Roma Tre News 2/2009

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La nuova residenza e la rete dei laureati Due iniziative di collaborazione fra l’Ateneo e l’Adisu di David Meghnagi

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Procedure telematiche I successi dell’informatizzazione in Ateneo di Roberto Maragliano e Alessandro Masci

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Anatomia del crack Spunti dal dibattito sulle origini dell’attuale crisi dei mercati finanziari di Carlo Domenico Mottura

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Oltre la laurea FIxO: formazione e innovazione per l’occupazione di Francesca Rosi

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Crisi e finanza pubblica Nuovi criteri economici e diversità degli assetti istituzionali di Antonio Di Majo

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Rubriche

Il cammino di Kyoto Consumi energetici e ambiente nell’attuale congiuntura economica di Valeria Termini

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Sommario Editoriale

Primo piano

Ultim’ora da Laziodisu Non tutti sanno che ...

Recensioni

Declino e ascesa La Fiat e l’industria italiana oggi di Anna Giunta

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Il non profit delle banche Recenti esperienze di finanza etica in Europa e in Italia di Francesca Lulli

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Storie di successo Il microcredito come strumento di finanza etica anticrisi di Simona Retacchi e Diana Tiburzi

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Noi e gli stranieri Una storia di multiculturalismo quotidiano di Chiara Giaccardi

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Il caso Marocco I diritti delle donne tra le due sponde del Mediterraneo di Barbara Felcini

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Libero mercato o libero uomo? La necessità in tempi di crisi di far ripartire le nuove strategie imprenditoriali dall’uomo e dal suo benessere di Indra Galbo

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Generazione precaria La flessibilità come norma, l’impiego a tempo indeterminato come eccezione di Giacomo Caracciolo

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Focus HIV: a venticinque anni dalla scoperta del virus Hiv: verso un vaccino terapeutico? di Michela Monferrini Conoscere e prevenire: non solo AIDS di Giorgio Venturini Campagna di prevenzione AIDS: per una sessualità consapevole e serena di Mauro Benvenuti e Rosella Di Bacco

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Incontri Francesca Brezzi. Quando il futurismo è donna a cura di Maria Vittoria Marraffa

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Giacomo Marramao. I diritti umani nel secolo sino-americano di Michela Monferrini

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Reportage Latifondisti in sciopero A otto anni dalla crisi in Argentina sono ricomparsi i piqueteros, ma questa volta a protestare sono i proprietari terrieri di Fulvia Vitale

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“Aperto per fallimento” Fabbriche e imprese recuperate dai lavoratori in Argentina di Leticia Marrone

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Orientamento Reti per l’orientamento Alla ricerca di nuove sinergie fra scuola, università e lavoro di Massimo Margottini

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Il seme della ripresa 42 Dai dati del rapporto AlmaLaurea emerge la necessità di investire in formazione, ricerca e sviluppo e nelle risorse umane dei giovani laureati di Andrea Cammelli Crescita personale e utilità sociale Il diritto allo studio tutelato dalla nostra Costituzione di Gianpiero Gamaleri

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Tra parole e cinema Incontro con Niccolò Ammaniti di Mariangela Carroccia

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Quale cultura nell’Italia in crisi? 52 Baricco propone finanziamenti pubblici solo a scuola e televisione Elogi… e critiche di Rosa Coscia Corti d’autore contro la crisi Ritroviamo fiducia con Olmi, Salvatores e Sorrentino di Rosa Coscia

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Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre Anno XI, numero 2/2009 Direttore responsabile Anna Lisa Tota Docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi Coordinamento di redazione Alessandra Ciarletti (Resp. Ufficio orientamento) Federica Martellini (Ufficio orientamento) Divisione politiche per gli studenti r3news@uniroma3.it Redazione Ugo Attisani (Ufficio Job Placement), Valentina Cavalletti (Ufficio orientamento), Gessica Cuscunà (Ufficio orientamento), Tommaso D’Errico (studente del C.d.L. in Competenze linguistiche e testuali per l’editoria e il giornalismo), Indra Galbo (studente del C.d.L. in Scienze politiche), Elisabetta Garuccio Norrito (Resp. Divisione politiche per gli studenti), Michela Monferrini (studentessa del C.d.L. in Lettere), Monica Pepe (Resp.Ufficio stampa), Camilla Spinelli (studentessa del C.d.L. in Comunicazione nella società della globalizzazione), Fulvia Vitale (studentessa del C.d.L. in Giurisprudenza) Hanno collaborato a questo numero Mauro Benvenuti (ASL RM C), Salvatore Buccola (Direttore amministrativo Adisu Roma Tre), Andrea Cammelli (presidente AlmaLaurea), Giacomo Caracciolo (neolaureato del C.d.L. in Giurisprudenza e giornalista pubblicista), Mariangela Carroccia (Ufficio stampa), Rosa Coscia (studentessa del C.d.L. in Informazione, editoria e giornalismo), Rosella Di Bacco (ASL RM C), Antonio Di Majo (docente di Scienza delle finanze), Barbara Felcini (Master I Diritti delle donne tra le due sponde del Mediterraneo), Gianpiero Gamaleri (Commissario straordinario Adisu Roma Tre), Chiara Giaccardi (docente di Sociologia dei processi culturali, Università Cattolica di Milano), Anna Giunta (docente di Economia applicata), Francesca Lulli (Master Human Development and food security), Roberto Maragliano (docente di tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento e responsabile scientifico della Piazza telematica), Massimo Margottini (delegato del Rettore per le Politiche di orientamento), Maria Vittoria Marraffa (studentessa del C.d.L. in Storia e conservazione del patrimonio artistico), Leticia Marrone (A.S.A.L. - Associazione studi America Latina), Alessandro Masci (responsabile Area sistemi informativi di Ateneo), David Meghnagi (delegato del Rettore per il Diritto allo studio), Carlo Domenico Mottura (docente di Matematica finanziaria e di Modelli di risk management), Simona Retacchi, Francesca Rosi (Ufficio Job Placement), Valeria Termini (direttore della Scuola superiore di Pubblica Amministrazione), Diana Tiburzi, Giorgio Venturini (docente di Citologia e istologia) Immagini e foto Pasquale De Muro, Indra Galbo, Simone Mieli, Paola Padula ©, Valeria Perna, Massimiliano Pinna ©, Fulvia Vitale Si ringrazia inoltre Emanuele Panzera per la gentile concessione delle immagini delle opere di Barbara Progetto grafico Magda Paolillo Conmedia s.r.l. - Via Ippolito Nievo, 62 - Roma www.conmedia.it Impaginazione e stampa Tipografia Stilgrafica s.r.l. Via Ignazio Pettinengo 31/33 - 00159 Roma Copertina L’elaborazione grafica della copertina è di Tommaso D’Errico Finito di stampare luglio 2009 Registrazione Tribunale di Roma n.51/98 del 17/02/1998


