chi emerge nelle attività agonistiche non debba farlo praticamente contro tutto e contro tutti perché l’impianto più vicino dista molti chilometri. Lo sport praticato bene porta peraltro con sé un senso di onestà che può fronteggiare bene qualsiasi cattiva tentazione. Sta anche alle famiglie dei ragazzi capire questo e metterlo in pratica. Nel mio caso poi, la determinazione che ho messo dopo avere capito di possedere buone qualità nel nuoto ha completato il quadro. Nel tuo caso, l’impegno nel sociale e nella politica, che nel corso degli anni ha rappresentato una tua precisa caratteristica, ha avuto una ricaduta, positiva o negativa che sia, in termini d’immagine e di rapporti interpersonali? In fondo, quello dello sport sembra un mondo abbastanza impervio alle istanze sociali, se non per convenienza del momento o per autocelebrazione… Dal mio punto di vista, tutti gli atleti, in particolarmente quelli più famosi, hanno l’obbligo morale di essere attivi nel sociale. Essere il veicolo mediatico di una buona causa può fare del bene a sua volta e questo aspetto non va mai sottovalutato. Per rispondere alla prima parte della tua domanda, direi che il mio impegno e la dichiarazione di appartenenza politica non ha avuto effetti: né positivi, né negativi. Ed è giusto che sia così. In fondo le simpatie politiche appartengono alla sfera privata. Sono i risultati a dover essere pubblici.

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Lo spazio europeo della ricerca L’esperienza degli atenei francesi

orientamento

di Anna Laura Palazzo

Nel 2006, la Loi de programme pour la Recherche dava formalmente avvio a un ambizioso programma del Governo francese in concertazione con un ampio ventaglio di soggetti finalizzato a dare corso alla strategia di Lisbona sullo “spazio europeo della ricerca”, che imAnna Laura Palazzo pegna gli Stati membri a riservare il 3 per cento del prodotto interno lordo a sostegno della ricerca. La legge prevedeva l’attivazione di percorsi di autonomia da parte dei singoli Atenei, in virtù di un trasferimento dallo Stato dei fondi di funzionamento ordinario e della titolarità nella definizione delle linee di programmazione quadriennale. Le Università hanno conseguentemente provveduto a insediare i nuovi consigli di amministrazione, presieduti da rettori chiamati a elaborare le linee di sviluppo delle sedi, mobilitando ovunque un livello di partecipazione sconosciuto per il passato. In parallelo, veniva fortemente sostenuta una governance orizzontale attraverso la costituzione di “Poli di ricerca e di insegnamento superiore” (PRES), a partire dalla federazione delle sedi universitarie attive su di un medesimo territorio (potenzialmente anche molto esteso), ponendo così rimedio alla eccessiva frammentazione e alle conseguenti diseconomie di scala. I neo-istituiti PRES, statutariamente degli Etablissements publics de coopération scientifique (EPCS), sono delegati dalle istituzioni federate ad esercitare funzioni di indirizzo e impulso in settori qualificanti e significativi come la ricerca, la formazione postlaurea e l’internazionalizzazione. Le leve finanziarie rappresentate dalle operazioni “Plan Campus” (2008, circa 5 milioni di euro in un arco quinquennale) e “Grand Emprunt” (2009-2010, circa 60 milioni di euro

destinati alle priorità nazionali, tra cui ricerca, formazione e insegnamento superiore) completano il quadro dei provvedimenti, istituzionalizzando il meccanismo del bando di evidenza pubblica per poli e progetti di eccellenza sul territorio nazionale. A seguito del primo bando “Plan Campus” (febbraio 2008), su 46 candidature pervenute, il Ministero della Ricerca selezionava 19 realtà universitarie insistenti nelle aree metropolitane di Bordeaux, Grenoble, Lione, Montpellier, Strasburgo e Tolosa, per una popolazione studentesca di 340.000 persone: tra gli argomenti vincenti figurava la definizione di offerte formative più coerenti, sinergiche con settori trainanti della ricerca pubblica e privata e sintonizzate sulle prospettive di sviluppo dei territori ospitanti. Venivano successivamente ammessi quattro ulteriori progetti, di cui tre legati alla ristrutturazione di alcune sedi parigine: Aix-Marseille, Campus Condorcet Paris-Aubervilliers, Campus de Saclay, Paris intra-muros. La fase che si è aperta successivamente è caratterizzata da un lato da una stretta negoziazione con la controparte governativa, mediante audizioni dei presidenti dei PRES (sorta di super-rettori), dall’altro da un’apertura di tavoli di concertazione istituzionale con le associazioni intercomunali in relazione agli imponenti programmi di investimento immobiliare nel medio e lungo termine che possono riconfigurare interi territori. Indubbiamente però la sfida fondamentale per l’efficacia della riforma riguarda la governance interna ai PRES, che raccolgono sotto una comune denominazione e un’unica struttura di dirigenza differenti realtà universitarie con specifiche storie ed “eccellenze”. Vi è da augurarsi che i processi di confronto e chiarimento avviati contribuiscano a comporre il difficile equilibrio tra diverse missions, contenendo da un lato il rischio di derive dirigistiche, dall’altro portando a convergenza le strategie di sviluppo che costituiscono gli specifici punti di forza dei PRES nel posizionamento nazionale e internazionale.


Popscene «Combat Art»: Europunk, la cultura visiva punk in Europa, 1976-1980, in mostra a Villa Medici di Ugo Attisani il singolo “God Save The Queen”, e alcune delle magliette realizzate per il gruppo dal manager e agitatore culturale Malcolm McLaren e dalla moglie Vivienne Westwood, ora famosa stilista. In queste opere sono già visibili tutti i temi di provocazione e minaccia sociale che caratterizzarono le origini del movimento punk, dall’utilizzo da parte di Reid, artista vicino all’area anarchico-situazionista, della tecnica della “ransom note” che simulava attraverso lettere ritagliate dai giornali lo stile, appunto, dei messaggi inviati dai rapitori ai familiari delle vittime, alla disinibita ricollocazione in ambito pop di icone come la Regina d’Inghilterra dello stesso Reid o di simboli politici fino ad allora visti come tabù, come la svastica sulle magliette dei Sex Pistols. La mostra poi dedica un’intera sala alla riscoperta dell’opera del collettivo artistico francese Bazooka che operò a partire dalla seconda metà degli anni Settanta in Francia. Questo gruppo di artisti, tra cui spiccano i nomi di Olivia Clavel, Kiki e Loulou Picasso, che non mancò di incrociare le strade della musica, come testimoniato da alcune copertine originali esposte, rappre-

