P Periodico eriodico di Ateneo
Anno XIV, n. 1 - 2012
“CREATIVE ACTS”
LA CREATIVITÀ NEL QUOTIDIANO
Il giard giardino g dino in un motore moto ore
L’orto in una b bomba
Sommario Editoriale
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Primo piano Riformulare il mondo La creatività come misura del vivere umano di Paolo Apolito
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Intelligenze creative Il comportamento intrinsecamente innovativo dell’animale umano di Paolo D’Angelo Creatività: teorie e ricerche di Anna Lisa Tota
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Si può educare alla creatività? 14 L’importanza del fattore creativo nei processi formativi di Gilberto Scaramuzzo
Arte con todos Lezioni di creatività dalla periferia della Gran Buenos Aires di Gianni Tarquini Rubriche Popscene Ultim’ora da Laziodisu Non tutti sanno che…
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Recensioni Il futuro ha un cuore antico? 64 Il vintage high tech dei libri volanti di Mr Lessmore di Paolo Di Paolo Information is beautiful La creatività dei dati, ovvero la percezione è comprensione di Francesco Martellini
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Roma Fringe Festival Arriva in Italia la più grande rassegna di teatro off di Francesca Gisotti
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Dio c’è… e va in macchina L’Accademia Arte nel cuore in scena al Teatro Olimpico di Arianna Scarozza
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Il silenzio fa rumore The artist e il ritorno del film muto di Michela Scoccia
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Genio e creatività Enrico Fermi e i ragazzi di via Panisperna di Roberto Mignani
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Creativi culturali per un mondo migliore I sorprendenti risultati di ricerche sociologiche internazionali sulla cultura olistica emergente di Enrico Cheli
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Cinema e diversità culturale Il XVII convegno internazionale di studi cinematografici promosso dal Di.Co.Spe. di Marco Maria Gazzano
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La doppia stella di Leonardo Sinisgalli L’uomo che voleva «spiegare le macchine agli ingegneri e ai poeti» di Michela Monferrini
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Libertà scalza La forza creativa della corsa a piedi nudi di Corrado Giambalvo
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Ritagli Se il futuro del libro è l’opera d’arte di Michela Monferrini
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Redazione Ugo Attisani, Gaia Bottino, Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo Di Paolo, Irene D’Intino, Indra Galbo, Francesca Gisotti, Elisabetta Garuccio Norrito, Michela Monferrini, Monica Pepe
Una bottega a regola d’arte La differenza fra prodotto industriale e creazione artigianale di Arianna Scarozza
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Irena Sendler: l’angelo del ghetto di Varsavia di Gaia Bottino
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Hanno collaborato a questo numero Paolo Apolito (professore ordinario di Antropologia culturale), Enrico Cheli (docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Università degli Studi di Siena), Paolo D’Angelo (professore ordinario di Estetica), Cinzia Delorenzi (danzatrice e coreografa), don Pino Fanelli (assistente spirituale Facoltà di Economia e Facoltà di Scienza Politiche), Gianpiero Gamaleri (presidente Adisu Roma Tre) Marco Maria Gazzano (professore associato di Storie e teorie del cinema, delle arti elettroniche e dell’intermedialità), Corrado Gianbalvo (istruttore della Federazione italiana di atletica leggera, coordinatore del Fivefingers tester team e special project manager della Vibram), Francesco Martellini, Adriana Mattorre (studentessa Facoltà di Lettere e Filosofia), Roberto Mignani (professore associato di Fisica teorica), Gilberto Scaramuzzo (coordinatore del MimesisLab - Laboratorio di pedagogia dell’espressione, Dipartimento di Progettazione educativa e didattica), Arianna Scarozza (studentessa del CdL in Scienze politiche e relazioni internazionali), Michela Scoccia (studentessa del CdL in Scienze politiche e relazioni internazionali), Gianni Tarquini (specializzato in Storia e in cooperazione internazionale)
Direttore responsabile Anna Lisa Tota (Professore straordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi) Caporedattore Alessandra Ciarletti Vicecaporedattore e segreteria di redazione Federica Martellini r3news@uniroma3.it
Recitare: professione o scelta di vita? 38 Il punto di vista di un giovane attore tra aspirazioni e difficoltà di Francesca Gisotti Avvolta nel mio respiro di Adriana Mattorre
Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre Anno XIV, numero 1/2012
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Incontri Wu Ming. «Trasparenti verso i lettori, opachi verso i media» 42 di Alessandra Ciarletti Roberto Vecchioni. I colori del buio di Alessandra Ciarletti
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Silvia Makita. «Wabi sabi: il bello che invecchia» di Valentina Cavalletti
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Gualtiero Marchesi. L’alchimia dell’intuizione di Alessandra Ciarletti
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Reportage «Creare è resistere e resistere è creare» Creatività come movimento e adattamento di Cinzia Delorenzi
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Immagini e foto Nadia Angelucci, Semira Belkhir, M. Borchi, Cristina Chichi, Veronica D’Auria, Andrew Hosner, Federico Perez Losada, Azzurra Primavera, Daniella Rosário, Gianni Tarquini, Siamack Tofighbakhsh, Eleonora Vasco, www.enricocheli.com, www.misterrob.co.uk, www.informationisbeautiful.net, host.uniroma3.it/laboratori/mimesislab, www.vecchioni.org Progetto grafico Magda Paolillo Conmedia s.r.l. - Via Ippolito Nievo, 62 - Roma www.conmedia.it Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico Impaginazione e stampa Tipografia Gimax di Medei Massimiliano Via Valdambrini, 22 - 00058 Santa Marinella (RM) - tel. 0766 511644 In copertina Un piccolo giardino ricavato nel vano motore di un’automobile, Vancouver e coltivazione di ortaggi nel container di una cluster bomb, Phonsavanh, Laos (foto di Elizabeth Briel) Finito di stampare maggio 2012 ISSN: 2279-9192 Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998
“Creative acts”: la creatività nel quotidiano di Anna Lisa Tota
Anna Lisa Tota
«Chiamatelo come volete, esso è il sentimento che noi abbiamo di essere creatori delle nostre intenzioni, delle nostre decisioni, dei nostri atti, e con ciò delle nostre abitudini, del nostro carattere, di noi stessi. Artigiani della nostra vita, artisti [...].» (Bergson 1934, sul concetto di élan vital)
Abbiamo scelto in questo numero un’immagine di copertina e un titolo un po’ particolari per parlarvi di creatività. Le due foto, scattate rispettivamente in Canada e in Laos, propongono due adattamenti secondari: un giardino in auto e un orto in una bomba. Sia la vecchia automobile in disuso, sia l’involucro della bomba sono infatti reintegrate nell’ordine del quotidiano attraverso un atto di immaginazione creativa. Un cittadino di Vancouver decide di rimuovere il motore alla sua vecchia auto e di trasformarla così in un mini-giardino che contribuisce al verde cittadino. La bomba, invece, diventa un piccolo orto, un vaso in cui far crescere e germogliare i semi di varie piante ornamentali e commestibili. Un oggetto pensato e costruito per seminare morte e distruzione, diventa così nella rivisitazione di una famiglia del Laos uno splendido e originale vaso per le piante. Un segno che la vita dopo la guerra può riprendere il suo incessante fluire, un segno che alla fine il messaggio della distruzione non può prevalere sull’istinto della vita.
direbbe Ong, (che conosce cioè i sistemi di scrittura). In questo tipo di culture l’innovazione è di per sé un valore, sostanzialmente perché innovare costa poco e quindi la comunità può permetterselo. Nelle società contemporanee occidentali il valore della tradizione è costantemente rimesso in gioco dai processi di innovazione culturale, tecnologica e sociale. In tali contesti la creatività è di per sé un valore, perché permette il proliferare di idee e di soluzioni nuove, perché permette di perseguire il mito dell’evoluzione continua e del progresso incessante. Il termine creatività è fortemente polisemico e rimanda ad accezioni molto diverse fra loro. Le prospettive teoriche e le ricerche empiriche che si sono occupate di creatività sono molteplici: molti contributi pubblicati in questo numero sono rivolti proprio a fornire una rassegna ampia e dettagliata di tutti i possibili sguardi sul fenomeno “creatività”. Un fenomeno peraltro che è al centro di un’attenzione sempre crescente: dai festival della creatività - di cui si parla in uno degli articoli che vi proponiamo - alle TED Conferences (Techno-
Creative acts è un modo per parlare di creatività nel quotidiano, di coniugare il pensiero creativo ad una possibilità estesa a tutti noi e non ad una prerogativa esclusiva di pochi individui, eccellenti e geniali Creative acts è quindi un modo per parlare di creatività nel quotidiano, di coniugare il pensiero creativo ad una possibilità estesa a tutti noi e non ad una prerogativa esclusiva di pochi individui, eccellenti e geniali. Noi viviamo in una cultura chirografica, come
Bombe trasformate in fioriere, Laos. Si calcola che in Laos siano state sganciate almeno 1,4 milioni di tonnellate di ordigni tra il 1964 e il 1973. Questa e l’immagine di pagina seguente documentano come i laotiani abbiano saputo reinventare una quotidianità profondamente segnata dalla guerra
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Container di cluster bomb usati come supporti di palafitte destinate allo stoccaggio del riso
logy, Entertainment and Design) nate negli anni Novanta in California, dove in ben diciotto minuti le menti più brillanti e creative del mondo espongono le loro idee, messe poi a disposizioni di tutti on line. La prospettiva implicata dalle TED è che le idee geniali e creative debbano essere diffuse sull’intero pianeta e che, al contempo, in quanto mediate attraverso il contenitore TED, istituiscano a loro volta nuove basi di distinzione e diseguaglianza sociale (partecipare ad una TED, infatti, per esporre le proprie idee nei fatidici 18 minuti costa soltanto 7500 dollari… ). In qualche modo il piccolo gesto creativo nel quotidiano e le TED sembrano essere fenomeni agli antipodi, quasi a rappresentare i due estremi attraverso cui guardare le manifestazioni del fenomeno creatività nelle società contemporanee. Tuttavia, fra tutte le accezioni possibili, quella che più ci è cara allude alla creatività come fenomeno diffuso, si riferisce proprio alla creatività di tutte quelle azioni, quei pensieri e quelle parole che paiono dotati di un’intensità un po’ speciale. Sono pensieri, parole e corsi di azione che condividono la caratteristica di essere “pacificamente rivoluzionari”. Attivano con la loro presenza una serie di mutamenti rispetto allo status quo che altrimenti non avrebbero potuto avere luogo. In questo senso la creatività è una qualità processuale, propria di quelle inter-azioni che sono al contempo “condizioni sufficienti e necessarie” perché qualcosa di nuovo e di diverso accada nel mondo. Talora sono piccoli segni come una bomba trasformata in fioriera o uno pneumatico di camion trasformato in un’altalena per bambini oppure un mazzo di fiori dipinto su un muro di un tunnel per commemorare la morte di un amico. Talora sono invece grandi
azioni che hanno mutato il destino di molte persone, come il bellissimo caso di Irena Sendler. Come emblema di “creative acts” vorremmo proporvi proprio la sua biografia: una giovane donna che con un atto di invenzione creativa salva dal ghetto di Varsavia 2500 neonati e bambini, destinati altrimenti a morire
Fra tutte le accezioni possibili, quella che più ci è cara si riferisce alla creatività di tutte quelle azioni, quei pensieri e quelle parole che paiono dotati di un’intensità un po’ speciale, che condividono la caratteristica di essere “pacificamente rivoluzionari”. In questo senso la creatività è una qualità processuale, propria di quelle inter-azioni che sono al contempo “condizioni sufficienti e necessarie” perché qualcosa di nuovo e di diverso accada nel mondo nella follia dei campi di concentramento. Le azioni creative sono dunque quelle, piccole o grandi, che rivoluzionano pacificamente il mondo, sono quelle che lasciano il segno nella vita di chi le compie e in quella di tutti coloro che ne sono testimoni. Alla memoria di Irena dunque è dedicato questo numero e il mio editoriale, e a tutti voi naturalmente che con piacere continuate a dedicarci la vostra attenzione e il vostro interesse.
Riformulare il mondo La creatività come misura del vivere umano di Paolo Apolito
Gli antropologi hanno studiato molti esempi, negli angoli più vari della Terra, di questo “potere degli ultimi” di non subire il senso da un pensiero unico imposto dalla logica del capitale finanziario, di riscriverlo secondo una possibilità comunitaria di dirsi altre “verità”, raccontarsi altre storie smo verso tutti gli altri, i bóia-frias mostravano a Dawsey una speciale forza creativa di stravolgimento agito nei loro comportamenti quotidiani del mondo umanamente insensato nel quale si trovavano a vivere. Gli antropologi hanno studiato altri
esempi negli angoli più vari della Terra di questo “potere degli ultimi”, là dove il capitalismo nelle sue forme più violente e recenti ha fatto e sta facendo la sua marcia apparentemente trionfale. Potere di non subire il senso da un pensiero unico imposto dalla logica del capitale finanziario, di riscriverlo secondo una possibilità comunitaria di dirsi altre “verità”, raccontarsi altre storie. Potere di resistere ai processi di alienazione che sembrerebbero inevitabili sulla falsariga di ciò che avvenne nelle città europee alla nascita del capitalismo industriale. Certo è ben magro il bottino dell’invenzione di un senso del mondo che ne confermi le ingiustizie reali. Forse perché non può fare altro, in attesa o scomparso del tutto il “sole dell’avvenire”, o forse perché non fa altro proprio in quanto si attarda a inventare mondi carnevaleschi. Di fatto esperienze come quelle che nelle situazioni estreme ri-umanizzano in modi paradossali un mondo dis-umano, dicono della creatività come misura del vivere umano in generale.
Certo è ben magro il bottino della invenzione di un senso del mondo che ne confermi le ingiustizie reali. Forse perché non può fare altro, in attesa o scomparso del tutto il “sole dell’avvenire”, o forse perché non fa altro proprio in quanto si attarda a inventare mondi carnevaleschi Agli esseri umani non basta il mondo così com’è. Soprattutto nelle situazioni estreme di sopravvivenza, ma anche nelle più normali condizioni, gli esseri umani vanno oltre i limiti del mondo in cui vivono, non lo accettano per com’è e lo riformulano. Essi costruiscono il mondo in cui vivono, non lo deducono semplicemente dalle condizioni ecologiche esistenti, e gli danno un senso. Fossero api, fossero rondini, se ne starebbero là dove si trovano a vivere la loro vita, adattati all’ambiente o spazzati via da esso. Ma sono esseri umani e possono vivere solo se danno al mondo un senso condiviso e così lo abitano, vi agiscono dentro, se lo spiegano e raccontano. Per questo essi, partiti millenni fa dall’Africa, hanno popolato la superficie intera della Terra, angolo per angolo o quasi, subendo solo in parte le condizioni ambientali, in ampia parte invece modificandole a proprio vantaggio (almeno provvisoriamente tale). O meglio, a vantaggio del senso che essi attribuivano a quel-
primo piano
Quando nel secondo dopoguerra la ristrutturazione capitalista penetrò saldamente in Picacicaba, regione agraria brasiliana nota per la canna da zucchero, un esercito di manodopera a buon Paolo Apolito mercato, i bóia-frias, espulso dai processi produttivi precedenti, si trovò a fare l’esperienza del lavoro delle piantagioni, a “cadere nella canna” come si diceva: lavoro faticosissimo, ritmi forsennati, senso di precarietà estrema, scomparsa dei vecchi riferimenti del lavoro contadino precedente e di ogni nuova prospettiva di miglioramento. Spaventapasseri in lunghi abiti protettivi di lavoro, venivano raccolti all’alba dai caporali nelle cittadine che punteggiavano l’immenso panorama delle piantagioni di canna da zucchero e là ricondotti al tramonto dopo una insensata giornata passata a tagliare canna, accatastare steli, bruciare fogliame secco. Ma “insensata” non è parola adeguata. L’antropologo John Dawsey si fece ingaggiare come “bóia-fria” nel 1980 per studiare dall’interno la condizione di questi ex contadini non del tutto proletari, scoprendo la loro quotidiana costruzione di un mondo di senso. Paradossale senso, quasi carnevalesco, fuso e confuso in un incessante clima di “stanchezza fisica e nervosa”. I bóia-frias “caduti nella canna”, facevano tutti i giorni teatro della e con la loro vita, un contro-teatro riflessivo. Tra trasognata e feroce autoironia e stuporoso e aggressivo sarca-
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le condizioni. È per questo che nello stesso ambiente ecologico diverse popolazioni si sono trovate a costruire culture diverse, con forme di adattamento diverse, di impiego alternativo di risorse ecologiche e materiali e di organizzazione sociale. Non solo. Hanno anche immaginato diverse idee di se stessi e degli altri – cioè una propria antropologia – che non era specchio fedele della natura, al contrario mirava a modificarla, poiché le definizioni di umano che si davano, li spingevano ad esempio a non accettare passivamente che ci si trovasse per nascita peli sul viso, e allora a tagliarli via perché il volto di un uomo doveva esserne privo, o a non contentarsi della grana uniforme e indifferenziata della pelle, su cui bisognava tatuare linee grafiche che risaltassero in disegni significativi, o della foggia del cranio che ci si trovava alla nascita – o dei piedi o delle labbra o delle orecchie – che andava mutata, a costo di pazienza e dolore, in quanto la forma umana non era, non doveva essere, quella avuta per “natura”, bensì quella pensata e forgiata tra umani. E la stessa nascita biologica da sola non bastava, non basta, ad essa andava aggiunta una nascita sociale, un qualche battesimo culturale, oppure l’ingresso nell’età adulta doveva essere netto, non biologicamente lento, per cui quando era tempo di assumersi responsabilità sociali, avviare una propria famiglia, assumere il rango opportuno, occorreva passare per un “lavoro” rituale di trasformazione della materia biologica che era il non-ancora-uomo e farne un già-uomo.E persino la morte biologica non era, non è la morte vera, se ad essa va aggiunta la morte che il rito fa compiere al cadavere biologico. Proprio in questi spazi liminali del ritual work la creatività umana collettiva ha impiegato l’intero suo gioco di ricreazione del mondo, poiché diversamente dall’idea corrente di rituale come ripetizione immobile su se stessa, come stampo fermo per un processo seriale che punti a bloccare il dinamismo delle cose, esso è l’attività di continuo riadattamento al mutamento e - si potrebbe parafrasare Emilio Garroni, recentemente riproposto da Paolo Virno – di applicazione creativa della regola generale alle singole contingenze.
Lavoro quotidiano dei bóias-frias nei campi
C’è stata una stagione recente di Urgent Anthropology, antropologia come intervento urgente di conservazione di forme culturali minacciate di scomparsa. Importante tentativo di porre argini a una ristrutturazione del globo terrestre indifferente alla distruzione di ricchezze e varietà culturali, perché è innegabile e inquietante la scomparsa in pochi decenni di migliaia di lingue e di forme di vita. Ma la prospettiva che dietro l’Urgent Anthropology faceva sospettare una crescente e definitiva omologazione culturale si è rivelata parziale. Centinaia di milioni di persone si muovono nella nostra epoca, e ancor di più si muovono idee e manufatti, che però non desertificano terreni culturali invasi, ma favoriscono uno straordinario meticciamento creativo del mondo: incorporazione di aspetti ed eventi globali in innumerevoli storie di localizzazione diverse e mutevoli, e adattamento trasformativo del proprio mondo locale anche attraverso un prodigioso mantenimento di un tessuto connettivo di relazioni sociali vive pur dentro i processi di trasformazione.
Il mondo è sempre stato meticcio e che ciò che impedisce uno sguardo retrospettivo che colga il continuo adattamento creativo della storia umana all’incontro e alla compresenza di diversità, è inforcare gli occhiali dell’identità per leggere le vicende umane Riflettendo a partire dal presente, si scopre che il mondo è sempre stato meticcio e che ciò che impedisce uno sguardo retrospettivo che colga il continuo adattamento creativo della storia umana all’incontro e alla compresenza di diversità, è inforcare gli occhiali dell’identità e dell’autenticità per leggere le vicende umane. Lo stesso termine “meticcio”, che richiama una condizione spuria, non originaria, è dentro questi occhiali. Inforcando gli occhiali della relazione invece, si scopre che la vicenda umana non è mai stata chiusa dentro confini, poiché è perenne creazione adattiva più o meno lenta sulle zone di contatto.
Intelligenze creative Il comportamento intrinsecamente innovativo dell’animale umano di Paolo D’Angelo Dal 2006 si tiene a Firenze, ogni autunno, il festival della creatività. Non c’è da stupirsene, anche se di primo acchito fa un po’ impressione l’accostamento tra la creatività (che siamo abituati a immaginare connessa con l’imprevedibilità, l’estro e anche la stravaganza) e qualcosa di ritualizzato Paolo D’Angelo come un festival, con le sue scadenze annuali, la corse ad accaparrarsi gli ospiti più noti, le anticamere degli organizzatori in Comune e Regione. Al confronto, i festival di letteratura, filosofia, economia, archeologia, diritto – ormai ci sono festival per ogni ramo del sapere – ci appaiono più scontati. Però, se andiamo a vedere i programmi, anche il festival della creatività è abbastanza prevedibile. Ci sono gli psicologi e i filosofi che parlano di creatività, poi ci sono gli artisti, per lo più provenienti dal mondo dello spettacolo, ma anche da quello della letteratura e delle arti visive; ci sono gli scienziati, sempre gli stessi per non rischiare di annoiare il pubblico, e naturalmente ci sono gli stilisti e i pubblicitari.
Fino al Settecento la conoscenza è stata pensata come rispecchiamento dell’ordine delle cose e come adeguamento ad esso; parallelamente il linguaggio è stato considerato essenzialmente come una nomenclatura: le parole seguono le cose, come se queste fossero già lì e attendessero solo di essere nominate. In modo simile, per due millenni l’arte è stata considerata in primo luogo come imitazione, bella perché era bello ciò che rappresentava Insomma, non si deve necessariamente essere creativi per fare un festival sulla creatività. Però il festival ci dice subito molto, magari involontariamente, su come intendiamo oggi la creatività. Intanto ne presenta una immagine polverizzata, dove ognuno è creativo a modo suo; poi non fa nulla per evitare il mix tra “alto” e “basso”. Gli scienziati famosi sfilano accanto ai pubblicitari e ai presentatori televisivi, ma
ci sono sempre gli artisti per chi vuole un po’ di enfasi sull’essere creativi. In effetti il discorso sulla creatività è oggi ubiquo. Sappiamo per certo che debbono essere creativi gli scienziati e gli artisti, ma anche gli imprenditori; gli stilisti e i pubblicitari (non sono loro i “creativi” per antonomasia?). Non ci ripetono ogni giorno che salvezza deve venire dall’innovazione?
C’è voluto un grandissimo sforzo di pensiero per arrivare ad una concezione costruttiva della conoscenza: nella quale il nostro intervento non si limita a prendere atto del modo in cui le cose sono, ma concorre a strutturare il mondo In effetti, non è strano che creatività e attualità vadano a braccetto. In fondo la “creatività” è un concetto recente, molto più recente di altri concetti fondamentali. Pare che il termine non abbia più di un secolo di vita, e sembra – e ammetterete che anche questo è un segno significativo – che la sua prima occorrenza sia stata in lingua inglese. Di quante altre idee o concetti possiamo dire lo stesso? Per molto tempo, del concetto di creatività si è fatto a meno, e i termini “creazione” e “creare” sono stati riservati alla divinità. Certo, a partire dal Rinascimento è accaduto che si dicesse che un poeta “crea” e si sono usati termini che con creatività hanno certamente una parentela (ingegno, wit, esprit de finesse); ma la nozione precisa di creatività è nata solo all’inizio del Novecento. Infatti per lunghissimo tempo è stato difficile riconoscere proprio quel carattere innovativo e costruttivo dell’agire e del conoscere umano che oggi ci appare tanto familiare da poterlo celebrare nei festival. La conoscenza è stata pensata, a partire dal mondo antico e fino al Settecento come rispecchiamento dell’ordine delle cose e come adeguamento ad esso; parallelamente il linguaggio è stato considerato essenzialmente come una nomenclatura: nella concezione referenzialista le parole seguono le cose, come se queste fossero già lì e attendessero solo di essere nominate. In modo simile, per due millenni l’arte è stata considerata in primo luogo come imitazione, bella perché era bello ciò che rappresentava. C’è voluto un grandissimo sforzo di pensiero per arrivare ad una concezione costruttiva della conoscenza, una concezione nella quale il nostro intervento non si limita a prendere atto del modo in cui le cose
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sono, ma concorre a strutturare il mondo. E ancora più tardi si è arrivati a comprendere che il linguaggio non si limita a rispecchiare un mondo dato ma contribuisce a organizzarlo. Questo lungo processo è sembrato sfociare, all’inizio del secolo scorso, in una vera e propria apoteosi della creatività. Anche se il termine non era ancora apparso, le filosofie della vita, e in modo eminente la filosofia di Bergson, hanno cercato di dare fondamento ad una concezione che vedeva il mondo come innovazione continua, continua produzione di forme nuove. È l’idea di una evoluzione creatrice, come suona il titolo di quella che è probabilmente l’opera più famosa del filosofo francese. Ma anche in Italia, negli stessi anni, Benedetto Croce aveva in fondo la stessa preoccupazione: salvaguardare la continua diversità delle cose, opporsi ad una visione statica e meccanica, sottolineando la continua innovazione che ha luogo nel conoscere, ma anche nel parlare e nell’agire dell’uomo. L’idea abbastanza famigerata del carattere poetico del linguaggio, sostenuta da Croce, voleva proprio accentuare l’aspetto per il quale il linguaggio è continua produzione di forme nuove (nessuna parola è veramente eguale all’altra), a detrimento di tutto ciò che nel linguaggio è struttura, regola, codice. Il limite evidente
di queste concezioni era proprio il fatto di intendere la creatività come opposta all’intelletto, alla regola, ai vincoli. Si è creativi – questo il presupposto di tali filosofie – liberandosi dalle regole, superando i vincoli e annullandoli.
Il comportamento umano è intrinsecamente, ineliminabilmente creativo: non per nulla la storia dell’animale umano è una storia continua di innovazioni, cioè di comportamenti creativi Questo mito della creatività può diventare pericoloso. La psicologia e la filosofia del Novecento, nelle loro ricerche più avvertite, hanno fatto giustizia di quanto di semplicistico si nascondeva nella esaltazione incontrollata della creatività. Per esempio si è fatta strada una concezione graduale della creatività, non più vista come uno spartiacque assoluto tra comportamento umano e comportamento degli animali non umani. Oggi sappiamo che anche gli animali superiori sono capaci di innovazioni nei loro comportamenti, e possono mettere in campo atteggiamenti innovativi quando si tratta, per esempio, di escogitare nuove strade per giungere al cibo. E tuttavia sembra che un discrimine rimanga, ed è un discrimine che proprio la parola creatività può aiutarci a nominare. Infatti quello che nell’animale non umano è un comportamento saltuario e in taluni casi eccezionale, diventa nell’uomo la regola, la cifra più caratteristica del suo comportamento. Il comportamento umano è intrinsecamente, ineliminabilmente creativo. L’uomo articola e mette in discussione il proprio patrimonio di regole e principi, applicandolo in modo costruttivo e non meccanico. Non per nulla la storia dell’animale umano è una storia continua di innovazioni, cioè di comportamenti creativi.
Il linguaggio è creativo in ogni singolo stadio del suo sviluppo, ma non contro e nonostante le regole, ma proprio grazie ad esse
Tre ghepardi ed una gazzella in un insolito momento di gioco: anche gli animali superiori sono capaci di innovazioni nel proprio comportamento, ma si tratta sempre di episodi saltuari e spesso eccezionali
In qualche misura, si tratta di una concezione addirittura opposta a quella che sta dietro l’idea di un festival della creatività: non più una dote isolata ed eccezionale, padroneggiata solo da individui fuori dell’ordinario (che è ancora, sorprendentemente, l’idea di creatività che ritrovate per esempio nel libro di Howard Gardner Intelligenze creative, dove creativi sembrano solo individui fuori dall’ordinario come Einstein, Freud, Picasso, Eliot o Gandhi), ma al contrario un tratto comune, anzi, il tratto più specifico dell’essere umano. Questa concezione della creatività, che si trova esemplarmente teorizzata in uno scritto del filosofo
Chi non ha mai giocato a interpretare la forma delle nuvole, immaginandovi le figure più disparate? Creativi lo siamo tutti, fin dal momento in cui iniziamo a parlare. E forse anche da prima
italiano Emilio Garroni, ripubblicato l’anno passato (era stato scritto una trentina di anni fa, ma è proprio il caso di dire che non dimostra i suoi anni) impone però di superare alcuni luoghi comuni particolarmente radicati, primo fra tutti quello che abbiamo segnalato, e cioè l’antitesi tra creatività e intelligenza, e tra creatività e regole. Ancora una volta, è proprio pensando a quel che accade nel linguaggio che ci possiamo rendere conto di quanto sia errata questa opposizione. Il linguaggio umano è certamente una delle sedi privilegiate della creatività umana, cioè della sua capacità di innovazione. Che lo sia sul piano diacronico è evidente, perché le lingue non stanIn Intelligenze creative di Howard no mai ferme, si Gardner creativi sembrano solo indi- evolvono, si travidui fuori dall’ordinario come Ein- sformano fino a stein, Freud, Picasso, Eliot o Gandhi, ma al contrario la creatività è un trat- diventare altre linto comune, anzi, il tratto più specifico gue; ma è altrettanto chiaro che il dell’essere umano
linguaggio è creativo anche in ogni singolo stadio del suo sviluppo, perché ogni parlante a partire da un numero finito di lemmi e di regole può produrre una infinità di enunciati diversi. Ma può farlo non contro e nonostante le regole, ma proprio grazie ad esse. Una lingua completamente agrammaticale, o una nella quale le parole mutino significato a piacimento, come voleva Humpty Dumpty di Alice nel paese delle meraviglie, è impensabile come un ferro di legno. Croce aveva torto nel credere che il linguaggio fosse solo creazione, ma non meno torto aveva Barthes quando scriveva che il linguaggio è autoritario perché obbliga a dire. Gli organizzatori del festival di Firenze hanno dunque un’ampia scelta, perché creativi lo siamo tutti, Il saggio di Emilio Garroni sulla creatifin dal momento vità, scritto trenta anni fa e ripubblicato in cui iniziamo a di recente da Quodlibet, supera il luogo parlare. E forse comune dell’antitesi fra creatività e regole anche da prima.