«Consumo, dunque sono»: crisi economica e crisi identitaria di Anna Lisa Tota

Consumo, dunque sono: così si intitola l’ultimo libro di Baumann (2008), in cui l’autore criticamente analizza la relazione tra identità e consumi, così come si è delineata nel mondo capitalistico occidentale. La società dell’informazione è anche la società dei consumi, nella quale i media e, in particolare, la pubblicità hanno veicolato una concezione delle identità, in cui le dimensioni dell’avere e del consumare sono prioritarie. Tuttavia, al di là dell’utilità intrinseca di una tale rappresentazione delle soggettività, che succede quando con successo si è imposto lo slogan «consumo, dunque sono» e le risorse economiche per consumare improvvisamente cominciano a scarseggiare? Quanto più le nostre identità sono ancorate alle dimensioni dell’avere e del consumare, tanto più l’impossibilità di avere e consumare i beni desiderati assumerà le sembianze e i contorni di una profonda crisi esistenziale. La crisi economica è un tema di cui si occupano a vario titolo e con toni diversi politici, giornalisti, economisti, sociologi, imprenditori, ma anche padri di famiglia, studenti, casalinghe, pensionati e disoccupati. È il leitmotiv che sembra ricorrere nelle vite di tutti noi, rendendoci tutti più simili e più vulnerabili. La crisi economica, crescente e dilagante anche in quella fetta del mondo abituata a pensarsi come agiata e benestante, diviene paradigma cognitivo per ripensare non solo all’assetto dell’intero sistema mondo (per usare la celebre nozione di Wallerstein) e dei delicati equilibri nazionali, ma anche per ridefinirci come attori individuali nelle politiche del quotidiano. Come dire che la crisi economica non solo è un problema di politica nazionale e globale, ma è anche qualcosa che incide profondamente sulla nostra weltanschauung del quotidiano, sulle nostre opportunità di vita. È qualcosa che ci mina dentro, mutando le nostre aspettative sul futuro. Gli economisti lo affermano da sempre: vi sono dimensioni psicologiche profonde che operano a livello collettivo e che strutturano le dinamiche di mercato. John Elster, fra i molti altri che si potrebbero citare, ha dato contributi imprescindibili su questo intreccio. Da sociologa non posso non notare che c’è una dimensione sociale molto forte nelle economie di mercato, che anche i mercati fluttuano e sono costruiti sulla base delle aspettative sociali degli attori economici stessi. In questo numero affrontiamo il tema della crisi economica da vari punti di vista: il crack finanziario, il ruolo delle multinazionali, il rapporto tra finanza pubblica e istituzioni, l’impatto dei consumi energetici sulla crisi economica, e poi ancora le economie emergenti in Oriente e la questione dei diritti umani, le fabbriche recuperate in Argentina e molti altri temi. Se guardiamo alle questioni poste dalla crisi economica sul piano globale, quello che più colpisce è che l’ottimismo e la fiducia nel progresso continuo devono cedere il passo a forme molto ridimensionate di rappresentazione del futuro, do-

ve le dimensioni che prevalgono sono legate all’incertezza, alla percezione del rischio (per riprendere Beck) e, forse, anche al declino. Il modo di produzione capitalistico che, dopo la caduta del muro di Berlino e la ridefinizione complessiva dell’assetto geopolitico dei paesi dell’ex Unione Sovietica, sembrava poter assurgere a modello, unico e incontrastato, di sviluppo almeno per tutta l’area occidentale, mostra i suoi limiti: oltre a non funzionare per almeno una parte della popolazione mondiale che vive sotto la soglia di povertà, non pare più funzionare adeguatamente nemmeno per i paesi tradizionalmente più ricchi. Il modello del consumo crescente come volano e incentivo di economie con alti tassi di sviluppo sembra all’improvviso inadeguato non solo per le innumerevoli ragioni addotte dagli ecologisti sulla sua sostenibilità intrinseca (utilizziamo più risorse di quelle che il pianeta è in grado di rinnovare, distruggiamo attraverso l’inquinamento le condizioni di abitabilità del pianeta per numerose specie vegetali, animali e anche per la specie umana), ma anche semplicemente perché non produce più ciò che promette: benessere per molti, se non per tutti. Non è vero che più consumiamo più diventiamo ricchi, ma è piuttosto vero il contrario: più abbiamo bisogno di consumare, più diventiamo tutti sempre più poveri. Forse in definitiva la crisi economica ci induce a riscoprire il buon senso e alla logica ferrea del consumo ci induce a sostituire il «non spreco, dunque sono» (ma una volta non era «penso, dunque sono»?...). La crisi economica globale ci obbliga a ripensare i fondamenti stessi delle nostre identità, a slegare le dimensioni dell’essere e dell’esistere dall’esperienza del consumare e dell’avere, esperienza che peraltro non è di per sé tipica del modo di produzione capitalistico che, almeno alle sue origini, come giustamente fece notare Max Weber, era riconducibile all’accumulazione senza consumo, all’etica calvinistica e all’ascesi mondana che la caratterizzava. Le strategie di vita del futuro sembrano passare attraverso lo sviluppo delle coscienze critiche di cittadini ben informati (come direbbe Alfred Schutz) e moralmente avvertiti che, più che consumare, sappiano come risparmiare. Il modello di produzione capitalistico sembra dover tornare alla sua matrice originaria: le strategie di vita devono essere ridefinite a partire da nuovi valori, come la riduzione degli sprechi, il risparmio, la sostenibilità dei consumi, la felicità delle piccole cose… quelle immateriali, che non costano nulla, ma che possono ugualmente diventare centrali risorse di senso. C’è un piccolo stato nel mondo, il Bhutan, il cui sovrano ha deciso di introdurre accanto al prodotto interno lordo (il PIL) un altro indicatore economico e sociale: il FIL, cioè la felicità interna lorda. Come a dire che il benessere di un paese e di un popolo si misura sulla felicità degli individui e non soltanto sul loro reddito. Che sia questa la strada del futuro?


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Anatomia del crack Spunti dal dibattito sulle origini dell’attuale crisi dei mercati finanziari

primo piano

di Carlo Domenico Mottura Il mese di ottobre del 2008 è stato il peggior periodo nella storia delle più importanti borse valori del mondo, perché si è verificato il più pesante crollo dei prezzi che sia mai avvenuto nella storia dei mercati. Tentiamo di capire, fin dove possibile, cosa è successo. Il mercato finanziario è il “luogo” dove è possibile Carlo Domenico Mottura comprare o vendere contratti finanziari, ovvero contratti che prevedono scambi di importi monetari esigibili a date diverse. Esistono tanti tipi di mercati (regolamentati, over-the-counter, fisici, telematici, …) ed esistono tante tipologie di contratti finanziari. Ad esempio, chi stipula un contratto di mutuo a tasso fisso, a fronte dell’importo ricevuto alla data di stipula – il suo “prezzo” iniziale – si impegna a pagare nel futuro un insieme di importi monetari noti a diverse scadenze. I contratti finanziari sono contratti “rischiosi” perché al momento della stipula non è noto con certezza il flusso futuro degli importi che sarà effettivamente generato dal contratto. Ad esempio, nel caso del mutuo, non è certo che il debitore sia in grado nel futuro di adempiere a tutti gli impegni inizialmente assunti; di conseguenza, la decisione di concedere il mutuo richiede da parte del mutuante la misurazione e l’assunzione di un rischio.