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Abbiamo visitato la mostra Europunk, la cultura visiva punk in Europa, 1976-1980, che si è tenuta dal 21 gennaio al 20 marzo presso Villa Medici in Roma, curata dal direttore dell’Accademia di Francia a Roma Éric de Chassey con la collaborazione di Fabrice Stroun, curatore indipendente associato al MAMCO di Ugo Attisani Ginevra. La mostra è la prima a occuparsi in modo organico, attraverso l’esposizione di oltre 550 oggetti tra opere e altri manufatti, della vasta produzione grafica e video che fu corredo indispensabile al movimento musicale sviluppatosi in un primo momento nell’Inghilterra della seconda metà degli anni Settanta per poi diffondersi anche nel resto d’Europa. Il punk, nato da un punto di vista strettamente musicale negli ambienti dell’underground statunitense dei primi anni Settanta, dove per la prima volta si andavano riscoprendo i valori di immediatezza e semplicità del rock delle origini, in contrasto con la crescente esaltazione dell’aspetto spettacolare e il conseguente allontanamento dal pubblico dei musicisti hard rock e progressive, trovò in Europa una contestualizzazione estetica e ideologica che gli permise di diventare il fenomeno rivoluzionario che ancora oggi ricordiamo. Europunk ha il merito di puntare l’obbiettivo in modo specifico sull’incredibile mondo di artisti che in Europa, traendo spunto dall’etica ispiratrice del punk del DIY (“Do It Yourself!” ovvero “Fallo Da Te!”), fornì un contraltare visivo in termini di copertine di dischi, flyers, manifesti di concerti e fanzine spesso superiore per qualità artistica allo stesso contenuto musicale, di sicuro con la stessa duratura influenza sulle generazioni successive. Nel breve arco temporale che va dalla prima apparizione in tv dei Sex Pistols del primo dicembre 1976 a quella dei Joy Division in una televisione locale di Manchester nell’aprile del 1979, i cui video rispettivamente aprono e chiudono la mostra, è racchiuso un universo di esplosiva creatività che ancora oggi stupisce e sconvolge l’osservatore per la sua estrema vitalità e reclama in modo deciso la sua paternità su una gran parte dei movimenti dell’arte visiva attuale. Tutto questo è già messo in chiaro nella prima sala della mostra, dedicata ai Sex Pistols, dove sono esposti numerosi esempi del lavoro dell’artista Jamie Reid per le copertine e i manifesti del gruppo, tra cui quello celebre con la dissacrante immagine della Regina Elisabetta per

Copertina del 45 giri We Hate You dei Throbbing Gristle per la casa discografica Sordide Sentimental. L’autore è Loulou Picasso (1979)

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senta un esempio illuconclude poi nella sala minante di come le arti NW dedicata alla fase visive all’epoca fossero finale del movimento, sintonizzate sulla stessa che quasi impercettibillunghezza d’onda del mente si trasformò nella movimento punk, procosiddetta New Wave; seguendone e amplianla musica, dopo un pridone in ambito visivo le mo momento di esploistanze culturali. Alcune sione rivoluzionaria che opere a metà tra fumetl’aveva collocata in seto e reportage ci ricorcondo piano rispetto aldano poi come anche in l’aspetto della comuniItalia alcuni artisti stescazione visiva, cominsero, più o meno consacia a riprendere il centro pevolmente, seguendo dell’attenzione e sulla le stesse strade, come tabula rasa generata dai nel caso di Andrea PaSex Pistols cominciano Poster per la pubblicazione del singolo God Save The Queen dei Sex zienza, Tanino Liberaa germogliare nuovi Pistols. L’autore è Jamie Reid (1977) tore e molti altri coinpercorsi, strane e imprevolti nella rivista “Frigidaire”. vedibili ibridazioni tra la musica pop bianca e quella neNel seguire poi le opere e gli oggetti esposti nelle altre ra proveniente dalla Giamaica, così come per la prima sale è possibile osservare l’evoluzione che il movimento volta la musica elettronica comincia a pensare a una sua ebbe nel corso della sua brevissima durata, dalla presa via verso le masse mentre alcuni gruppi, tra tutti i Joy di coscienza politica severa e oltranzista dei Crass, il Division, reimmaginano e quindi potremmo dire invencui simbolo racchiudeva insieme tutti i simboli dell’optano la nuova forma del rock, dove l’alienazione della pressione dell’uomo sull’uomo, a quella più generica e vita nelle grandi metropoli non è più generatrice di riprobabilmente meno sincera dei Clash, con il ricorrere bellione ma di una gelida e distaccata poetica della dicon nonchalance alle icone del socialismo sia nelle imsperazione, che è simbolicamente accompagnata dalla magini che nei testi mentre firmavano, per primi tra i perdita di centralità nella musica della chitarra a favore gruppi punk, un contratto con una major discografica. del basso e delle tastiere. Gli artisti che più di tutti hanParallelamente però a queno rappresentato questo sto filone più ideologizzamomento conclusivo sono to e forse meno spontasenza dubbio Malcolm neo, una serie di artisti Garrett e Peter Saville, che provenienti non solo dalispirandosi al disegno inl’Inghilterra ma anche da dustriale del Novecento, al Olanda, Francia e Germamodernismo e all’utilizzo nia affiancava personaggi che esso fece dei caratteri meno identificabili ed etitipografici, hanno creato chettabili come le “femuno stile inconfondibile ministe” X-Ray Spex e fatto di forme geometriRaincoats o gli iniziatori che, immagini di repertodel movimento “Indurio ricontestualizzate e costrial” Throbbing Gristle lori primari. Ed è proprio che riportarono al centro guardando una vetrina in del loro discorso il corpo, quest’ultima sala in cui socosì come era stato alle no esposti alcuni dei loro origini con le spille da balavori per gruppi dell’epolia nella pelle e le ferite ca, tra cui, su tutti Buzzautoinflitte di Sid Vicious, cocks, Joy Divison e Xtc, ma questa volta non solo che ci accorgiamo di quancon una valenza di provoto sia tuttora fondamentale cazione ma come vero e e primaria l’influenza di proprio territorio di afferquesti artisti nel panorama mazione politica di autoattuale, dato che se non nomia dalla costrizioni e i conoscessimo in partenza i vincoli della società, come gruppi a cui queste coperil percorso transgender di tine appartengono, potremGenesis P. Orridge dei mo tranquillamente pensaThrobbing Gristle testimo- Copertina del numero 0 della rivista Un Regard Moderne, allegato re che siano di gruppi o nia ancora oggi. Tutto si di Libération del 1978. Autori il Collettivo Bazooka Production musicisti attuali.


Ultim’ora da Laziodisu a cura di Virna Anzellotti Contributi attività culturali Anche quest’anno Laziodisu ha voluto sostenere e promuovere, mediante l’assegnazione di contributi, le attività culturali e ricreative realizzate dagli studenti. Tale intervento, oltre ad essere finalizzato alla creazione di occasioni di socializzazione, vuole essere un ulteriore strumento per contribuire alla formazione culturale e alla maturazione personale degli studenti. Il 15 marzo, alla presenza del Presidente di La-

ziodisu prof. Roberto Pecorario e del direttore generale avv. Pierluigi Mazzella, si è svolta la cerimonia di premiazione degli studenti vincitori dei concorsi artistici ART-E-DISU-10 e CIN-E-DISU-10. Alla cerimonia, per Adisu Roma Tre, erano presenti il presidente, prof. Gianpiero Gamaleri e il direttore amministrativo, dott. Salvatore Buccola. Sono state esposte le opere dei vincitori, ed è stata realizzata una breve retrospettiva dei cortometraggi degli ultimi tre anni.