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Creatività: teorie e ricerche di Anna Lisa Tota
In un numero dedicato alla creatività ci pareva importante dare conto anche degli studi teorici e delle ricerche empiriche che le scienze sociali negli ultimi decenni hanno elaborato su questo tema. Anna Lisa Tota In questo contributo vi proponiamo quindi una rassegna – speriamo utile – degli studi disponibili.
Gli studi sulla creatività sono interdisciplinari: negli ultimi decenni si sono confrontati su questo tema psicologi e psicoanalisti, sociologi della cultura e sociologi della scienza, antropologi, filosofi sociali e studiosi di economia All’interno delle scienze sociali la creatività è diventata un ambito di ricerca specifico in tempi relativamente recenti, grazie soprattutto al contributo di psicologia e psicoanalisi che, pur nella differenza delle prospettive, tendono a focalizzare l’attenzione sul rapporto tra caratteristiche della personalità soggettiva e propensione all’atto creativo. In sociologia l’interesse per questo tema si è articolato principalmente lungo due dimensioni: la riflessione sulla creatività all’interno delle teorie dell’azione sociale, lo studio della creatività simbolica in riferimento all’immaginario e all’arte. Il comune humus filosofico da cui derivano i vari approcci che si succedono nell’analisi di questo concetto, può essere fatto risalire a molteplici correnti filosofiche: la riflessione di Stirner e di Ortega y Gasset sul vitalismo, quella storicistico-attualistica di derivazione crociana, l’etica dei valori e del genio di Bergson e di Scheler, l’analisi di Sartre sul rapporto tra immaginazione e percezione.
Gli studi sulla creatività sono interdisciplinari: negli ultimi decenni si sono confrontati su questo tema psicologi e psicoanalisti, sociologi della cultura e sociologi della scienza, antropologi, filosofi sociali e studiosi di economia (come ad esempio Richard Florida (2002) con il suo noto concetto di “creative class”).
I primi studi sistematici sulla creatività risalgono nel Novecento all’approccio psicoanalitico di derivazione freudiana, che indaga il fenomeno, analizzando le motivazioni inconsce e profonde a cui la creazione artistica soggiace I primi studi sistematici sulla creatività risalgono nel Novecento all’approccio psicoanalitico di derivazione freudiana, che indaga il fenomeno, analizzando le motivazioni inconsce e profonde a cui la creazione artistica soggiace. L’interpretazione psicoanalitica istituisce una relazione tra impulso artistico alla creazione e istinto della libido: l’artista, a causa dei suoi bisogni istintivi, è incapace di accontentarsi della realtà e si rivolge al mondo della fantasia. Attraverso la capacità di sublimazione, che è essenzialmente un meccanismo di difesa, egli trasforma le sue pretese irrealistiche in scopi raggiungibili. Secondo Freud quindi, la creazione è un’attività derivata dalla deviazione della libido rispetto agli oggetti originari; il processo di sublimazione serve all’artista per spostare l’energia libidica su mete socialmente desiderabili. Lo studio delle dinamiche del profondo continua a caratterizzare anche gli studi successivi che si collocano nel filone freudiano (ad esempio, Klein, 1929; Chasseguet-Smirgel, 1971). In particolare Chassaguet-Smirgel introduce nel modello kleiniano la distinzione tra due tipi di atti creativi: quelli volti a riparare l’oggetto e solo indirettamente il soggetto e quelli che riparano direttamente il soggetto. L’opera che deriva dal processo creativo sarebbe in questo senso un prodigioso doppio dell’artista, rifletterebbe cioè lo stile psichico del creatore. Le teorie della Ego-Psychology (Kris, 1952; Kubie, 1958) invece rappresentano una svolta
decisiva rispetto all’impostazione psicoanalitica, in quanto introducono il concetto di ego-regressione che sottolinea la funzione di controllo dell’io sul processo primario. Anche Arieti (1979) definisce la creatività come un processo terziario derivante dalla compresenza di processi di tipo primario (come quelli tipici del sogno e delle psicopatologie) e secondario (come la logica comune).
Guilford in due ricerche successive nel 1954 e nel 1961 individua fattorialmente la distinzione tra pensiero divergente e convergente che è sintetizzata dai cinque fattori di divergenza: fluidità o fluenza, flessibilità spontanea, flessibilità adattiva, originalità ed elaborazione Oltre all’approccio psicoanalitico, il tema della creatività è ampiamente studiato anche dalla psicologia. Gli aspetti più indagati sono: da una parte, la personalità creativa definita come sindrome positiva, rispetto alla quale si elencano serie di sintomi in grado di individuare lo stato (Barron, Welsh, 1951); dall’altra, il processo di creazione ideativa, rispetto al quale si elencano le fasi cruciali corrispondenti a particolari stati emotivi o cognitivi attraversati dal soggetto. Si collocano in questo filone il contributo della Gestalttheorie (Duncker, 1935; Wertheimer, 1945), quello degli associazionisti (Mednick, 1962) e quello dei fattorialisti che si rifanno alla teoria del pensiero divergente (Guilford, 1967). I contributi della psicologia umanistica rientrano nel primo tipo di teorie, quelle che indagano la personalità creativa. Secondo gli psicologi umanisti, la creatività è una caratteristica costitutiva del-
l’essere umano in genere, piuttosto che una qualità riservata a pochi. Fromm (1959) definisce il processo vitale come un processo di nascita continua, di creazione appunto. Gli psicologi umanisti propongono definizioni di creatività che richiamano questo aspetto di qualità dell’esperienza ordinaria: essa è equilibrio realizzato tra crescita e difesa (Maslow, 1962), apertura all’esperienza (Rogers, 1969), forza che spezza le strutture ordinarie dell’esperienza (Barron, 1968). Mentre l’approccio psicoanalitico ha studiato le componenti affettive dei processi creativi, i cognitivisti considerano determinanti le componenti cognitive. Come nel caso degli psicologi umanistici, anche i cognitivisti studiano il processo creativo in generale e non soltanto quello di creazione artistica. All’interno di tale approccio possiamo distinguere diverse teorie per la spiegazione delle componenti cognitive: mentre gli psicologi della Gestalt (Duncker, 1935) parlano di improvvisa ristrutturazione del campo ed elaborano la nozione di «pensiero produttivo» (Wertheimer, 1945), gli psicologi associazionisti parlano di capacità di formare nuovi elementi ideativi (Mednick, 1962). I fattorialisti infine, che si rifanno al modello di Guilford (1967), individuano le funzioni mentali particolari che intervengono nel processo creativo che è definito «pensiero divergente». La nozione di pensiero produttivo nasce nell’ambito della psicologia della Gestalt e si deve a Wertheimer (1945): il pensiero produttivo è quella modalità di pensiero che non si configura come mera ripetizione di un’abitudine appresa. Si verifica un’improvvisa riorganizzazione intelligente dei dati del reale che è descritta come «Einsicht». Agli psicologi della forma si devono numerosi esperimenti – come quelli della finestra sull’altare e del parallelogramma di Wertheimer – volti ad analizzare che cosa accade quando il pensiero lavora produttivamente.
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12 La nozione di pensiero divergente invece si deve a Guilford (1967) che ha elaborato un modello dell’intelletto, rappresentato graficamente da un solido costituito da 120 elementi (4 contenuti x 5 operazioni x 6 prodotti). L’autore utilizza per la scomposizione del pensiero creativo un approccio fattoriale: attraverso il calcolo dei coefficienti di correlazione fra i vari items individua i fattori rilevanti. In due ricerche successive, nel 1954 e nel 1961, egli individua fattorialmente la distinzione tra pensiero divergente e convergente che è sintetizzata dai cinque fattori di divergenza: fluidità o fluenza, flessibilità spontanea, flessibilità adattiva, originalità ed elaborazione. Un contributo rilevante alla riflessione psicologica e non su questi temi si deve nei primi anni Ottanta a Gardner (1983) che ridefinisce il concetto di produzione creativa introducendo la nozione di «intelligenze multiple».
Alcuni studi hanno avvalorato l'ipotesi che i primogeniti siano più creativi dei loro fratelli. Ciò dipenderebbe dal tipo di relazione affettiva che si instaura con i genitori. Anche l'ordine di nascita sembra avere quindi una certa influenza Anche i sociologi e gli psicologi sociali si occupano di creatività. Fra gli anni Sessanta e Settanta sono state realizzate una serie di ricerche per valutare l’impatto dell’ambiente. Questi approcci hanno studiato l’influenza sui processi di formazione di individui creativi sia di una serie di fattori sociobiologici (come il genere, l’età, l’ordine di nascita, la classe sociale, la scolarizzazione), sia delle cosiddette centrali educative (la scuola, la famiglia). Scopo di queste ricerche è individuare quali siano i contesti più favorevoli all’emergere e al diffondersi del talento creativo. Lo studio di Torrance (1962) individua una relazione significativa tra il genere dei soggetti e la loro creatività (misurata mediante punteggi su test specifici). Tale significatività è confermata dagli studi degli anni Settanta di Calvin (1977) e Lott (1978), che documentano come le componenti affettive e cognitive legate alla creatività, siano maggiormente inibite nei modelli educativi delle bambine. Gli stereotipi sessuali sembrano avere un notevole impatto. Alcuni studi (Altus, 1965; Liechtenwalner-Maxwell, 1969) hanno avvalorato l’ipotesi che i primogeniti siano più creativi dei loro fratelli. Ciò dipenderebbe dal tipo di relazione affettiva che si instaura con i genitori. Anche
l’ordine di nascita sembra avere quindi una certa influenza. Rispetto allo status socioeconomico sia lo studio di Andreani e Orio (1972) sia quello successivo di Andreani (1974) documentano l’impatto dello status della famiglia di origine. Infine l’impatto della scuola sulla creatività degli alunni è stato oggetto di un ampio dibattito culturale che, tra gli anni Sessanta e Settanta, ha visto contrapporsi da una parte i sostenitori di un’organizzazione scolastica conformista, dall’altra quelli più favorevoli all’anticonformismo. Lo studio di Wilson (1972), ad esempio, ha documentato l’impatto fondamentale di un sistema scolastico aperto sullo sviluppo del pensiero divergente, mentre quello di Ramney e Pipe (1974) ha portato a risultati opposti. Da tutto questo dibattito sono scaturiti una serie di programmi applicativi: migliorando il clima scolastico, si pensava di poter sviluppare la creatività. L’influenza di un buon clima sull’apprendimento è stata sostenuta anche da Rogers (1969): la non direttività del rapporto didattico sembrava avere un’effettiva incidenza sull’evoluzione del potenziale creativo. Infine molte ricerche hanno documentato come la mancanza di autoritarismo e l’instaurazione di un clima educativo permissivo favorissero le manifestazioni creative del bambino. In particolare la ricerca di Getzels e Jackson (1962) esaminò due famiglie: una rappresentava il tipo convergente, l’altra quello divergente. Gli autori hanno così potuto individuare stili educativi che sembrano più efficaci di altri nel favorire la creatività dei bambini.
Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta le ricerche sociologiche sulla creatività si muovono lungo due filoni principali: da una parte si studiano i contesti sociali della creatività (De Masi, 1989), il modo in cui gli attori sociali si rapportano con questo termine nelle pratiche della loro quotidianità (ad esempio, il concetto di “creativi culturali” elaborato da Paul Ray) e della loro vita professionale (Melucci, 1994); dall’altra si tende a declinare questa nozione all’interno di una teoria dell’azione (Joas, 1990), analizzando il rapporto tra esistenza e mondo simbolico (Crespi, 1978), tra immaginario e mitologia (Eliade, 1985).
Rispetto alle impostazioni precedenti l’approccio sociologico comporta alcuni mutamenti radicali: la creatività cessa di essere analizzata come sindrome più o meno positiva, per essere declinata all’interno dei contesti sociali che la rendono possibile Lo studio di De Masi (1989) sui gruppi creativi in Europa dal 1850 al 1950 analizza tredici esperienze di creatività collettiva, offrendo una ricostruzione storica delle condizioni sociali e culturali che le hanno caratterizzate. La ricerca di Melucci (1994) considera la creatività prendendo in considerazione tre differenti dimensioni: «La creatività viene analizzata, oltre che nelle teorie e nei modelli circolanti [...], attraverso i soggetti a cui viene attribuita [...], nei discorsi che la caratterizzano [...] e nei contesti che la rendono possibile». Una delle questioni centrali affrontate concerne la creatività come prodotto e discorso culturale. Ci si interroga sui meccanismi sociali che presiedono alla costruzione sociale della creatività stessa. L’analisi verte su differenti campi di ricerca: dall’arte alla scienza, dalla pubblicità al teatro, dalle grandi organizzazioni ai movimenti sociali o all’adolescenza, definita come fase della vita in cui si crea e ricrea il senso del mondo. A seconda dell’ambito considerato i modi della creatività si rivelano molto diversi: ad esempio, mentre fra gli artisti il termine creatività è usato con un certo disagio, invece fra i pubblicitari si ricorre ampliamente alle metafore della creatività per descrivere la propria condizione professionale. Rispetto alle impostazioni precedenti l’approccio sociologico comporta alcuni mutamenti radicali: la creatività cessa di essere analizzata come sindrome più o meno positiva, per essere declinata
all’interno dei contesti sociali che la rendono possibile. Il focus dell’analisi prende in considerazione nuovi livelli analitici: come quello delle pratiche discorsive con cui l’etichetta di creativo si attribuisce in un dato contesto sociale. Contributi interessanti all’analisi di questa nozione provengono anche da quelle riflessioni che coniugano il tema della creatività a quello della teoria dell’azione. Hans Joas (1990) utilizza il concetto di creatività per fondare una teoria dell’azione sociale, partendo dalla duplice rielaborazione della nozione weberiana di carisma e della nozione marxiana di azione rivoluzionaria. Nel caso del carisma, Joas sottolinea come la creatività sia definita un attributo permanente di determinate personalità, più che di determinate azioni. Il carisma infatti è concepito come prerogativa esclusiva, segno distintivo del soggetto. In tal senso il leader carismatico costituisce l’equivalente in ambito politico di ciò che il genio rappresenta in ambito scientifico e artistico. Rivisitando il concetto marxiano di azione, Joas sottolinea come Marx applichi l’idea di azione selfespressiva al concetto di lavoro. L’alienazione è il processo attraverso cui ciò che materialmente produciamo, una volta estraniato, si contrappone a noi come potenza esterna, ostile e non più controllabile. L’attore sociale percepisce il prodotto del proprio lavoro come dotato di una capacità di coercizione rispetto a sè. In Marx quindi la creatività non sarebbe un attributo dell’azione umana in generale, ma soltanto dell’azione rivoluzionaria, in cui la sintesi creativa produce una nuova società (Joas, 1990). Il contributo di Joas è di particolare interesse, in quanto apre la strada alla rivisitazione del pensiero dei classici della sociologia attraverso una nozione così relativamente recente come quella di creatività.
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Si può educare alla creatività? L’importanza del fattore creativo nei processi formativi di Gilberto Scaramuzzo
Gilberto Scaramuzzo
Cos’è educare e cos’è creatività? A volte le domande più semplici se affrontate con serietà consentono di intravedere scenari insospettati. Se riportiamo educare al suo significato più pieno e essenziale, possiamo dirlo come: allevare, nutrire, far crescere (quello che per i
Greci antichi era paideuo). Questa prima precisazione comporta già, se relata al titolo, il riconoscimento della creatività come qualcosa che preesiste all’azione educativa. Pensare la creatività, infatti, come qualcosa che possa (o non possa) essere allevato, nutrito e fatto crescere implica il riconoscere la creatività stessa non come un qualcosa che vada immesso in un soggetto che ne è privo e forse bisognoso; ma, bensì, come qualcosa che ha una sua propria vita prima dell’intervento educativo e che dobbiamo valutare se (e eventualmente come) debba essere alimentato per consentirne uno sviluppo pieno.
Onde nullo dipintore potrebbe porre alcuna figura, se intenzionalmente non si facesse prima tale quale la figura esser dee. L’artista dunque, secondando Dante, produce la sua opera facendo, primamente e intenzionalmente, se stesso come dovrà poi essere l’opera che egli crea. Chi crea offre, in qualche modo, sé per un farsi come; e il risultato dell’atto creativo è qualcosa (non importa se quadro, scultura, poesia…) a immagine e somiglianza di questo farsi. L’atto creativo sembra dunque richiedere un movimento radicale: essere quello che si deve esprimere; e il compimento intenzionale di questo atto. Sulla volontarietà dell’atto creativo e sul carattere di questo farsi, che deve prodursi intimamente nel soggetto, scrive una nota densa e ispirata Luigi Pirandello:
L’atto creativo sembra dunque richiedere un movimento radicale: essere quello che si deve esprimere; e il compimento intenzionale di questo atto Si può dire in modo semplice, essenziale, cos’è questo qualcosa che forse necessita (ma forse no) di un nutrimento e a cui diamo il nome di creatività? Io credo si possa dirlo in modo estremamente semplice, e per cimentarmi prenderei a esaminare brevemente un atto che è facile riconoscere come creativo. Si tratta di un atto eccellente dell’agire umano e, seppure sotto il termine creatività possono essere ricondotti atti assai meno eccellenti di questo, ritengo che indagare in questo luogo ci possa consentire di disvelare al meglio il senso da dare a “creatività”: l’atto dell’artista che fa la sua opera (non importa se una poesia, una danza, una scultura…). Per farlo chiederò immediatamente aiuto a chi ha avuto la ventura di abitare questo luogo. Dante nel Convivio (tr. IV, par. X) ci svela in maniera essenziale come l’artista procede per produrre la sua opera: Poi chi pinge figura, se non può esser lei non la può porre.
«Poi chi pinge figura, se non può esser lei non la può porre. / Onde nullo dipintore potrebbe porre alcuna figura, / se intenzionalmente non si facesse prima tale quale la figura esser dee» Dante Alighieri, Convivio (tr. IV, par. X)
Io non posso negare il cane come oggetto, anche ammettendo che esso esiste in me solamente in quanto io ne ho conoscenza; oggetto rimarrà sempre, se non più fisico, spirituale, oggetto ch’io contemplo in me, ma che non creo: non posso crearlo perché io non lo ho voluto ed esso medesimo ancora non si vuole in me [...]. Quando diventerà creazione? quand’io cesserò di contemplarlo quale un oggetto in me, quando esso comincerà a volersi in me, qual’io per se stesso lo voglio. Credo che se anche basassimo la nostra riflessione soltanto su questi due brevi passaggi noi pedagogisti avremmo ricevuto delle indicazioni essenziali per prospettare una strada non scontata per l’educazione alla creatività; e forse, a ben guardare, per qualcosa di ancor più vasto. Da queste indicazioni esperte potremmo, infatti, immediatamente ricavare che educare alla creatività potrebbe semplicemente consistere nell’alimentare la capacità di essere quel che si vuole (deve?) esprimere, e di esprimere quel che si è; di farsi così vasti da consentire all’altro di volersi in noi quale noi per se stesso lo vogliamo. Una convivenza di adulti che abbiano guadagnato, in forza di una azione educativa qualificata, un’eccellenza in queste capacità ci lascia immaginare un mondo in cui ciascuno fa sé a immagine e somiglianza di quello che dice, e in cui ciascuno si fa capace di dire quello che egli è; e, inoltre, un mondo in cui ciascuno vuole in sé l’altro come l’altro per se stesso si vuole: una convivenza che offre sicure prospettive alla felicità umana, una convivenza affatto diversa da quella in cui viviamo ora. Educare seriamente alla creatività, potrebbe davvero produrre simili risultati per la convivenza umana?
Una convivenza di adulti che abbiano guadagnato, in forza di una azione educativa qualificata, un’eccellenza nelle proprie capacità creative ci lascia immaginare un mondo in cui ciascuno fa sé a immagine e somiglianza di quello che dice, e in cui ciascuno si fa capace di dire quello che egli è, un mondo in cui ciascuno vuole in sé l’altro come l’altro per se stesso si vuole: una convivenza del tutto diversa da quella in cui viviamo ora e che offre sicure prospettive alla felicità umana Possiamo ora tener fede alle righe con cui abbiamo principiato e dedicarci al verificare se nel soggetto umano preesista all’azione educativa: una capacità di essere quel che si esprime e di esprimere quel che si è; una capacità di consentire all’altro di volersi in noi quale noi per se stesso lo vogliamo.
« […] Quando diventerà creazione? quand’io cesserò di contemplarlo quale un oggetto in me, quando esso comincerà a volersi in me, qual’io per se stesso lo voglio» Luigi Pirandello, Per le ragioni estetiche della parola
Queste capacità potrebbero infatti appartenere soltanto all’artista, e quindi rendere radicalmente vana ogni azione educativa rivolta a soggetti ontologicamente non in possesso di queste capacità. Soltanto appurata un’evidenza relativamente a queste capacità ci si potrà infatti interrogare se questa necessiti di essere alimentata, e, finalmente, accennare al come farlo.
Troppo spesso l’azione educativa è costruita per ostacolare la creatività umana e con essa una convivenza fondata sull’empatia e sull’ascolto profondo dei bisogni dell’altro Questi movimenti, che ci sono stati mostrati da Dante e Pirandello quali verità del creare, li possiamo facilmente riconoscere in qualunque cucciolo dell’uomo ovunque nel mondo questi si trovi a nascere e a crescere. Essi sono chiaramente apprezzabili in quel gioco che tutti abbiamo fatto da bambini, e che possiamo ritrovare osservando la ludicità spontanea del bambino. Li ritroviamo, infatti, ben evidenti in quel giocare, che assume le forme più diverse, in cui il bambino, chiamando in causa tutte le fibre del proprio essere, fa come se fosse la mamma, l’insegnante, un animale, oppure un elemento della natura (per esempio il vento, o anche le onde del mare), o anche un personaggio fantastico o, addirittura, fantasticato.
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La mimo Vittoria Albini mentre interpreta le parole di una poesia, Libreria Arion, Roma
Non è difficile verificare, ma anche soltanto ricordare, quanto in quel gioco ci sia una stretta corrispondenza fra quel che il bambino esprime e quel che questi in quel momento è, fin nelle fibre più intime del proprio essere; e come in quel giocare a essere l’altro da noi, questo altro si voglia in noi e quasi ci costringa a volerlo in noi con quelle caratteristiche che appartengono ad esso e che noi ci ritroviamo a volere per noi. Per rendere evidente quanto affermato è sufficiente porsi seriamente la domanda: quanto un bambino che giochi a fare come se fosse (per esempio) un uccello è padrone di decidere i suoi movimenti; e quanto invece i suoi movimenti sono decisi dalle caratteristiche proprie dell’uccello, che quasi impone al bambino una certa qualità di movimento? Non è questa la sede per entrare in profondità in questo dinamismo, ma non è difficile riscontrare come l’altro che si sta esprimendo voglia, in qualche modo, il movimento voluto dal soggetto. I dinamismi che Dante e Pirandello ci hanno mostrato come propri dell’atto creativo sono dunque natu-
ralmente presenti nel soggetto umano, e in vivace attività prima dell’entrata del bambino nel percorso educativo che lo porterà a essere adulto nell’Occidente del mondo (percorso che inizia intorno ai cinque-sei anni). Non è difficile notare, però, come tanta azione educativa sia costruita proprio per avversare questi dinamismi. E lo sia al punto che non mi sembra esagerato affermare che essa sia proprio costruita per ostacolare la creatività umana e con essa una convivenza fondata sull’empatia e sull’ascolto profondo dei bisogni dell’altro. Azzardo dunque, finalmente, la risposta alla domanda che è posta nel titolo. Questa suona come un sì, forte e chiaro. Sì può educare alla creatività. Anzi si deve. Per raggiungere la padronanza dell’intenzionalità dell’atto che fa adulto il movimento spontaneo del bambino. Ma quest’azione educativa richiede serietà e impegno, e il coraggio di volere alimentare la natura umana per donare pienezza a quell’esprimere che genera, in tutti e in ciascuno, la più intima felicità.
Genio e creatività Enrico Fermi e i ragazzi di via Panisperna di Roberto Mignani Il poeta e il fisico Come il poeta è stato l’eroe romantico per eccellenza del XIX secolo, così il fisico lo è stato per il XX appena terminato. Alla base di questa analogia, sta la constatazione di Schopenhauer e Nietschze che il poeta è separato, se non distinto, dall’umanità, sebbene immerRoberto Mignani so in essa. Similmente, i fisici, la cui attenzione è rivolta alle cose di natura (e alla natura delle cose), e non alle persone, sono ab origine intellettualmente separati dall’umano consorzio, pur facendone parte. Ciò si riflette nella rappresentazione del fisico nell’immaginario popolare del XX secolo (non a caso per molti aspetti personificata da Einstein): una persona distratta, avulsa dagli affari contingenti di questo mondo, persa nei suoi ragionamenti matematici, mirante ad attingere la verità eterna, la comprensione del mondo e delle sue trame. O nelle forme dell’apprendista stregone, dell’evocatore di «dèmoni e meraviglie, vento e maree...», del «distruttore di mondi», perché, novello Prospero, ha «per primo suscitato la tempesta» e «oscurato / il sole del meriggio».
Come il poeta è stato l’eroe romantico per eccellenza del XIX secolo, così il fisico lo è stato per il XX Di fatto, come spesso accade, l’apparenza non è la sostanza, e le caratteristiche superficiali non esauriscono l’essenza di una cosa. Così, l’immaginario popolare ha colto solo alcune caratteristiche – le più vistose, ma, proprio per questo, le più ingannevoli – sia dei poeti che dei fisici. Il poeta non è una persona di nobili sentimenti, che sospira alla pallida luna, ma è anzitutto e soprattutto un creatore e manipolatore di linguaggio, che si sforza di andare oltre il senso comune delle parole, esprimendo l’inesprimibile. Potrà poi anche rivolgersi alla luna, come Leopardi; ma l’importante è come le si rivolge. La vera e profonda somiglianza tra il fisico e il poeta non sta quindi nella loro (più o meno reale) separatezza dal mondo, quanto nel fatto che entrambi sperimentano alla ricerca di un senso superiore che risiede oltre il velario
mutevole e ingannevole delle apparenze e dei segni, del comune sentire e significare.