“A partire dal 2000 molte banche americane hanno concesso una grande quantità di mutui, tra cui molti cosiddetti subprime, ovvero prestiti che la banca decide di concedere a soggetti con un reddito basso e/o instabile” Ciò vale in generale. Ogni decisione finanziaria, essendo in condizioni di incertezza, dovrà basarsi sul cosiddetto paradigma “rischio-rendimento”: all’aumentare del rischio aumenta il rendimento “atteso” richiesto per investire o, in altri termini, diminuisce il prezzo che si è disposti a pagare per investire. Il ruolo del mercato finanziario, da questo punto di vista, è cruciale: data l’informazione disponibile, il mercato “produce” prezzi, che dipendono dalle opinioni sul futuro (quanto ci si aspetta di ricevere?) e dal rischio del contratto oggetto di scambio (e con che rischio?). A partire dal 2000 molte banche americane hanno concesso una grande quantità di mutui, tra cui molti cosiddetti

subprime, ovvero prestiti che la banca decide di concedere a soggetti con un reddito basso e/o instabile (il caso estremo è il cosiddetto mutuo NINJA: No Income, No Job or Asset). Si tratta di un’operazione molto rischiosa per la banca, essendo molto probabile fin dall’inizio che il mutuatario non sia in grado di rimborsare il suo debito. È naturale, dunque, chiedersi: perché le banche americane hanno concesso così tanti mutui subprime essendo nota fin dall’inizio la bassa probabilità di rimborso da parte dei mutuatari? Le spiegazioni sono molteplici, ma tre possono essere considerate le principali. 1) L’andamento del mercato immobiliare americano a partire dall’anno 2000 fino alla metà del 2006: il prezzo degli immobili continuava a crescere (è quella che poi è stata chiamata “bolla immobiliare”) e la banca non si preoccupava del fatto che il mutuatario subprime potesse non rimborsare il prestito avendo la casa a garanzia del mutuo concesso, che si aspettava di poter rivendere a un prezzo maggiore dell’ammontare del prestito concesso. 2) Il livello dei tassi di interesse sul mercato americano, che dal 2001 al 2004 erano molto bassi: se i tassi di interesse sono bassi il denaro “costa meno” e le persone sono incentivate a indebitarsi (anche) per comprare immobili; e questi acquisti determinano ulteriore crescita del prezzo delle case, alimentando la bolla immobiliare.


3) Le operazioni di cartolarizzazione, ovvero quelle operazioni con le quali le banche hanno venduto i mutui subprime al mercato finanziario nella forma di obbligazioni, il cui rischio era certificato da società internazionali specializzate (agenzie di rating); in altri termini, con questo tipo di operazione, il rischio subprime era trasferito al mercato finanziario e “polverizzato” via obbligazioni che venivano sottoscritte da investitori istituzionali (risk transfer). Il contesto economico comincia a cambiare a partire dal 2004, con l’inizio della crescita dei tassi di interesse americani che continuerà fino al 2006; aumentando il costo dei mutui, diventa più difficile erogarli e, nel frattempo, cominciano ad aumentare le insolvenze su quelli già erogati. Anche la crescita dei prezzi degli immobili si ferma nel 2006 e dal 2007 inizia la discesa; e dall’estate 2007 cominciano a ridursi i prezzi delle obbligazioni collegate ai mutui subprime.

“I contratti finanziari sono contratti “rischiosi” perché al momento della stipula non è noto con certezza il flusso futuro degli importi che sarà generato dal contratto” Un esempio (dall’Herald Tribune del 27 novembre 2008) può aiutare a sintetizzare quanto è successo: in California, un coltivatore di fragole di origine messicana con un reddito annuo di 14.000 dollari ottiene originariamente un mutuo di 720.000 dollari per acquistare una casa; successivamente, non essendo più in grado di pagare le rate del mutuo, la banca escute la garanzia sulla casa che però vale 500.000 dollari, meno del valore del mutuo, e il prezzo delle obbligazioni collegate al mutuo si riduce.

In questa situazione cominciano a generarsi forti perdite, effettive e potenziali, nei bilanci degli investitori istituzionali di tutto il mondo e delle stesse banche che avevano acquistato le obbligazioni collegate ai mutui subprime (nasce, per questi tipi di investimento, la denominazione “titoli tossici”), innescando una crisi di fiducia nel sistema finanziario internazionale. Ogni banca si interroga sulla quantità di titoli tossici acquistati, sulle perdite sostenute, sulle perdite potenziali e sostenibili; e le banche, non fidandosi più l’una dell’altra, smettono di prestarsi denaro a vicenda, trasformando la crisi di fiducia in crisi di liquidità. Si vendono i titoli e gli investimenti liquidabili, si interrompe l’erogazione di credito a imprese e famiglie e si innesca così un processo a catena di generazione di perdite che si traduce nel crollo dei prezzi di borsa: è l’inizio della crisi del sistema finanziario internazionale. Le conseguenze sono molto significative: banche acquistano altre banche (JPMorgan acquista Bear Stearns, Bank of America acquista Merrill Lynch…), compagnie di assicurazioni sono messe in amministrazione controllata dello Stato (AIG, Fannie&Freddie…), banche e istituzioni falliscono (Lehman Brothers…).

“Il contesto economico comincia a cambiare nel 2004, con l’inizio della crescita dei tassi di interesse americani che continuerà fino al 2006. Aumentando il costo dei mutui, diventa più difficile erogarli e, nel frattempo, cominciano a aumentare le insolvenze su quelli già erogati” Per rendere sostenibile questa situazione (rischio di fallimento delle principali banche mondiali, potenziale blocco dei mercati finanziari…), che avrebbe potuto produrre la fine del sistema finanziario internazionale nonché effetti devastanti sull’economia mondiale, sono intervenute le banche centrali e i governi dei diversi paesi. I primi interventi sono stati delle banche centrali, finalizzati a fronteggiare la crisi di liquidità, soprattutto con una riduzione dei tassi d’interesse per facilitare l’accesso al credito. L’intervento dei governi si è invece concentrato soprattutto nell’evitare che la crisi di liquidità portasse al fallimento delle banche: si è trattato di un intervento senza precedenti

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sia in termini di ammontare di risorse stanziate sia per l’esigenza di coordinamento tra i governi del mondo richiesta dalla dimensione globale della crisi. Le principali azioni attuate dai governi, in particolare, hanno riguardato la concessione di garanzie sui prestiti interbancari concessi tra banche e di garanzie sui depositi dei cittadini (per evitare il rischio di “corsa allo sportello” come successo, ad esempio, nella primavera 2008 per la banca inglese Northern Rock), oltre che misure volte a ricapitalizzare le banche. In cambio, i governi hanno chiesto alle banche di limitare i bonus ai manager, di entrare negli organi di amministrazione, di utilizzare il denaro concesso per erogare prestiti alle imprese e alle famiglie, al fine di limitare gli effetti della crisi di liquidità sull’economia reale. Il dibattito sulle cause della crisi è tutt’ora in corso. Alcuni si interrogano, ad esempio, sulla natura della crisi (finanziaria o reale) sostenendo che fin dall’inizio si sia trattato di crisi reale, quindi di una crisi “di vecchio tipo”