Opere dei vincitori

Consegna degli attestati

Iniziative culturali di Roma Tre con il contributo Adisu Federica Ceccarelli Criminalità organizzata dal ‘92 al 2010. Vecchie maniere nuovi obbiettivi Piero Cremonese Vela per tutti a Roma Tre II edizione Sara Di Vito Progetto Real Book II edizione ISHA Roma ISHA Roma Seminari tra Roma e l’Europa Fabio Labella e Francesco Abramo Torneo della Residenza Gianluca Lanzi Quale futuro per la Pubblica Amminsitrazione Alessio Mancini Corsi di primo soccorso a Roma Tre Edoardo Marcozzi Dragon boat a Roma Tre Francesca Rossini Prima giornata universitaria del dialogo interreligioso Fabio Serani Choraliter Ass. Cult. L’Archimandrita Corpo a corpo (tra luce e poesia) Roma Tre Orchestra Festival Cameristico Sinfonico

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Sono trascorsi due mesi dalla scomparsa prematura della prof.ssa Bruna Consarelli e nella nostra comunità accademica risuona il vuoto da lei lasciato. In modo particolare, la voglio ricordare per l’umanità e la dedizione con cui, dal 2003 al 2009, nel suo ruolo di Delegata per i problemi connessi al disagio, ha perseguito le azioni volte all’inclusione dei nostri studenti con disabilità offrendo un notevole contributo allo sviluppo e al miglioramento dei servizi loro offerti. Da quando ha assunto la Delega nel 2003, ma prima ancora come referente per gli studenti con disabilità della Facoltà di Scienze Politiche, Bruna Consarelli ha mostrato una totale dedizione alle tematiche e alle problematiche degli studenti. In sinergia con lo staff dell’Ufficio centrale di Ateneo ha guidato e monitorato non solo le azioni ordinarie ma ha intrapreso nuove prospettive progettuali per l’implementazione e l’attivazione di servizi specifici in risposta a situazioni nuove e sempre più presenti all’interno dell’Ateneo, sviluppando una fitta rete sociale con enti e associazioni e ponendo le basi per le attività oggi consolidatesi come servizi effettivi e operanti. Il suo contatto con gli studenti andava oltre il consueto orario di lezione o di servizio stesso, essendo dedita ad una costante comunicazione per superare tutte le difficoltà didattiche o relazionali che potessero porsi come ostacolo al processo formativo. Rendere il nostro Ateneo un ambiente accessibile, fisicamente ed emotivamente, era tra gli obiettivi da lei sempre perseguiti, sensibilizzando i colleghi docenti e gli studenti, attuando politiche di informazione diffusa delle tante attività realizzate dall’Ateneo a tal fine. L’integrazione sociale è stata la base delle sue azioni, un obiettivo perseguito con notevole sensibilità affinché l’inclusione venisse realizzata non solo con una rete di servizi ma anche con il coinvolgimento attivo degli studenti. Non a caso presso la sua Facoltà è stato promosso il tutorato di ausilio didattico da parte degli studenti stessi nei confronti dei loro colleghi in situazione di disabilità. Il suo pensiero viene ben espresso dalle sue stesse parole: «È in questo spirito che le diverse iniziative hanno avuto come denominatore comune l’obiettivo di trasformare l’emarginazione in integrazione secondo una logica delle pari opportunità il cui fine è fare del diversamente abile il protagonista consapevole di un processo di trasformazione sociale». Ciò cui Bruna Consarelli ha sempre aspirato nell’esercitare la sua Delega, è stato rendere l’esperienza universitaria un momento di formazione intellettuale e al tempo stesso uno strumento di relazione sociale stimolando e incentivando gli studenti con disabilità a conquistare la loro autonomia individuale e la valorizzazione delle proprie risorse. Perseguiva attivamente le sue azioni affermando e dando corpo alle linee guida elaborate dalla CNUDD (Conferenza Nazionale Universitaria dei Delegati per la Disabilità) al cui operato Roma Tre ha sempre attivamente partecipato e contribuito attraverso l’impegno costante del suo rappresentante. So che tutti i suoi collaboratori la ricordano con affetto e stima e mi associo, a nome di tutto l’Ateneo, al loro sentire nel ricordo di Bruna. Il Rettore, prof. Guido Fabiani

Non tutti sanno che… Roma Moot Court Competition 2011 ELSA (The European Law Students’ Association) Roma promuove la seconda edizione della Roma Moot Court Competition. La competizione, riservata a studenti e neolaureati in Giurisprudenza membri di ELSA, mira a migliorare le abilità di ricerca, scrittura ed analisi dei partecipanti secondo la tradizione del “mooting” inglese e americana, la riproduzione stilizzata delle fasi di un vero e proprio processo. Oltre ad un ricordo indelebile, la partecipazione ad una Moot Court è un ottimo biglietto da visita per en-

trare nel mercato del lavoro. Lo scorso anno squadre provenienti dalle facoltà di Giurisprudenza delle Università LUISS e Roma Tre si sono sfidate a colpi di memorie. Anche per questa edizione, la finale si svolgerà nell’Aula Magna della Cassazione, alla presenza del pubblico e con la valutazione di un vero proprio Collegio Giudicante, inclusivo di un giudice della Corte stessa, il consigliere Raffaele Botta. Per partecipare, basta studiare il caso, leggere il regolamento, iscriversi e rispettare le scadenze. Maggiori informazioni sono disponibili sul sito web di ELSA Roma: www.elsaroma.it.


Samsara La concezione del corpo nella tradizione filosofica buddhista delle origini