Il fisico costituisce un’insolita miscela di audacia e prudenza, rivoluzione e conservazione, fiducia e diffidenza, in bilico tra ortodossia ed eresia Ma chi sono allora i fisici, al di là della loro immagine? Per rispondere, bisogna capire che cos’è la fisica. Essa ricopre, tra le scienze, un ruolo di primissimo piano, e addirittura unico per certi versi. Ciò è dovuto essenzialmente alla profonda interconnessione esistente in fisica tra esperimento e teoria, fra i quali esiste, in un certo senso, una circolarità di relazione: gli esperimenti sono necessari per costruire la teoria; d’altro canto un modello teorico, una volta formulato, è in grado di predire l’esistenza di nuovi fenomeni, suscettibili a loro volta di verifica sperimentale. Questo modo di procedere è tipico della scienza moderna, ed è stato per la prima volta codificato da Galilei. Egli fu infatti il primo a porre su basi quantitative, fondate sul processo di misura tramite opportuni strumenti, quella che prima era un’osservazione essenzialmente qualitativa (e in larga parte passiva) della natura (la quale appunto, secondo Galilei, non va «ascoltata», ma «interrogata»), e ad affermare la necessità di una spiegazione dei fenomeni in termini matematici (« ... le sensate esperienze debbono precedere l’umano discorso... »; « ... l’universo... è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola... »). La fisica rappresenta quindi un paradigma scientifico ideale, cui ogni altra scienza deve cercare di avvicinarsi, adeguandosi alle regole dettate dal metodo galileiano. Non si ha scienza, laddove non si ha possibilità di verifica sperimentale e di ripetibilità di un esperimento. Non si ha fisica, se alla fine il risultato di un esperimento non può essere espresso in linguaggio matematico, nel contesto di una formulazione teorica più o meno vasta e comprensiva. Non si deve tuttavia pensare che la conoscenza fisica proceda per sentieri rigidamente codificati, al contrario, spesso il fisico procede per «aperçus», le sue scoperte sono «scherzi», così che egli rischia di apparire, agli occhi di un ferreo epistemologo – ossequiente ai rigidi dettami di un sistema scientifico regolato a priori – «come una specie di opportunista senza scrupoli», in quanto « ... le condizioni ester-
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Enrico Fermi in laboratorio, Università di Chicago, 1942
ne..., date dai fatti dell’esperienza, non gli permettono di accettare condizioni troppo restrittive, nella costruzione del suo mondo concettuale». Alla luce delle considerazioni precedenti, quali sono le doti umane di cui un fisico ideale dovrebbe essere provvisto? Egli costituisce un’insolita miscela di audacia e prudenza, rivoluzione e conservazione, fiducia e diffidenza, in bilico tra ortodossia ed eresia. Da un lato, deve possedere curiosità intellettuale, desiderio di nuove scoperte, spirito di innovazione, capacità di vedere oltre l’apparenza delle cose. Dall’altro, non deve lasciarsi trasportare da eccessiva passione per ciò che lui stesso o altri hanno scoperto, mantenendo un certo distacco e esercitando un profondo spirito critico nei confronti di ogni nuovo risultato. Alla fine, sussiste tra i fisici un principio di reciproca sfiducia, che si può sintetizzare così: «Non credo che tu abbia davvero fatto una cosa fino a quando non l’ho fatta anch’io». Ecco da cosa deriva il difficile equilibrio che il fisico deve sforzarsi di mantenere: mancare di audacia nelle ipotesi può renderlo cieco dinanzi a un fatto nuovo, a una scoperta ma averne troppa può significare giocarsi la reputazione, e veder quindi sminuita la propria credibilità di fronte alla comunità scientifica. Enrico Fermi: la creatività in essere Enrico Fermi è stato un buon esempio di questo atteggiamento intrinsecamente conflittuale del fisico: intento a tenere ben imbrigliata l’intuizione scientifica per paura che essa lo portasse a conclusioni avventate, anche se vere, tuttavia, di fronte a fatti sperimentali nuovi e inoppugnabili, era un fulmine di matematica nel percorrere la nuova via aperta dall’esperimento per giungere fino alle estreme conseguenze. Di fatto, egli rimane un esempio unico (e probabilmente inimitabile) di fisico moderno che sia riuscito a dare contributi di altissimo livello sia nel campo della fisica sperimentale che in quello della fisica teorica. La sua attività ha spaziato nei più disparati campi della fisica. Dalla relatività generale (trasporto di Fermi-Walker) alla meccanica statistica (statistica di Fermi-Dirac, da cui il nome di fermioni dato alle particelle a spin semintero); dalla fisica nucleare (per cui ottenne il Nobel nel 1938) alla fisica delle particelle (con la teoria del decadimento beta). E fu il primo a realizzare a Chicago, nel 1942, la prima reazione nucleare controllata (la pila atomica). Così Arthur Compton, dell’Università di Chicago, comunicò tele-
fonicamente la notizia a J. B. Conant a Harvard: «Il navigatore italiano è sbarcato nel Nuovo Mondo» «Come si sono comportati gli indigeni?» «Molto amichevolmente». Sette anni dopo, il 16 marzo 1946, sempre a Chicago, venne conferita allo scienziato italiano la medaglia al merito del Congresso degli Stati Uniti, con la seguente motivazione: «Al dott. Enrico Fermi per la condotta eccezionalmente meritoria nell’assolvimento di importanti servigi al Dipartimento della Guerra, in attività che richiedevano grande responsabilità e valore scientifico in relazione allo sviluppo della maggior arma militare di ogni tempo, la bomba atomica. (…) Grande fisico sperimentale, il suo sicuro discernimento scientifico, la sua iniziativa, le sue risorse, e il fermo attaccamento al dovere hanno apportato un contributo vitale al successo del progetto della bomba atomica». Lewis L. Strass, Presidente della Commissione dell’Energia Atomica americana, nel celebrare la memoria di Fermi nel 1955 un anno dopo la sua morte, ebbe a dire: «Quest’uomo, vissuto per 15 anni tra noi con profonda modestia, è stato il vero architetto dell’era atomica. Il Navigatore italiano Fermi, come Colombo, ha scoperto un nuovo continente, più ancora un Nuovo Mondo. A noi non resta che porre le mani su questa terra da lui scoperta a beneficio dell’umanità».
Negli anni Trenta presso il Regio istituto fisico dell’Università di Roma, ospitato in un palazzo ottocentesco in via Panisperna, si costituì sotto la direzione di Orso Mario Corbino, un gruppo di ricerca di assoluta levatura: i “ragazzi di via Panisperna”: Enrico Fermi, Franco Rasetti, Emilio Segré, Edoardo Amaldi e, ultimi, Ettore Majorana, Bruno Pontecorvo e il chimico Oscar D’Agostino Gli esperimenti di via Panisperna Negli anni Trenta il Regio istituto fisico dell’Università di Roma era ospitato in un palazzo ottocentesco in via Panisperna (ora sede del Centro di ricerche e museo Enrico Fermi). Direttore dell’Istituto era Orso Mario Corbino, cui va riconosciuto l’indiscusso merito di aver compreso il valore del giovane Fermi (per il quale fece istituire la prima cattedra di fisica teorica in Italia), e di consentire la creazione di un gruppo di ricerca di assoluta levatura, i “ragazzi di via Panisperna”: oltre Fermi, il maestro, Franco Rasetti, Emilio Segré, Edoardo Amaldi e, ultimi, Ettore Majorana e Bruno Pontecorvo. Del gruppo faceva inoltre parte il chimico Oscar D’Agostino. Gli studi del gruppo si indirizzarono sul problema della radioattività indotta dai neutroni. Il materiale radioattivo era fornito da Giulio Cesare Trabacchi, direttore del Laboratorio di fisica dell’Istituto superiore di sanità.
Gli esperimenti venivano condotti in modo sistematico, a partire dagli elementi più leggeri. Le cose all’inizio filarono abbastanza lisce. Ma quando si arrivò all’argento, si verificarono fatti inspiegabili. Venne scelta la radioattività dell’argento come punto di riferimento, e fu affidato ad Amaldi e a Pontecorvo il compito di eseguire le misure sperimentali per determinare una scala di radioattività. Ma essi si trovarono presto di fronte a difficoltà incomprensibili. Non riuscivano a ottenere risultati riproducibili a parità di condizioni: ogni volta era una sorpresa e un risultato diverso, come se l’argento si comportasse a suo piacimento. La radioattività variava da giorno a giorno, e dipendeva persino dal tavolo su cui si effettuava l’esperimento.
sora Cesarina a che ora fosse solita lasciar lì quei secchi. A questo punto, per decisione di Fermi, vi fu l’esperimento nella vasca dei pesci rossi. In una tiepida giornata di sole, i tecnici portarono i rivelatori di radiazione giù dal primo piano e assistettero alle varie fasi dell’esperimento. Erano stati quindi i secchi della sora Cesarina a suggerire l’esperimento della vasca, e il conseguente rallentamento dei neutroni da parte dell’acqua! Esiste un ulteriore, importante elemento: la sora Cesarina aveva lasciato nel laboratorio, oltre ai secchi con l’acqua, anche la paraffina, con la quale all’epoca si lustravano i pavimenti. Negli anni Trenta, la paraffina usata a tale scopo era confezionata in blocchetti, che venivano strusciati sui pavimenti per luciI secchi della sora Cesarina darli dopo averli lavati. A questo punto, sotto il tavoFermi grazie al suo sorprendente intuito fisico avanzò lo del laboratorio si trovavano due possibili indiziati: l’ipotesi che l’effetto fosse dovuto al rallentamento l’acqua e la paraffina. Fu naturale prendere in considei neutroni da parte di oggetti presenti nel laboratoderazione l’acqua, giacché vi si trovava in maggiore rio di Rasetti, dove gli esperimenti venivano effettuaquantità. Ma restava aperto un interrogativo: poiché ti. Fece quindi sgomberare il laboratorio da tutti gli l’acqua è composta d’idrogeno e ossigeno, dagli urti oggetti superflui, ma il comportamento anomalo concon quale di questi due elementi venivano rallentati i tinuava. Ugherio Marani era il portiere del Regio Istineutroni? È certo che questo problema non sfuggì altuto Fisico e sua moglie, la signora («sora», in dialetla mente inquisitrice di Fermi. La paraffina è compoto romanesco) Cesarina, aveva il compito di pulire i sta d’idrogeno e carbonio; l’unico elemento chimico locali dell’Istituto. Un giorno di quell’ottobre del in comune con l’acqua è l’idrogeno; quindi, se la pa1934 il Marani raccontò ai tecnici che sua moglie era raffina avesse dato il medesimo risultato dell’acqua, stata aspramente rimproverata dal Cavalier Zanchi la risposta non poteva che essere una sola: erano gli (economo e custode dell’Istituto) per aver violato un urti con l’idrogeno a rallentare i neutroni. Ecco spiesuo preciso ordine e aver bagnato un corridoio. Era gato il perché della ripetizione dell’esperimento con stato fatto tassativo divieto alla Cesarina di riempire la paraffina. alle fontane dei piani i secchi d’acqua per pulire i paI ragazzi di via Panisperna non si resero conto di avevimenti. Ella doveva a tale scopo servirsi esclusivare ottenuto, per la prima volta nella storia, la fissione mente del lavandino del pianterreno, e portare poi i nucleare, cioè di avere spezzato il nucleo dell’atomo secchi pieni d’acqua su per le scale, senza usufruire (come disse Segrè «Dio per i suoi imperscrutabili di(per evitare di bagnarlo) dell’ascensore, che veniva segni ci rese tutti ciechi di fronte al fenomeno della usato dal senatore Corbino per recarsi all’ultimo piafissione nucleare»). Fermi più tardi rimediò a questa no, dove abitava. La sora Cesarina, avanti negli anni sua momentanea cecità, con la realizzazione della pie non più in forze, escogitò lo stratagemma di riempila atomica, e con il suo fondamentale contributo alla re i secchi in uno dei laboratori, quello di Rasetti, e di costruzione della bomba atomica. Majorana scomparnasconderli ve, Pontecorvo sotto un tavolo si trasferì in dotato di tenRussia. Rasetti, dine azzurre passato in Cache ne coprinada, quando si vano le gambe rese conto di e quindi occulquello che avetavano i secvano fatto, rinchi. Il tavolo negò la fisica, e era quello usasi dedicò a due to da Pontecorsue vecchie vo per le sue passioni, la pamisure. Qualleontologia e la cuno si accorbotanica, e dise un giorno venne uno specialista indidei secchi con scusso in enl’acqua, forse trambe le discilo stesso Ferpline. Ma quemi. Amaldi e Rasetti chiese- “I ragazzi di via Panisperna”. Da sinistra: Oscar D’Agostino, Emilio Segrè, Edoardo Amaldi, sta è un’altra storia. ro quindi alla Franco Rasetti ed Enrico Fermi, in uno scatto del 1934
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Creativi culturali per un mondo migliore I sorprendenti risultati di ricerche sociologiche internazionali sulla cultura olistica emergente di Enrico Cheli Sempre più persone si preoccupano oggi per le sorti dell’umanità e dell’ecosistema e auspicano una società più giusta e pacifica, un’economia più etica, uno sviluppo ecosostenibile, una democrazia più partecipata. Molte di esse si impegnano in prima persona, o seguendo la via dell’attivismo politico, o assuEnrico Cheli mendo stili di vita coerenti con i valori della pace, dei diritti umani, del rispetto dell’ambiente, della qualità della vita, delle relazioni costruttive, della consapevolezza e crescita personale. Sono i creativi culturali, cioè i “creatori attivi di una nuova cultura”. Coniata negli anni Novanta dal sociologo americano Paul Ray, questa etichetta descrive tutti coloro che manifestano un deciso atteggiamento critico nei confronti della cultura dominante – contrassegnata da materialismo, tecnocrazia, sviluppo economico illimitato, sfruttamento indiscriminato della natura, logica del profitto ad ogni costo etc. – e che ricercano e promuovono nuovi valori e nuove visioni del mondo volti a orientare in direzioni più sane, pacifiche ed ecosostenibili i rapporti con se stessi, con gli altri e con il pianeta. Ma quanti sono, in Italia e nel mondo, i creativi culturali? Si tratta di esigue minoranze o di parti rilevanti della popolazione?
Creativi culturali: un’etichetta coniata negli anni Novanta dal sociologo americano Paul Ray per descrivere tutti coloro che manifestano un deciso atteggiamento critico nei confronti della cultura dominante Le prime due ricerche nazionali svolte da Ray nella seconda metà degli anni Novanta indicavano che i creativi culturali erano tra il 23% e il 26% degli americani adulti, contraddicendo l’opinione diffusa tra i politici e gli studiosi che si trattasse solo di gruppuscoli minoritari. Tali dati riguardavano però solo gli USA, e così, su iniziativa del Club of Budapest e con il coordinamento scientifico di chi scrive,
sono state condotte, tra il 2005 e il 2008, analoghe ricerche anche in Italia, Francia, Germania, Ungheria e Giappone ed è stata altresì effettuata una terza ricerca negli USA. Grazie a ciò è emerso che questo fenomeno non è confinato alla realtà statunitense, ma si estende anche ad altri paesi, almeno quelli del cosiddetto “primo mondo”, rivelando uno scenario incoraggiante per tutti coloro che hanno a cuore l’evoluzione del genere umano e le sorti del pianeta. Illustrate in anteprima mondiale nel libro di Enrico Cheli e Nitamo Montecucco I Creativi Culturali. Persone nuove e nuove idee per un mondo migliore (Xenia edizioni, 2009), tali ricerche rivelano che gli individui sensibili ai suddetti valori oscillano tra il 60% e l’85% dell’intera popolazione adulta. Inoltre una parte consistente di essi mostra particolare coerenza e impegno, cercando di applicare tali valori nella propria vita quotidiana. Sono questi ultimi appunto che vengono definiti creativi culturali, la cui incidenza sulla intera popolazione adulta oscilla da un minimo del 30% (Giappone) fino a un massimo del 38% (Francia), con Italia e USA inaspettatamente allo stesso livello (35%).
Questa avanguardia culturale presenta alcuni aspetti comuni quali: sensibilità ecologica, attenzione alla pace e alla qualità delle relazioni interpersonali, interesse verso la crescita personale e/o spirituale, disinteresse per l’esibizione della posizione sociale, parità di diritti tra maschi e femmine, fiducia nella possibilità di una evoluzione positiva dell’individuo e della collettività Pur essendo costituita da individui e gruppi sociali diversificati, questa avanguardia culturale presenta alcuni aspetti comuni quali: sensibilità ecologica; attenzione alla pace e alla qualità delle relazioni interpersonali; interesse verso la crescita personale e/o spirituale; disinteresse per l’esibizione della posizione sociale; parità di diritti tra maschi e femmine; fiducia nella possibilità di una evoluzione positiva dell’individuo e della collettività. Inoltre, i creativi culturali hanno la tendenza a prendere le distanze dall’edonismo, dal materialismo, dal cinismo mentre danno molto peso ai valori della autenticità e della integrità. Per questa ragione, molti disdegnano la cultura del business, i media, il consumismo.
Essi sono inoltre disincantati dall’idea di “avere più cose”, mentre mettono una grande enfasi nell’avere “nuove ed uniche esperienze” e rappresentano il mercato centrale per le terapie e medicine alternative, i cibi naturali, la psicoterapia, i corsi e seminari di crescita personale, le nuove forme di spiritualità. Prediligono il consumo critico e si orientano all’acquisto e fruizione di prodotti culturali più che materiali, producendo in molti casi loro stessi cultura. Il merito forse più originale e importante delle indagini sui creativi culturali è di aver preso in esame in un unico progetto di ricerca valori e stili di vita finora studiati separatamente, considerandoli invece come aspetti diversi di un unico paradigma culturale emergente. Negli ultimi decenni vari ricercatori di diverse nazionalità hanno effettuato indagini su singoli settori e aspetti del mutamento culturale in atto – dal post-modernismo alla cultura della pace, dall’ambientalismo al consumo critico, dalle medicine e terapie alternative ai percorsi di crescita personale – ma nessuno di loro, che si sappia, ha mai studiato tutti questi settori contemporaneamente, come aspetti interconnessi di un unico macrofenomeno. I creativi culturali si definiscono tali proprio in quanto mostrano atteggiamenti comuni nei confronti di molti dei valori suddetti. Le loro visioni del mondo inoltre si caratterizzano per una comune matrice olistica (dal greco olos: «il tutto», «l’intero»). È ad esempio olistica la visione degli ecologisti e dei pacifisti secondo cui ciò che
Da sinistra: Ervin Laszlo, Paul Ray, Enrico Cheli, Nitamo Montecucco
avviene nelle diverse zone del pianeta – dalla deforestazione dell’Amazzonia allo scioglimento dei ghiacci polari, dalle guerre in Medio Oriente ai conflitti in Afghanistan – non è separato e isolato dal resto del pianeta ma può avere gravi ripercussioni anche in luoghi fisicamente lontani e su livelli anche molto diversi da quello di partenza. Analogamente, è olistico il concetto di «qualità della vita» in quanto considera la felicità non come mero prodotto dell’avere economico ma come risultante dell’equilibrio globale tra i diversi bisogni dell’essere umano. È altresì olistica la visione delle medicine alternative, che considerano l’essere umano come sistema interdipendente, in cui la salute corporea non è separata – né separabile – da quella mentale, emozionale, esistenziale e coscienziale (o, secondo alcuni, spirituale). Per i motivi suddetti i creativi culturali sono considerabili una forza potenzialmente unificante a livello politico e sociale; una forza che non solo rappresenta una quota importante della popolazione occidentale, ma che è anche in rapida crescita. Confrontando infatti i dati delle 3 ricerche condotte da Ray negli USA si nota che i creativi culturali sono passati dal 23.6% di americani adulti nel 1995, al 35% del 2008, con una percentuale annua media di crescita di circa il 3%. Nelle elezioni del 2008, il loro numero è stato sufficiente a fare la differenza per la vittoria del presidente Obama, che ha basato il suo programma elettorale su valori e questioni particolarmente vicine ai creativi culturali.
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Se l’obbiettivo comune dei creativi culturali è “cambiare la cultura per cambiare il mondo”, va detto che non tutti lo perseguono nello stesso modo: alcuni sono più orientati verso l’attivismo politico e i movimenti organizzati, come gli ecologisti e i pacifisti, mentre altri preferiscono un cammino di trasformazione interiore e/o spirituale, ritenendo che il cambiamento debba avvenire in primo luogo a livello individuale. Le ricerche svolte suggeriscono che le suddette posizioni non vanno considerate antagonistiche ma semmai complementari: per cambiare il mondo occorre sia un lavoro su piani collettivi, socioculturali e politici, sia un lavoro su piani più individuali, interiori e interpersonali.
I creativi culturali si sottostimano ampiamente, credendo di essere una esigua minoranza. Ciò dipende dal fatto che i media parlano di rado di temi, valori e proposte in cui essi si riconoscono Un altro punto che emerge dalle ricerche è che i creativi culturali si sottostimano ampiamente, credendo di essere una esigua minoranza. Ciò dipende soprattutto dal fatto che i media parlano assai di ra-
do dei temi, valori e proposte innovative in cui essi si riconoscono, preferendo trattare notizie in accordo con la cultura dominante e la politica tradizionale. In tal modo gli innovatori si convincono di essere pochi e marginali mentre invece non è affatto così. Fortunatamente, grazie alle ricerche qui presentate, è possibile oggi disporre di un quadro più veritiero della situazione, ribaltando molti luoghi comuni e dando una forte carica di speranza a tutti coloro che auspicano un mondo migliore. Leggere il libro più sopra citato ha aiutato molti creativi culturali che non sapevano
Negli Stati Uniti i creativi culturali sono passati dal 23.6% di americani adulti nel 1995, al 35% del 2008, con una percentuale annua media di crescita di circa il 3%. Nelle elezioni del 2008, il loro numero è stato sufficiente a fare la differenza per la vittoria del presidente Obama di esserlo, o che credevano di essere soli, a prendere coscienza della propria identità e numerosità comprendendo meglio il ruolo che possono svolgere per contribuire positivamente al mutamento epocale in corso.
Pace, ambiente, qualità della vita, crescita personale e spirituale interessano sempre più persone, ma quante esattamente? Quante sono preoccupate per il mutamento climatico, l’inquinamento, i conflitti, l’ingiustizia sociale e auspicano un'economia più etica, un modello di sviluppo ecosostenibile, uno stile di vita più sano e naturale, un cambiamento evolutivo dell’individuo e del pianeta? L’opinione finora prevalente era che si trattasse di gruppuscoli minoritari, ma recenti ricerche sociologiche svolte in Italia, America, Francia, Giappone, che questo libro presenta in anteprima mondiale con un linguaggio comprensibile a tutti, rivelano sorprendentemente che tra il 60% e l’85% della popolazione è sensibile ai suddetti valori e oltre il 35% lo è in modo particolarmente coerente: sono i Creativi Culturali, cioè i “creatori attivi di una nuova cultura”. Essi prendono le distanze da materialismo, consumismo, ostentazione della posizione sociale, cultura del business e dei media e danno invece molto peso ad etica, autenticità, rispetto per gli altri e per la natura. Prediligono il consumo critico e sono interessati a medicine alternative e terapie olistiche, alimenti biologici, cosmetici e farmaci naturali, psicoterapia e counseling, corsi e seminari di crescita personale, nuove forme di spiritualità. I creativi culturali sono dunque l’avanguardia di un possibile cambiamento epocale e questo libro ne illustra dimensioni, protagonisti, caratteristiche e prospettive. (da www.enricocheli.com) Enrico Cheli, Nitamo Montecucco, I creativi culturali. Persone nuove e nuove idee per un mondo nuovo, Milano, Xenia Edizioni, 2009
Cinema e diversità culturale Il XVII convegno internazionale di studi cinematografici promosso dal Di.Co.Spe. di Marco Maria Gazzano
Dal 28 al 30 novembre 2011, al Teatro Palladium dell’Università Roma Tre si è tenuto il XVII convegno internazionale di studi cinematografici dedicato al tema “Cinema & Diversità Culturale”. Diretto scientificamente da Giorgio De Vincenti e Marco Maria Gazzano, Marco Maria Gazzano è stato organizzato dal Dipartimento Comunicazione e spettacolo di Roma Tre. Come quello del 2008 (“Cinema & Politica: media, democrazia e territorio nell’era della globalizzazione”) e del 2009 (“Cinema italiano & Culture europee”) ha avuto l’adesione del Capo dello Stato e l’onorificenza di una medaglia attribuita all’iniziativa dal Presidente della Repubblica. L’iniziativa del 2011 ha idealmente concluso una “trilogia” che ha inteso dare il suo contributo a un dibattito il quale – insieme con quello sulle fonti d’energia, sul cambio climatico e sullo sviluppo sostenibile – sarà nel prossimo futuro sempre più al centro delle dinamiche politiche e sociali del pianeta. La storia stessa del concetto di “diversità culturale” mostra la sua pregnanza umana e sociale. Nata come “eccezione” relativa alle produzioni artistiche nazio-
nali nel mercato internazionale, la “diversità” culturale ha vissuto un iter di trasformazioni significative, che ha portato dapprima ad ampliare il concetto di cultura facendone un sinonimo del concetto di identità (a salvaguardia delle culture particolari dei nuovi stati indipendenti che si venivano a costituire negli
Negli ultimi dieci anni l'Unesco si è proposta di sollecitare politiche culturali volte a rafforzare la coesione sociale all'interno di società che sono per tradizione o sono diventate multiculturali e multietniche, e a proteggere le eredità culturali e la diversità di proprietà intellettuali e artistiche anni della guerra fredda e come resistenza all’effetto uniformatore delle tecnologie), quindi a coniugare il concetto di cultura con quello di sviluppo (che poneva la questione delle economie più deboli), e infine a stabilire un forte legame tra i concetti di cultura, democrazia e tolleranza (anche all’interno di ciascun singolo Paese), con uno sguardo attento ai problemi della coesistenza, resi oggi più vivi e complessi dalla
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cultura della globalizzazione (legame volto a focalizzare e risolvere le problematiche connesse con i temi dell’accoglienza e della coesistenza). Negli ultimi dieci anni l’Unesco si è proposta di sollecitare politiche culturali volte a rafforzare la coesione sociale all’interno di società che sono per tradizione, o sono diventate, multiculturali e multietniche, e a proteggere le eredità culturali e la diversità di proprietà intellettuali e artistiche (copyright). Nel 2001 (l’anno delle Twin Towers) gli stati membri hanno adottato la Dichiarazione universale della diversità culturale, in cui per la prima volta la diversità culturale è considerata “patrimonio comune dell’umanità”. L’art. 1 della Dichiarazione recita infatti tra l’altro: «Come fonte di scambio, innovazione e creatività, la diversità culturale è necessaria per l’umanità quanto la biodiversità per la natura. In questo senso, è il patrimonio comune dell’umanità e dovrebbe essere riconosciuta e affermata per il bene delle generazioni presenti e future». È iniziato così un percorso, la cui prima fase si è conclusa nel 2005, con la realizzazione delle singole Costituzioni nazionali della diversità culturale, e che prosegue oggi con la messa a punto di programmi adeguati al tema, in cui sono impegnati circa centocinquanta Paesi, tra i quali il nostro.
«Come fonte di scambio, innovazione e creatività, la diversità culturale è necessaria per l'umanità quanto la biodiversità per la natura. In questo senso, è il patrimonio comune dell'umanità e dovrebbe essere riconosciuta e affermata per il bene delle generazioni presenti e future». Così recita l’articolo 1 della Dichiarazione universale della diversità culturale Il convegno, attraverso relazioni, tavole rotonde, performance artistiche, proiezioni di film, video e altri materiali audiovisivi, ha messo a fuoco la dimensione nazionale e quella planetaria del tema della diversità culturale, senza tralasciare l’apporto che il nostro Paese, attraverso l’opera capillare degli enti locali e quella del governo e degli organismi nazionali sta dando alla crescita di una consapevolezza forte rispetto al tema e alle sue diverse, problematiche, declinazioni.
Anche in considerazione del fatto che proprio l’Italia, attraverso la sua Coalizione per la diversità culturale, che riunisce diverse importanti istituzioni, ha proposto all’ONU di aggiungere un 9° Millennium Goal, relativo proprio alla vitalità della cultura, agli altri otto già decisi dall’organismo mondiale e relativi ai temi della fame, della liberazione da certe malattie endemiche, delle pari opportunità. Nella consapevolezza che diversi degli altri otto obiettivi ONU del millennio trovano il terreno della propria realizzazione proprio nel quadro del riconoscimento del ruolo che in ciascuno Stato svolgono le tradizioni culturali, le identità e il dialogo tra queste tradizioni e identità a livello planetario. Cofinanziato dalla Regione Lazio e dal Ministero dei Beni e delle attività culturali il convegno “Cinema & Diversità Culturale”, oltre che di alto profilo scientifico, è stato un evento internazionale – e anche spettacolare – di incontro tra studiosi e artisti provenienti da quattro continenti (America, Europa, Africa e Asia). Un film presentato all’ultima Mostra internazionale del cinema di Venezia non distribuito in Italia (Hollywood Talkies, alla presenza degli autori Oskar Perez e Mia de Ribot), due spettacoli teatrali (Numa. Ovvero Roma non fu fatta in un giorno, sulle origini multiculturali di Roma fin dall’antichità, di e con Sista Bramini/O Thiasos Teatro Natura; Sueňa Quijano Universitalitas. Work in progress con vista su Roma Tre, di e con Carlo Quartucci e Carla Tatò, sulla necessità di una ininterrotta ricerca espressiva), due letture di poesia, un incontro con altrettanti poeti nordamericani (John Giorno e Lance Henson, esponenti del mosaico culturale che è alle origini degli Stati Uniti), una rassegna internazionale di videoarte alla quale hanno partecipato i maggiori artisti che nel passaggio etico e tecnologico contemporaneo si sono efficacemente confrontati con i nuovi linguaggi del cinema e della narrazione. Più che un convegno accademico, un autentico “palinsesto” nel quale “navigare”: un incontro interdisciplinare tra le arti e la comunicazione (cinema, teatro, videoarte, musica, nuovi media) che ha tracciato – dal cinema di Hong Kong a quello dell’Africa, da quello dell’America Latina a quello europeo alla cultura dei nativi americani – molti possibili “ponti” tra le culture e le genti. In nome di un concetto di “diversità” – culturale e non solo – e di “differenza”, capace di farsi consapevolezza della democrazia e della conoscenza reciproca:
contro tutte le tentazioni di pensiero, ed economia, unici. Un valore aggiunto per una cultura contemporanea. Tra le personalità che hanno partecipato: il giurista Stefano Rodotà, il compositore Luigi Cinque, il filosofo Giacomo Marramao, il presidente di Eutelsat Italia Giuliano Berretta, il dirigente di Slow Food Piero Sardo, il segretario generale di Eurovisioni Giacomo Mazzone, il direttore di Rai News 24 Corradino Mineo, il regista Ugo Gregoretti, l’architetto Renato Nicolini, l’economista Lucio Argano del Fe-
Più che un convegno accademico, un autentico “palinsesto” nel quale “navigare”: un incontro interdisciplinare tra le arti e la comunicazione (cinema, teatro, videoarte, musica, nuovi media) che ha tracciato molti possibili “ponti” tra le culture e le genti stival Internazionale del Cinema di Roma, gli specialisti in cinema e nuovi media latinoamericani Felipe Cesar Londono, Carlos Adolfo Escobar (Universidad de Caldas, Manizales, Colombia) e José Blanco (Universidad Santo Tomas, Santiago del Cile), i critici Alberto Pezzotta (Corriere della Sera), Antonella Gaeta (La Repubblica), Raffaele Barberio (direttore di Key4Biz), il giurista Carlo Alberto Graziani, l’avvocato Andrea Piqué, l’urbanista Massimo Sargolini, il segretario generale della Coalizione italiana per la diversità culturale Silvana Buzzo, il compositore
Nicola Sani, il fotografo Roberto Villa, il regista Antonello Faretta, le ricercatrici Alessandra Campoli, Elisa Giomi oltre, naturalmente, ai Colleghi e ai ricercatori, assegnisti e dottorandi del Di.Co.Spe.; gli artisti Mario Sasso, Theo Eshetu, Adriana Amodei, Robert Cahen, Olga Lucia Hurtado, Steven Partridge, Martino Nicoletti, Silvia Stucky, Francisco Cabanzo, Rosario Galli, Lino Strangis, Giacomo Verde, tra gli altri. Seguito da più di seicento persone dalle nove del mattino a mezzanotte e trasmesso in diretta videostreaming sul web, il convegno è stato un indubbio successo anche di critica nonché di riconoscimenti istituzionali, proponendo – ovviamente in una “narrazione aperta” – evocazioni e assonanze, contiguità sceniche e critiche tra cinema, televisione, rete, teatro, videoarte e musica precipitate di volta in volta dalle sessioni del convegno alle performance e agli spettacoli o alle videoinstallazioni e ritorno. Su un tema complesso quanto poco conosciuto in Italia quale quello della “diversità culturale” e delle sue molteplici linee di tensione. Una formula “convegnistica” sperimentata dal Di.Co.Spe. diretto da Giorgio De Vincenti fin dal 2002: un modello che conferma la sua efficacia a un tempo di laboratorio di ricerca scientifica e di spettacolarità visionaria, capace di porsi in una relazione forte anche con il territorio, la città, la regione, e non solo. Un percorso di ricerca e di confronto interdisciplinare, esaltato dall’apporto delle nuove tecnologie della comunicazione che troverà, alla fine del 2012, una ulteriore tappa nel XVIII convegno internazionale di studi cinematografici “Cinema & Rete”.