“È possibile che tutto il mondo finanziario abbia sbagliato a fare il prezzo del rischio? ” benché amplificata dai mercati finanziari, perché alla sua origine non ci sono i bassi tassi di interesse ma le discontinuità create nell’economia reale dagli aumenti del prezzo del greggio e delle materie prime, che hanno determinato una forte volatilità nei profitti delle imprese. Dall’altra, sembra si sia comunque formato un senso comune sulle possibili cause della crisi, sintetizzabile nel contenuto delle domande oggetto dell’attuale dibattito: si è trattato di un banale errore di valutazione da parte di operatori incapaci di stimare correttamente i rischi? È stato il modello originate to distribuite adottato dalle banche, che separa l’erogazione del prestito dalla detenzione del relativo rischio, a determinare problemi di azzardo morale? Quali sono state le responsabilità e quali effetti ha prodotto il conflitto di interesse delle agenzie di rating? Che ruolo hanno avuto le regole di remunerazione dei manager? Quanto hanno influito gli effetti pro-ciclici determinati dalla nuova regolamentazione bancaria (Basilea 2) e dalle nuove regole contabili (IAS-IFRS)? Ma è possibile che tutto il mondo finanziario abbia sbagliato a fare il “prezzo del rischio”? È possibile che le banche commerciali, nel prendere le loro decisioni sul prezzo dei prestiti da erogare alle famiglie, abbiano adottato atteggiamenti irrazionali e autolesionistici e abbiano sbagliato sistematicamente a fare il prezzo dei prestiti con-

cessi sia che questi fossero cartolarizzati sia che non lo fossero? E che le banche d’affari li comprassero, sotto la forma di obbligazioni, a un prezzo sbagliato? Da una testimonianza di Alan Greenspan dell’ottobre 2008 sulle cause della crisi dei mercati finanziari si legge: «Negli ultimi decenni si è formato un vasto sistema di gestione del rischio e dei prezzi unendo le migliori intuizioni di matematici ed esperti finanziari sostenute dalla migliore tecnologia informatica. (…) Un Premio Nobel è stato assegnato per la scoperta del modello di pricing, che ha indotto gran parte dello sviluppo dei mercati dei derivati. Questo paradigma di gestione del rischio ha retto per decenni. (…) L’intero edificio intellettuale è crollato nell’estate dello scorso anno perché i dati inseriti nel modello di gestione del rischio coprivano solo gli ultimi vent’anni, un periodo di euforia». Ma se il rischio riguarda il futuro e, dunque, non può che essere misurato e gestito sulla base di un modello, in che senso è possibile ritenerlo responsabile? In altri termini, è possibile che il mondo si sia fatto trovare impreparato a gestire la sfida culturale posta dalla gestione del rischio che aveva deciso di assumersi? In effetti, c’è ancora molto da capire. Come sostiene Tommaso Padoa Schioppa in un recentissimo libro, quella che stiamo vivendo «è la crisi della nostra capacità di guardare le cose sui tempi lunghi»; non è una crisi «di regole e, se è una crisi di etica, non lo è nel senso spicciolo che ci sono stati alcuni malfattori e alcuni imbroglioni di cui adesso leggiamo sui giornali. Casomai direi di etica in un senso più profondo, cioè nel senso della responsabilità per i tempi lunghi, per le generazioni future, per la conservazione di risorse scarse, per l’equilibrio tra paesi ricchi e paesi poveri, di governo della globalizzazione. Tutto questo non toglie poi che la crisi sia di natura finanziaria». Ritengo che mai nessuna crisi come quella che

“Ogni banca si interroga sulla quantità di titoli tossici acquistati, sulle perdite sostenute, sulle perdite potenziali e sostenibili; e le banche, non fidandosi più l’una dell’altra, smettono di prestarsi denaro a vicenda, trasformando la crisi di fiducia in crisi di liquidità” stiamo vivendo abbia sollecitato a riflettere su quanto lo studio sia l’unico investimento in grado di garantire un futuro migliore per tutti; auguriamoci, tutti, di saper sempre ben valutare il valore di questo investimento.


Crisi e finanza pubblica Nuovi criteri economici e diversità degli assetti istituzionali di Antonio Di Majo Le Finanze pubbliche di tutti i paesi sono state investite dalla crisi economica globale, che, anzitutto, ne rimette in discussione il ruolo nella politica macroeconomica, specialmente, ma non solo, nei paesi più sviluppati. Il primo impatto della recessione economica si è manifestato nella crescita spontanea dei disavanzi, attraverso l’opeAntonio Di Majo rare di quei meccanismi, considerati “virtuosi” dagli economisti e dai politici fino a circa tre decenni orsono, definiti “stabilizzatori automatici”. Si tratta, ad esempio, della caduta del gettito delle imposte commisurate al valore delle vendite (come l’imposta sul valore aggiunto) o ai profitti delle imprese o, anche, ai redditi degli individui, ovvero, dal lato della spesa pubblica, la Cassa integrazione guadagni e, nei paesi in cui vi sono disposizioni istituzionali che ne prevedono un utilizzo più ampio del nostro, il sostegno del reddito dei disoccupati. L’effetto benefico di questi meccanismi consiste nel limitare la caduta della domanda complessiva nei mercati, con la parallela conseguenza, però, di un peggioramento dei saldi dei conti pubblici. I paesi sviluppati dell’Europa concluderanno il 2009 con disavanzi pubblici in prevalenza tra il 4 e il 5 % del prodotto interno lordo, con le eccezioni rilevanti di Spagna (quasi il 10) e Gran Bretagna (il 14). Per i pochi paesi, come il nostro, che non hanno dovuto accollare alle finanze pubbliche il salvataggio di parti rilevanti del sistema bancario e finanziario, il passaggio da saldi pubblici tendenti al pareggio a disavanzi dell’entità ricordata è prevalentemente dovuto all’operare dei ricordati “stabilizzatori automatici”. Per il resto, ricorrendo anche in questo caso al linguaggio della macroeconomia, si tratta degli “stabilizzatori discrezionali”, ossia degli effetti di modifiche di entrate e spese pubbliche esplicitamente destinate a contrastare il ciclo. Anche negli Usa il deficit è “esploso”: quest’anno si prevede che supererà il 13% del prodotto complessivo. Queste circostanze hanno, tra l’altro, messo in discussione il realismo delle teorie macroeconomiche dominanti nei recenti decenni che attribuivano alla non appropriata condotta delle finanze pubbliche (dovuta anche alle loro dimensioni, considerate “esagerate”) una pesante responsabilità nell’instabilità degli andamenti macroeconomici; inevitabili i continui suggerimenti di forte ridimensionamento del “peso” delle spese pubbliche, per ottenere maggiori tassi di crescita dell’economia, connessi con la presunta maggiore efficienza dell’utilizzo “privato” delle risorse.

Nel corso del XX secolo, il rapporto tra il valore della spesa pubblica e il prodotto complessivo è passato, in tutti i paesi sviluppati, da meno del 10 a valori tra il 40 e il 50% del P.I.L. (con qualche eccezione dovuta a particolari situazioni istituzionali, come negli Stati Uniti, dove la crescita si è fermata, almeno fino ad ora, a poco più del 35%), trend solo leggermente intaccato dalle privatizzazioni degli ultimi due decenni. Varie sono le spiegazioni di questa evoluzione di lungo periodo della distribuzione delle risorse allocate, tra criteri di decisione economica pubblica e meccanismi di mercato. Non si possono qui approfondire tali spiegazioni, ma si può ricordare che il poderoso sviluppo delle economie di mercato si è accompagnato alla creazione e al rafforzamento di istituzioni pubbliche, dotate di potere coattivo, capaci di svolgere attività indispensabili alla stessa crescita dei mercati, consistenti sia nella fornitura dei cosiddetti beni pubblici (giustizia, difesa, ordine pubblico, istruzione, tutela dei mercati, tutela dell’ambiente, presenza internazionale del Paese etc.), sia in opportune redistribuzioni dei redditi (per pensioni, assistenza ai disabili, ai senza lavoro etc.). Con in più i compiti macroeconomici che si aggiunsero, esplicitamente, solo dopo la “grande crisi” del 1929.