Il 29 marzo scorso si è tenuto il seminario “Il Corpo nella tradizione buddhistica” dedicato al rapporto tra la dottrina del pensiero buddhista e il corpo. La lezione, tenuta da Gianfranco Bonola, ordinario della cattedra di Storia delle religioni presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, è stata indirizzata a fornire una descrizione comUgo Attisani plessiva di quella che potremmo definire un’antropologia di base del buddhismo, ovvero di quello che va dalla sua nascita fino al I/II secolo d.c., fissato dalla tradizione nel canone cosiddetto di Pali. Il buddhismo si contrappose già in origine con il pensiero induista dominante in India proprio riguardo alla concezione del sé. Mentre gli induisti concepivano il sé come soggetto della reincarnazione e quindi immutabile e indistruttibile, il buddhismo fissa nella soteriologia degli “skandha” uno scarto fondamentale rispetto non solo all’induismo ma anche a tutte le dottrine religiose e non che si centravano sull’assunto di un sé sostanziale. Per i buddhisti la persona empirica, l’individuo è costituito appunto da cinque aggregati che sono il corpo, le sensazioni, le percezioni, la coscienza e le cosiddette formazioni mentali. Queste cinque componenti, caratterizzate da una diseguale obsolescenza, interagiscono con il mondo esteriore ognuna secondo le proprie peculiarità e determinano al termine dell’esistenza del corpo, che è quindi la più fragile di esse, il cosiddetto debito karmico, ovvero la risultante dell’effetto di azioni e omissioni che portano i restanti aggregati verso una nuova nascita, in nuova forma corporale. Queste componenti che di fatto determinano l’esistenza dell’uomo nel “Samsara”, ovvero nel ciclo infinito di nascita e rinascita, sono la base però per giungere alla conoscenza del principale fondamento dottrinario della filosofia buddhista, cioè quello dell’esistenza delle “Quattro Nobili Verità”. Attraverso quattro successivi momenti di presa di coscienza sull’esistenza degli esseri umani, il Buddha traccia un percorso che parte dalla cognizione del dolore come elemento fondamentale e primigenio della vita e, passando per la comprensione della sua origine, dovuta a un’errata scala di valori che lega l’uomo a beni provvisori e per la scoperta della possibilità di un’emancipazione, da esso porta al “Nobile Ottuplice Sentiero” che rappresenta la via per la liberazione dalla sofferenza. Le otto norme di comportamento morale che costituiscono il “Nobile Ottuplice Sentiero” intervengono in modo differenziato sui tre livelli dell’essere umano, cioè corpo, parola e mente e, insieme, indicano la “retta” via per eliminare

la brama di cose impermanenti e raggiungere l’illuminazione. È bene ricordare che in origine il Buddhismo non si configurò come una religione bensì come un ordine monastico e che il monaco rappresenta l’ultimo stadio che aspetta l’uomo prima della liberazione dall’eterno ciclo dell’esistenza. Questo spiega quindi il vasto corredo di precetti, in tutto 250, che regolano in modo minuzioso ogni singolo aspetto della vita del monaco. Tra le otto norme del “Nobile Ottuplice Sentiero” particolare importanza riveste l’invito ad esercitare in modo “retto” la presenza mentale. Lo strumento per rettificare la propria mente, conoscerne il funzionamento e indirizzarla verso il giusto comportamento è la meditazione. Nella meditazione buddhista emerge più evidente che in altri aspetti la totale estraneità di questa filosofia dalla concezione del pensiero occidentale di una contrapposizione tra il corpo e l’anima. La meditazione, infatti, ha una sua dimensione prettamente fisica, e non solo esclusivamente mentale, e il buddhismo mutua dalla disciplina dello yoga le posizioni da assumere per far sì che l’immobilità e il controllo del respiro, indispensabili per raggiungere la Sunyata ovvero la “Vacuità”, facilitino un vero e proprio disinnescare i sensi e la mente (che per i buddhisti è “scimmia” nel suo rincorrere continuamente senza tregua ogni pensiero provvisorio). Obbiettivo ultimo della meditazione è infatti quello di ottenere uno stato di pacificazione che permetta di avere finalmente una visione profonda e distaccata delle cose. Questa rottura dell’endiadi corpo/anima estranea alla tradizione del nostro pensiero occidentale sembra però tornare d’attualità anche nella nostra società dove si parla di malattie psicosomatiche e dove la psicoanalisi cerca di combattere la sofferenza della vita moderna non con la ricerca della “Vacuità” bensì, come forse è più proprio del nostro essere, appunto, occidentali, con il riempimento di un vuoto che viene visto come terrorizzante attraverso la moltiplicazione del logos.

recensioni

di Ugo Attisani

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Razza Umana Quando il corpo è specchio del sociale di Irene D’Intino Se a molti, antropologicamente, il termine “razza” potrebbe far storcere il naso, ci teniamo a ribadirlo subito: si tratta di arte. E in questo caso tutto è concesso. Anche parlare di “Razza Umana”, intesa come l’intero “Paesaggio Umano Italiano”. E’ questo il soggetto preferito da Oliviero Toscani e da La Sterpaia, la sua Bottega dell’Arte della Comunicazione Irene D’Intino che, dal lontano luglio del 2008, sono partiti insieme per un interminabile viaggio che li ha condotti in lungo e largo per la penisola, a bordo di tre studi fotografici mobili. In molte città, piazze e paesi hanno fatto tappa, sono scesi con in braccio le loro attrezzature, e hanno allestito dei veri e propri set fotografici. Hanno poi chiesto a passanti, abitanti, visitatori, di salire su quel lenzuolo bianco che fa da sfondo e semplicemente essere se stessi. Scopo del lungo peregrinare? Immortalare, attraverso l’illustre obiettivo, i volti degli italiani e di chi vive nel nostro Paese. Le domande che hanno messo in moto questo viaggio che dura ancora, nascono dalla curiosità di comprendere, osservare e catalogare tutti i diversi tipi umani che abitano l’Italia, cercando di cogliere peculiarità e differenze, ma anche similitudini. Gli occhi di un altoatesino somigliano a quelli di un siciliano? E il portamento di un leccese a quello di un napoletano? Che differenze ci sono tra la bocca di un sardo e quella di un toscano? E poi, realmente, ci sono differenze? E se ci sono, cosa significano? La mera osservazione morfologica, che

diventa artistica attraverso lo scatto del fotografo, può facilmente condurre ad un livello più alto, e diventare specchio di una realtà che cambia, si trasforma, evolve e si influenza. Quello che viviamo è impresso sui nostri volti e la loro catalogazione diventa facilmente analisi sociologica, oltre che antropologica. Basterebbe pensare a come sarebbero stati, quegli stessi scatti, se solo si avesse avuto modo di osservarli 50 anni fa. Espressioni, colori, atteggiamenti e sguardi sarebbero stati certamente altrettanto carichi e significativi, ma senza alcun dubbio sufficientemente diversi da permetterci di affermare che il mondo cambia, e insieme a lui i corpi e i volti di chi lo popola. In particolare l’Italia, che arriva ad adeguarsi ora a realtà già da tempo maggiormente globalizzate, come quella inglese, quella americana, quella francese. Anche il percorso di integrazione, di convivenza e di scoperta resta impresso in questi scatti, dei quali è possibile godere in ogni momento navigando tra le pagine del sito del progetto (www.razzaumana.it) o avendo la fortuna di assistere ad uno degli appuntamenti della rassegna “neverending” di esposizioni. Il lavoro di Oliviero Toscani e della sua squadra di fotografia procede di pari passo con quelle che sembrano essere le strade più battute della fotografia moderna, relegata tra il cool hunting e la sperimentazione, ma a questa restituisce anche il suo sapore originale di racconto di un mondo fatto non solo di tendenze ed astrattismo, ma anche, e soprattutto, di realtà fisiche e sociali che sentono la necessità di essere rappresentate in quanto corpi attori all’interno di uno spazio. Spazio che è oggi l’Italia, con tutte le sue caratteristiche, le sue differenze, le sue contraddizioni. Un Paese che compie 150 anni e che li porta tutti addosso, sui volti, sui corpi, sulle espressioni e negli occhi di chi lo abita e lo vive.