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La doppia stella di Leonardo Sinisgalli L’uomo che voleva «spiegare le macchine agli ingegneri e ai poeti» di Michela Monferrini Nel gennaio 2011 ricorreva un inosservato anniversario, quello della morte di Leonardo Sinisgalli: il poeta, l’ingegnere, l’art director, il pubblicitario, il direttore di Civiltà delle macchine. Al trentennale della sua morte non sono stati dedicati spazi giornalistici né iniziative di alcun genere, sebMichela Monferrini bene la presenza di Sinisgalli nel Novecento italiano fosse stata quella di una figura davvero unica. Partito da Montemurro in provincia di Potenza e giunto a Roma nel 1925 per studi di matematica e fisica, avrebbe potuto far parte del gruppo dei ragazzi di via Panisperna se non avesse conosciuto la poesia: eppure non si può dire che il giovane Leonardo avesse abbandonato del tutto una strada per seguirne un’altra. Questa doppia anima, questa stella scientifico-letteraria (la «stella forcuta» che appare nei cieli di tante sue liriche) continuò a brillare nel corso dell’intera sua carriera, tanto che qualcuno in anni più recenti ha ipotizzato persino che dietro al dimenticatoio (per usare il titolo di una sua raccolta poetica del 1978) in cui a un tratto cadde il suo nome, vi fosse proprio quel non essersi mai deciso a favore dell’uno o dell’altro settore, quella sua versatilità al servizio dell’arte come della scienza, quella difficoltà nel tentativo di catalogare le sue opere, di attaccargli – come sempre e con chiunque si cerca di fare – una comoda etichetta. Una serie di circostanze portarono un Sinisgalli già poeta (e poeta affermato che poteva vantare come suo primo critico addirittura Giuseppe Ungaretti) a lavorare per importanti aziende italiane (Olivetti, Alitalia, Pirelli, Bassetti, Eni, tra le altre); nella sua creatività venivano al- Leonardo Sinisgalli
lora a incontrarsi competenze da ingegnere laureato e passioni artistiche di vario genere (letterarie intanto, ma anche cinematografiche, pittoriche, architettoniche e grafiche in senso lato), e nascevano campagne pubblicitarie, nomi di prodotti, slogan e loghi, che avrebbero fatto la storia di quelle stesse aziende e che rendevano Sinisgalli una sorta di genio del marketing ante litteram. Parlando con sua moglie, Giorgia de Cousandier, Sinisgalli trovò il nome adatto per un’autovettura prodotta dall’Alfa Romeo (come poteva non essere Giulietta?); disegnò il celebre cane a sei zampe
Una doppia anima, una stella scientificoletteraria (la «stella forcuta» che appare nei cieli di tante sue liriche) continuò a brillare nel corso dell'intera sua carriera dell’Eni (a indicare che le gambe dell’uomo, sommate alle gomme della macchina, creavano un nuovo “mostro” della modernità); per pubblicizzare una macchina da scrivere della Olivetti, la Studio 44, pensò all’immagine di una rosa inserita in un calamaio (come a dire che ormai penna e inchiostro sarebbero servite a ben poco, e semmai a far da vaso a una rosa...). E ancora: sui cartelloni di tutta Italia, da nord a sud, alla fine degli anni Quaranta si poteva trovare un manifesto raffigurante una semplice suola di scarpa accompagnata dall’altrettanto semplice, ma funzionale slogan sinisgalliano: Camminate Pirelli. Come dimostra Civiltà delle macchine, una rivista rimasta – poiché inimitabile – davvero unica nella storia del giornalismo italiano e con la quale si voleva «spiegare le macchine agli ingegneri e ai poeti», Sinisgalli cercò sempre di quantificare, misurare, calcolare il non quantificabile, il non catalogabile (come quando nel 1972, a Recanati, a un conve-
gno su Giacomo Leopardi presentò una serie di mappe numeriche leopardiane – mappe di settenari, di endecasillabi, di rime – lasciando, più che perplesso, sbigottito l’uditorio dei critici accademici), e viceversa di estrarre la poesia da numeri veri, dai fenomeni fisici, persino dalle formule chimiche. Vanno in questa doppia direzione una serie di iniziative che oggi appaiono forse anacronistiche e che pure mantengono inalterato il loro fascino. Proprio da direttore di Civiltà delle macchine Sinisgalli “spedì”, come inviati speciali, poeti e intellettuali a visitare le fabbriche: nacquero così i reportage di Salvatore Quasimodo dalle Officine Sant’Eustachio di Brescia, di Giorgio Caproni dai Cantieri navali dell’Ansaldo di Genova, di Michele Prisco dalla Fabbrica Metalmeccanica Italiana di Napoli, di Mario Mafai dagli stabilimenti siderurgici di Pozzuoli, di Carlo Emilio Gadda e Ungaretti dalla Centrale termoelettrica di Comigliano. I testi
Da direttore di Civiltà delle macchine, Sinisgalli “spedì”, come inviati speciali, poeti e intellettuali a visitare le fabbriche: nacquero così i reportage di Salvatore Quasimodo dalle Officine Sant'Eustachio di Brescia, di Giorgio Caproni dai Cantieri navali dell'Ansaldo di Genova, di Mario Mafai dagli stabilimenti siderurgici di Pozzuoli, di Carlo Emilio Gadda e Ungaretti dalla Centrale termoelettrica di Comigliano che ne vennero fuori sono oggi pubblicati nel volume L’anima meccanica. Le visite in fabbrica in “Civiltà delle macchine”, pubblicato da Avagliano. Allo stesso modo, da consulente di Alitalia, che gli fece visitare il mondo intero, nel 1962 Sinisgalli ideò la campagna «Bambini e Jet»: accompagnò gruppi di bambini in età scolare a visitare gli aeroporti intercontinentali e alcuni disegni di questi piccoli viaggiatori, riprodotti fotograficamente da un grafico e corredati da testi dello stesso Sinisgalli,
Copertina del periodico Civiltà delle Macchine, X (1962), 6, disegnata da Pablo Picasso. La rivista culturale, edita per conto delle aziende del Gruppo IRI, nacque a Roma nel 1953 e fu diretta da Leonardo Sinisgalli. Si avvalse dei contributi di autorevoli e insigni studiosi nel campo della cultura artistica, umanistica, scientifica e tecnica
vennero scelti per manifesti, poster e cartelloni pubblicitari dell’Alitalia in varie zone del mondo. L’originale iniziativa ottenne un successo straordinario, tanto che alcune immagini furono inserite nell’Annuario internazionale della grafica 1962-63. Il “creativo” delle grandi aziende di oggi – viene dunque da domandarsi – è forse maggiormente vincolato a numeri di vendita, tabelle, precise strategie di marketing, o è semplicemente un “creativo meno creativo”? Nell’uno e nell’altro caso andrebbero forse riscoperte le figure di quanti hanno fatto, in una data disciplina, la storia del nostro paese: a trent’anni dalla morte possono ancora parlare con noi.
Il rapporto tra scienza e letteratura in Leonardo Sinisgalli è indagato nel saggio I circoli di Archimede, pubblicato nel volume Poetiche della creatività. Letteratura e scienze della mente di Alberto Casadei (Mondadori, 2011). Nel volume, si tratta lo stesso tema anche in relazione all’opera di Amelia Rosselli, Antonella Anedda, Emilio Tadini, e si traccia un percorso inedito nella poesia del Novecento, volto a far emergere la stessa letteratura come forma di conoscenza della realtà. Alberto Casadei insegna Letteratura italiana all’Università di Pisa. Ha pubblicato, tra l’altro, Romanzi di Finisterre. Narrazioni della guerra e problemi del realismo (Carocci, 2000), Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo (Il Mulino, 2007), Poesia e ispirazione (L. Sossella, 2009)
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Libertà scalza La forza creativa della corsa a piedi nudi di Corrado Giambalvo «Imparare è un’affascinante attività creativa: bisogna metterci del proprio, e finché non si prova ad insegnare non ci si rende conto di quello che è stato realmente appreso. I dati che si ottengono da test e collaudi – funzioni base dell’apprendimento – non possono essere né giusti né sbagliati, e Corrado Giambalvo ci offrono l’opportunità di evolverci in modo ottimale, per agire, comportarci e conseguire prestazioni in modi nuovi o semplicemente dimenticati. Capire come usiamo i nostri piedi nelle attività quotidiane – tra queste camminare e correre (ma non solo) – è autenticamente fondamentale e di primaria importanza nella realizzazione di calzature e suole di eccellente qualità». Da quando ho iniziato a sperimentare la corsa a piedi nudi, il concetto di creatività si è approfondito, divenendo, se così si può dire, più intenso. Qualsiasi atleta sa che durante un’intensa attività sportiva si liberano le endorfine, ma quelle che si generano correndo a piedi nudi forse sono particolari: oltre all’euforia che deriva dalla gioia di muoversi, si attivano moltissime idee. Dopo trenta anni di passione podistica mi sono liberato di tutte quelle variabili numeriche che abbiamo ereditato: tempo, velocità, distanza, classifica, podio... È stato un gesto semplice, è bastato recuperare uno schema motorio di base: come muoversi per la prima volta, velocemente, agilmente, improvvisando e immediatamente mi sono reso conto di quanta creatività possiamo godere, praticando questa disciplina. I nostri piedi sono un po’ come degli strumenti musicali: in fondo anche una gara dei 100 metri piani vista dall’alto può sembrare un pentagramma musicale con delle note mobili ed estremamente veloci. E allora mi sono chiesto, che suono fa l’orchestra dei velocisti, quando corre i 100 metri piani? Per me è il suono della libertà. Ma nel concreto cosa si prova a correre a piedi scalzi? Le prime impressioni incidono non poco. A meno che la temperatura non sia intollerabile per eccesso o difetto, la sensazione più bella è sentire il piede che respira a partire dal momento in cui togliamo i calzini. Si divaricano le dita che iniziano a muoversi per liberarsi dalle pellicine morte e il tessuto connettivo dell’aponeuresi plantare rinasce. Si divaricano i metatarsi e ben presto il peso corporeo viene percepito sul piede medialmente e lateralmente, in punta come sul
tallone. La pianta torna ad essere tonica, sensibile, viva, e smette di fare da tendiscarpa nelle forme più svariate. I muscoli dei piedi, deboli e atrofizzati, rinascono e progressivamente si possono recuperare una parte delle originarie qualità. Anche questo fa parte del godimento, ovvero, intuire le proprie potenzialità.
Qualsiasi atleta sa che durante un’intensa attività sportiva si liberano le endorfine, ma quelle che si generano correndo a piedi nudi forse sono particolari: oltre all’euforia che deriva dalla gioia di muoversi, si attivano moltissime idee E a questo punto, proprio come quando intorno al dodicesimo mese, facciamo i nostri primi passi verso l’abbraccio amorevole di un padre o una madre, possiamo tentare qualche passo sensibile a tutto quello che ci sta sotto mentre il corpo intero cerca il suo equilibrio. Paura? Chi ha i piedi allenati, Barefooters vintage o rinati che siano, può beneficiare da subito di questo ritrovato godimento sensoriale degli arti inferiori. Danzatori, ginnasti, artisti marziali o i tanti indigeni di tutto il pianeta sono abituati a stare a piedi scalzi, a muoversi, a camminare, a correre senza scarpe. Sentono i piedi funzionali, li apprezzano, si fidano. Sanno che la loro mobilità dipende da loro. Cioè hanno completamente interiorizzato il valore della familiarizzazione e educazione dei loro piedi. Si potrebbe dire dell’intelligenza dei piedi. Ma non siamo tutti in queste condizioni. Con l’uso eccessivo che si fa di calzature protettive o alla moda, per ragioni culturali o per necessità (basti pensare agli scarpini rigidi di un calciatore o ai tacchi a spillo), i nostri piedi si sono indeboliti e sono diventati poco funzionali. Ciò non toglie che nelle città moderne così come in situazioni particolari è facile abradersi la pelle, scivolare, sbattere contro oggetti o sporgenze contundenti, nonché sporcarsi i piedi in modi non opportuni. Una buona parte della popolazione mondiale non sa più usare i piedi in modo funzionale. Li ha viziati e diseducati. Con questo però non voglio dire che tutti devono camminare scalzi: come ogni forma di liberà, bisogna innanzitutto avere il coraggio di prendersela. Mi rendo conto che non è semplice perché dopo centinaia di anni di condizionamenti, abbiamo sviluppato
un complesso rapporto con i nostri piedi. Ma anche in caso di fuga, il bello è sapere che eventualmente saranno i nostri stessi piedi a dirci “basta” tra adattamento e recupero. Tra godimento e creative saturazioni sensoriali. Anche per coloro che non volessero fare a meno delle scarpe, oggi è disponibile una gamma di calzature che tengono in considerazione i nostri piedi, la loro forma, le loro esigenze. Personalmente da qualche anno mi dedico alla progettazione e al collaudo delle Vibram Fivefingers: suole nate dalla grande tradizione della azienda fondata da Vitale Bramani – guida alpina e uomo d’avventura – e che dal “carrarmato” del 1935 è arrivata alle “cinquedita” odierne, dal premiato design tecnologico e innovativo che consente di stare a piedi nudi ma un po’più protetti e “vestiti”. Nella corsa amatoriale e in tanti altri sport, l’uso specifico dei piedi è stato praticamente ignorato a favore della più attraente perdita di peso, dei muscoli scolpiti, delle tabelle di allenamento, dell’agonismo fine a se stesso. Tuttavia la domanda più frequente è: «ma non ci si fa del male a camminare o a correre scalzi o quasi scalzi, senza nessuna ammortizzazione?» La verità è che ci sono atleti di ogni genere che si sono procurati qualsiasi tipo di infortunio, a prescindere dalle calzature e/o attrezzature che usano o disciplina che praticano: da microfratture da stress fino all’anoressia. È sufficiente un semplice esercizio di piegamento sulle gambe per farsi male, se non si è in grado di farlo bene, ovvero nel rispetto del corpo. D’altronde anche gli stili di vita che siamo spesso tenuti a mantenere non facilitano l’ascolto del corpo: siamo pigri e spesso pensiamo che questa pigrizia sia frutto
del successo professionale e sociale raggiunto. E questo non è di per se sbagliato. Ma se a farne le spese è la nostra capacità creativa, che al contrario genera enormi spese di energia, forse è un segnale che stiamo andando oltre, un po’ come nella visionaria animazione WallE in cui si ipotizzava Ipad e divano-mobile come protesi irrinunciabili e permanenti della razza umana. In ogni caso gli esseri umani nascono a piedi scalzi, imparano a muovere i primi passi a piedi nudi, a caricare i piedi per stare in equilibrio, correre, saltare, arrampicare... In tre parole: schemi motori di base, il codice necessario per riprodurre qualsiasi movimento nella vita adulta.
Chi ha i piedi allenati, Barefooters vintage o rinati che siano, può beneficiare da subito di questo ritrovato godimento sensoriale degli arti inferiori. Danzatori, ginnasti, artisti marziali o i tanti indigeni di tutto il pianeta sono abituati a stare a piedi scalzi, a muoversi, a camminare, a correre senza scarpe Voglio infine ricordare che quando ci alleniamo facendo un qualsiasi esercizio sportivo, concorrono almeno quattro caratteristiche principali dello stimolo allenante: l’intensità, la frequenza, la durata e la specificità. Misurare scientificamente i vantaggi o gli svantaggi condizionali di utilizzo di un prodotto durante l’allenamento è molto difficile perché potrebbe
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dipendere dalla minima alterazione di una di queste caratteristiche. Dunque, sarebbe fuorviante (nonché in contraddizione con la voglia di istinto creativo) raccontare che deambulare a piedi scalzi da subito rassoda i glutei o tonifica le cosce.
Gli esseri umani nascono a piedi scalzi, imparano a muovere i primi passi a piedi nudi, a caricare i piedi per stare in equilibrio, correre, saltare, arrampicare... In tre parole: schemi motori di base, il codice necessario per riprodurre qualsiasi movimento nella vita adulta Tuttavia oggi siamo consapevoli di quanta ginnastica propriocettiva e posturale viene fatta a piedi scalzi. Cosi come avviene per la danza moderna e le arti marziali, lo Yoga e il Pilates; questa particolare attenzione al rispetto funzionale del corpo trova riscontro anche in numerosi strumenti che sono entrati a far parte del mondo del Fitness: dal fit ball al bosu, dal sistema della Tecnogym Kinesis ai tapis roulant a trazione umana con pendenze variabili e superfici irregolari. Questa attenzione, frutto sicuramente di una maggiore consapevolezza del dialogo che c’è tra mente e corpo ci aiuta a stimolare a partire dai piedi le funzioni di equilibrio, agilità, mobilità articolare, forza, non solo da un punto di vista meccanico ma soprattutto da un punto di vista biodinamico, cioè che concerne il rapporto dinamico esistente tra l’ambiente naturale e gli organismi che vi vivono. Tra questi, l’uomo. E per concludere, mi sembra giusto citare i versi di Erri De Luca, filosofo e alpinista, che questo rapporto l’ha colto in tutta la sua completezza e vastità nel suo Elogio Dei Piedi.
Perché reggono l’intero peso. Perché sanno tenersi su appoggi e appigli minimi. Perché sanno correre sugli scogli e neanche i cavalli lo sanno fare. Perché portano via. Perché sono la parte più prigioniera di un corpo incarcerato. E chi esce dopo molti anni deve imparare di nuovo a camminare in linea retta. Perché sanno saltare, e non è colpa loro se più in alto nello scheletro non ci sono ali. Perché sanno piantarsi nel mezzo delle strade come muli e fare una siepe davanti al cancello di una fabbrica. Perché sanno giocare con la palla e sanno nuotare. Perché per qualche popolo pratico erano unità di misura. Perché quelli di donna facevano friggere i versi di Pushkin. Perché gli antichi li amavano e per prima cura di ospitalità li lavavano al viandante. Perché sanno pregare dondolandosi davanti a un muro o ripiegati indietro da un inginocchiatoio. Perché mai capirò come fanno a correre contando su un appoggio solo. Perché sono allegri e sanno ballare il meraviglioso tango, il croccante tip-tap, la ruffiana tarantella. Perché non sanno accusare e non impugnano armi. Perché sono stati crocefissi. Perché anche quando si vorrebbe assestarli nel sedere di qualcuno, viene scrupolo che il bersaglio non meriti l’appoggio. Perché, come le capre, amano il sale. Perché non hanno fretta di nascere, però poi quando arriva il punto di morire scalciano in nome del corpo contro la morte. Erri De Luca, Elogio dei piedi
Ritagli Se il futuro del libro è l'opera d'arte di Michela Monferrini «Un danno per la società»: con queste parole, lo scrittore americano Jonathan Franzen ha recentemente definito l’e-book, accendendo immediatamente un dibattito su scala mondiale. Negli Stati Uniti negli ultimi tempi si sarebbe moltiplicata in maniera esponenziale la vendita di supporti Michela Monferrini di lettura digitali, facendo presagire a qualcuno addirittura la scomparsa dell’oggetto-libro. È vero che in Europa, e soprattutto in Italia, nei vagoni della metropolitana, nelle sale d’aspetto, nei bar, è ancora raro incontrare dei “lettori digitali”, e però gli italiani, popolo di poeti, popolo di scrittori, si stanno forse accorgendo delle possibilità che il self-publishing – solo grazie alle piattaforme digitali – può offrire loro. Intanto, c’è chi comincia a riciclare il caro vecchio libro, non soltanto facendo di e-bay un’immensa biblioteca online, ma ideando addirittura nuovi, artistici livelli di fruizione.
Mike Stilkey nel suo studio
Del libro non si scarta nulla, sembrano dirci forme artistiche come la poesia dorsale, il painting on books, il papercutting: ognuna di queste forme, predilige una parte del libro e la utilizza come supporto materiale del proprio lavoro Del libro non si scarta nulla, sembrano dirci forme artistiche come la poesia dorsale, il painting on books, il papercutting: ognuna di queste forme, predilige una parte del libro e la utilizza come supporto materiale del proprio lavoro. Chi crea opere di poesia dorsale, utilizza la costa dei volumi per fare nuova letteratura: impilando in orizzontale, un libro sopra l’altro, si cerca con i titoli di dar vita a testi poetici di senso compiuto, dove ogni verso è rappresentato da uno stesso, o più, titoli di libri. Un esempio: «Come io vedo il mondo: / il freddo, grottesco, tradimento / del sentimento tragico / della vita», dove gli “autori” delle parole che compongono i versi sono Albert Einstein, Thomas Bernhard, Patrick McGrath, Adam Zagajewski, Miguel de Unamuno, ma gli autori della poesia dorsale sono invece il
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Rob Ryan, This is for you, 2007
graphic designer e fotografo Silvano Belloni e la giornalista Antonella Ottolina, gli ideatori della poesia dorsale in Italia.
L'artista californiano Mike Stilkey, assembla diverse copertine di libri per farne la propria tela da pittore: ne nascono immagini compiute, ma realizzate a tessere esattamente come in un mosaico, dove ogni tessera è però costituita da un volume L’artista californiano Mike Stilkey, assembla diverse copertine di libri per farne la propria tela da pittore: ne nascono immagini compiute, ma realizzate a tessere esattamente come in un mosaico, dove ogni tessera è però costituita da un volume. Dietro ogni opera c’è un mondo sommerso eppure presente: le copertine non vengono separate, strappate dal resto del libro; il volume c’è, con ogni sua pagina, sta dietro o sotto, talvolta fa sì che l’opera “stia in piedi”. Ciò di cui abbiamo immediata percezione, tuttavia, è soltanto l’immagine, e sono donne, uomini, animali, interpretati con uno stile espressionista moderno, con un tratto che ricorda Egon Schiele, tratti funerei alla Tim Burton, e quella solitudine malinconica, forse persino tragica, di certe situazioni raffigurate da Chagall: sono drammi esistenziali, fiabe nere nutrite di letteratura perché la letteratura è il loro supporto materiale. Sembra quasi esattamente il contrario di ciò che succede con il papercutting: dove Mike Stilkey aggiunge alla carta e sulla carta (utilizzando di-
versi strumenti, dalla matita alla vernice, dagli inchiostri alle lacche), l’antichissima arte del ritaglio è un gioco di sottrazione ed equilibrio estetico. La novità di questa forma artistica è rappresentata dal fatto che negli ultimi anni si è passati dal ritaglio del foglio singolo a quello del volume intero, che viene davvero scavato, scolpito, ricavando figure in modo imprevedibile, come fa lo “scultore di libri” Claudio Perri con i suoi Liberintro. Se Michelangelo affermava di estrarre qualcosa che era già imprigionato nel blocco di marmo, Perri suggerisce l’esistenza di un universo tridimensionale, invisibile nell’oggettolibro, e di quell’universo va a caccia, sottraendo di pagina in pagina. Fatto di sottrazione è anche il lavoro di Rob Ryan, illustratore e scrittore inglese specializzato appunto nel papercutting, e proprietario di Ryantown, una sorta di “bottega delle meraviglie” della sua produzione artistica (126 Columbia Road, Londra). “Intagliando” i fogli, Ryan compone libri – mai tradotti in italiano – che anche in questo caso sono vere e proprie opere d’arte, e che però mantengono la loro funzione originaria: si sfogliano, si leggono, raccontano storie. This is for you, il suo primo libro, narra la solitudine dell’uomo e la ricerca dell’anima gemella, il disperare delle proprie possibilità e infine la speranza, l’avverarsi di ciò in cui si è creduto; A sky full of kindness è la storia di due uccellini che attendono con trepidazione e timore lo schiudersi dell’uovo che li renderà genitori per la prima volta; The gift (tradotto in francese e tedesco), firmato assieme alla Poetessa Laureata di Scozia, Carol Ann Duffy, cerca di narrare, con grazia e delicatezza, lo scorrere del tempo e la “preparazione” della propria morte attraverso la storia di una giovane donna che crescendo, e poi invecchiando, continua a curare il giardino nel quale un giorno sarà seppellita. Sono piccole storie incantevoli, il cui testo si integra perfettamente con la tecnica di realizzazione: storie di pieni e di vuoti che solo la carta, nell’incontro con la luce, nell’incontro con le mani, può ancora rendere.
Rob Ryan, Other planets nest, 2009
Una bottega a regola d’arte La differenza fra prodotto industriale e creazione artigianale di Arianna Scarozza Regola è il nome del settimo rione di Roma e ospita le sue più importanti vie storiche come via dei Giubbonari, così chiamata perché nell’era repubblicana era piena di botteghe di fabbricanti di corpetti e giubbe, o anche come via dei Cappellari, che nel Medioevo era piena di arArianna Scarozza tigiani che producevano cappelli. Già perché una volta si diceva “andare a bottega”, che stava a significare che si andava ad imparare un mestiere. Purtroppo oggi questo termine è in disuso e ha perso di significato indicando, magari, la semplice azione dell’andare alla bottega. Ma anche questo ormai spesso non ha più senso perché oggi molte di queste botteghe non ci sono più ed è sempre più difficile trovarne nel centro di Roma. Molte sono state costrette a chiudere o a spostarsi in periferia, per un affitto da pagare troppo alto o perché il prodotto artigianale ha perso sempre più importanza facendosi sostituire da una cultura che punta sull’omologazione e la produzione in serie, quindi sul prodotto industriale. In un momento culturale come questo è sempre più difficile puntare sulla creatività. Ed è proprio per questo che camminando per via Torre Argentina mi fermo al civico 72, dove sono colpita dalla scritta sulla porta di un negozio. Si chiama Le Artigiane.it. Possiamo considerarlo un sostantivo anticonformista, ossia non conforme al sistema socio-economico contemporaneo, non solo perché ci richiama alla mente il lavoro manuale ma soprattutto perché è al femminile, cosa ancora più inusuale se vogliamo. Entro e vedo tutto ciò che un amante della creatività e dell’ingegnosità desidererebbe vedere. Tutto fatto m a n u a l m e n t e : Le fondatrici di LeArtigiane.it
abiti, cappelli, borse, sciarpe, gioielli, oggetti in vetro soffiato.