“Se circa la metà delle risorse prodotte ogni anno vengono allocate con criteri non riconducibili alla mano invisibile operante nei mercati, i meccanismi di decisione collettiva e l’operare delle istituzioni pubbliche assumono un’importanza fondamentale per il buon funzionamento del sistema economico” Se circa la metà delle risorse prodotte ogni anno vengono allocate con criteri non riconducibili alla mano invisibile operante nei mercati, i meccanismi di decisione collettiva, che si concretizzano attraverso l’operare delle istituzioni pubbliche, assumono un’importanza fondamentale, e maggiore che nel passato, per il buon funzionamento complessivo del sistema economico. Come in altri campi, le opinioni degli economisti del settore pubblico non sono concordanti nell’individuazione dei criteri più efficienti. Inoltre, le decisioni economiche collettive soggiacciono in qualche modo, in democrazia, alla regola della maggioranza dei consensi e si concretizzano nelle entrate (principalmente quelle coattive: le imposte e le tasse) e nelle spese delle finanze pubbliche. In molti casi anche nei disavanzi che, se persistenti nel tempo, originano crescenti stock di

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nel prelievo tributario, si debito pubblico, che posprevede una maggiore sono avere conseguenze “efficienza allocativa” molto rilevanti, di cui dovuta alla “vicinanza” non ci si può occupare in dei contribuenti (locali) queste poche righe. alle decisioni di spesa deL’“inefficienza” degli ascentrata. Inoltre, dovrebsetti allocativi pubblici be essere ridimensionato può comportare un ecil ruolo dello Stato (ora cesso di spesa e prelievo “quasi federale”) nella rispetto a quanto richieredistribuzione delle risto strettamente dall’efsorse, con il prelievo ridifettivo svolgimento di stribuito tra i vari enti decompiti utili al sistema centrati. Il finanziamento economico (e sociale più delle spese graverà di più in generale). Il buon fun- La sede del Ministero dell'economia e delle finanze sui contribuenti locali e zionamento delle istituzioni dovrebbe evitare tali situazioni. La diversità degli assetti istituzionali può quindi spiegare come a stesse dimensioni delle finanze “L’inefficienza degli assetti allocativi pubbliche possano corrispondere risultati sostanziali diffepubblici può comportare un eccesso di renti, con casi di spreco di risorse e loro maldistribuzioni, spesa e prelievo rispetto a quanto dovute, ad esempio, ad evasioni tributarie, a non corrette richiesto strettamente dall’effettivo attribuzioni di benefici pubblici etc.

“Nel corso del XX secolo, il rapporto tra il valore della spesa pubblica e il prodotto complessivo è passato, in tutti i paesi sviluppati, da meno del 10 a valori tra il 40 e il 50% del P.I.L.”

svolgimento di compiti utili al sistema economico (e sociale più in generale)”

quindi più in linea con le loro preferenze. L’approvazione della legge delega sul «federalismo fiscale» ha realizzato, in verità, un compromesso tra l’esigenza di trattenere le risorse nel luogo di produzione (e utilizzarle nel finanziamento della spesa locale) e quella di consentire anche alle aree più povere di offrire servizi pubblici ritenuti indispenLa distribuzione territoriale dei compiti pubblici e, quindi, sabili (sulla base di costi standard, di difficile definizione delle finanze pubbliche secondo diversi livelli di governo, concreta e sconosciuti, nei modi per ora ipotizzati, ai sisterappresenta uno degli aspetti emblematici della ricerca di mi di finanziamento di altri paesi) finanziandole con rediassetti più “graditi” e più “efficienti” nella ripartizione dei stribuzioni dalle aree più ricche. La realizzazione di quepoteri e nell’attività finanziaria pubblica. In varia misura e sto “compromesso” istituzionale è affidata al concreto funin tutti i periodi, la distribuzione delle finanze pubbliche zionamento del “federalismo” (regolato, in per livello di governo è soggetta a tensioni e dettaglio, da decreti delegati di futura emamutamenti, che nel nostro paese si sono acnazione), mentre la maggiore efficienza delcentuati negli ultimi due decenni, con l’esito l’offerta dei beni pubblici è di dubbia realizdi un’importante modifica costituzionale e il zazione e solo la realtà potrà fornire una ricorollario finanziario del cosiddetto “federasposta. Dal punto di vista del “controllo” lismo fiscale”, che implica lo spostamento macroeconomico è da verificare la possibilidell’utilizzo delle risorse pubbliche verso lità di una supposta minore propensione alla velli inferiori di governo (regioni, province, crescita della spesa alla creazione di discomuni). Le ragioni economiche dovrebbero avanzi complessivi e di accumulo del debito essere una migliore “efficienza allocativa” e pubblico. Le ricerche economiche, sulla basimultaneamente un più corretto adempise di dati quantitativi di molti paesi, non mento dei compiti redistributivi della finanhanno trovato alcuna relazione tra la crescita za pubblica. Quest’ultima è stata caratterizdella spesa pubblica e del debito pubblico e zata negli ultimi quarant’anni (dopo l’istitu- John Maynard Keynes, considerato il padre della moderna macroeconoil grado di decentramento delle finanze pubzione delle regioni) da un rilevante decentra- mia, in contrasto con la teoria ecomento della spese e un forte accentramento nomica neoclassica, sostenne la ne- bliche. dell'intervento pubblico nelSi spera che questo riferimento a una recendelle entrate (specialmente fino all’introdu- cessità l'economia con misure di politica fite modifica di assetti istituzionali delle fizione di due importanti tributi locali come scale e monetaria. Le sue teorie furuno alla base della politica econonanze pubbliche possa dare un’idea delle l’ICI, prelevata dai comuni e l’IRAP, dalle mica del New Deal, varata da Rooregioni). Ridefiniti i compiti dei vari livelli svelt negli anni Trenta per risolleva- difficoltà di ottenere risultati soddisfacenti il Paese dalla grande depressione attraverso regole economico-istituzionali di governo con un maggiore decentramento re che aveva travolto gli Stati Uniti a non soggette agli automatismi del mercato. delle spese e una maggiore presenza locale partire dalla crisi del 1929