«Col corpo capisco» Ovvero l’invito di David Grossman a esplorare il sentimento della gelosia di Francesca Gisotti Il cervello e il cuore sono gli organi che consideriamo rispettivamente fonte dei nostri pensieri e delle nostre emozioni, meccanismi propulsori in lotta fra loro nel tentativo di imporre le proprie ragioni. Costantemente nella nostra vita siamo costretti a far prevalere ora la razionalità ora i sentimenti, nell’incessante ricerca di un equiliFrancesca Gisotti brio che ci permetta ogni volta di fare la scelta giusta. Ma è poi così necessario scegliere, continuare ad operare schematiche contrapposizioni, contorcerci in acrobazie mentali che sempre di più ci ingabbiano all’interno delle nostre paure ed incertezze? Non sarebbe forse meglio abbandonarci alle nostre sensazioni, quelle epidermiche reazioni con cui il nostro corpo, tutt’intero, ci parla, ma che spesso non siamo in grado di ascoltare o meglio di capire? Col corpo capisco, romanzo dello scrittore israeliano David Grossman, sembra nascere proprio da questa urgenza. Attraverso la narrazione di due storie senza apparenti connessioni fra loro, l’autore ci offre l’occasione per percorrere, insieme ai personaggi, un itinerario personale di morte e rinascita, per ritrovare, attraverso il piacere e il dolore, la sensazione di essere vivi. La prima storia è quella di Shaul, un uomo tormentato dalla consapevolezza, o forse soltanto dall’assurda convinzione, che la moglie lo tradisca. Nel racconto che Shaul fa a sua cognata Esti, durante un lungo viaggio in macchina, emerge una disperazione lucida, quasi una sofferenza ricercata, che si nutre di una ricostruzione dettagliata delle giornate trascorse dalla donna amata con l’altro uomo. La dimensione del reale e quella dell’illusione si compenetrano continuamente fino a diventare inestricabili, le parole

di Shaul sono frutto di quella realtà a cui lui vuole dar credito, le sensazioni da lui evocate e attribuite alla coppia d’amanti quelle che lui stesso cerca disperatamente di provare. L’unica verità a cui credere resta quella della propria pelle, pagina vuota su cui scrivere la propria storia, unico strumento per mettersi in relazione con l’esterno. Questo esterno è ora Esti, chiamata a decifrare proprio come noi lettori i pensieri di quell’uomo fino ad ora sconosciuto. Anche lei avrà ora la possibilità di rifugiarsi, per un attimo, in un mondo parallelo fatto di dolci ricordi e pensieri inaspettati, celati a sé prima ancora che agli altri, nel desiderio di rimanere fedele all’immagine scelta per presentarsi al mondo. La seconda storia ruota intorno al rapporto fra Nili e Rotem, rispettivamente madre e figlia. Dopo anni di silenzi ed incomprensioni le due donne si “guardano” per la prima volta, forse anche per l’ultima, scoprendosi l’una riflesso dell’altra. La scrittura di un romanzo che ha la madre per protagonista permette a Rotem di far chiarezza su se stessa, concedendole un perdono che per troppo tempo ha negato ad entrambe. Nell’intrecciarsi tenero delle loro mani si manifesta il desiderio di abbattere quelle barriere che da sempre le tengono lontane, spaventate da quell’alterità che è tale solo nella separatezza dei loro corpi ma destinata a trasformarsi in un reciproco scambio di energia non appena questi entrino in contatto fra loro. I movimenti codificati dello yoga, di cui Nili è stata per anni insegnante, lasciano ora spazio alla spontaneità dei gesti, all’imprevedibilità di un sorriso, all’irregolarità dei battiti del cuore quando è toccato da un’emozione. Attraverso uno stile sensuale e fortemente evocativo Grossman ci conduce nelle profondità più intime dell’animo umano. Lo fa con una scrittura che più che raccontare lascia immaginare, regalando ai due personaggi principali del romanzo la propria voce, concedendo loro la possibilità di parlare in prima persona, senza intermediari. Ogni racconto è già una confessione di sé, anche quando apparentemente ci parla delle vite degli altri e, nella sua apertura verso l’esterno, ci regala l’occasione per perderci ancora una volta… dentro di noi.

«Una coppia è un sacco di gente» commenta una donna nella prima delle due novelle che compongono Col corpo capisco, il libro di David Grossman che fa da seguito ideale a Che tu sia per me il coltello, l’indimenticabile romanzo epistolare in cui il grande scrittore israeliano già ci mostrava come la vita vissuta nell’immaginazione sia spesso più vera della vita reale. Una coppia è un sacco di gente perché nel rapporto entrano fatalmente in gioco anche altre relazioni. Sicché la nostra identità assume molte sfaccettature, si moltiplica nel pensare a questi altri che agitano la nostra immaginazione. Con lo stile avvolgente e "impudico" con cui già in Che tu sia per me il coltello costringeva il lettore a scavare dentro di sé, Grossman ci invita così ad affrontare uno dei sentimenti più potenti: la gelosia. E lo fa in due splendidi lunghi racconti in cui un personaggio narra finalmente a un altro (ma sarebbe meglio dire a se stesso) una storia di tradimento di cui è, o si sente, vittima. Un libro sorprendente per la capacità dei personaggi di usare l’immaginazione (il racconto, la letteratura) per trascendere i propri limiti e le proprie inibizioni, per guardare all’altro - e a se stessi - sotto una luce diversa. Per rinnovarsi, rinascere, e adottare un linguaggio sentimentale nuovo. (da www.mondadorilibri.it)

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La devozione che riscatta la tragedia L’autore di Piccola storia del corpo sui nudi di Carlo Levi, in mostra a Roma di Paolo Di Paolo Sono donne giganti, riempiono la tela con la loro nudità – grassa, abbondante, oppure filiforme, slanciata. La pennellata nervosa rende inquieti anche i corpi addormentati; sulle carni lattee spicca il nero del pube. I nudi di Carlo Levi, in mostra a Roma nei mesi scorsi (Sede della Scuola Romana, 15 genPaolo Di Paolo naio - 28 febbraio 2011) non comunicano la felicità del corpo che esplode in molte sue pagine narrative. Comunicano invece una sensualità aspra se non drammatica: qualcosa rimanda a un perenne allarme, a un indizio o presagio di tragedia – come nei nudi distesi e accatastati di Le donne morte (lager presentito), del 1942. Non è immediato l’accostamento di Levi ai molti scrittori “corporali” del Novecento italiano (da D’Annunzio a Pasolini, da Moravia a Gadda e Manganelli). Tuttavia, una lettura attenta dei suoi libri fa affiorare – come un motivo ricorrente, quasi una cantilena – l’insistita descrizione fisica dei personaggi. È quasi incredibile: scegliendo a caso pagine dai suoi due romanzi forse più noti – Cristo si è fermato a Eboli e L’Orologio – si ha la netta sensazione che per Levi nessuno sia raccontabile se non per via del corpo. Agisce in questo la vocazione di pittore? Non sarebbe sufficiente a spiegare le continue, a tratti ossessive, connessioni che Levi istituisce tra corpi e caratteri. Alla rinfusa, da L’Orologio: «Roselli era più grosso e pesante (…): era dunque costretto, per sola legge di gravità, a volare più in basso»; «gli occhi, li aveva insieme lucidi e spenti: ci guardò, quando entrammo, senza altra espressione se non quella di una infinita stanchezza»; «lo guardavo, diritto in mezzo ai due compagni di destra e di sinistra, dai visi fin troppo umani, accorti, abili, attenti, astu- Carlo Levi, Due nudi, 1942