«Questa avventura è nata nel 1999 come attività e-commerce, volevamo dare uno spazio per la creatività e l’originalità a tutte coloro che avevano bisogno di un luogo dove esprimere il proprio talento» Così chiedo a Bruna Pietropaoli che di Le Artigiane.it è cofondatrice, insieme a Livia Carchella, cosa l’ha spinta ad avere questa idea. «Questa avventura è nata nel 1999 come attività e-commerce, volevamo dare uno spazio per la creatività e l’originalità a tutte coloro che avevano bisogno di un luogo dove esprimere il proprio talento e, per così dire, “riciclarsi” e dare spazio alle proprie creazioni. Nel giro di qualche mese il nostro spazio espositivo virtuale è arrivato a comprendere 7000 artigiane. In seguito, dopo riconoscimenti importanti come il Premio E-Business Award IBM nel 2000 e il Premio Arte e Lavoro, promosso dall’Assessorato della Regione Lazio nel 2004, dal 1° Ottobre 2010 abbiamo deciso di aprire uno spazio espositivo permanente, non più solamente virtuale, nel centro di Roma dove molte artigiane, e anche qualche artigiano provenienti da tutta Italia, possono mettere in mostra le proprie creazioni artistiche». Se poi le chiediamo qual è la differenza tra un prodotto artigianale e uno industriale ci risponderà prendendo a modello uno dei lavori artigianali più antichi. «Prendi ad esempio il mestiere dell’orefice, riesce a fare delle creazioni artistiche attraverso la lavorazione dei metalli che una macchina non sarebbe mai in grado di effettuare, essendo ogni pezzo differente dall’altro».
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Ma nella società post-industriale in cui viviamo, qual è quindi la prospettiva dell’artigianato? «Bisognerebbe cominciare a dare vita ad un luogo per esprimere la creatività, a partire dalle scuole. Si potrebbero realizzare laboratori che permettano e aiutino ad esprimere le capacità e le abilità dei bambini. Perché è indubbio che bisogna essere portati a diventare dei futuri artisti ma bisogna essere aiutati a capirlo. Noi qui abbiamo anche laboratori dove chiunque voglia può partecipare. L’unico requisito richiesto è avere la passione. I corsi vanno da quelli più tradizionali, come il corso di acquarello o di ceramica, ad alcuni più particolari, come il corso di intrecci di carta tenuto da Ana Romana Giorgini che consiste nell’opportunità di imparare a costruire borse o cappelli intrecciando della carta riciclata, un modo anche per rispettare l’ambiente sempre più danneggiato.
Bisognerebbe partire dalle scuole. Si potrebbero realizzare laboratori che permettano e aiutino ad esprimere le capacità e le abilità dei bambini. Perché è indubbio che bisogna essere portati a diventare dei futuri artisti ma bisogna essere aiutati a capirlo A riguardo abbiamo ospitato fra l’altro (dal 23 febbraio al 4 marzo) la settima edizione di Scarti d’Autore - l’Arte del Riciclo, dove artigiane provenienti da tutta Italia attraverso ciò che noi chiameremmo scarti hanno dato vita a creazioni artistiche di varia natura». Da questo punto di vista, la teoria “più lavoro artigianale, meno inquinamento” è inconfutabile. Il prodotto artigianale è costretto per un certo verso a rimanere indietro, a pagare costi che per quelli industriali sono addirittura dei benefici. Il famoso costo opportunità del tempo. Ciò che l’artigiano fa in
un’ora la macchina lo fa in trenta secondi. Proprio per questo si pensa che oramai il prodotto artigianale sia solo per una elité, perché troppo costoso ma in questo caso è Livia Carchella a intervenire: «Questa è un’opinione diffusa ma sbagliata. Le Artigiane.it è frequentato da persone di qualsiasi ceto. Ciò che bisogna avere è la cultura dell’originalità. Certo è il sistema socioeconomico che spesso non lo permette, che rende sempre più difficile capire il valore di una produzione artigianale. Infatti più un prodotto è standardizzato, più è accettato. L’unicità del pezzo ha perso valore, mentre bisognerebbe puntare più alla qualità del prodotto che alla quantità: un qualsiasi oggetto lavorato manualmente non sarà mai uguale ad un altro, perché in quell’oggetto vi sarà il frutto di una laboriosità sia mentale che manuale, mentre nel prodotto industriale la creatività si ferma al progetto».
Oggetti fatti con la carta di giornale, realizzati artigianalmente da Ana Romana Giorgini con intrecci tradizionali e tecniche innovative. L'artista promuove la cultura del riciclo anche attraverso l'attività didattica. Infatti tiene corsi sulla carta fatta a mano e l'intreccio nello spazio espositivo LeArtigiane.it
Irena Sendler, l’angelo del Ghetto di Varsavia di Gaia Bottino
Esistono persone che riescono a fare della propria vita un capolavoro. Colgono l’essenza più profonda del proprio cammino su questa terra e decidono di intraprenderlo senza porsi troppe domande, consapevoli che sia l’unica strada perGaia Bottino corribile. Sono capaci di cambiare non solo il corso della propria esistenza, ma anche quella di coloro che incontrano durante il loro viaggio. Irena Sendler, nella sua lunga, travagliata e meravigliosa vita, è stata protagonista di questo “miracolo”: infermiera e assistente sociale polacca nata a Varsavia nel 1910, iniziò a collaborare nel 1942 con il movimento clandestino non comunista la Żegota. Il suo incarico fu quello di riuscire a mettere in salvo i bambini ebrei del Ghetto di Varsavia dalla deportazione nazista. La donna riuscì ad entrare nel Ghetto grazie ad un permesso speciale come operatrice ufficiale del Dipartimento contro le malattie contagiose. «Dopo aver detto alle famiglie del ghetto che avevo la possibilità di salvare i loro bambini, dovevo purtroppo assistere alle scene strazianti del distacco dei figli dai genitori», ricordò in seguito l’ex infermiera. Irena riuscì ad organizzare la fuga di migliaia di bambini, che nascose all’interno di ambulanze. In altre occasioni, si spacciò per un tecnico di condutture idrauliche, i neonati nascosti nel fondo della sua cassa per attrezzi, altri bambini più grandi chiusi in un sacco di juta. Una volta fuori dal Ghetto, la donna fornì ai piccoli dei documenti falsi con nomi cristiani e li affidò a famiglie cristiane o a preti cattolici. Nel frattempo, conservò delle liste dei nomi veri e di quelli nuovi dei bambini salvati con la speranza di poterli riunire un giorno alle loro famiglie. Per proteggere queste liste, le nascose all’interno di vasetti vuoti di marmellata e le sotterrò sotto un albero di mele in un giardino di conoscenti a Varsavia. Il 20 ottobre 1943 Irena Sendler fu arrestata e torturata dai nazisti ma ebbe la forza di non rivelare i nomi dei suoi collaboratori né il nascondiglio delle liste dei nomi dei bambini. Venne condannata a morte ma l’organizzazione Żegota riuscì a corrompere
l’ufficiale incaricato di ucciderla. Irena riuscì così a fuggire, continuando a vivere fino alla fine della guerra in clandestinità. Al termine del conflitto, la donna utilizzò le liste nascoste nei vasetti di marmellata, per riunire i bambini ai genitori sopravvissuti all’Olocausto. La sua lista è oggi custodita allo Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto in Israele. Nel 1965 le venne conferito il titolo onorifico di Giusto tra le nazioni, ma le autorità comuniste polacche l’autorizzarono a recarsi in Israele per ritirare la medaglia solo nel 1983. «Ho fatto quello che bisognava fare e non ho avuto paura» disse Irena riguardo alla sua impresa «I veri eroi furono i genitori che dovettero separarsi dai figli in modo così crudele». Per lungo tempo la vita di Irena, l’angelo custode di 2500 bambini ebrei, è stata dimenticata dall’opinione pubblica e solo nel 1999 riscoperta da un gruppo di studenti di un college del Kansas che hanno lanciato un progetto per far conoscere la sua vita e il suo operato a livello internazionale. Irena Sendler, nel 1942 Gli studenti hanno creato così uno spettacolo dal titolo Life in a Jar (La vita in un barattolo) in cui hanno rappresentato la storia di Irena. Ad ogni rappresentazione, gli studenti portano con sé un barattolo in cui raccogliere denaro per sostenere coloro che hanno messo a repentaglio la propria stessa vita nel tentativo di salvare gli ebrei dal dramma della Shoah. Irena Sendler si è spenta all’età di 98 anni nel 2008. Nominata dal suo Paese eroe nazionale nel 2007 ma ormai cagionevole di salute, mandò una sua dichiarazione per mezzo di Elżbieta Ficowska, allontanata dal ghetto e dalla sua famiglia a soli 5 mesi nel luglio del 1942. «Ogni bambino salvato con il mio aiuto è la giustificazione della mia esistenza su questa terra, e non un titolo di gloria», scrisse la Sendler nella lettera indirizzata al Parlamento polacco. Nel buio più oscuro della seconda guerra mondiale, un’umile infermiera ha avuto l’intuizione di abbracciare la luce e di creare una speranza nelle vite di 2500 bambini. Quando la creatività di un individuo abbatte le barriere del destino.
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Recitare: professione o scelta di vita? Il punto di vista dell’attore Maximilina Dirr, tra aspirazioni e difficoltà di Francesca Gisotti Quando si parla del mestiere dell’attore, c’è sempre un interrogativo da cui non si può prescindere: «attori si nasce o si diventa?». La domanda, che di per sé appare abbastanza banale, risulta essere quanto mai attuale se si pensa al proliferare di scuole ed accademie che si attribuiscono la Francesca Gisotti capacità di “insegnare” a recitare. Eppure, dei molti aspiranti attori che affollano questi istituti, sono ben pochi quelli che poi riescono ad emergere dal “calderone” delle giovani promesse e, ancor meno, coloro che vedono trasformata la propria “passione” in una reale professione. Studio e disciplina sono sicuramente fondamentali per acquisire la capacità di far “indossare” al proprio corpo “vestiti” altrui, ma forse poco si insiste sul fatto che al di là delle lezioni, degli esercizi, della volontà e della dedizione, l’attore è soprattutto un creativo, un “inventore”, una persona (inteso anche nell’accezione latina di “maschera”) alle prese con la costante reinvenzione di sé e nello stesso momento del proprio personaggio. Ecco allora che tutto appare sotto un’altra ottica, e l’attore non è più semplicemente uno strumento ben accordato per far risuonare parole scritte da altri, non è più soltanto un corpo nelle mani di qualcuno che lo dirige, bensì egli diventa il mezzo attraverso cui possa compiersi un rituale che molto ha a che fare con la “magia”, la magia di essere allo stesso tempo io e l’altro. Antonin Artaud, uno dei grandi maestri del Teatro del Novecento, parlava dell’attore come di un «atleta del cuore», il cui corpo “plasmato” dallo sforzo e dalla fatica muscolare “traducesse” all’esterno una viscerale tensione interiore. Nei suoi scritti, si leggono affermazioni dure, taglienti, in cui la questione della “verità” dell’attore emerge come un nodo fondamentale da sciogliere, non solo sul palcoscenico, ma nella vita. Artaud parlava infatti di un «Teatro della crudeltà» che «tagliando nel vivo», esercitasse sullo spettatore le proprie «devastazioni», la distruzione finale di tutte quelle convinzioni rassicuranti che impediscono il contatto con la nostra parte più intima. Recitare assumeva qui la fisionomia di una dolorosa discesa dentro se stessi, per cercare di colmare quella separazione fra spirito e materia che rende gesti, frasi, ed espressioni falsi tentativi di mascherarci dietro immagini artificiali.
Viene quindi da chiedersi: quanto di questo insegnamento risuona ancora nelle attuali scuole di recitazione? Forse il reale compito di chi insegna dovrebbe consistere proprio nel fornire la “mappa” di questo percorso. Lo sforzo nell’intraprendere un cammino tanto duro apparirebbe allora funzionale ad un obiettivo ben preciso, il raggiungimento dello spettatore e il suo coinvolgimento in un processo di abbandono volontario. Rispetto agli anni in cui Artaud scuoteva il panorama culturale parigino con il proprio pensiero rivoluzionario, cercare di diventare “attori” appare oggi sempre più spesso legato ad un desiderio di visibilità piuttosto che alla scelta di un preciso percorso esistenziale. Abbiamo deciso di parlarne con il giovane attore Maximilian Dirr, impegnato sul set di Un matrimonio, la fiction girata da Pupi Avati per la Rai. Maximilian, di lontane origini italiane, ma nato e vissuto a Monaco di Baviera fino all’età di diciannove anni, ha svolto il suo apprendistato da attore qui a Roma, nonostante le tante difficoltà legate all’apprendimento di una lingua semisconosciuta e alla necessità di dover provvedere al proprio sostentamento economico.
Studio e disciplina sono sicuramente fondamentali per acquisire la capacità di far “indossare” al proprio corpo “vestiti” altrui, ma al di là delle lezioni, degli esercizi, della volontà e della dedizione, l’attore è soprattutto un creativo, un “inventore”, una persona (inteso anche nell’accezione latina di “maschera”) alle prese con la costante reinvenzione di sé e nello stesso momento del proprio personaggio Quando hai capito di voler diventare un attore, e quali sono state le prime difficoltà nel seguire questa strada? Ho iniziato quasi per gioco, attraverso la frequentazione di seminari e corsi di recitazione amatoriali. Dopo due anni di vita universitaria, durante i quali ho cercato di bilanciare le due cose, ho capito che in realtà la mia vera passione era la recitazione. Recitare significa per me essere parte di un “evento magico” e irripetibile, e la mia determinazione nel voler perseguire questa strada è stata tale da lasciare gli studi per inseguire il mio vero sogno. La prima diffi-
coltà è stata convincere mio padre della mia scelta. Per me lui aveva sempre desiderato una professione “più sicura” e almeno il conseguimento della laurea triennale. Tuttavia, una volta compreso che la mia non era soltanto un’aspirazione passeggera, mi ha appoggiato completamente, aiutandomi anche a sostenere le spese necessarie per il mio sostentamento. Dopo varie esperienze di formazione, la svolta nella mia vita è arrivata quando sono stato ammesso alla scuola di recitazione del Teatro Stabile di Genova.
Antonin Artaud, uno dei grandi maestri del Teatro del Novecento, parlava dell’attore come di un «atleta del cuore», il cui corpo “plasmato” dallo sforzo e dalla fatica muscolare “traducesse” all’esterno una viscerale tensione interiore
Quanto incide, secondo te, il talento naturale e quanto la formazione accademica nel definire la qualità artistica di un attore? Secondo me non si può generalizzare. Per alcuni “talenti naturali” penso che l’impostazione accademica possa essere addirittura “distruttiva”. Per altri, come nel mio caso, è fondamentale per far emergere qualità di cui non si ha neanche consapevolezza. A prescindere dalle doti innate comunque, questo mestiere richiede disciplina e un forte carattere. Capitano infatti lunghi periodi in cui non si lavora e per sostenerli, non solo economicamente ma anche a livello emotivo, è necessaria una grande forza. È molto importante “muoversi” su più fronti, “sperimentandosi” artisticamente e possibilmente prendendo iniziative autonome nella realizzazione di spettacoli personali.
«Del cinema e della tv apprezzo la precisione nei dettagli e la cura dei particolari. Del teatro invece, amo il lavoro continuativo alla ricerca del personaggio e il contatto diretto con il pubblico»
Perché hai visto l’Italia come luogo più idoneo per la tua realizzazione professionale? In realtà è stata una coincidenza. Sono venuto in Italia con tutt’altre prospettive, soprattutto per intraprendere un’avventura alla ricerca di me stesso. Per Tu hai avuto modo di lavorare sia in teatro che al me era comunque un paese molto familiare, dato che cinema e in televisione, quali sono le differenze soho lontane origini italiane e tutte le estati fin da picstanziali dei diversi metodi di lavorazione? colo venivo in vacanza qui. Attualmente mi muovo su due fronti, fra Roma e Berlino, e dato che sono biSi tratta di linguaggi molto diversi. Per me, venendo lingue mi considero molto fortunato nel poter lavoradal teatro, è stato molto difficile “trasformare” il mio re in entrambi i contesti. stile di recitazione. Al cinema e in tv tutto deve esseTi è capitato di seguire corsi di recitazione che poi re molto “più piccolo”, minimale. Del cinema e della sono risultati essere completamente inutili al fine tv apprezzo la precisione nei dettagli e la cura dei della tua crescita artistica? Quali pensi siano le caparticolari. Del teatro invece, amo il lavoro continuaratteristiche che un’accademia/scuola dovrebbe tivo alla ricerca del personaggio e il contatto diretto avere per garantire un’adecon il pubblico. Nella mia guata formazione? vita sono entrambi imporL’unica scuola che realmentantissimi. Secondo te si diventa atte mi ha fornito una adeguatori oggi più per un’urta preparazione è stata il genza di raccontarsi atTeatro Stabile di Genova, a traverso i propri persocui sono stato ammesso tranaggi o per una ricerca di mite varie fasi di selezione. notorietà? Secondo me una buona scuola dovrebbe riuscire ad Non mi sento di generalizzaevidenziare le reali potenre, alcuni sono attratti dalla zialità individuali, fornendo vita da “divo” senza rendersi a ciascun allievo gli struconto del percorso che c’è menti per far emergere la dietro. Credo che, al di là propria personalità. Ovviadelle aspirazioni individuali, mente si tratta della “base” solo per chi è spinto da reale su cui poi il singolo dovrà passione valga la pena intracontinuare a lavorare per prendere questa professione. tutta la sua carriera. InsomViviamo in un momento ma per me si tratta di un molto difficile per il mondo “percorso infinito”. Non della cultura e dell’arte e se manca anche la spinta inteconsidero utili seminari di riore c’è il rischio di rincorbreve durata e che poi spesrere un’illusione che non si so hanno anche costi molto concretizzerà mai. elevati. Maximilian Dirr, foto di Azzurra Primavera ©
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Avvolta nel mio respiro di Adriana Mattorre Adriana Mattorre frequenta la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Roma Tre. La situazione di disabilità in cui vive sin dalla nascita l’ha costretta, per anni, nel silenzio e in un mondo di solitudine che, grazie all’uso del computer e ad una nuova tecnica riabilitativa, è riuscita ad infrangere per conquistare la comunicazione con il mondo in tutta la sua freschezza e il suo dolore. Non ha l’uso della lingua né del linguaggio gestuale, ma le sue parole, i suoi versi sono la testimonianza della meravigliosa avventura esistenziale di una giovane che, dotata di particolare sensibilità, ha operato il “miracolo” di capovolgere l’impietosa diagnosi dei medici che le avevano negato la possibilità di un futuro nella società civile. Nel 2006 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie (Adriana Mattorre, Sassi disagiati, Vibo Valentia, Qualecultura, 2006). Collabora inoltre con la nostra rivista. Vi proponiamo qui una scelta di sue poesie ancora inedite. Domani Canto il silenzio delle mie buie giornate di niente riempite Accudisco i sogni salati del mio ardente spirito Ascolto la verità del mio futuro davanti allo specchio *** Dolce sarà sentire Dolce sarà sentire la voce della mia anima quando le gioie di una vita normale diletteranno il mio paranoico malato cuore *** Amore silenzioso Le due vette innevate dolci istantanee di un amore silenzioso per il bollente mondo di oggi folle di odio e di violenza *** Serenità Tu illumini le tue felici acque della luce pura del mattino fonte di delizia per tutti i sensi Si imprimono nella memoria questi suoni e queste immagini che mi sospingono a una serenità ritrovata Romantico fiume essere a bordo della tua riva è rinviare il triste ritorno alla realtà solitaria e silenziosa
Cosa sarò? Cosa sarò? Sarò faro di notte per uomini e donne persi nella follia della solitudine *** Dolci mie bianche montagne Dolci mie bianche montagne che siete nel mio cuore fendendo con lo sguardo le vette ho dominato la mia esondante umile paura di soprassedere al futuro *** Dopo la notte Sillabavo le mie promesse di mille avventure Sincere silenti sillabe avevano un fastidioso interminabile duro tono di paura finché si leva sopra di me al mio grido di vita una parola speranza *** Oggi Oggi io non mi muovo non muovo un passo Vinco il buio domani
Ero triste Gioco con i rimpianti tolgo scuri ricordi avrei oltre le dure immediate risposte un desiderio avere nel mio cuore la speranza *** Fiori del popolo Trema la terra per timidi sorrisi per rombi disumani per i cuori spezzati trema la terra per umiltà negate per poche anime perse per la Giustizia violata di niente trema il vostro coraggio pochi nomi rimarranno dolorosamente universali Trema lontano un mondo suddito della violenza trema il Potere rimasto solo trema il mio cuore libero dalle immagini di cinici rimorsi gioisco a vedere i giovani che vincono il regime mafioso nomi giganti della Giustizia nomi di luce meritata (anniversario della morte dei giudici Falcone e Borsellino) *** Fuga Gioie festose vivono in me canto la mia fuga surreale Fresche illusioni permettono al nuovo di avanzare Aspetto la risposta ai miei sogni dimentico la fatica di vivere sono fedele al mio cuore *** Voglia di vivere Foglie vane che si disperano per me che colorano i voli di sinceri desideri dolci dolci sussuri Covando i liberi sogni rubo la vita
Gioie vere Umili gioie io vorrei non effimeri mistificanti diritti Fare nuovi incontri fuori dalle abituali buie situazioni fendere le dolci rinnegate didascalie d’amore diventare una donna assetata di giustizia Ho gioie vere da esprimere sono dubbiosa se accetteranno di cimentarsi per me *** Leggero il segno Leggero il segno simbolo di tanto pensare si fissa sulla carta per fermare il mondo interno di una donna *** Polvere di stelle Io cavalco le mie lontane speranze mi gracidano le molte gioie Più notti nere governano la mia vita più le piccole gioie illuminano l’immancabile notte della mia anima *** Sulle onde del mare Io godevo del sole ammaliante portando con me i labili sogni ancora storditi dal vento ma baciati dall’acqua del mare Ha un dono l’amore per gli altri andare veleggiando con dolci pensieri uniti per il puro piacere di stare insieme
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«Trasparenti verso i lettori, opachi verso i media» Intervista al collettivo Wu Ming
incontri
di Alessandra Ciarletti Wu Ming è un collettivo di scrittori provenienti dalla sezione bolognese del Luther Blissett Project (1994-1999). In cinese mandarino “wuming” significa “senza nome” oppure “cinque nomi”, a seconda di come viene pronunciata la prima sillaba. A differenza dello pseudonimo aperto “Luther Blissett”, “Wu Ming” indica un preciso nucleo di persone: dal 2000 alla primavera del 2008, la formazione ha compreso: Roberto Bui (Wu Ming 1), Giovanni Cattabriga (Wu Ming 2), Luca Di Meo (Wu Ming 3, che è uscito dal collettivo nel 2008), Federico Guglielmi (Wu Ming 4), Riccardo Pedrini (Wu Ming 5). Ciascuno di loro ha un nome d’arte individuale e una produzione “solista”. I Wu Ming appaiono spesso in pubblico in occasione di presentazioni e incontri con i lettori (oltre seicento iniziative nel periodo 2000-2010), ma si rifiutano di mettersi in posa per servizi fotografici. La loro politica è quella di apparire soltanto di persona, in carne e ossa. Il gruppo ha riassunto questa impostazione in un motto: “Trasparenti verso i lettori, opachi verso i media”. A questa scelta si lega anche la particolare posizione degli autori in ordine al diritto d’autore: tutte le opere dei Wu Ming sono infatti pubblicate sotto licenza Creative Commons e dal sito ufficiale del gruppo è possibile scaricare i testi integrali. Fra le opere del collettivo Wu Ming ricordiamo: Q (1999, con il nome Luther Blissett); 54 (2002); Manituana (2007); Previsioni del tempo (2008); Altai (2009); Anatra all’arancia meccanica. Racconti 2000-2010 (2011). Noi lettori siamo abituati a pensare al libro generalmente come all’espressione del pensiero del singolo – a parte alcune note eccezioni – al contrario, il vostro lavoro nasce fin dal principio come collettivo. Ci raccontate come è nata questa idea e come vi siete incontrati? Alcuni di noi si sono incontrati al liceo, altri all’Università di Bologna. Per cinque anni, dal 1995 al
Per cinque anni, dal 1995 al 1999, abbiamo partecipato al progetto Luther Blissett, un nome collettivo, una firma che centinaia di persone hanno utilizzato nel mondo per rivendicare testi, opere d'arte, performance teatrali, programmi radiofonici, bufale rifilate ai giornali 1999, abbiamo partecipato al progetto Luther Blissett, un nome collettivo, una firma che centinaia di persone hanno utilizzato nel mondo per rivendicare testi, opere d’arte, performance teatrali, programmi radiofonici, bufale rifilate ai giornali. Da quella collaborazione è nata l’idea di scrivere un romanzo a otto mani, per sperimentare il lavoro di gruppo in un
campo terribilmente individualista come quello della letteratura. L’esperimento è riuscito e ne è nato un laboratorio di scrittura collettiva stabile, ovvero Wu Ming, che ormai ci accompagna da una dozzina d’anni.
Da quella collaborazione è nata l'idea di scrivere un romanzo a otto mani. L'esperimento è riuscito e ne è nato un laboratorio di scrittura collettiva stabile, ovvero Wu Ming, che ormai ci accompagna da una dozzina d'anni Da un punto di vista pratico come sviluppate il progetto? Ci sono ruoli o compiti specifici all’interno del collettivo? Non ci dividiamo il lavoro, tutti fanno tutto, dalle ricerche storiche alla stesura dei singoli capitoli. I nostri progetti nascono da una prima fase di improvvisazione, dove cerchiamo di sintonizzarci su un tema, una storia e un primo nucleo di personaggi. Fatto questo, cerchiamo di scalettare la trama e di individuare i singoli capitoli che la sviluppano. Quindi entriamo nel dettaglio di quel che succederà nei capitoli 1, 2, 3 e 4, così possiamo distribuirceli come “compito per casa”.
Ognuno di noi proverà a scrivere un capitolo, interagendo con gli altri in chat o per e-mail tutte le volte che si trova davanti a problemi imprevisti. Quando i capitoli sono pronti, ce li spediamo a vicenda e poi ci incontriamo faccia a faccia per leggerli ad alta voce ed esprimere dubbi, proposte di modifica, aggiustamenti, riscritture. A volte il capitolo esce da questa fase rattoppato ma sufficientemente definito per poterlo mettere da parte, in vista di una successiva rilettura. Altre volte invece bisogna buttare tutto e riprovare. Ripetendo il processo per i capitoli successivi, con riletture parziali di tutto quanto scritto, arriviamo a definire una prima stesura del romanzo, sulla quale poi lavoriamo con lima, pialla, sgorbio e bulino, per ottenere – dopo almeno quattro o cinque riletture – la versione definitiva pronta per la stampa.
noi è soprattutto una “mediazione al rialzo” tra molte suggestioni diverse. Intendo dire che spesso ci capita di avere idee contrapposte su come sviluppare un personaggio o una trama. Se per trovare un accordo ci limitassimo a cercare il minimo comune denominatore tra le diverse proposte, il risultato sarebbe ben poco creativo, ci ritroveremmo con una soluzione appiattita, smussata, che non entusiasma nessuno. Da qui il luogo comune secondo il quale un lavoro di gruppo schiaccerebbe le singole deviazioni, e di conseguenza il genio individuale e la libertà espressiva. Creatività, invece, significa mettere da parte le diverse proposte e cercarne una ancora diversa, che però contenga gli spunti proposti e li rielabori in una direzione più radicale, più innovativa, più divertente da scrivere. Un massimo comune multiplo che metta davvero tutti d’accordo.
Siamo convinti che le opere sono prodotti collettivi, nascono da una comunità e a quella comunità devono tornare, senza costi aggiuntivi. Pertanto, il contenuto dei nostri libri è gratuito, mentre l'oggetto-libro ha un prezzo di copertina e bisogna comprarlo o rubarlo o prenderlo in prestito
Crediamo che la creatività sia sempre figlia di un processo collettivo, anche quando l'idea “nuova” sembra uscire dalla testa di un singolo individuo
Che cos’è per voi la creatività e come si declina all’interno di un gruppo? Crediamo che la creatività sia sempre figlia di un processo collettivo, anche quando l’idea “nuova” sembra uscire dalla testa di un singolo individuo. Essere creativi significa tradire le aspettative, produrre uno scarto rispetto a una direzione attesa, e dunque lavorare con strutture e meccanismi che definiscono ciò che è prevedibile e ciò che non lo è, ovvero dispositivi sociali, elaborati da un’intera comunità. Per
In internet non si trova alcuna foto vostra, eccetto gli scatti “rubati” durante gli incontri letterari; a questa non esposizione mediatica, avete contrapposto l’autorizzazione alla riproduzione parziale o totale delle vostre opere. Ci parlate della vostra poetica? Urca, questa è una domanda complicata... La nonesposizione mediatica deriva dall’idea che l’opera è più importante dell’autore, o quantomeno della sua faccia e della sua biografia. Ci piace incontrare i lettori in situazioni conviviali, non attraverso la schermo di una tivù. Se qualcuno ci riconosce, per strada, è perché ci ha incontrato davvero, in una libreria o in una biblioteca, e non perché ci ha visto di sfuggita in una foto dove posiamo “da scrittori”. Poi siamo convinti che le opere sono prodotti
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collettivi, nascono da una comunità e a quella comunità devono tornare, senza costi aggiuntivi. Pertanto, il contenuto dei nostri libri è gratuito, mentre l’oggettolibro ha un prezzo di copertina e bisogna comprarlo o rubarlo o prenderlo in prestito.