Il cammino di Kyoto Consumi energetici e ambiente nell’attuale congiuntura economica di Valeria Termini C’è consenso sulla necessità di invertire il trend di crescita delle emissioni di gas inquinanti nell’atmosfera. 192 paesi hanno aderito alla road map definita a Bali nel dicembre 2008 per affrontare il problema della sostenibilità ambientale con intervenValeria Termini ti volti a prevenire, mitigare e rafforzare l’adattamento ai cambiamenti climatici provocati dall’emissione di gas a effetto serra nell’atmosfera. Il piano coinvolge tutte le regioni del pianeta, anche le più povere e potenzialmente più colpite dagli effetti ambientali, secondo il principio delle responsabilità condivise ma differenziate che fu concordato nella Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCC, United Nations Framework Convention on Climate Change, 1994). La prossima scadenza sarà a Copenhagen (nel dicembre 2009), dove saranno negoziate le misure della seconda fase del Protocollo di Kyoto, a partire cioè dal 2012, che si auspica porti a risultati migliori di quelli ottenuti fino ad oggi. Nelle emissioni di biossido di carbonio il settore energetico ha un ruolo preminente. E mostra un andamento in forte crescita dalla fine del secolo scorso, per una pluralità di cause difficili da aggredire, tra le quali spiccano la rapida crescita dei paesi asiatici emergenti, in particolare Cina e India che hanno un’alta intensità di emissioni sul reddito e l’uso intensivo di combustibili fossili nella maggioranza dei paesi industrializzati. Di conseguenza, le politiche volte a stabilizzare la concentrazione di biossido di carbonio nell’atmosfera a valori compatibili con il riscaldamento del pianeta a 2° celsius secondo le indicazioni degli scienziati dell’International Panel on Climate Change delle Nazioni Unite (IPCC 2007), si concentrano su un uso più razionale dei consumi di energia, sulla produzione di energia da fonti alternative rispetto ai combustibili fossili e sulla ricerca e la sperimentazione per il sequestro del biossido di carbonio derivante dall’uso del carbone (carbon capture and sequestration,CCS). Tra i combustibili fossili, infatti, il carbone ha contribuito con una crescita delle emissioni superiore al 70% tra il 1990 e il 2006. La tecnologia dovrà ancora una volta consentire discontinuità nello sviluppo; ma, l’obiettivo di modificare il peso relativo delle fonti primarie a favore di quelle meno inquinanti è un compito difficilissimo per i governi nazionali, in un contesto globale fortemente competitivo. Si intreccia con la traiettoria di sviluppo industriale dei paesi emergenti, con le difese economiche dei paesi industrializzati minacciati dalla competizione delle nuove economie; dipende dalle decisioni di investimento di lunghissimo periodo nella filiera di produzione di energia, che sono a loro volta in-

fluenzate da movimenti speculativi incontrollati dei prezzi del petrolio, dalla distribuzione geografica delle riserve, dal costo marginale della ricerca e dell’estrazione nei nuovi bacini e infine dall’uso politico dell’offerta di combustibili fossili che si è consolidato nei decenni trascorsi. Anche per questo motivo gli organismi internazionali concordano nell’attribuire alla razionalizzazione dei consumi di energia la quota più rilevante dei risultati potenziali di contenimento delle emissioni di biossido di carbonio nell’atmosfera, valutandola intorno al 60% dei risultati attesi dalle politiche di intervento al 2030 (IEA 2009), con particolare attenzione ai consumi finali di energia per i trasporti, per il riscaldamento, per l’elettricità.

“192 paesi hanno aderito alla road map definita a Bali nel dicembre 2008 per affrontare il problema della sostenibilità ambientale” Il contenimento delle emissioni è naturalmente un obiettivo globale. Si tratta di una esternalità negativa che gli economisti hanno affrontato, dai tempi di Pigou, con strumenti di prezzo (un prezzo del CO2 è necessario per internalizzare il costo sociale delle emissioni inquinanti, da determinare sia sviluppando il mercato dei certificati di emissione negoziabili, sia introducendo un’imposta sul biossido di carbonio) oppure ricorrendo a misure quantitative, come l’imposizione di standard o di tetti alle emissioni concesse. Ma proprio la natura globale dell’esternalità negativa e la estrema differenziazione delle condizioni economiche e sociali delle regioni coinvolte rendono assai complesso l’accordo sugli interventi e molto forte la tentazione al free riding per i singoli stati. La condivisione richiede flessibilità degli interventi, ma anche un forte coordinamento per il rispetto degli obiettivi stabiliti. E, prima ancora, richiede che siano identificati gli obiettivi intermedi, secondo una spartizione degli oneri accettata e sostenibile. Ognuno di questi passaggi è estremamente complesso, a partire dalla definizione degli obiettivi intermedi e delle misure da attivare per razionalizzare i consumi di energia. Obiettivi e interventi non sono indipendenti, ad esempio, dagli indicatori di inquinamento. I dati sulle emissioni, seppure ancora carenti, sono da alcuni anni raccolti e selezionati in modo omogeneo e rigoroso da diverse fonti ufficiali internazionali, tra le quali l’AIE, sulle cui statistiche si basano le analisi elaborate dal Center for Environmental Law & Policy dell’Università di Yale, in collaborazione con l’ISPRA in Italia, il Center for International Earth Science Information Network della Columbia University e il World Economic Forum di Ginevra.

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Clean Development MeUna difficoltà nel ragchanisms (CDM), i mecgiungere accordi condicanismi flessibili previvisi sta proprio nel fatto sti dal Protocollo di che, a seconda degli inKyoto e assistiti dalle dicatori di inquinamento istituzioni internazionali scelti, si determina l’atper favorire gli investitribuzione delle responmenti nei paesi meno insabilità tra paesi, la defidustrializzati, in connizione degli interventi e traddizione con i vincoli di conseguenza la riparimposti dall’UE al ricotizione tra paesi dei costi noscimento dei crediti di di aggiustamento. Ad emissione così perseguiti esempio, se si sceglie dai paesi membri. come indicatore l’intenComponenti a favore dell’energia pulita nei pacchetti di stimolo dei Governi, Se invece si sceglie come sità di emissioni di CO2 per tipologia e per regione. Fonte: IEA 2009 Background paper fot theG8 indicatore il valore delle nella produzione del set- Energy Ministers emissioni pro capite, il tore industriale, i paesi rapporto delle responsabilità si inverte. Si evidenzia il basasiatici mostrano certamente valori di inquinamento più so consumo di energia pro capite dei paesi emergenti rialti dei paesi industrializzati: l’intensità industriale di spetto ad altri paesi più ricchi e sviluppati come gli Stati emissioni in Cina è di 4.4 metric tonnes (mt) per 1000 $ di produzione industriale ($ PPP 2005), a fronte di 2.6 Uniti o l’Australia: nel 2008, ogni cittadino americano ha mt dell’India, di 2.1 mt dell’Italia, 2.6 mt degli Stati Uniemesso infatti, in media, 24,9 mt CO2 equivalenti; ogni cittadino dell’UE 10,7; mentre ogni cinese ha emesso solo 5,5 ti e 1.4 mt della Gran Bretagna (Yale 2009). Ciò si spiega mt CO2 equivalente e ogni indiano 2.2. Hanno buon gioco, da questa base, le posizioni dei paesi emergenti per i quali “La prossima scadenza sarà a l’assunzione di un impegno quantificato e vincolante da Copenhagen nel dicembre 2009, dove parte degli Stati Uniti a ridurre le emissioni al proprio interno è comunque propedeutico a qualsiasi impegno richiesaranno negoziate le misure della sto ai paesi in via di sviluppo. seconda fase del Protocollo di Kyoto, a Infine, se si assume come indicatore il volume di emispartire cioè dal 2012” sioni prodotte nella generazione di energia elettrica, che pure ha un peso di rilievo sul totale dei gas inquinanti emessi nell’atmosfera, si modifica ulteriormente lo scepoiché i paesi emergenti, oltre ad avere una crescita elenario degli interventi necessari e l’attribuzione delle revata nei consumi di energia connessa al rapido sviluppo, sponsabilità, che risulta meno correlato alla ricchezza deutilizzano tecnologie più inquinanti e fanno un uso più gli stati. Dalla Cina, che emette 788 gCO2 per kwh di intenso di combustibili fossili e di carbone, di cui ad energia elettrica prodotta, si passa agli USA che emettoesempio la Cina possiede ampie riserve. Da quest’analisi no 573 gCO2 per kwh, all’Italia 405, alla Francia 91, alla risulta così l’urgenza di attivare politiche impegnative e Norvegia 60. vincolanti nei paesi asiatici; ma risulta anche l’esigenza D’altra parte, altri paesi meno sviluppati, che hanno conche siano rafforzate le politiche volte a favorire il trasfesumi di energia limitati e uno sviluppo economico assai rimento tecnologico. Ad esempio intensificando l’uso di più contenuto, come l’Indonesia, contribuiscono alla crescita delle emissioni globali con la deforestazione (per questo l’Indonesia figura al terzo posto tra i grandi emettitori del pianeta). È anche interessante notare che le variabili economiche non sono esaustive nella spiegazione dell’efficacia delle politiche attivate a livello nazionale. Nella graduatoria dell’Environmental Performance Un’immagine della United Nation climate change conference di Bali