ti, avidi di cose presenti, e mi pareva che egli fosse invece impastato dalla materia impalpabile del ricordo, costruito col pallido colore dei morti (…). Il suo corpo stesso pareva fatto di questi dolori, essi scorrevano nel suo sangue». Quale verità porta con sé il nostro corpo, il corpo di ciascuno? Levi sembra chiederselo nel momento stesso in cui mette a fuoco l’esistenza, la presenza fisica dell’altro: i suoi occhi indagano occhi, nasi, bocche, denti, orecchie, sopracciglia, mani, ginocchia e attendono come una rivelazione. «Voler guardare sotto alle cose», catalogarle e aspettare o pretendere che si schiudano: Levi insegue di continuo «la ragione o l’occasione per cui il mondo s’apre». Se il mondo – il mondo umano – è fatto di corpi, l’inchiesta sulle prime e le ultime verità non andrà forse condotta come una lettura di visi e carni, come la ricerca di un «linguaggio sensibile» che ne traduca in parole l’immagine? C’è, in ogni pagina di Levi, una pienezza di vita che stordisce: anche nel cuore della tragedia, qualcosa sembra resistere e mai distrarsi da un ostinato «attaccamento fisico e terrestre». Sulla tela come nei romanzi, pure quando inquieta il suo lettore/spettatore per troppa fedeltà al reale (ai suoi particolari più sgradevoli e brutali), Levi fa sentire il suo rapporto amoroso con il mondo e con ogni oggetto della rappresentazione. Italo Calvino una volta parlò di devozione di Levi alle cose. Sta appunto in questo la sua magia: in una devozione che riscatta la tragedia. Il corpo è sempre nudo, il corpo è tragico, sì, ma sente e vive; in grazia di esso sentiamo e viviamo: anche ciò che fa paura, anche ciò che fa male. Anche l’«incanto felice» che a tratti ci coglie e ci conforta, «un senso improvviso di gioia»: «Pensavo che tutte le cose appaiono e si mostrano, senza pudori: le persone, gli stracci, le bellezze, le miserie, l’energia degli occhi, l’impeto dei gesti: questa o quella cosa che vive, per caso, davanti a noi, questa piazza, queste marionette, quella donna che si avvicina nell’aria che si oscura». Il gran teatro del mondo, questa folla di corpi.


Marina Abramović: «Art must be beautiful, artist must be beautiful» di Sarah Proietti

«Art must be beautiful, artist must be beautiful». Marina Abramović lo ripeteva continuamente, mentre si pettinava i capelli con una spazzola e un pettine di metallo. Finché non è arrivata a ferirsi il viso. La Abramović è un’artista che ha influito profondamente sull’arte degli ultimi quarant’anni. Le Sarah Proietti scelte tematiche vanno dalla rappresentazione della carnalità e della femminilità, dalla dimensione interiore e quotidiana, all’interpretazione morale e collettiva della realtà contemporanea. Nata a Belgrado nel 1946, studia all’Accademia di Belle Arti fino agli anni Settanta, completando gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Zagabria nel 1972. Nel 1976 si trasferisce ad Amsterdam e inizia il rapporto lavorativo e la relazione con Ulay, un artista tedesco, una delle figure chiave della performance degli anni Settanta. Ulay e la Abramović lavoreranno insieme fino al 1989. Uno dei loro lavori più noti è Impoderabilia del 1977. Fu presentato per la prima volta alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna. I due artisti erano in piedi e nudi ai lati di uno stretto passaggio: il pubblico era costretto a passare in mezzo a loro e doveva scegliere se voltarsi verso il nudo maschile o femminile. L’intento era quello di calare il fatto artistico nella vita comune, causare imbarazzo e sconcerto tra i frequentatori del museo, obbligandoli al contatto. I corpi nudi interferivano con la normalità. Lo scopo della performance è quello di abolire i confini tra la finzione e la realtà: perciò la performance art e la body art rifiutano la mediazione della tela e del quadro. Nel 1988 con The Great Wall Walk Ulay e Marina Abramović interrompono la loro relazione sentimentale e creativa. Rappresentano il loro percorso esistenziale insieme con una performance di 90 giorni, raccontata nel video The Great Wall Walk: i due artisti camminano partendo dalle due direzioni op-

poste della Muraglia Cinese e, incontrandosi a metà strada, si dicono addio. Sin dagli esordi Marina Abramović ha scelto il corpo come oggetto della sua arte, mettendolo al centro di ogni performance, esplorando i limiti estremi della resistenza fisica e psicologica. Il corpo è lo strumento con cui veicola un messaggio al pubblico, per comunicare e assorbire energia. Il corpo dell’artista è un materiale plasmabile, simbolo di realtà e valori diversi. Spesso usa il dolore, per liberare la sua mente e quella dello spettatore dalla sofferenza reale. Il dolore porta al superamento dei limiti, a una trasformazione emotiva e dunque, all’arte. L’arte è sempre quesito, richiesta di attenzione. In un’intervista del 2010 a proposito della perfomance The Artist is Present in cui rimase sette ore al giorno seduta a guardare negli occhi i visitatori, ha dichiarato: «Durante la performance la finzione si dissolve, tutto diventa realtà. Questo ti rende vulnerabile e la vulnerabiltà provoca una risposta emotiva dal pubblico». L’artista è colui che sa porre domande e che suscita attenzione e risposte. Chi fa arte non deve inseguire la realtà, ma indurre a ragionare lavorando con metafore, con le immagini e con i significati, lentamente. «L’artista non deve reagire alle notizie quotidiane come un giornale. Se lo fa, le notizie diventano subito vecchie e lui è fuori. L’immediatezza non serve. Deve invece fare un lavoro trascendentale, che contenga un messaggio che possa essere usato in ogni momento, in ogni luogo. Quando ho fatto Balkan Baroque non pensavo solo alla Jugoslavia: era una immagine valida per ogni guerra e ogni paese. Vale oggi anche per l’Iraq». Balkan Baroque è forse la performance che ha reso più famosa la Abramović: per ventidue ore, in quattro giorni consecutivi, è stata seduta in mezzo a una montagna di ossa d’animali, coperte di brandelli di carne: le puliva e toglieva loro le tracce di sangue. Una purificazione fatta con una spazzola di metallo, acqua e sapone: una pulitura radicale della zavorra (il passato personale e collettivo). Marina cantava ogni giorno nella lingua natale, una canzone di cui ricordava solo alcuni versi. Per lo sfinimento provocato dalle ore di fatica per pulire le ossa, il suo “canto” finiva per assomigliare a un mantra.