Creatività significa mettere da parte le diverse proposte e cercarne una ancora diversa, che però contenga gli spunti proposti e li rielabori in una direzione più radicale, più innovativa, più divertente da scrivere. Un massimo comune multiplo che metta davvero tutti d'accordo In molti vostri lavori mescolate documenti di archivio e avvincenti tessuti narrativi. Con voi sono rivissute le speranze disattese delle Sei nazioni irochesi, il fermento ideologico/religioso che incendiò l’Europa del ‘500, gli intrighi pseudo-internazionali oltrecortina. Da cosa nasce questa necessità storica? Nasce dalla nostra ignoranza, perché nessuno di noi è uno storico professionista. Ci interessiamo a un periodo storico proprio quando sentiamo di non conoscerlo abbastanza, di averne un’immagine stereotipata o monumentale. Allora ci mettiamo alla ricerca di crepe e punti di rottura, per far crollare il monumento e provare
a rimontarlo da una prospettiva diversa. Questo perché siamo convinti che il passato non è fatto di carta o di marmo, ma di vita, e in quanto vita ci accompagna sempre, determina quel che ci succede oggi, il nostro modo di percepire il mondo e di raccontarlo. Due scelte mediatiche forti: Giap e Nasser. Due uomini dell’esercito che con la loro lotta hanno fatto guadagnare l’indipendenza ai loro rispettivi paesi. Perché proprio loro? Per quale indipendenza vi battete? Giap è il simbolo della guerriglia anti-coloniale, Nasser è tra i fondatori del Movimento dei paesi non-allineati, cioè di quegli stati che cercavano di star fuori dalla Guerra Fredda e dalla divisione del mondo in blocchi contrapposti. Concepiamo il nostro lavoro in modo non dissimile, come un guerriglia per non allinearsi, per far emergere storie indipendenti, per moltiplicare le alternative al pensiero unico, per ricordare e raccontare altrimenti. Un’anticipazione sul vostro prossimo lavoro? Ci occuperemo della Rivoluzione francese, e in particolare dei periodi noti come Terrore, Termidoro e Direttorio. Racconteremo una storia a tratti comica, a tratti grottesca, mettendo in scena gang di strada, supereroi mascherati, eresie scientifiche, donne in armi e cospirazioni. Concepiamo questo romanzo come il secondo volume del trittico iniziato con Manituana e dedicato all’età delle rivoluzioni, quella americana e quella francese, da una parte all’altra dell’Atlantico.
I colori del buio Intervista a Roberto Vecchioni di Alessandra Ciarletti Roberto Vecchioni, cantautore, scrittore, insegnante. È stato per trent’anni professore di greco, latino, italiano e storia in vari licei classici di Milano e di Brescia. La sua attività nel mondo musicale inizia negli anni Sessanta, quando comincia a scrivere canzoni per artisti affermati. Nel 1971 incide il suo primo album, Parabola, che contiene la celeberrima Luci a San Siro. Nel 1977 con l’album Samarcanda raggiunge il primo grande successo di pubblico, cui faranno seguito più di venti album e altrettante raccolte per una vendita totale che supera gli otto milioni di copie. Nel 2011 ha vinto il Festival di Sanremo con la canzone Chiamami ancora amore, tratta dall’omonimo album. Nel novembre scorso è uscito il doppio albumI colori del buio, sua prima antologia ufficiale, capace di rappresentare le sue diverse anime, quella popolare, quella più classica fino ad arrivare al jazz. È inoltre autore di libri e saggi. Fra le sue opere letterarie ricordiamo la raccolta di racconti Viaggi del tempo immobile (1996); i romanzi Le parole non le portano le cicogne (2000), Il libraio di Selinunte (2004) e Scacco a Dio (2009) e la raccolta di fiabe Diario di un gatto con gli stivali (2006). Continua la sua attività d’insegnante presso svariate università italiane e straniere. Ha tenuto il corso di Forme di poesia in musica, presso le università di Torino (dal 2001 al 2003), di Teramo (2004-2005) e di Pavia dal 2006 ad oggi.
Il 29 novembre scorso è uscito il suo ultimo album, una doppia raccolta con 33 brani scelti dalla sua quarantennale carriera ma anche due pezzi inediti, I colori del buio, che poi dà il titolo al lavoro, e Un lungo addio. Qual è il filo conduttore che va da Luci a San Siro a Samarcanda? Il filo conduttore è dato dal titolo, I colori del buio: sono 33 episodi che hanno determinato la mia vita. Sono spunti di colore che sono stati essenziali per me e che, nel bene e nel male, nel dolore o nella gioia, hanno segnato quegli scatti fondamentali che poi non ti dimentichi.
Il segreto è quello: aumentare la capacità, la possibilità interna di dare un senso alla vita. Una vita senza incontri o una vita che rimanda agli incontri di sempre e che non ne provochi di nuovi è inutile. Ci vogliono sempre nuovi incontri, nuove parole, anche nuovi litigi La sua creatività si muove infatti intorno a temi quali il sogno, la notte, l’amore, temi che a mio avviso hanno molto a che fare con le capacità dell’anima. Sono questi forse i “colori del buio”… Sì. E poi le stelle, la speranza, il passato, il ricordo… Questi sono temi fondamentali per me. Soprattutto la speranza, che è un tema fortemente consolatorio. Per me la forza della speranza è l’ottanta per cento della sopravvivenza. E mi pare bello qui citare il mito di Pandora: quando tutti i mali escono dal vaso, la spe-
ranza resta. Anche i greci sapevano questa cosa: che la speranza è fondamentale contro tutti i mali. E poi le persone. Più dei concetti, più delle idee di libertà, di speranza, di gioia, d’amore, quello che conta sono le persone che conosci, le persone che ami, che hai amato, gli amici, le persone con cui hai condiviso qualcosa, una lotta, o anche gente che hai incrociato un giorno e che ti ha dato però molto. Perché il segreto è quello: aumentare la capacità, la possibilità interna di dare un senso alla vita. Una vita senza incontri o una vita che rimanda agli incontri di sempre e che non ne provochi di nuovi è inutile. Ci vogliono sempre nuovi incontri, nuove parole, anche nuovi litigi. Anche a sessant’anni o a settanta si scoprono sempre persone che ti fanno tornare giovane.
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Venendo alla creatività, che è poi il tema di questo numero, ci può raccontare cosa è per lei? Credo che molti direbbero che è qualcosa di inspiegabile. Ma non credo che sia così in realtà. Credo che sia spiegabile, anche chimicamente, anche se io a questo non ci arrivo. Io credo che esistano diverse forme di porsi di fronte alle cose, a quello che succede. C’è chi la butta più sul razionale, sulla logica, sull’intelligenza; chi riceve input dall’esterno con grande flessibilità e li fa propri ma non riesce poi a trasmetterli e poi c’è chi riceve dall’esterno sensazioni fortissime, o che sente fortissime, e ha la capacità di poterle ritrasmettere: questa è la creatività. La creatività non nasce mai dal nulla (se no parliamo di Dio che crea!), noi abbiamo sempre bisogno di stimoli. E io mi sono accorto nella mia vita che a volte da uno stimolo impensabile, a volte da una sciocchezza, può venir fuori un romanzo o un disco intero. È come una reazione a catena: basta partire da una cosa che ti dà una gran voglia di comunicare. Lei è un grande cantautore ma non per questo ha smesso di insegnare. Il binomio artista/insegnante è forse quanto di meglio uno studente possa ricevere. Nel suo approccio formativo che spazio ha la creatività? Io penso che la creatività a scuola, come all’università, serva tantissimo perché le informazioni, le nozioni, anche se date bene ai ragazzi, non li esaltano, non li coinvolgono, non gli danno passione. Invece quando hanno a che fare con una persona che le cose di cui parla le ha vissute o le ha amate – come succedeva a me per la letteratura greca o latina o come oggi mi succede all’università per la letteratura in canzone – quando sentono che una persona si emoziona a raccontare le cose che ha letto, quando sentono che dentro quelle cose c’è l’umanità, ecco allora tutto arriva molto prima. «E ti ho sparato sulla bocca invece di baciarti perché non fosse troppo lungo il tempo di lasciarti». Questa frase mi ha sempre molto colpita: e anche oggi rende bene il clima di un tempo eroso dalla violenza e bisognoso di poesia. Stranamore parla di vita, violenza ideologica, ma parla soprattutto di amore. Cosa significa per un padre, se si può spiegare, sollevare il proprio figlio? Questa immagine del padre che solleva la figlia fa parte di un’immagine più grande, che poi a ben vedere, è un’immagine che ritorna anche nella canzone I colori del buio, quando io dico a Dio che non sono tagliato per fare il pescatore di anime. In Stranamore è la stessa cosa, solo che lì parlo con gli uomini: io non sono tagliato per partire su una nave per combattere contro il male perché non sono un coraggioso, non ho quelle corde, né quella ispirazione però sono tagliato per amare tutto quello che ho intorno e soprattutto i figli e per
far vedere ai miei figli quelli che per il mondo vanno a salvare il mondo stesso. Non ci vado io ma gli mostro col dito le persone che devono imitare.
Io credo che esistano diverse forme di porsi di fronte alle cose, a quello che succede. C’è chi la butta più sul razionale, sulla logica, sull’intelligenza; chi riceve input dall’esterno con grande flessibilità e li fa propri ma non riesce poi a trasmetterli e poi c’è chi riceve dall’esterno sensazioni fortissime, o che sente fortissime, e ha la capacità di poterle ritrasmettere: questa è la creatività L’anno scorsa ha vinto Sanremo con una canzone carica di denuncia. Cosa è per lei scrivere? La scrittura ha due cose meravigliose. La bellezza intrinseca quando la rileggi: ci sono cose che formalmente sono belle già per i fatti loro. E poi la denuncia, quando la denuncia che fai non è qualunquista ma è così originale che arriva, è così precisa per i tempi che arriva perfettamente alle persone e fa bene. Nel suo ultimo romanzo, Scacco a Dio, un Dio che non riconosce più le sue creature si fa raccontare gli uomini dal suo primo consigliere. In altre sue opere (Il diario del gatto con gli stivali) ci mette di fronte a realtà mutate, disvelate, tradite. Come racconta l’uomo ai suoi giovani studenti? Lo racconto nelle sue incongruenze, nelle sue scelte sbagliate, nei suoi dubbi, nelle sue insicurezze… Tutto il Novecento è maestro di questo, fondamentalmente Borges e Kafka, che sono due maestri insuperabili, e poi Calvino e tanti altri. Io non sono uno scienziato: le cose esatte non mi interessano, anche perché secondo me non esistono le cose esatte. E allora mi piace, mi diverte anche, ribaltare completamente le situazioni, vederle dall’altro lato, dall’altra parte. In ogni caso la misura di tutto ciò è l’uomo che, tanto in una situazione canonica, quanto in una completamente rivoltata, sa muoversi e sa come rispondere. Ci ha lasciato in questi giorni Lucio Dalla. Qual è il messaggio che ci lascia con la sua vita e con la sua opera? È un messaggio universale. Molti cantautori cantano per sé, qualcuno per far soldi anche, tanti per far vedere quanto sono bravi. Lucio invece ha cantato sempre per gli altri. Con un piglio e un’altezza letteraria notevoli, ma, nonostante questo, riuscendo ad arrivare a tutti. E d’altronde la sua opera è stata molto simile alla vita, perché anche nella vita era con tutti: per strada, nei locali, in vacanza, a lavoro. Era l’amico di tutti. Era proprio un uomo fra gli uomini. E per questo tutti lo considerano anche un proprio patrimonio. Io non ricordo di aver mai visto un funerale così affollato: perché quando si vuol bene bisogna manifestarlo.
«Wabi sabi: il bello che invecchia» La strada della creatività, secondo Silvia Makita di Valentina Cavalletti
Silvia Makita, architetto e artista. Di famiglia giapponese-romena, la sua formazione, oltre la laurea in architettura spazia a 360°: musica, danza, scultura in pietra, arte dei giardini, calligrafia, insomma arte e integrazione tra le arti. Ultima, ma non meno importante, la ricerca sulla pedagogia, sviluppata dalla lunga frequentazione della scuola Montessori nell’infanzia e Steineriana nella maturità. Da quindici anni ha fatto la scelta di rimanere al centro di una sana vita domestica e si impegna affinché da essa e non da studi professionali si reimpostino questioni artistico-architettoniche, nonché urbanistico-sociali. Studia il modo di sublimare il lavoro della famiglia e delle madri, dal punto di vista dell’arte e della pedagogia. Nel 1997 partecipa a diversi simposi tra rinomati artisti del paesaggio in Norvegia, a Larvik, in favore di un’arte libera dal mercato, realizzando “Ein Tag: Dialog zwischen Licht und Stein”, da allora si convince del valore intrinseco delle opere, rifuggendo la sempre più intensa commercializzazione di esse. Lavora come architetto e artista per la famiglia e solo come “iniziatore di concezioni spaziali” per i clienti esterni. Nel 2003 partecipa alla biennale di Venezia con il lavoro “1000 gru”, opera artistico-famigliare, da allora si impegna in azioni di urbanistica sociale con i progetti Darsena Pioniera, Le Madri, Un Albero Un cortile, Narimaki, Yurtha Urbana. Crea il fondo Y.U. per le madri che vivificano il loro stare a casa con manufatti in maglia realizzati “Fianco Al Figlio”. Cos’è per te la creatività? Sto imparando sempre meglio a capire cos’è la creatività lavorando a stretto contatto con i bambini. Prima di tutto come madre mi sono resa conto dell’importanza del gioco libero: i bimbi sono tutti degli artisti! Qualsiasi uomo nasce con la propria unicità: stando al loro fianco questa unicità può spaventare,
perché è una libertà che porta a delle forme di espressione non riconoscibili in un primo momento. Ma il punto cruciale, nella crescita di un bambino, è proprio questo: non aver paura di bloccare il gioco libero, lasciando che ciascuno si esprima con le proprie modalità. Anche un ricercatore al proprio microscopio ha bisogno di una formazione libera e di coltivare questa capacità non scontata di saper apprendere dal passato senza perdere il proprio punto di vista. Che tipo di lavoro fai con i bambini? Ho aperto una parte della mia casa, che ho progettato adattandola e ripensandola per i bambini, con cui lavoro in piccoli gruppi. Ho preparato i muri con la calce e un pigmento ocra che ricorda la sabbia del mare; ho sgombrato lo spazio, levando gli oggetti che si erano accumulati. Ho posizionato al centro un tavolo antico, riportandolo completamente a legno; ho messo molti materiali dentro una sorta di scatola del tesoro, scegliendo le stoffe migliori che avevo, di lino e di varie tinte, inserendo anche tante mollette con cui si possono costruire le case o avvolgere le bambole. Ho messo a loro disposizione gli attrezzi della cucina, come pentoline o utensili di vario tipo, invitanti e molto belli, perché la bellezza attira i bambini. Loro sanno che quando mi avvicino alla scatola e tiro fuori il filo d’oro, è il momento in cui comincia a volare la fantasia: prendiamo un pezzetto di legno, che potrebbe essere un uccellino e, con l’uncinetto, gli prepariamo un nido:così nasce una storia. Quando i bambini non hanno un gioco preconfezionato e si dà loro qualche ingrediente, si arriva al centro della creatività. È un soffio: quando si prende la direzione giusta, si dà il via all’immaginazione e alla fine si arriva a giocare anche con
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l’aria. Quando li osservo, penso che un giocattolo comprato non sarebbe stato altrettanto divertente. Il mercato ci ruba tutto, anche i desideri. Crea nuovi bisogni e nuove esigenze, che spesso non ci appartengono. A volte si protegge il bambino dalle cadute o dalle malattie, invece esistono a mio avviso pericoli più subdoli da cui è necessario proteggerlo. La tendenza generale è quella di riempire di impegni la loro giornata e di delegare i momenti di relax alla televisione o al computer. A me sembra più salutare lasciare a loro disposizione il tempo della creazione, un tempo vuoto, in cui ci si può anche annoiare, di cui non bisogna avere paura.
La casa è il luogo più intimo e privato, che meglio ci deve rappresentare. Deve essere un luogo protetto, in cui noi scegliamo cosa può filtrare dall’esterno, facendo entrare solo ciò che abbia un’autentica corrispondenza con noi stessi Nei tuoi lavori c’è una certa attenzione alla casa, come luogo che possa permettere di conciliare tempi di lavoro e tempi di vita. Come può l’architettura aiutare a vivere meglio? L’architettura svolge un compito diverso a seconda che si occupi di progettare gli spazi pubblici della collettività (teatri, scuole, ospedali) o che si occupi di progettare la casa, che è l’involucro più intimo di ciascuno di noi. Nella vita attuale c’è un abbandono di questo involucro, a causa del lavoro e dei ritmi di vita che conduciamo. Tuttavia la casa non è un negozio, né un ospedale. Alcuni architetti la progettano senza pensare al fine dell’abitare e pertanto molte case sono invivibili e in qualche modo ti respingono. La casa è il luogo più intimo e privato, che meglio ci deve rappresentare. Deve essere un luogo protetto, in cui noi scegliamo cosa può filtrare dall’esterno, facendo entrare solo ciò che abbia un’autentica corrispondenza con noi stessi. Parlando della tua storia personale si può dire che hai molte patrie. Tuo padre era giapponese e tua madre rumena. Ti sei ritrovata a nascere in Italia, vivi tra Milano e Lucca, hai studiato in Germania e in Norvegia. Questa mescolanza di storie di paesi lontani e diversi come influenzano il tuo modo di lavorare? Qual è la cultura che domina di più dentro di te e che di conseguenza ti ha più formato? La cultura giapponese mi ha influenzato molto, in particolar modo riguardo alla mia idea di casa. In Giappone assistiamo alla sublimazione dell’arte domestica. Qui l’arte migliore puoi avvicinarla quando varchi la porta di una casa, che si apre sempre verso l’esterno, con un giardino: la vita domestica è presa molto seriamente e ogni oggetto della casa, ogni pianta può diventare un’opera d’arte. Non si deve andare in un museo per conoscere l’arte di questo popolo, l’arte è vicina all’uomo, è interna alla vita stessa.
In Occidente, nelle gallerie d’arte, mettiamo in mostra sempre ciò che è invivibile o malato, e molto raramente mostriamo un’arte addomesticata. Quello che può affiancare l’uomo va preso invece con grande serietà. Se in una famiglia di 5 persone ognuno ha la propria tazza, il gesto quotidiano di sorseggiare un tè o di fare colazione viene sublimato con un oggetto speciale. Questo permette di non rimandare la bellezza altrove, al di fuori di noi stessi e della nostra quotidianità. Cos’è la bellezza? La bellezza ha a che fare con la felicità? La bellezza ha completamente a che fare con la felicità. Per me la bellezza è un processo, è tutta la vita dedicata a cercarla. Quando osservi un tornitore al lavoro, quando si cucina un piatto molto buono, ci si rende conto che chiunque è nel fare ha una sua bellezza intrinseca, proprio per il fatto che è pienamente dedicato e coinvolto in quell’azione: è una questione di spirito. A volte noto una paralisi nelle persone, che hanno in mente una bellezza statica, rigida, glaciale: «Non muovere questo, non muovere quello!» si sente gridare ai bambini. Ma la vita non si può fermare, così si va di nuovo verso un negozio, verso la galleria. In Giappone c’è un termine bellissimo che è wabi sabi: il bello che invecchia. Nella nostra parte di mondo non siamo d’accordo con questo concetto, sembra che debba essere tutto sempre nuovo e prestante per essere bello. Ma in realtà una stoffa invecchiata e logora in un punto, o i muri vecchi, come quelli che possiamo vedere passeggiando a Venezia, con i pigmenti che si staccano per la pioggia e l’umidità, sono meravigliosi. La bellezza è il processo della vita, è la dinamica che porta ad avere una tensione verso l’armonia.
L’alchimia dell’intuizione Intervista a Gualtiero Marchesi di Alessandra Ciarletti
Gualtiero Marchesi è nato a Milano da una famiglia di ristoratori pavesi, grazie alla quale ha mosso i primi passi in ambito gastronomico. La svolta arriva nel dopoguerra, a partire dagli anni di apprendistato al Kulm di Saint Moritz e alla Scuola alberghiera di Lucerna (1948-1950). Rientrato in Italia, rimane per alcuni anni nel ristorante-albergo familiare, per proseguire poi il suo perfezionamento a Parigi. Nel 1977 fonda il suo primo ristorante, a Milano, conquistando la prima stella Michelin, seguita, l’anno successivo, da una seconda. Nel 1985 riceve, primo ristorante in Italia, il riconoscimento delle tre stelle della guida francese. Nel 2008, sarà anche il primo, ma questa volta al mondo, a riconsegnarle tutte, convinto che, ormai, si tratti di un gioco al rialzo, dove si sale e si scende per tenere alto il buon umore e le fortune dei critici. Nel 2008 apre il Ristorante Teatro Alla Scala “Il marchesino”. È rettore dell'ALMA, Scuola Internazionale di Cucina Italiana con sede a Colorno in Provincia di Parma e nel giugno 2006 ha fondato la Italian Culinary Academy a New York. In occasione dei suoi ottant'anni nasce il 19 marzo 2010 la Fondazione Gualtiero Marchesi che ha come missione quella di custodire e valorizzare il suo “sapere” e che sarà attiva nella diffusione “del bello e del buono” approfondendo le ispirazioni artistiche fondamentali per la cucina creativa. Senza retorica possiamo dire che lei è il padre della cucina italiana contemporanea: ci racconta cosa è per lei questa arte deliziosa? La cucina sono anche e soprattutto i cuochi, In questo senso condivido quanto mi diceva Ernesto Illy che li definiva dei “chimici dell’intuizione”. Fare una cucina corretta, conoscere a fondo il cosa, il come e il quando o restare dei brusapadei, dei brucia padelle.
Cucinare è anche un mistero: le ricette si tramandano mantenendo sempre qualche legittima omissione che lascia spazio alla personalità che di volta in volta le realizza. Eppure negli ultimi tempi assistiamo a una crescente spettacolarizzazione di questa arte, che al tempo stesso è cultura ed elaborazione culturale, riducendola spesso alla capacità di tenere il tempo e di dosare meccanicamente gli ingredienti. Cosa pensa di questi talent show?
Raviolo aperto
Dripping di pesce, foto di M. Borchi ©
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Già la bruttezza del neologismo: spettacolarizzare, dice tutto. Difficile che si possa fare qualcosa di veramente intelligente, armonico, giusto. Solo a forza di cucinare, di studiare e ripetere, può capitare che si diventi cuoco. Arrivare, poi, a comporre, come nel caso della musica, è tutta un’altra storia. Per quello che mi riguarda, l’ho ripetuto altre volte, io sono moderno per quanto mi concede la mia storia o se preferisce sono un conservatore che cammina verso il futuro.
La cucina sembra facile, perché abbiamo fame ogni giorno; è di tutti, ma non per tutti Lei è anche un grande appassionato dell’arte nel senso più ampio. D’altronde l’arte culinaria è lei stessa indagata in tanti campi artistici, dalla pittura alla letteratura. Perché secondo lei intorno alla cucina si sviluppa così tanta poesia? Cosa rivela di noi e cosa saggiamente nasconde? La cucina sembra facile, perché abbiamo fame ogni giorno; è di tutti, ma non per tutti. Infatti, mi dica, secondo lei, quante persone si commuovono veramente di fronte alla Pietà Rondanini, ad un tramonto o alla luna? La buona cucina ci rivela la bellezza del creato, la voglia di stare al mondo, la saggezza di rendere le cose semplici e fatte bene.
La cucina sono anche e soprattutto i cuochi. In questo senso condivido quanto mi diceva Ernesto Illy che li definiva dei “chimici dell’intuizione” Perché l’eccellenza italiana deve essere sottoposta a parametri valutativi francesi? Questo è un grande Paese, ha grandi prodotti e buoni interpreti. Dovrebbe crederci di più. Se non erro il suo piatto preferito è Riso oro e zafferano. Perché? E, se c’è, qual è il piatto che non cucinerebbe mai?
Gualtiero Marchesi all’inaugurazione del Ristorante Teatro alla Scala “Il Marchesino”
Mica solo quello! Non mi metto a cucinare se non ho gli ingredienti giusti. Negli ultimi anni ha preso piede la cucina molecolare. Cosa ne pensa? Preferisco non pensarci. Vede, la cucina è di per sé scienza. Recentemente ha firmato i nuovi panini di McDonald’s. Apparentemente sembrerebbe una contraddizione… Ho studiato e messo a punto delle ricette per due panini e un dolce. Se non lo fa un grande cuoco, chi deve farlo?
«Creare è resistere e resistere è creare» Creatività come movimento e adattamento
«L’emozione dell’incontro è questo: lo sconvolgimento, lo stupore, la sorpresa derivanti dall’apparizione dell’altro» L. Boella Milano, 6 aprile Aquamama performance urbana della compagnia cinzia delorenzi. Avevo deciso che, per parlare del tema dell’acqua e della città, avrei amplificato il suono dell’acqua di una fontanella urbana con un idromicrofono e che poi ci sarei entrata dentro sedendomi sul fondo; l’acqua sarebbe scivolata sulla mia testa e mi avrebbe lentamente bagnato il viso ed i vestiti. Quindi avrei tappato il foro di uscita dell’acqua provocando lo zampillo dal foro superiore, quello da dove molti bevono per non bagnarsi troppo, e poi avrei cantato.
“Successe qualcosa di imprevisto che mi sorprese emozionandomi ed emozionando gli spettatori. La calotta che mi copriva completamente il viso mi piaceva molto e guardandomi nel vetro di un autobus fermo al capolinea decisi di infilarla subito. Appena l’acqua scese sul mio viso sentii il tessuto incollarsi alla mia pelle, l’acqua entrare nelle narici. Il desiderio di respirare mi fece emettere uno sbuffo d’aria che allontanò il tessuto dalla mia pelle provocando un effetto mantice, come se davvero fosse la pelle di un pesce a sollevarsi ritmicamente al ritmo delle sue branchie” Era la prima rappresentazione e avevo appena ricevuto da Lucia, la costumista, la calotta color blu elettrico di tessuto luccicante ed elastico che pensavo avrei utilizzato per la scena successiva, quella davanti alla saracinesca di piazza Fontana, dove il poeta Ivan aveva scritto la sua poesia sulla strage. Sempre in quei giorni di prova mi immaginavo questo pesce blu, davanti a quelle parole azzurre scritte sul fondo bianco, muoversi e dimenarsi, imprendibile e scivoloso con sottofondo la canzone di Lucio Dalla, Com’è profondo il mare. Mi ero accanita molto nel cercare i movimenti in relazione ai caratteri della scritta e nel sentire lo spazio che mi avvi-
cinava e mi allontanava dalla saracinesca. Sarei entrata in quello spazio lasciando una scia d’acqua versata dagli altri performer sull’asfalto. Sembrava non mancasse nulla per dare vita a quell’immagine che volevo sperimentare insieme al pubblico. Invece successe qualcosa di imprevisto che mi sorprese emozionandomi ed emozionando gli spettatori. Sì, perché la calotta che mi copriva completamente il viso, come la maschera dell’Uomo Ragno, mi piaceva molto e guardandomi nel vetro di un autobus fermo al capolinea decisi di infilarla subito e indossarla già sotto la fontanella pubblica. Appena l’acqua scese sul mio viso sentii il tessuto incollarsi alla mia pelle, l’acqua entrare nelle narici, ed avvertendo un senso di soffocamento non sapevo come recuperare l’aria. Il desiderio di respirare mi fece emettere uno sbuffo d’aria dai miei polmoni che allontanarono di un poco il tessuto dalla mia pelle provocando un effetto mantice, come se davvero fosse la pelle di un pesce che si sollevasse ritmicamente al ritmo delle sue branchie. Il mio viso appariva e scompariva sotto il respiro di questa pelle blu e bagnata ed io respiravo per la prima volta il senso della mia performance. Cito questo episodio perché mi risulta difficile offrire un punto di vista sulla creatività senza parlare di esperienza viva. Posso parlare di creatività attraverso l’esperienza della creazione artistica che, apparentemente più ricca di competenze, necessita invece di una grande dose di creatività. La creatività intesa come accoglienza, relazione e adattamento a condizioni esterne che possono sembrare limitanti. Il fatto di essere costretti ad adattarsi a limiti esterni fa scattare dentro di sé la necessità di creare una nuova forma. Questa nuova forma, frutto della relazione, ha in sé qualcosa di misterioso, non viene solo da dentro ma da qualcosa fuori di me, dall’essermi sbilanciata per incontrare l’altro, l’essere umano o il mondo in quanto natura ed oggetti materiali. Posso quindi affermare che la creatività sorge da dentro, ma altrettanto arriva verso di me, quando dentro di me appare un’immagine nuova destata dall’incontro con l’altro. Uno stato irrazionale e cosciente nello stesso tempo. È grazie alla Danza Sensibile® che ho esplorato la creatività dal punto di vista del movimento. Gli elementi di osteopatia che la Danza Sensibile® porta in sé introducono al concetto di vita del movimento e di movimento della vita. In questo caso il movimento ha un senso e risponde ad una intenzione profonda. L’obiettivo è di costruire la coerenza tra il corpo fisico, l’azione e chi lo abita. Che senso, che direzione c’è all’interno? Nella misura
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di Cinzia Delorenzi
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in cui uno accetta che il movimento sia specchio della vita, in quanto la vita è movimento, in tutte le sue forme.