Index 2008 i primi cinque posti tra i paesi virtuosi sono occupati da Svizzera, Svezia, Finlandia, Norvegia e Costa Rica, paesi che oltre ad aver attivato politiche pro attive per il contenimento delle emissioni, hanno in comune meccanismi di participatory governance che contribuiscono a spiegare la maggiore efficacia degli interventi governativi con l’adesione di cittadini e imprese alle politiche di razionalizzazione dei consumi energetici. Il Protocollo di Kyoto ha tenuto conto delle responsabilità pregresse dei paesi industrializzati, consentendo ai paesi emergenti di non assumere impegni vincolanti e quantificati di riduzione delle emissioni nel primo periodo di attuazione del Protocollo. Guardando al futuro, tuttavia, è evidente che l’impegno unilaterale dei paesi industrializzati non basta e un impegno diretto dei paesi di recente industrializzazione è indispensabile. L’apporto al trend di emissioni di biossido di carbonio previsto da parte dei paesi emergenti come Cina o India è elevatissimo: ha superato quello pur elevato degli Stati Uniti. A Copenhagen ci si può aspettare un accordo più significativo? Da un lato la svolta di Obama peserà positivamente, dall’altro la crisi in atto ha già fatto registrare le prime difficoltà nel G20 di aprile, a Londra. Come era da aspettarsi, i consumi energetici hanno fortemente risentito della crisi. Per il 2009 l’IEA ha stimato una riduzione nella domanda mondiale di energia elettrica del 3,5%, registrando per la prima volta dalla seconda guerra mondiale una contrazione netta. I consumi di energia, e dunque delle emissioni, si sono ridotti; ma questo non significa affatto che si determini un miglioramento strutturale della questione ambientale. La difficoltà di ottenere credito e la riduzione del prezzo dei combustibili fossili connessa al calo della domanda non possono che favorire l’uso di queste fonti più inquinanti rispetto ad altre più costose, come le rinnovabili, o a più alta intensità di capitale, come il nucleare. Inoltre, la straordinaria contrazione degli investimenti in impianti di produzione di energia rinnovabile (diminuiti del 42% globalmente nel 2009, dopo la crescita che si era registrata nel 2007-2008) non potrà che avere effetti duraturi: è anche prevedibile che si protragga nel tempo. Per il medio periodo, molto dipenderà dalle politiche dei governi, che potranno decidere di fare del cambiamento climatico un’opportunità per uscire dalla crisi o, al contrario, relegare la questione ambientale a un obiettivo secondario tra le priorità da affrontare, ad esempio rispetto all’impegno dei governi a sostegno del settore finanziario. Come esempio della prima opzione spicca la visione proposta da Obama; esempio della seconda sono invece i risultati del vertice del G20 di Londra, che sembra aver compiuto un passo indietro in materia di sostegno alle politiche attive di contrasto al cambiamento climatico rispetto al vertice del G8 di Hokkaido del luglio 2008. In quella sede infatti i partecipanti si erano impegnati a ridurre le emissioni del 50% entro il 2050 (a fronte di una crescita che è prevista del 45% al 2030, in assenza di interventi specifici). Ad oggi, nell’impegno dei governi a sostegno dell’economia, un nucleo di interventi pari a circa il 5% su un totale di 2,6 trilioni di dollari, è stato destinato al soste-

gno dell’efficienza energetica e della produzione di energie pulite. È difficile immaginare nell’immediato investimenti consistenti per la produzione di energia pulita, che richiedono capitali di lunghissimo periodo e dipendono per lo più dalle scelte di imprenditori resi ancor più avversi al rischio dalla crisi economica, a fronte di prezzi decrescenti dei combustibili fossili. In questa situazione di crisi sembrano di poco aiuto anche strumenti come il mercato dei certificati negoziabili di emissione di CO2, il cui prezzo risente della scarsa domanda di energia.

“Le politiche volte a stabilizzare la concentrazione di biossido di carbonio nell’atmosfera a valori compatibili con il riscaldamento del pianeta a 2° celsius si concentrano su un uso più razionale dei consumi di energia, sulla produzione di energia da fonti alternative rispetto ai combustibili fossili” La visione tuttavia deve essere rivolta al futuro: è opportuno che i governi si impegnino ad ampliare l’architettura di questi mercati per dare un prezzo unico al biossido di carbonio e avere mercati liquidi quando la ripresa si ripercuoterà con pari rapidità sulla domanda di energia. Nel frattempo, è auspicabile che gli stanziamenti per questo settore rafforzino i meccanismi flessibili previsti dagli accordi di Kyoto, stimolando il trasferimento tecnologico verso i paesi asiatici. Questa politica presenterebbe un triplo vantaggio: quello di contribuire alla crescita della domanda interna dei paesi asiatici che hanno visto le loro esportazioni drasticamente ridotte dalla crisi, di offrire un mercato per beni intermedi e tecnologia ai paesi sviluppati, dopo che si è inceppato il motore della domanda di consumi degli Stati Uniti, e infine di porre le basi per consentire ai paesi emergenti, con l’aiuto delle tecnologie meno inquinanti sperimentate dai paesi più ricchi, di saltare la fase di industrializzazione ad altissima densità di carbone e contenere le emissioni legate alla crescita industriale senza imporre freni allo sviluppo. Quando i finanziamenti sono limitati il loro uso deve necessariamente concentrarsi sui progetti che promettono un maggior rendimento sociale nel lungo periodo.

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Declino e ascesa La Fiat e l’industria italiana oggi di Anna Giunta La firma dell’accordo tra Chrysler e Fiat è la notizia a cui la stampa dà maggiore risalto in un difficile primo maggio italiano del 2009. Questi i termini: l’accordo prevede la cessione da parte di Chrysler di tutti gli assets ad una nuova Chrysler in cui il Anna Giunta Tesoro americano controllerà l’8%; il 2% sarà nelle mani del governo canadese; il 55% farà capo al fondo fiduciario Veba, nato dall’accordo con il sindacato Uaw (http://www.uaw.org/). Si tratta di uno dei sindacati con maggiore rappresentatività e potere negoziale negli Stati Uniti, che potrà scegliere un consigliere indipendente ma senza diritti di governance. Una novità assoluta negli assetti del capitalismo nordamericano: il sindacato ha dunque la maggioranza assoluta del capitale azionario (ma non del consiglio di amministrazione), conseguita con forti sacrifici in termini di congelamento salariale per quattro anni e rinuncia al rimborso degli accantonamenti sanitari. L’impresa italiana Fiat entra nella nuova compagnia con un 20% iniziale, potrà salire al 35% e, in seguito, ottenere una quota di maggioranza, a patto che vengano completamente restituiti gli aiuti pubblici erogati. In cambio del 20% della nuova società, Fiat fornirà tecnologie e progetti ma non risorse finanziarie. Le tecnologie in questione riguardano lo sviluppo di nuovi motori, messi a punto dalla Fiat negli anni passati e prima degli altri concorrenti europei, studiati per diminuire il consumo di carburante e ridurre le emissioni inquinanti. Con la partecipazione azionaria, Fiat potrà progettare e produrre direttamente negli stabilimenti USA i modelli da destinare al mercato americano; la casa automobilistica italiana guadagna inoltre uno sbocco sul mercato americano, grazie alle reti di vendita Chrysler; allarga i propri volumi produttivi a circa 4 milioni di autovetture, come si può vedere dalla figura a fianco. Il livello di 4 milioni di auto- Fonte: La Stampa, 1° maggio 2009