Ulay e Marina Abramović, The Artist is Present, 2010

Marina Abramovic, filmati e ossa da Balkan Baroque, 1997. The Artist is Present, installazione visuale, New York, MoMA, 2010

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Seduce me Il mondo animale dal buco della serratura! di Gaia Bottino

L’attrice ed ex-modella Isabella Rossellini ha diretto, scritto e interpretato Seduce me, dieci filmati della durata di pochi minuti che riguardano i bizzarri riti di seduzione che spesso precedono l’atto sessuale di molte specie animali. L’obiettivo è quello di ripetere il successo della serie Green Porno, prodotta dalla stessa Rossellini e da Jody Gaia Bottino Shapiro e Rick Gilbert e visibile sul Sundance Channel, il canale online creato dall’attore Robert Redford. In Green Porno (progetto sul quale ora è disponibile anche un libro), la Rossellini ci mostra le abitudini riproduttive degli animali marini e degli insetti raccontate con grande fantasia e un tocco di brio. In Seduce me invece l’attenzione si sposta su un nuovo aspetto della scienza che riguarda l’omosessualità degli animali ma in realtà, l’obiettivo che sta realmente a cuore ai produttori del progetto, è quello di sensibilizzare le persone sulla salvaguardia dell’ambiente. Tra i numerosi danni all’equilibrio dell’ecosistema, l’inquinamento va ad alterare anche le normali attività di riproduzione degli animali. Per questo motivo i produttori della serie hanno scelto come spunto l’argomento del sesso per poter attirare maggiormente l’attenzione: sono pochi coloro interessati realmente al destino della specie animale, molti di più coloro che, soprattutto in internet, vanno alla ricerca di un porno e si imbattono invece in una serie di filmati che di porno hanno solo il titolo. I video sono provocanti e ironici e del tutto innovativi: per la prima volta vengono trattati temi scientifici che riguardano l’ecologia e l’ambiente in chiave umoristica, un lavoro tra il documentario scientifico e il cartoon con i personaggi di carta. A seconda del rituale amoroso da analizzare, la Rossellini entra nei panni del maschio di mantide religiosa divorato dalla sua femmina durante

l’atto riproduttivo, di una papera assalita da un branco di maschi desiderosi di accoppiarsi, o ancora di una lumaca a cui piace il sesso sadomaso. Chi non ricorda con un sorriso la favoletta dell’ape e del fiore, con cui da bambini gli adulti tentavano di spiegarci il sesso tra uomo e donna? Lo stesso tenta di fare Isabella Rossellini trasformandosi come in una fiaba in una curiosa e smaliziata Alice catapultata nel paese delle erotiche meraviglie animali. Seduce me non è un documentario dell’assurdo come potrebbe sembrare, infatti la consulenza scientifica di questa fortunata produzione è stata affidata al biologo Claudio Campagna e i temi trattati rispecchiano fedelmente la vita sessuale di insetti e animali marini, che in molti casi ricorda quella dell’uomo. È il caso dei delfini che, proprio come gli esseri umani, fanno sesso non solo al fine della riproduzione ma anche per puro piacere: nel filmato a loro dedicato scopriamo così che questi simpatici mammiferi si coccolano prima dell’accoppiamento, praticano sesso orale e hanno rapporti omosessuali. Tra gli insetti invece, ne troviamo alcuni che di certo non si possono considerare dei romanticoni! Non solo al maschio della mantide religiosa è riservato un destino drammatico a causa del cannibalismo della femmina: anche il fuco, componente di sesso maschile dell’alveare, muore subito dopo l’accoppiamento con l’ape regina. Isabella Rossellini ricrea inoltre lo scenario biblico dell’arca di Noè per mostrare che alcuni insetti ermafroditi (provvisti sia degli organi femminili che di quelli maschili) non avrebbero avuto bisogno di salire sull’arca con un compagno per assicurare la continuazione della specie alla fine del diluvio universale. Ci rendiamo conto così che gli omosessuali e i transessuali in natura sono da sempre esistiti anche se alcuni individui si ostinano a considerarli “contro natura”. Nonostante la nostra evoluzione, gli animali hanno ancora da insegnarci qualcosa: vivere l’eros in maniera libera e spontanea senza dover per questo essere discriminati è, per alcuni individui, un traguardo ancora difficile da realizzare.


Alla ricerca della verità Un eterno divenire: riflessioni su La religione, il mondo e il corpo di Raimon Panikkar di Danilo Campanella La raccolta antologica La religione, il mondo e il corpo raccoglie alcuni saggi del filosofo, teologo e sacerdote Raimon Panikkar (3/11/191826/08/2010) un uomo che non si considerava «mezzo spagnolo e mezzo indiano, mezzo cattolico e mezzo hind, ma totalmente occidentale e totalmente orientale». Danilo Campanella Le quattro trattazioni che formano tale antologia intendono, attraverso il filo conduttore del filosofo in questione, affrontare in primis il tema della conversione, a cui è chiamato l’uomo e la sua stessa religione, la quale non deve mai essere un’organizzazione di controllo, ma di servizio. Questa convinzione per lui si evolse in modo graduale, dal cattolicesimo romano, tradizionalista e neotomista, verso una concezione universalista fondata, pur nella ricerca, nella sintesi e nell’armonia, soprattutto in un’evoluzione dell’esperienza umana nell’eterno divenire storico. Per Panikkar la religione non può arrivare a costringere l’uomo a rinunciare ad una vita completa e ricca. Essa non deve nemmeno mirare al monopolio della “verità”, poiché la “salvezza” può essere ottenuta per molteplici vie (per altro in perfetto accordo con le tesi del filosofo, teologo, e sacerdote cattolico Hans Kung, noto internazionalmente soprattutto per le sue posizioni in campo teologico e morale). Nel testo si evince la posizione del filosofo, il quale considera la varietà delle religioni e delle varie confessioni del cristianesimo dei sentieri spirituali, differenti ma che conducono verso un’unica vetta. Il secondo saggio dell’antologia, invece, riguarda lo studio delle religioni, le quali non devono essere con-