Posso quindi affermare che la creatività sorge da dentro, ma altrettanto arriva verso di me, quando dentro di me appare un'immagine nuova destata dall’incontro con l’altro. Uno stato irrazionale e cosciente nello stesso tempo Spesso desideriamo o abbiamo bisogno di qualcosa, ma il corpo ‘parla’ e va in altra direzione. Questa condizione per me, invisibile per anni, ora mi è molto più chiara. Se mi fermo un’istante semplicemente ascoltando il mio corpo capisco se è realmente orientato verso il gesto che vorrei compiere oppure è ‘girato’ verso un’altra direzione. Se voglio concedermi la creatività non solo il pensiero, ma tutto il corpo, deve essere organizzato verso quel progetto.
La Danza Sensibile® mi ha permesso negli anni di affinare il mio ascolto ogni qualvolta mi approccio alla creazione artistica e cioè mi sento in grado di ascoltare attraverso il corpo, di riconoscere i messaggi del corpo, messo in risonanza con un tema specifico. Il corpo allenato in questa direzione diventa uno strumento particolarmente sensibile in grado di darmi dei feedback molto diretti e di nutrire l’immaginario e l’inconscio nella direzione del tema scelto per una specifica creazione. Il corpo, che ha attraversato la pratica della Danza Sensibile®, si trasforma in uno strumento così fine da essere pronto ad entrare anche in un’esperienza di ascolto dell’istanza del vuoto ed accogliere gli stimoli, le ispirazioni e i messaggi che arrivano dall’esterno a nutrire la creazione. Il compito che si impara in questo percorso è proprio quello di saper frequentare quel vuoto da cui ascoltare la manifestazione dell’intenzione creativa depositando la propria presenza sulla terra e, al contempo, di sapere riconoscere i messaggi che il corpo manda quando si concede di fare un’esperienza nel senso profondo del termine, nella verità di ciò che nasce. Ma come scrive Stéphan Hessel, «Creare è resistere e resistere è creare». Questa frase tratta dal suo
Compagnia Cinzia Delorenzi, Aquamama – azione coreografica fantastico-ancestrale in 3 parti e 9 quadri, rappresentata il 6 aprile scorso in piazza Cesare Beccaria a Milano, nell’ambito della XIV edizione del Danae Festival
famoso libro Indignatevi!, mi riporta all’esperienza del percepire le proprie radici, questa pratica della Danza Sensibile®, che conduce davvero a sentire di essere collegato più profondamente alla terra di quanto si possa pensare. Ed è un’esperienza di resistenza.
Come l’albero con radici profonde non si sposta nonostante le sollecitazioni che provengono dall'esterno, allo stesso modo noi esseri umani possiamo pescare la forza dalle nostre radici per dare una risposta al mondo che ci sprona, senza però farci spostare dal nostro progetto di vita Sì, perché come l’albero con radici profonde non si sposta nonostante le sollecitazioni che provengono dall’esterno, allo stesso modo noi esseri umani possiamo pescare la forza dalle nostre radici per dare una risposta al mondo che ci sprona,
senza però farci spostare dal nostro progetto di vita. Tutto questo è ancora più vero quando si entra in uno stato di creatività, il cui significato profondo ha a che fare con la capacità di mantenere la propria direzione, ossia mantenere il patto preso con se stessi e con il mondo nel momento in cui scelgo di seguire il mio desiderio di creare per dare forma al nuovo necessario. E anche se nel percorso creativo ogni avvenimento contribuisce a spostarci dall’obiettivo che ci siamo dati, la capacità di ascolto delle proprie radici, affinata grazie alla Danza Sensibile®, permette innanzitutto di accogliere e in seconda battuta di dare una risposta a tali stimoli, nella coerenza però del proprio progetto creativo. La risposta, in questo caso è infatti di “resistenza nell’accoglienza”: quando infatti si è fortemente radicati nelle proprie radici, ci si può permettere di accogliere quegli elementi esterni – quelle forze e materie messe in campo, visibili ed invisibili, che continuamente ci stimolano all’interno del percorso creativo – per metterli in risonanza con il nostro progetto finale, che liberamente ci si è dati, perché divengano nutrimento per la nostra creatività, e non più soltanto elemento destabilizzatore.
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Arte con todos Lezioni di creatività dalla periferia della Gran Buenos Aires di Gianni Tarquini Nebbia del Riachuelo, canta un vecchio tango porteño. Il Riachuelo, il torrente, il fiumiciattolo, è un corso d’acqua maleodorante, sinuoso e poco profondo che attraversa i popolari e densi agglomerati urbani che circondano Buenos Aires e vi si confondono – tra questi: Avellaneda, Lanús, La Gianni Tarquini Matanza, Lomas de Zamora – e, arrivando a Caminito, sfocia nel Río de La Plata. Non offre panorami naturali degni di nota e la flora e la fauna, una volta rigogliose, hanno lasciato il posto a costruzioni umane niente affatto memorabili sul piano artistico. Le sue acque sono le più inquinate dell’Argentina e tra le più contaminate dal pianeta, frutto dell’operosità dell’homo oeconomicus, sedotto dalle aspirazioni del progresso.
Questo fiumiciattolo nella storia del suo rapporto con l’uomo è stato ribelle e mai domo, nell’estremo tentativo di non passare inosservato, annientato dall’impressionante quantità di residui contaminanti, metalli pesanti e acque reflue, normalizzato nella magmatica metropoli sudamericana.
Il Riachuelo è stato il rifugio accogliente prima delle popolazioni indigene Querandies e poi di tanti immigrati in fuga da fame e persecuzioni, provenienti da tutti gli angoli del pianeta. Sgraziato e minuscolo ma redento e redentore grazie alla sua personalità, alle sue creazioni. Su tutte il Tango, che non esisterebbe senza il porto di La Boca E dobbiamo riconoscere che, con i suoi soli 65 chilometri di lunghezza, nulla per un corso d’acqua che
pretende un riconoscimento dai boriosi umani, c’è riuscito. Tante volte ha affermato che era lì e contava, con i suoi straripamenti eccezionali, supportato dalla trascinante forza del vento che viene dell’oceano. Il Riachuelo è stato il rifugio accogliente, prima delle popolazioni indigene Querandies e poi di tanti immigrati in fuga da fame e persecuzioni, provenienti da tutti gli angoli del pianeta, dall’Europa in particolare. Sgraziato e minuscolo ma redento e redentore grazie alla sua personalità, alla magnanimità, alle sue creazioni. Su tutte il Tango, la musica della passione e della ribellione, che non esisterebbe senza il porto di La Boca – creato da marinai genovesi nel punto d’incontro tra il fiumiciattolo e il vigoroso Río de La Plata – e senza i suoi miserabili artisti. Una terra fertile e ospitale, le illusioni di progresso e le particolari forme d’arte che ha fatto nascere, la ricerca della bellezza e dell’insondabilità dell’animo umano insieme alla volontà di riscatto e di dignità: senza tutto questo forse nemmeno Buenos Aires esisterebbe. La tenacia e la grazia di Carlos Gardel si nutrono in quei paraggi, così come l’estro, l’arte involontaria e lo spirito
ribelle di Diego Armando Maradona e del suo stadio giallo e azzurro, “La Bombonera”, del club sportivo La Boca, fondato da cinque giovani sognatori emigrati dall’Italia. I suoi figli ripartiti alla conquista del mondo. E poi i tanti altri giovani, meno fortunati, coraggiosi e idealisti che volevano un mondo più giusto e che sono “spariti nel nulla”, desaparecidos: alcuni di loro, gettati in un volo mostruoso e mortale proprio in quelle acque, un po’ più in là, hanno lasciato un esempio incancellabile di senso di giustizia, dignità e vitalità contro gli abusi della forza cieca e brutale della dittatura. Il Riachuelo rivoltoso è lì, al suo lato, tra i milioni di quella Gran Buenos Aires sterminata, tanti uomini e donne che si ribellano all’anonimato e non vogliono essere solo un numero o un piccolo pezzo di un enorme ingranaggio. Ed è forse lo stesso spirito utopico, baldanzoso e spericolato che muove alcuni giovani di Lanús a buttarsi a capofitto nell’arte e a volerla diffondere e renderla partecipe nella periferia popolare, tra i resti e l’attualità di grandi fabbriche di macella-
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zione bovina, i gas di s car ico di autoveicoli sbuffanti, caracollanti e instancabili, i sogni di pr ogr es s o nazionale e collettivo del secolo passato. Residui industriali, scorie inquinate e ciò che ne è scaturito: un consumismo globale dilagante e omologante. Sono i giovani di Arte con Todos, arte con tutto e con tutti: con i bambini, perché sognino, e sognerebbero comunque; con le mamme stanche per le loro giornate a servizio degli altri e con gli anziani che rischierebbero di spegnersi davanti a un programma televisivo; con i giovani perché tengano acceso il loro “fuoco”.
A Lanús i giovani di Arte con Todos si sono buttati a capofitto nell’arte, per diffonderla e renderla partecipe nella periferia popolare della Gran Buenos Aires, tra i resti e l’attualità di grandi fabbriche di macellazione bovina, i gas di scarico di autoveicoli sbuffanti, caracollanti e instancabili, i sogni di progresso nazionale e collettivo del secolo passato
Arte nelle strade, sfidando il traffico e la noia, e nella casa aperta, l’Espacio Disparate che, per passare inosservata, offre alcuni dei suoi spettacoli nella via adiacente e che è stata ridipinta con fantasia dopo un incendio. Senza esclusioni da ‘impegnati intellettuali’ ma alla ricerca della creatività che è in ognuno, spaziando dal tango al repertorio classico, dal rock energico o dark, passando per il folklore nazionale, la chacarera, il teatro infantile, gli autori “mostri sacri”, fino alla metafora storica o alla satira socio-politica. Ed ecco allora dar vita a concerti di murga argentina, con le sue musiche, i tamburi e i salti d’origine africana che si intrecciano con la cultura carnevalesca e i testi da picari impudenti ed altre esibizioni di tanghi con bandoneòn ispirati o milongas strappalacrime. Arrivano poi, con l’opera teatrale El Gigante Amapola, i generali di Juan Bautista Alberdi che, impersonando il potere, chiusi nel loro triste e gretto egoismo, ne smascherano la meschinità; saranno le donne del popolo a ribellarsi all’oppressione e all’abuso di autorità. I sogni e la malinconia degli immigrati italiani, che tanto hanno dato a Buenos Aires e all’Argentina, con la loro – la nostra – lingua in omaggio ai 150 anni dell’Italia, in Gringo Golondro. E il progetto Arbolemos, pensato insieme all’associazione Terre Madri, per cercare di trasformare anche il paesaggio, spesso desolato e violentato in questa periferia così densa. Di trasformarlo par-
tendo dai bambini e dai loro luoghi di aggregazione, le scuole, e dallo spettacolo che vede protagonisti due buffoni e un albero, che cresce, interloquisce e diventa protagonista del rapporto vita/finzione teatrale. Tanto protagonista che alla fine un albero vero rimane nella scuola (ne è stato piantato uno in ognuno dei cento e più istituti educativi in cui è stato rappresentato lo spettacolo), lasciato alla cura dei bambini che ne potranno fare il loro “amico immaginario”, fragile ma poderoso allo stesso tempo, il loro confidente e ispiratore per dare all’ambiente una chance di riscatto e all’educazione un volto da pagliaccio e un albero come libro. I giovani di Arte con Todos sono instancabili organizzatori di feste popolari di quartiere e di festival di teatro indipendente, dove il me-
Senza esclusioni da ‘impegnati intellettuali’ ma alla ricerca della creatività che è in ognuno, spaziando dal tango al repertorio classico, dal rock energico o dark, passando per il folklore nazionale, la chacarera, il teatro infantile, gli autori “mostri sacri”, fino alla metafora storica o alla satira socio-politica
glio delle nuove forme espressive, del linguaggio e del corpo, viene messo alla prova con rappresentazioni di qualità e con un pubblico all’altezza. E poi il passo successivo, il coinvolgimento diretto, con i tanti corsi che realizzano, per portare la gratificazione dell’espressione artistica a tutti. Per ogni età e per ogni sogno, chiuso in chissà quale cassetto. E allora: grazie Mariana, grazie Lola, grazie Pedro, grazie Gringo Golondro, gigante Amapola, amico Albero, grazie a tutti. Non lasciate che vengano dimenticati i vostri padri senza corpi che volevano cambiare il mondo, non lasciate che i bambini, i giovani e i ribelli della vostra grande periferia si trasformino in passeggiatori di centri commerciali, in guidatori quotidiani e assuefatti al traffico metropolitano, stanchi e spenti davanti a uno schermo, illusi come spettatori/consumatori di concerti e balli da discoteca, oppure tristi e insignificanti mentre umiliano la propria creatività con l’alcool e le droghe. Trasformateli, almeno per una volta nella loro vita, senza piaggerie e scopiazzature, facendo loro trovare l’estro espresso nei momenti migliori da Gardel e Maradona e che tutti loro hanno dentro. Grazie maleodorante e ribelle Riachuelo, per tenere in vita questo spirito, per sostenere le passioni di questi giovani artisti e per continuare a tenere accesi tanti sogni.
Arte con Todos è un’associazione senza fini di lucro nata a Lanús nel 2005 per iniziativa di alcuni giovani artisti con l’obiettivo di promuovere e migliorare la qualità della vita nella provincia di Buenos Aires attraverso lo sviluppo di progetti e attività artistiche, educative e di protezione dell’ambiente. Realizza corsi di musica, danza e teatro per bambine, bambini e adulti. Produce spettacoli teatrali, organizza festival di cinema, teatro, musica e mostre fotografiche. Lavora nei quartieri popolari e in stretto contatto con le scuole del territorio, convinta che l’arte possa stimolare la naturale creatività, di bambini e giovani in particolare, per migliorare le relazioni tra le persone e tra queste e l’ambiente che abitano. Tra le attività realizzate ricordiamo: El sueño de Raquelita, ispirato alla novella Peter Pan, che ha vinto i premi come miglior spettacolo, regia e attore rivelazione al festival di teatro per bambini di Necochea 2005/06; le tre edizioni del festival di Teatro Indipendente del Sud del Conurbano Boanerense, portando in scena decine di opere prime; il progetto Arbolemos per l’educazione ambientale con i bambini di oltre cento scuole del distretto di Lanús (http://arbolemos.blogspot.it/), realizzato con la ONG italiana Terre Madri (www.terremadri.it). L’associazione ha sede in Montevideo 1265 Lanús – Argentina, presso la casa delle arti Espacio Disparate (http://espaciodisparate.blogspot.it/, espacio@eldisparatevioleta.com.ar).
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Popscene «(Don’t) Look Back In Anger»: l’ossessione per il passato e la nostalgia del futuro nell’ultimo saggio di Simon Reynolds
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di Ugo Attisani Nel suo ultimo libro Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato, Simon Reynolds, probabilmente il più famoso ed influente critico musicale di questo decennio, affronta uno dei temi più delicati nel mondo della cultura attuale. In uno scenario ormai dominato da inUgo Attisani ternet, social network e da sempre più nuovi e numerosi strumenti di riproduzione musicale digitale, pare sempre più evidente il declino dell’originalità e della creatività artistica a favore del predominio della nostalgia, che sfocia in un continuo riciclo di temi, suoni e immagini da un passato neanche troppo lontano, ma già assurto a ruolo di nuovo canone estetico. Del resto basta dare un ascolto neanche troppo attento alla miriade di trend, generi e sottogeneri che negli ultimi anni si sono succeduti all’attenzione degli ascoltatori, per scorgere un infinito gioco di richiami e rimandi ai suoni, alle costruzioni e anche all’immagine di artisti dei decenni precedenti, fino a coinvolgere anche quelli più oscuri e sconosciuti. Questo per non parlare di altri campi del mondo dello spettacolo, come il cinema e la stessa televisione, dove l’ultimo decennio è stato dominato da ogni possibile e immaginabile remake di film o serie tv degli anni Settanta e Ottanta. È questa, secondo Reynolds, l’epoca in cui la nostalgia diventa la principale protagonista dello scenario culturale, laddove la moltiplicazione incontrollabile dei supporti di riproduzione e degli strumenti e dei luoghi della loro condivisione permette di compiere quell’ideale viaggio a ritroso nel tempo che era stato fino a poco tempo fa l’ostacolo principale (e viene quasi da dire, opportuno) al ricongiungimento con un passato idealizzato, elaborato e manipolato fino a farlo diventare un’età dell’oro. Non sorprende che il campo di realizzazione di questa rivoluzione al contrario sia il mondo della cultura popolare, dato che, come ci ricorda lo stesso Reynolds, la musica popolare nasce con l’invenzione delle registrazioni fonografiche, che permettevano per la prima volta alla musica di circolare direttamente attraverso una sua singola ed individuale esecuzione, cristallizzata nel tempo, per essere fruita da una massa nello stesso medesimo arco di tempo, e non più attraverso uno spartito. Una rivoluzione, quindi, legata strettamente
ad un’evoluzione tecnologica prima, e commerciale dopo, che ha fatto sì che la musica, ma anche il cinema e la televisione diventassero il punto di riferimento di un mondo che andava sviluppandosi in modo sempre più veloce, aumentando ancor di più quel senso di spaesamento che accompagna ogni passaggio da un’epoca a un’altra. Nel suo saggio Reynolds mette da parte ogni possibile timidezza e prende decisamente posizione contro questa tendenza del passato a dominare la scena della cultura popolare. E in una serie di capitoli identifica quelli che sono stati secondo lui i principali attori di questo fenomeno. Come già detto, l’autore individua una radice tecnologica del fenomeno, dovuta alla possibilità, per la prima volta nella storia, grazie alla rete e agli strumenti di condivisione online, di accedere in un lasso di tempo brevissimo e a costo praticamente zero a qualsiasi prodotto culturale del passato. Questa libertà pressoché infinita di conoscenza e documentazione però porta con se il rischio di un sovraccarico di informazioni per l’ascoltatore, senza che ciò sia accompagnato da un incremento corrispettivo della capacità della nostra memoria di gestire questa immensa mole di dati. Il simbolo di questo passaggio culturale è, per Reynolds, Youtube, dove, nel giro di pochi anni, è stato riversato praticamente quasi tutto lo scibile culturale, senza però nessuna forma di criterio di catalogazione, in ossequio alla logica della spinta dal basso dei media moderni, e con una tendenza pronunciata ed evidente alla frammentazione di forme di narrazione lunghecome il cinema e la musica, frammentazione che finisce per riprodursi anche nelle capacità di attenzione e concentrazione dell’utente. Quello che ne risulta è quindi un appiattimento dei gusti dovuto alla scarsa disponibilità a subire una proposta culturale, piuttosto che ritagliarsela direttamente dalle fonti a disposizione sulla rete. L’appiattimento dei gusti, a sua volta, si ripercuote sulla proposta creativa, come è facile testimoniare e come abbiamo già detto in precedenza, visto che difficilmente è esistito un periodo così dominato dal riutilizzo del passato. In sostanza Reynolds aggiunge un corollario
interessante alla cosiddetta “teoria della coda lunga” ipotizzata dallo scrittore e giornalista Chris Anderson nell’omonimo saggio, e cioè che il sorprendente risultato di un mercato diviso in nicchie sempre più piccole e sempre più specifiche è il trionfo del passato sul presente e sul futuro. Parallelamente pare scomparso il concetto di possesso del prodotto culturale dato che la sua digitalizzazione ha eliminato i supporti materiali che eravamo stati abituati a conoscere fino ad ora; al suo posto si fa strada il concetto di accesso diretto ai dati attraverso la rete. Reynolds individua poi due fenomeni che sono secondo lui i più indicativi di questo mutamento culturale: la sharity e la franticity. Con il primo termine, un neologismo coniato dallo stesso Reynolds in cui si mischiano i termini inglesi per condivisione, carità e rarità, si vuole cogliere la caratteristica principale del modo di circolare della musica ai nostri giorni: gli appassionati di tutto il mondo si rincorrono in una sfida continua nel mettere in circolazione opere sconosciute di un passato più o meno remoto attraverso blog musicali o i canali del peer to peer nel tentativo di riaffermare la propria autorità di esperti. Questa proliferazione di fonti e di materiale musicale porta però direttamente al secondo fenomeno, la cosiddetta franticity, ovvero una vera e propria frenesia compulsiva all’accumulo di musica per la quale non si disporrà mai del tempo necessario ad ascoltarla; una situazione, per l’autore, del tutto affine a una tossicodipendenza, con ulteriore macabro corollario, dal momento che se è vero che ogni forma di collezionismo è, alla radice, un modo di governare la cronica mancanza di tempo dovuta alla mortalità, allora nessuna forma di collezionismo come quella digitale mette in risalto l’assoluta inadeguatezza della durata della vita umana. Questo fenomeno trova la sua manifestazionepiù evidente nell’Ipod, il più famoso tra i lettori mp3. Per Rey-
nolds l’Ipod rappresenta il vero protagonista della musica degli ultimi dieci anni, ben più di qualsiasi artista che abbia dominato le scene musicali recenti, e questo nella misura in cui Apple ha saputo creare non tanto un prodotto nuovo, originale o di qualità superiore alla concorrenza, ma quello più adatto a venire incontro alla cosiddetta Me Generation, la Generazione Io, formata da consumatori che reclamano il loro diritto ad intervenire in prima persona nella creazione artistica, modificandola a proprio piacimento con le infinite possibilità di fast forward, ripetizione e riproduzione casuale fornitegli dalla tecnologia. Il quadro finale che ne emerge è, agli occhi dell’autore, ovviamente poco confortante, laddove la musica perde qualsiasi forma di valore rivelatore per sottomettersi alla dittatura del flusso del tempo e in cui si è ormai prodotta una mutazione globale che ci ha reso tutti curatori e archivisti. La visione del presente e le previsioni sul futuro della cultura popolare di Reynolds sono quindi chiaramente pessimistiche, ma pur non potendo negare l’accuratezza e la precisione dell’analisi contenuta in questo saggio, nonché l’originale e convincente chiave interpretativa proposta dall’autore, non si può, almeno a mio parere, condividere in pieno le sue conclusioni. Difficile pensare infatti che la creatività possa scomparire dallo scenario culturale solo ed esclusivamente a causa dell’evoluzione dei mezzi di riproduzione e dei supporti ad essi collegati, materiali o meno che siano. Più facile e credibile pensare invece che si sia al centro di uno dei tanti passaggi epocali nell’evoluzione della cultura e dell’arte, in cui la creatività e l’originalità non sono di certo scomparse o venute meno, ma piuttosto stiano cercando in modo sotterraneo nuove vie di espressione adeguate a questi nuovi tempi e che, come sempre è stato nella storia, necessiteranno di nuovi interpreti e nuovi critici in grado di poterle comprendere appieno.
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Ultim’ora da Laziodisu Carta dei servizi Laziodisu di Gianpiero Gamaleri Di prossima pubblicazione, la Carta dei Servizi si configura come una sorta di “patto scritto” con lo studente. La Carta dei Servizi nasce, quindi, a garanzia delle aspettative e delle esigenze degli studenti, illustra le caratteristiche e le modalità di accesso alle prestazioni, ai servizi e agli interventi eroGianpiero Gamaleri gati da Laziodisu e dalle Adisu territoriali, tra cui quella di Roma Tre, definendone gli standard di qualità e le relative procedure di reclamo e indennizzo rispetto a eventuali inadempienze attuative. Laziodisu, anche attraverso le Adisu, assicura, nel rispetto degli articoli 3, 34 e 117 della Costituzione, della normativa statale e regionale vigente, un sistema integrato di interventi, servizi e prestazioni per il diritto agli studi universitari, fornendo borse di studio in denaro, posti alloggio in residenze universitarie, contributi per la locazione di immobili per studenti fuori sede, contributi per esperienze formative all’estero, sussidi per studenti diversamente abili. Laziodisu si impegna ad assicurare trasparenza in termini di informativa e reclami; tempestività nell’erogazione delle prestazioni; accessibilità alle informazioni;
adeguatezza alle esigenze degli studenti e alle norme e regolamenti; affidabilità nel rispetto dei principi e degli impegni assunti. La Carta, inoltre, mette in atto un’azione di costante monitoraggio dei livelli di erogazione della prestazione e del processo di produzione del servizio attraverso indagini periodiche, per valutare il livello di soddisfazione dell’utenza, e la gestione dei reclami. A questo proposito, la Carta prevede anche un modulo da compilare da parte dello studente in casi che meritano una traccia scritta. Normalmente, infatti, ogni problema viene risolto con contatti diretti con il personale degli uffici di via della Vasca Navale 79. In questa ottica, gli standard di qualità sono aggiornati con cadenza almeno biennale, previa consultazione dei rappresentanti degli studenti. Grazie alla Carta dei Servizi lo studente potrà più facilmente orientarsi e utilizzare correttamente i diversi servizi, esercitando il potere di controllo sulla qualità degli stessi attraverso la garanzia del rispetto dei suoi diritti.
Bookcrossing - Meet Up Internazionale 2012 Il Sistema Bibliotecario di Ateneo, in occasione della giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, ha ospitato il 20 e 21 aprile scorsi il Meet Up Nazionale 2012 (MUNZ 2012) organizzato dalla comunità italiana dei bookcrosser, presentando Mi libero nel libro. Racconti di persone per cui il libro è espressione, necessità, evasione, possibilità, impegno, libertà... Già nei giorni precedenti e poi nel corso del MUNZ 2012 è stato possibile rilasciare un libro e trovarne un altro per avere e dare l’opportunità di nuove scoperte. Sono intervenuti scrittori, saggisti, studiosi e docenti di Roma Tre per “liberare” un libro e raccontarci la propria esperienza. L’evento si è svolto presso la Biblioteca delle Arti, sezione “Lino Miccichè”, via Ostiense 139, 00154 Roma.
Non tutti sanno che... La cappellania universitaria di Roma Tre di don Pino Fanelli Circa vent’anni fà Giovanni Paolo II, da s ens ibile animator e dei giovani qual era, affidò alla diocesi di Roma un compito importante con la nascita dell’Ufficio di pastorale universitaria. Nelle sue esperienze giovanili egli aveva sperimentato di persona la necessità della chiesa don Pino Fanelli di essere presente in questo delicatissimo campo, strategico per la formazione delle nuove generazioni. Oggi la presenza degli animatori di pastorale universitaria si è ramificata in quasi tutte le Facoltà delle università romane e conta sul lavoro di circa quaranta cappellani universitari. Anche l’Università di Roma Tre, attualmente in espansione, ha in ogni Facoltà la presenza di un sacerdote che fa da animatore spirituale e culturale della comunità accademica. Compito del cappellano universitario è innanzitutto favorire l’incontro e il dialogo tra le varie realtà presenti all’interno di ogni singola università (docenti, studenti e personale amministrativo) creando sinergie al fine di far sentire e vivere l’università come una vera comunità che cammina, cerca e progetta insieme. L’università infatti non può limitarsi a essere un luogo anonimo, un insieme di funzioni e di matricole ma deve aspirare a diventare una famiglia allargata dove ognuno si senta accolto per quello che è e viva la dimensione umana di questo periodo di tempo della vita caratterizzato da un forte desiderio di conoscenza e di impegno nello studio e nella ricerca.
È anche importante che il cappellano universitario favorisca il dialogo tra fede e cultura. Solo una cultura animata dalla fede può arrivare alla conoscenza integrale della verità, così come solo una fede che accoglie e valorizza l’impegno culturale e della ricerca scientifica sa dare risposte vere e incarnate nell’oggi. Tra fede e cultura si deve stabilire un rapporto di osmosi, di continuo dialogo e interscambio facendo sì che l’una sia di stimolo all’altra. L’università oggi è chiamata a non limitarsi a formare esclusivamente dei professionisti competenti ed efficaci che possano soddisfare la domanda del mercato in ogni momento preciso (visione utilitaristica), ma anche a trovare un riferimento superiore che vada oltre il semplice calcolo di utilità. Si tratta di orientare il cammino educativo dei giovani verso una crescita integrale della persona. Dallo scorso settembre ho potuto sperimentare tutto questo muovendo i primi passi come assistente spirituale nella Facoltà di Economia di Roma Tre. Importanti sono stati gli incontri con alcuni docenti e parte del personale amministrativo. Sono arrivato con la consapevolezza di non dover fare alcun programma se non quello di conoscere e ascoltare tutti. Coltivare le relazioni, i rapporti personali è stato per me il primo passo fatto prima di programmare iniziative di animazione spirituale o culturale. Un momento molto forte è stata la celebrazione della messa in un’aula della Facoltà di Economia in ricordo di Matteo, un ragazzo di 20 anni deceduto in un incidente con la moto. In un clima di commozione e con la presenza del preside, di alcuni docenti e parte del personale amministrativo abbiamo vissuto un momento di forte intensità umana e spirituale, in cui abbiamo sperimentato davvero di essere una “comunità”. In cantiere ora ci sono altre iniziative che abbiamo programmato insieme come Cappellania universitaria e come Facoltà di Economia.