siderate come entità separate dal mondo, ma prodotto dello stesso, imperfetto, seppur utilissimo all’avvicinamento con l’eternità. Il terzo saggio tratta del corpo dell’uomo, denigrato sia da chi lo riduce platonicamente a “prigione dell’anima”, sia da chi lo idolatra. Infine, la quarta trattazione vuol provare che salute e salvezza vivono in una comune interdipendenza, (si vedano altresì le interessanti posizioni dell’Esercito della Salvezza) seppur non vadano confuse. Questi quattro saggi, raccolti in un’accurata antologia, sono intrisi di tutti i temi filosofici di Panikkar, dalla ricerca di un connubio tra filosofia e teologia (da “amore della sapienza” a “sapienza dell’amore”), al tema del pluralismo in cui il filosofo, probabilmente ispirato dalla visione dell’Aquinate, parte col riconoscimento di un altro “io” da amare di per sé, escludendo qualsiasi motivo di utilità e interesse. Infine, la visione cosmoteandrica, la quale indica che le tre dimensioni umana, divina e cosmica, pur restando distinte, si coappartengono. Non esiste un Dio che non sia lo stesso per tutti gli uomini. Tutte le religioni hanno in comune la ricerca della trascendenza, e in essa trovano dapprima gli dei, poi il dio, e infine Dio, l’unico, il grande architetto, comune a tutti gli uomini della terra. Infine, Panikkar evidenzia e critica ciò che ci ha portato alla patologia della sicurezza, l’odierna malattia mentale delle masse, che è anche l’ossessione per la certezza. Il filosofo raccomanda una filosofia viva, che possa porre attenzione alla pluralità di significati, all’ambiguità, e all’apertura, favorendo la coscienza di libertà, solo se essa stessa si pone al di sopra di qualunque forma di schiavitù. Panikkar può apparire come un pensatore scomodo, non sempre prevedibile, mai convenzionale, ma che apre sempre nuovi dubbi e nuove prospettive. Forse lontano da quella santità e da quella beatitudine proprie della religione cristiana, ma molto più vicino a quelle dei nostri antichi padri, i quali ci ricordano, tramite Cicerone «sapiens beatus est».

Quattro testi inediti di Raimon Panikkar ci portano in un cammino di salutare riorientamento per l’uomo in un mondo frastornato dalla divisione del sapere e della vita. Il primo testo affronta il tema stesso della conversione a cui le religioni sono chiamate. Il secondo riguarda lo studio delle religioni. Il terzo concerne il corpo dell’uomo. Infine il quarto testo riguarda medicina e religione. Panikkar è un critico radicale dell’abuso della terra e dell’uomo che stiamo attraversando, ma la sua è una visione di pace possibile, sperimentata, ineludibile. (da jakabook.it)

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Premio “Maria Baiocchi” Diario di una premiazione sugli studi di genere a Roma Tre di Roberto Cecchini

Il 15 dicembre scorso, presso l’Istituto Tommaseo dell’Università degli Studi Roma Tre, si è svolta la tanto attesa premiazione dei vincitori della VI edizione del premio “Maria Baiocchi” per le migliori tesi di laurea su studi di genere e orientamento sessuale. Introdotto da una citazione cinematoRoberto Cecchini grafica tratta dai Comizi d’Amore di Pier Paolo Pasolini, noto documentario in materia di sessualità girato nella puritana Italia degli anni Sessanta, l’incontro si è svolto alla presenza di alcuni relatori delle tre più importanti università romane. Moderati dalla maestria oratoria di Francesco Bilotta, docente di Diritto privato dell’Università di Udine, hanno preso la parola Vittorio Lingiardi, docente di Psicologia dell’Università La Sapienza, Francesco Gnerre, docente di Lettere e Filosofia a Tor Vergata e Michela Fusaschi, antropologa e ricercatrice di Roma Tre. Tutti hanno sottolineato l’importanza della diffusione del bando per una sensibilizzazione della comunità studentesca, al fine di approfondire la ricerca e lo studio delle tematiche di genere formando generazioni future culturalmente consapevoli. I relatori presenti hanno evidenziato inoltre l’esigenza di una comunicazione trasversale del sapere, al fine di creare una tradizione unica che rafforzi il senso di appartenenza di una comunità, quella omosessuale, per secoli vittima, come sottolineato da Francesco Gnerre, di una rappresentazione culturale distorta. Diverse le angolazioni scientifiche degli argomenti trattati, da quella psicologica relativa all’omofobia interiorizzata ricordata da Vittorio Lingiardi,

al significato antropologico del concetto di diversità nei differenti contesti culturali di Michela Fusaschi. Si è evidenziato come negli anni sono aumentati i ragazzi che, nelle diverse università italiane, si sono avvicinati coraggiosamente agli studi di genere, mettendo in luce un maggiore interesse della comunità accademica verso questa frontiera della ricerca. L’Università degli Studi Roma Tre, oltre ad aver accolto la sfida di diffondere nella primavera passata il bando sul sito di Ateneo, ha aperto i propri locali alla stessa premiazione. Presente come ospite d’onore Vladimir Luxuria, da tempo leader della comunità LGBT italiana, che ha sottolineato la necessità di non dimenticare la battaglia per la “depatologizzazione” del transessualismo. Ha concluso la giornata Imma Battaglia, presidente dell’associazione Di’Gay Project, ringraziando tutti coloro che negli anni hanno creduto nell’iniziativa e ne hanno permesso la diffusione e la crescita. Sottolineando l’importanza di diffondere una cultura del nucleo familiare come affettività di rapporti allargati, che vadano oltre gli stereotipi tradizionali di famiglia, Imma Battaglia, alle telecamere di UniRoma TV, ha chiarito inoltre come la lotta per il riconoscimento sociale delle persone omosessuali è una lotta per i diritti civili di tutti. Hanno avuto infine il loro giusto riconoscimento i ragazzi vincitori di questa VI edizione del Premio “Maria Baiocchi”, Laura Scarmoncin, Salvatore Finistrella e Francesca Romana Ammaturo, che hanno sviluppato temi importanti per la comunità LGBT in campo storico, filosofico e giuridico. I ragazzi premiati, hanno così manifestato fortemente l’esigenza di essere sostenuti da iniziative simili, che avvalorino le loro potenzialità di ricerca scientifica. La giornata si è così conclusa con un invito di Imma Battaglia a ritrovarsi numerosi il prossimo anno, con la speranza di ricevere un numero sempre maggiore di tesi, che alimentino e stimolino la ricerca in materia di studi di genere e orientamento sessuale.

È arrivato alla VII edizione il Premio “Maria Baiocchi” per le migliori tesi di laurea e postlaurea in gender studies (unico esempio in Italia di cerniera tra movimento LGBT e ricerca accademica). Il suo presupposto è che la ricerca sulle identità di genere e sugli orientamenti sessuali costituisca un potenziale innovativo in tutti i campi del sapere e, al tempo stesso, che la ricerca sia un elemento di crescita culturale e civile ad ogni livello. L’iniziativa del Premio intende censire e raccogliere, ma soprattutto incoraggiare e valorizzare, i lavori LGBT che vengono realizzati negli atenei italiani. Le classi di concorso e i rispettivi premi: - un premio di 1000 euro per la migliore tesi di laurea di I livello; - un premio di 1000 euro per la migliore tesi di laurea di II livello; - una borsa di studio di 2.500 euro per la migliore tesi di master o di dottorato di ricerca. Per informazioni: tel. 06.5134741 e-mail: premiotesi@digayproject.org



Roma Tre Trre - via UniversitĂ UniversitĂ degli degli Studi Studi Roma v ia Ostiense, Ostiense, 159 - www.uniroma3.it www.uniroma3.it


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