Biglietteria teatrale AGIS di Roma Tre Da martedì 3 aprile la biglietteria universitaria AGIS di Roma Tre, presso l’edificio di via Ostiense 169, ha cambiato il proprio orario. Sarà aperta al pubblico nei s eguenti or ari: mar tedì e giovedì 12.00 - 14.30.
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Facoltiadi 2012 Sono in corso dall’11 aprile e fino al 16 maggio prossimo, presso lo Stadio Alfredo Berra le Facoltiadi dell’Università Roma Tre, quest’anno alla seconda edizione. Nell’ambito della manifestazione sportiva si confronteranno le otto Facoltà dell’Ateneo. Le squadre che prendono parte a questo evento, unico nel panorama universitario capitolino e organizzato dall’Ufficio iniziative sportive, sono anche quest’anno dieci (una per ciascuna Facoltà dell’Ateneo, una in rappresentanza del personale e una degli studenti Erasmus). Visto il successo della passata edizione, che ha visto confrontarsi oltre 200 studenti, ma anche i presidi stessi, impegnati a portare punti preziosi alla propria Facoltà, le discipline sportive da quindici sono diventate venti. La manifestazione coinvolge anche strutture sportive dei Municipi XI e XII. Trionfa anche quest’anno lo sport a Roma Tre, per una festa che esce dai confini universitari, abbracciando concretamente il territorio e ponendo la competizione agonistica al centro di un progetto comune a tutta la cittadinanza. Roma Fringe Festival® Un’area verde dedicata al teatro. Un grande “parco a tema” con nove spettacoli al giorno per ventitré giorni (dal 23 giugno al 15 luglio) di teatro, con musica, incontri, workshop, presentazioni. Un grande villaggio in cui addetti ai lavori e un pubblico incuriosito passano da
uno spettacolo all’altro, per scoprire nuove drammaturgie, nuovi registi, nuove iniziative nel cuore verde della capitale. Questo è il Roma Fringe Festival®: un vero e proprio Parco del Teatro, la grande vetrina del Teatro Off. Villa Mercede è la sede scelta per la prima edizione del Roma Fringe Festival, per quello che si preannuncia il più grande evento dedicato allo spettacolo dal vivo in uno spazio verde e unico. Un grande evento con tre aree palco, il Roma Fringe Festival porta nella capitale in un’area verde circoscritta, il festival nato nel 1947 a Edimburgo e che dagli anni Settanta ha conquistato le più grandi capitali europee. Ospiti del Roma Fringe Festival saranno cinquantaquattro compagnie di Teatro Off e tre big. Il Roma Fringe Festival è un’iniziativa di FRINGE ITALIA e Ass. Nero Artifex, in collaborazione con Comune di Roma - Municipio Roma III. Il Roma Fringe Festival è gemellato con il New York Fringe Festival, St. Louis Fringe Festival, Ventnor Fringe Festival. Ice… Love… Lies! Una screwball comedy in scena al teatro Euclide Dal 8 al 13 maggio 2012 al teatro Euclide di Roma la compagnia teatrale Punto&Virgola porta in scena la screwball comedy Ice… Love… Lies! Si tratta di un genere di commedia quasi del tutto sconosciuto alle nuove generazioni. Letteralmente traducibile come “commedia svitata”, la screwball comedy debutta sugli schermi cinematografici americani negli anni Trenta e Quaranta; equilibrata via di mezzo tra la commedia sofisticata e la farsa, è caratterizzata da ambientazioni aristocratiche, ritmi incalzanti ed umorismo raffinato e sottile, incentrando le sue imprevedibili trame sull’incontro/scontro di personaggi eccentrici e lievemente folli, incuranti dei costumi sociali. (www.puntoevirgola.eu)
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Il futuro ha un cuore antico? Il vintage high tech dei libri volanti di Mr Lessmore
recensioni
di Paolo Di Paolo È una vera gioia per gli occhi. Un’applicazione pensata per iPad arriva a conquistare un premio Oscar: The fantastic flying books of Mr Morris Lessmore di William Joyce e Brandon Oldenburg. Quanto di più tecnologicamente avanzato possiamo immaginare si lega tuttavia a un soggetto che a molti semPaolo Di Paolo brerà nostalgico. Il buon vecchio libro di carta, di cui da tempo si predice la scomparsa, diventa in questi quindici minuti di magia narrativa l’assoluto protagonista. Combinando tecniche di animazione bidimensionale e tridimensionale, i due registi hanno immaginato un uragano violentissimo, simile a quello che ha distrutto New Orleans. Mr Lessmore sta lavorando a un suo libro sulla terrazza di casa, la furia del vento spazza via tutto, compreso il suo esile corpo, e lo catapulta altrove. Il mondo ha perso i colori, i sopravvissuti si aggirano malconci e malinconici. Che fine hanno fatto i libri? Mr Lessmore si aggira sconsolato nella polvere, tossisce parole e si mette in attesa di un piccolo miracolo. È ritrovando i libri che ritrova sé stesso; è regalandoli che ritrova allegria – e le persone a cui li affida riacquistano il colore. I libri, nello spazio magico di un’ampia biblioteca domestica, manifestano i propri stati d’animo, chiedono attenzione, ballano. I libri si ammalano – e Mr Lessmore si impegna a curarli, ma non basta un po’ di nastro adesivo per le pagine scollate e un po’ d’ossigeno. Per guarire un libro bisogna leggerlo, riga per riga, parola per parola, scopre il buffo Mr Lessmore così simile a Buster Keaton. The fantastic flying books è un film muto a colori, carico di tenerezza e di mistero. E di una passione smodata per i libri, i libri di carta, con la loro materialità così attraente e fragile. Non hanno pregiudizi; restano alla mano anche quando sono complicati. Li abbiamo letti sotto le coperte, li abbiamo spiegazzati e unti di crema solare, macchiati di caffè. Li abbiamo coperti di sbadigli e starnuti, dimenticati sugli autobus, fatti scivolare nelle pozzanghere. Ce ne siamo serviti per bloccare le porte nei giorni di vento e assestare tavoli zoppi, per segnare al volo numeri di gente che non abbiamo richiamato più. Non hanno protestato, i libri, quando li abbiamo letti in mutande e perfino senza. Un infinito numero di volte si sono accontentati di essere lasciati a metà, o molto prima.
Nell’era del tascabile, non conoscono rancori e pudori, ammettono qualunque distrazione, affronto. Restano sempre disinvolti e disponibili: alle nostre giornatacce, alle curiosità sbagliate. Alla polvere. Il momento più triste è quando Mr Lessmore, invecchiando, sente che un giorno dovrà abbandonare la propria biblioteca. Uno accumula libri per una vita, li sente come compagni di viaggio, come amici, prova riconoscenza per come hanno arricchito testa e cuore, per come hanno riempito pomeriggi e notti di solitudine – e poi, un giorno, è costretto a lasciarli. Mr Lessmore guarda con tristezza la folla di volumi a cui deve dire addio. E anche i volumi lo salutano con grande malinconia. Ma The fantastic flying book of Mr Lessmore non si chiude su note cupe: c’è il segno di un riscatto imminente, la possibilità di una sopravvivenza che è condivisione. È curioso e affascinante questo cortocircuito fra la creatività ipertecnologica e una materia così vintage come l’amore per i libri di carta. Ma non è un caso isolato, se si considera che un vento nostalgico soffia in alcune delle opere cinematografiche più acclamate degli ultimi mesi: dall’esperimento di Michel Hazanavicius con il cinema muto, The Artist, allo scintillante Hugo Cabret di Martin Scorsese, a Midnight in Paris di Woody Allen, dove lo scrittore in crisi protagonista si ritrova per miracolo nella Parigi anni Trenta. C’è qualcosa, nel cuore del passato, che ci attrae irrimediabilmente, con la forza di un magnete. Non è un caso che James Cameron sia tornato al suo colossale Titanic del 1997 e abbia deciso di dargli una nuova veste 3D. Il futuro ha un cuore antico? Forse. Senz’altro si può sostenere che la nostalgia può essere creativa: non è detto che ci renda languidi e con la testa voltata indietro. Come mostrano i libri volanti di Mr Lessmore, le scoperte del piccolo Hugo Cabret nell’universo del pioniere del cinema Méliès, o i lavori di carta di Rob Ryan (di cui si parla in questo numero a p. XX), il passato può funzionare come un terreno fertile su cui piantare e far fiorire la nostra immaginazione per darle, e dare a noi stessi, un futuro.
Information is beautiful La creatività dei dati, ovvero la percezione è comprensione di Francesco Martellini «David McCandless, possiede oltre l’85% delle informazioni mondiali ed è indirettamente responsabile di un settimo delle visualizzazioni mondiali sul web. Vive in un attico a Chelsea dal quale, attraverso un enorme monitor di quattro metri, dirige un esercito in contiFrancesco Martellini nua crescita di suoi accoliti». Digitando in Google il nome di David McCandless ci si può imbattere in simili affermazioni che, aldilà della visione pittoresca, bastano per capire l’aura che si è creata intorno a questo giornalista e grafico, che si definisce un information designer, e al suo lavoro. Infographics, data visualizing, sono diversi i nomi associati al modello di informazione sviluppato e messo a punto da McCandless, che minimizza il testo scritto per valorizzare la percezione
immediata dei fenomeni attraverso le immagini. Quello che un normale giornalista ci racconterebbe in un articolo, lui ce lo spiega con un diagramma di flusso, un grafico ad albero, un ideogramma. E ci riesce benissimo, tanto che nel 2009 ha pubblicato la prima edizione di Information is beautiful, tradotto in italiano nel 2011. Il sottotitolo dell’edizione italiana recita proprio Capire il mondo al primo sguardo. Per chi non è mai venuto in contatto con un approccio del genere all’informazione, che potremmo in un certo senso definire radicale, sfogliare il libro può essere un’esperienza. A prima vista si ha quasi la sensazione di avere tra le mani un libro per bambini, un gioco, dove una figura segue l’altra e dall’inizio alla fine le pagine sono dei sistemi di forme e colori senza l’ombra di un’impaginazione testuale, potrebbe sembrare una bella trovata ma priva di una veridicità e autorevolezza di fondo. Gli argomenti sono i più disparati, dalla mappa delle specie animali in via di estinzione, a quella delle pagine e dei domini internet oscurate del governo cinese e si susseguono senza soluzione di continuità. Solo cominciando a osservare
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con più separazioni, vediamo che con più attenzione, facendo caso la fonte è Facebook Lexicon, osalle fonti dei dati e riflettendo sul sia un sistema, ora chiuso da Famodo in cui sono organizzati, si cebook e sostituito con altro, che capisce di avere effettivamente a analizzava i post in bacheca e gli che fare con un grande lavoro di aggiornamenti della voce “situaricerca e di comunicazione. E sozione sentimentale” degli utenti prattutto emerge la sostanziale per ricavare ad esempio questo inconfutabilità dei dati in alcun tipo di statistiche, con tutte le modo accompagnati da opinioni, conseguenze e gli usi che se ne come nel grafico che ci mostra le possono ricavare. Informazione più diffuse cause di morte nel indiretta. XX secolo, e in parallelo il fatto E si capisce anche perché l’autore che rispetto ad argomenti sui quali non esistono dati, gli uomisi auto definisce information deni ancora oggi elaborano teorie signer, un creativo, quindi. Alcuni definiscono questo metodo un giustificative proprio come facemodello di giornalismo, altri mevano i primitivi di fronte ai fenono, di sicuro è un modello di inmeni sconosciuti, è il caso della formazione a tutti gli effetti. Seppagina dedicata a «Che cos’è la pur poco utilizzata, la traduzione coscienza». italiana della parola designer esiMcCandless ci consegna una sorste, ed è progettista. Quello che ta di piccola enciclopedia di fatti e informazioni, sui massimi sitroviamo dentro Information is stemi come sulla nostra quotidiabeautiful è, in effetti, progettazionità, e ci mette in condizione co- Timelines. I viaggi nel tempo nei film e ne dell’informazione, ossia non pura e semplice creatività grafica me di osservare direttamente i nelle serie TV a cui vengono appiccicati i risulfenomeni anziché leggerne in tati di questo o quel sondaggio, ma, come in tutte maniera decisamente più distaccata. Una cosa è le forme del design, creatività modellata dalla discorrere tra le righe di una colonna che la guerra sciplina e dalla tecnica, dove si può scorgere diein Iraq è costata finora circa sei volte i guadagni tro a ogni scelta grafica, a ogni forma utilizzata e del mercato farmaceutico globale, o sei volte preferita rispetto alle altre, una consapevolezza e quanto costerebbe convertire l’intero pianeta alle uno studio rivolto tutto a massimizzare il valore risorse energetiche rinnovabili, altra cosa è vedeintrinseco che i dati portano con se, sfruttando al re un enorme rettangolo viola che riempie più di massimo la nostra percezione visiva. Il concetto mezza pagina vicino ad altri ventisette rettangoli di base è che la percezione è comprensione. minuscoli che occupano l’altra pagina e mezza e sui quali trovi scritte voci di questa importanza. Information is beautiful è anche un blog, informationisbeautiful.net, costantemente aggiornato, Tra le righe poi, o meglio fra le immagini, posdove si trovano alcuni dei contenuti del libro e alsiamo trovare anche degli spunti secondari, semtri ovviamente inediti, che proseguono la ricerca plicemente, come detto, dalla semplice lettura delle fonti. Osservando ad esempio il grafico in infographics di McCandless e dei suoi collaboratori, materiale decisamente interessante, su cui delle buone occasioni per chiudere una relazione ogni tanto vale la pena passare a riflettere. sentimentale, che ci mostra i periodi dell’anno Quante tonnellate di anidride carbonica produciamo ogni anno? Qual è la frase più gettonata per lasciarsi? Come si prepara un Margarita? Quali sono stati gli allarmismi più infondati della storia? Le attività dell’uomo stanno realmente incidendo sull’innalzamento del riscaldamento globale? Navighiamo a vista in un mondo in cui ogni giorno siamo bombardati da un flusso ininterrotto di notizie, e molte volte gli organi di stampa non ci aiutano a mettere chiarezza, creando confusione e contraddizioni. David McCandless, sfruttando appieno gli strumenti di visualizzazione delle informazioni, ci propone un modo migliore per osservare e per comprendere il mondo al primo sguardo, una mappa moderna che illustra le relazioni tra i fatti, il loro contesto e la rielaborazione mediatica a cui vengono sottoposti, dimostrando come l’informazione analogica possa comprendere, ordinare e rendere più efficace quella digitale. David McCandless, Information is beautiful, Milano, Rizzoli, 2011
Roma Fringe Festival Arriva in Italia la più grande rassegna di teatro off di Francesca Gisotti Dopo il grande successo ottenuto sui principali palcoscenici del mondo, il Fringe Festival approderà finalmente anche a Roma. Per chi non lo conoscesse ancora, si tratta di un’importante rassegna teatrale nata nel lontano 1947 per iniziativa di otto compagnie scartate dal FEI, il Francesca Gisotti Festival Internazionale di Edimburgo. Piuttosto che darsi per vinte, le “escluse” decisero infatti di dare avvio a una nuova tradizione, destinata a consolidarsi e a distinguersi per la propria originalità: un festival teatrale totalmente indipendente e conseguentemente non soggetto a vincoli pubblicitari, culturali, politici o religiosi. Nel 1958, il fenomeno era già talmente diffuso da determinare la nascita della Festival Fringe Society, un’organizzazione internazionale nata per occuparsi delle attività logistiche ed organizzative dei vari festival. Sono gli anni Settanta però, sotto la spinta di un profondo rinnovamento culturale e desiderio di sperimentazione artistica, a determinare il suo consolidamento nelle più importanti città del mondo. Da allora i vari Fringe Festival internazionali non hanno mai smesso di imporsi all’attenzione per la qualità degli spettacoli proposti dalle compagnie partecipanti. Proprio la loro natura “indipendente” ha nel tempo fatto sì che performance di ogni tipo e categoria abbiano potuto trovare spazi di rappresentazione impensabili in altri contesti. Nessun artista viene invitato direttamente, nessuno spettacolo viene “prodotto” dal festival, non ci sono veti a nessuna partecipazione: tutto viene realizzato autonomamente dalle singole compagnie e nel rispetto della indipendenza artistica di ciascuna di esse. A Roma il Fringe Festival partirà a giugno e si svolgerà all’interno di Villa Mercede, dove saranno allestiti tre palchi. Promotrice del festival, nonché sua organizzatrice e produttrice, è l’associazione NeroArtifex che, per questo evento, opera con la collaborazione e sotto il patrocinio del Comune di Roma, III Municipio.
A giocarsela a suon di battute (e non solo) saranno ben cinquantaquattro compagnie off e tre big, scelte tra tutte quelle che avranno presentato il materiale necessario per la selezione entro i termini previsti dal regolamento. I criteri di valutazione saranno, in ordine di importanza: il testo originale, il progetto di messa in scena e l’interesse culturale delle opere sotto esame. Ogni settimana il pubblico potrà assistere a diciotto spettacoli diversi, con tre repliche a disposizione per ciascuno. Gli spettatori decreteranno con il proprio voto, ogni settimana, le compagnie semifinaliste che potranno nuovamente esibirsi il sabato sera. Tra queste emergeranno poi le tre finaliste che saranno giudicate, questa volta da una giuria di qualità, nella grande serata conclusiva. In linea con lo spirito dei Fringe di tutto il mondo, ad ogni compagnia verrà inoltre richiesto di avere parte attiva nella comunicazione dei propri eventi, sia attraverso la propria pagina all’interno del sito ufficiale, sia attraverso iniziative personali di coinvolgimento del pubblico. Nessuna meraviglia quindi se, in concomitanza con le giornate del Fringe Festival, qualche attore/attrice ci fermerà per le strade della città per convincerci ad assistere al proprio spettacolo. Oltre al desiderio di far arrivare la propria arte a quante più persone possibili, c’è anche il bell’incentivo di vedersi corrisposto per intero l’incasso dello spettacolo. E il premio per la prima classificata? La partecipazione al New York City Fringe Festival del 2013 e un budget di 2500 euro elargito da NeroArtifex per finanziare la produzione. Previste inoltre targhe di riconoscimento per la miglior regia, miglior drammaturgia, miglior musica, miglior attore e miglior attrice, giudicati tra i sei spettacoli in semifinale. In un panorama culturale che rende la visibilità degli attori sempre più legata a fattori esterni all’arte, il Fringe Festival romano sembra portare finalmente una ventata di novità. La speranza è che iniziative di questo genere non rimangano casi isolati bensì siano il motore in grado di innescare un processo di profonda riorganizzazione degli spazi messi a disposizione degli artisti. Solo così, forse, sarà per loro possibile uscire dai soliti circuiti ufficiali per recitare, finalmente, il ruolo di protagonisti.
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Dio c’è… e va in macchina L’Accademia Arte nel cuore in scena al Teatro Olimpico di Arianna Scarozza «Grazie di avermi invitato, sono molto felice di essere con voi, mi dispiace di non essere presente ma in questo periodo sono un pochino depresso perché i miei attori quando hanno saputo che c’era questo spettacolo, hanno voluto ammutinare il set del mio nuovo film, per venire in Italia, poi Arianna Scarozza so che si sono persi nel volo, ma auguro a tutti tanta fortuna e felicità» Woody Allen. Questo è il video messaggio con cui inizia lo spettacolo Dio c’è… e va in macchina. Ovviamente è tutto frutto della fantasia del regista. Ma questo incipit già lascia capire qual è la natura dello spettacolo a cui si sta per assistere. Già perché, il 7 giugno 2011, al teatro olimpico di Roma è andata in scena, in un atto unico, una esilarante commedia, realizzata interamente da allievi attori, cantanti, danzatori, musicisti, truccatori e scenografi dell’accademia “Arte nel cuore Onlus”, sotto la regia di Jacopo Bezzi, liberamente ispirata al componimento teatrale, proprio di Woody Allen, Dio. La commedia è ambientata ad Atene, culla del teatro greco, intorno al 500 a.c. L’attore Katino e lo scrittore Agatone da Rodi sono impegnati alla ricerca di un finale ad effetto che riesca a far vincere loro il primo premio al festival del dramma di Atene, dove è consuetudine che a trionfare sia ogni anno l’esordiente Euripide. Entrambi saranno aiutati da Thana, impacciata e geniale direttrice di scena. Ma proprio nel momento in cui il pubblico è certo di aver intuito il finale, ecco che viene rapito da imprevisti e colpi di scena che lo sorprenderanno. L’evento, che ha registrato il tutto esaurito, è stato presentato da Massimo Caputi, con Camilla Filippi come madrina e ha visto la partecipazione di personaggi co-
me Massimo Dapporto, Kledi Kladiu, Carlo Romeo e la senatrice rumena Sorina Placinta, presente anche per annunciare l’apertura in Romania di una succursale di “Arte nel Cuore Onlus”. Era presente anche Ornella Muti che ha consegnato una targa del Presidente della Repubblica all’Accademia. I protagonisti della rappresentazione teatrale Dio c’è … e va in macchina sono attori, cantanti, ballerini, normodotati e diversamente abili, di diverse età, che, con una serie di sketch, balli e canzoni cantate dal vivo, con esibizioni di alto livello, danno vita a uno spettacolo divertente ed emozionante. L’accademia “Arte nel Cuore Onlus”, nata a Roma nel 2007 dall’idea della presidente e fondatrice, Daniela Alleruzzo, è il primo progetto mondiale di formazione artistica rivolto ai diversamente abili e normodotati e ha come scopo il superamento di barriere culturali e mentali che sono presenti nella società in cui viviamo dove si tende ad escludere il diverso perché ritenuto non adeguato al modello di perfezione che l’ambiente che ci sta intorno ci ha imposto. È una possibilità per ragazzi disabili e normodotati di poter esprimere insieme le proprie qualità artistiche in un percorso formativo che li aiuti concretamente nello sviluppo delle proprie potenzialità, per poi un giorno essere aiutati anche a trovare un lavoro nel campo della musica, della recitazione o della danza. Forse, un giorno, anche loro potranno realizzare il proprio sogno. Si perché di sogni si parla. Se si pensa infatti quanto sia spesso difficile realizzarsi per i giovani normodotati, si può immaginare quanto possa esserlo per un ragazzo con un handicap soprattutto in un paese come il nostro, spesso carente anche delle più basilari strutture per disabili. Sicuramente Daniela Alleruzzo è riuscita nell’impresa non banale di formare un’accademia dove a rubare la scena sono proprio i disabili, ed è riuscita a svegliare i cuori di molte persone proprio grazie all’arte, che è in ognuno di noi. Roma Tre collabora con “Arte nel Cuore Onlus”, per lo svolgimento del tirocinio da parte degli studenti del Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione.
Il silenzio fa rumore The Artist e il ritorno del film muto di Michela Scoccia Il sipario si apre con al centro della scena un attore del cinema muto all’apice del suo successo. La gran fama conseguita gli concede di sentirsi un uomo infallibile e desiderato da molte giovani aspiranti attrici, fra queste solo una, grazie alla sua grinta, determinazione e talento innato Michela Scoccia nel ballo, riuscirà, proprio al suo fianco, a farsi strada nel mondo del cinema. I tempi cambiano: si assiste all’ascesa del cinema sonoro e così cambiano anche le sorti e la fama di questi due artisti che però resteranno inestricabilmente intrecciate in nome dell’amore che li unisce, nella vita e nella professione: l’arte e la creatività. La proposta di un film muto e in bianco e nero come The Artist risulta essere indubbiamente un coraggioso e provocatorio stimolo per tempi, come i nostri, in cui la tecnologia ad alta definizione ci ha abituati a vedere, anche sul grande schermo, un mondo a colori e sempre più dettagliato e in cui siamo costantemente esposti a stimoli sonori ai quali è pressoché impossibile sottrarsi. Dunque un “ritorno al passato” nell’era della modernità e della tecnologia che ha indubbiamente la forza e il potere di sovvertire la nostra realtà e il nostro modo di rapportarci ad essa. Il passato torna al presente come una novità che sorprende. Non si può, a mio avviso, evitare di prestare orecchio a questo silenzio che parla. Questa è la sfida che lancia il film e che rappresenta allo stesso tempo, il dramma del protagonista, che si mostra ostile e refrattario all’idea di accettare i cambiamenti e le novità che si impongono di volta in volta sulla scena temporale e quindi del cinema. Egli è profondamente convinto che questo cambiamento arrivi a privarlo definitivamente dell’opportunità di esprimere la sua arte ma arriverà, attraverso un lungo e sofferto processo di lotta interiore, a prendere coscienza della necessità di dare a sé stesso, come uomo e come artista, nuove opportunità. The Artist è dunque una sfida nella sfida, il giusto compromesso tra arte e modernità che si raggiunge solo per mezzo della creatività e la dimostrazione di come sia possibile realizzare, seppur in assenza di dialoghi e di effetti speciali, una singolare e profonda sintonia, a livello psicologico ed emozionale,
tra il protagonista di un film muto e il pubblico. Il vero effetto speciale di questo film è l’intenso significato simbolico di cui si riveste ogni gesto, oggetto o situazione presente nelle varie scene e che rimanda alla sfera emotiva ed emozionale dei personaggi del film. Ecco quindi che nessun particolare viene lasciato al caso ma tutto rappresenta una voce nel silenzio e, per ben intenderla, lo spettatore non dovrà far uso del proprio udito, ma piuttosto entrare in profonda empatia con il personaggio, ritrovandosi spontaneamente assorto nei suoi pensieri ed emozioni. Interessante è poi l’espediente di brevi dialoghi scritti che è di tanto in tanto presente nel film, con la funzione di mettere in evidenza i momenti salienti e i concetti chiave della trama. L’intera azione del film si svolge in modo perfettamente cronologico, con un solo episodio di flashback che in quanto unico, assume profonda enfasi e centralità nella trama. Il film è stato girato in Francia e presentato al Festival del cinema di Cannes e si è aggiudicato, di recente, cinque fra le principali statuette ai premi Oscar. The Artist ha dunque superato il test dei tempi che cambiano.
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Jorge Luis Borges - Opportunity (Mars Exploration Rover-B, MER-B, MER-1) che, insieme alla sua sonda gemella Spirit, ha raggiunto Marte nel gennaio del 2004 alle 05:05 UTC (13:15 circa ora di Marte). Sta ancora esplorando il suolo del pianeta rosso - Charlie Chaplin negli ingranaggi di una macchina in Modern Times (1936) - Albert Einstein - particolare di una scultura raffigurante un drago nel Parco dei mostri di Bomarzo. Il parco fu ideato nel 1552 dal principe Pier Francesco Orsini in omaggio alla moglie e realizzato dall’architetto Pirro Logorio - Alan Mathison Turing, matematico britannico, è considerato uno dei padri dell’informatica. È stato anche uno dei più brillanti decrittatori di messaggi in codice che operavano in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale. Morì suicida mangiando una mela avvelenata con il cianuro in seguito alla persecuzione omofobica condotta nei suoi confronti da parte del governo britannico. Il logo della Apple sarebbe ispirato a questo episodio; la compagnia non ha mai confermato - poster dell’esposizione del 1923 della Bauhaus a Weimer, disegnato da Joost Schmidt - Walt Disney (con Micky Mouse) - Charles Darwin - the Beatles - Frida Kahlo - Mohandas Karamchand Gandhi - Guglielmo Marconi con l’ufficiale marconista della nave Elettra Adelmo Landini - James Watson, Francis Crick e il modello a doppia elica del DNA - E.T. nell’omonimo film di Steven Spielberg (1982) - Galileo Galilei - Pina Bausch - Leonardo da Vinci, studio di macchina volante ad ala battente - Irena Sendler, che salvò 2500 bambini dal ghetto di Varsavia nascondendo i loro nomi nei barattoli della marmellata. Alla sua memoria è dedicata la scheda di p.35 e questo numero della rivista - il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry - i Monty Python - dettaglio del belvedere del Parque Güell di Antoni Gaudí, Barcellona - Bruno Munari pitture rupestri nella Cueva de Las Manos, Argentina - il fazzoletto bianco delle Madres de Plaza de Mayo ovvero la carica rivoluzionaria della maternità - un graffito di Banksy, Los Angeles - la stampa a caratteri mobili Pablo Picasso, Guernica (1937) - la rotta di Cristoforo Colombo - fotogramma da Voyage dans la Lune di George Méliès (1902), liberamente tratto dal romanzo di Jules Verne, Dalla terra alla luna, è il primo film di fantascienza - un esempio di low cost design - due modelli delle sorelle Fontana - Gianni Rodari Continuate a leggerci anche on line, con più contenuti, immagini, link, approfondimenti.Cliccate su questo banner dall’home page di Roma Tre o collegatevi direttamente a: http://host.uniroma3.it/riviste/romatrenews/ Vi piacerebbe scrivere su Roma Tre News? Se vi piace questo giornale potete iscrivervi alla nostra mailing list oppure potete segnalarci idee, opinioni, critiche, apprezzamenti. Per contattare la redazione scrivete a: r3news@uniroma3.it.
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