vetture all’anno, conseguito con l’accordo Fiat-Chrysler, sarà ancora al di sotto di quello necessario (6 milioni di auto prodotte all’anno) per rimanere nella cerchia ristretta dei pochi grandi (stimati a sei) che riusciranno, nei prossimi anni, a operare profittevolmente sul mercato mondiale. La corrente caduta della domanda di autovetture richiede, infatti, un ridimensionamento dei volumi e, di conseguenza, un processo di fusione tra le maggiori imprese oggi esistenti perché possano, unendosi, sfruttare le economie di scala tipiche del processo produttivo e della rete distributiva dell’industria automobilistica.

“L’impresa italiana Fiat entra nella nuova compagnia con un 20% iniziale, potrà salire al 35% e, in seguito, ottenere una quota di maggioranza, a patto che vengano completamente restituiti gli aiuti pubblici erogati” Sul versante italiano, la rilevanza dell’accordo è immensa, di portata storica, anche perché avviene nel pieno di una crisi finanziaria che presenta connotati assolutamente diversi rispetto a quanto aveva fronteggiato finora l’industria automobilistica. Non si tratta, infatti, di uno shock esogeno come, per esempio, l’aumento dei prezzi delle materie prime della seconda metà degli anni Settanta che portò, insieme ad altri fattori, i grandi gruppi ad esternalizzare la propria produzione ad altre imprese presenti sul territorio nazionale, il cosiddetto decentramento produttivo. E non è neanche uno shock endogeno, determinato dalla integrazione dei mercati e, quindi, dalla aumentata pressione concorrenziale che ha indotto, sul finire degli anni Ottanta, i produttori di auto ad “allungare” la catena della fornitura ben oltre i confini nazionali alla ricerca di mercati remunerativi e fornitori a basso costo. La crisi finanziaria di oggi ha connotati tutti diversi: è piuttosto di carattere sistemico, ad elevata tossicità, più pervasiva, più dannosa, più duratura nel tempo e con elevate ripercussioni sull’economia


ti con le banche, le relazioni reale, in particolare sulla cacon la rete dei fornitori. I riduta dei consumi e degli insultati positivi arrivano a stretvestimenti, entrambi magto giro: «il management di giormente avvertiti proprio Fiat ha fatto un buon lavoro», dall’industria dell’auto (“l’insentenzia Barack Obama ed è dustria delle industrie”) e ciò il capovolgimento della storia, spiega l’interesse e il soccorla Fiat (ricordate? L’acronimo so, in scala diversa, dei goFiat era tradotto come Fix It verni europei e americani. Again, Tony!) in soccorso di Per comprendere appieno la una delle “Big Three” ameriportata reale dell’accordo, bicane. sogna guardare a due livelli: Ciò che va bene per la Fiat va l’impresa e l’industria manibene per il Paese? Era un fatturiera italiana. È un nesso vecchio modo di dire per indistricabile sin dal 1899, spiegare la centralità di ruolo anno in cui fu fondata a Toridella Fiat nello sviluppo econo la Fabbrica Italiana Autonomico dell’Italia. Ha ancora mobili Torino, la Fiat. una sua potenza esplicativa, Cominciamo dall’impresa se solo si pensa al contributo Fiat. Qui alcune date assudella Fiat alla crescita del vamono un forte valore simbolore aggiunto italiano (stimalico. La viva voce del presito nell’ordine del 20% della dente Barack Obama il 30 Fonte: La Repubblica, 8 maggio 2009 crescita totale del valore agaprile 2009 annuncia: «il magiunto italiano nel 2006). E nagement di Fiat ha fatto un qui veniamo all’industria manifatturiera italiana, la cui buon lavoro». Il management in questione è personificato sofferenza si è acuita con la crisi finanziaria del 2008. Coda Sergio Marchionne, il buon lavoro a cui si fa riferime è noto, l’anomalo modello di specializzazione italiano mento coincide con la missione impossibile, affidatagli il è da lungo tempo incentrato sulle produzioni del cosiddet1° giugno del 2004, quando diventa amministratore deleto “made in Italy”: attività tessili, abbigliamento, calzatugato di una Fiat che sta vivendo, indubitabilmente, gli anre, mobilio, tutte industrie caratterizzate dalla frammentani peggiori di crisi, mai visti dalla data di fondazione. Alzione produttiva e, mediamente, da un basso livello di ricuni segni della criticità: vanno declinando con sistematicerca e sviluppo. A partire dalla seconda metà degli anni cità le dimensioni in termini di volumi di auto prodotte e Settanta l’Italia ha fortemente ridimensionato la sua predi quote di mercato sia in Italia che in Europa: nella classifica del 1989 delle imprese più grandi del mondo, Fiat figura al decimo posto, mentre nel 2003 è scomparsa di scena ed è l’unica impresa automobilistica a registrare, “Sul versante italiano, la rilevanza nel 2004, un margine operativo negativo. Inoltre nel 2002 dell’accordo è immensa anche perché Fiat stipula con le banche il cosiddetto “prestito converavviene nel pieno di una crisi finanziaria tendo”, pari a 3 miliardi di euro che, data la voragine delche presenta connotati assolutamente la crisi aziendale, prefigura una sorta di consegna dell’azienda ai suoi creditori. Su questo plumbeo scenario indiversi rispetto a quanto aveva combe l’opzione “put” dell’accordo con la General Mofronteggiato finora l’industria tors, vale a dire la possibilità di cedere Fiat Auto alla Geautomobilistica” neral Motors. Si perderebbe così un caposaldo dell’industria manifatturiera italiana che, negli stessi anni, sembra senza nei settori ad alta tecnologia e ad elevata economia avviata su una parabola discendente fatta di produttività di scala, con il risultato che l’industria meccanico-automostagnante e perdita di quote di mercato estere. La crisi bilistica è rimasta tra le poche a presidiare il campo in terdella più rappresentativa impresa italiana non appare altro mini di ricerca e sviluppo, adozione delle nuove tecnoloche la manifestazione più vivida e impressionante del degie dell’informazione e della comunicazione, formazione clino economico che colpisce il paese nella sua interezza del capitale umano, proiezione internazionale evoluta (gli (dal 2001 al 2005 il Prodotto interno lordo “cresce” in investimenti diretti all’estero), trasmissione di sapere tecmedia dello 0,7% all’anno). nologico e capacità manageriale alla rete dei fornitori. Il risanamento dell’impresa è fulmineo, passa per il divorzio Nella perdurante fase di stagnazione della produttività e di da General Motors che si consuma il 14 febbraio 2005 (proconseguente diminuzione del Prodotto interno lordo, sono prio a san Valentino!), dove, la casa americana, pur di non le partite simili a quelle condotte da Marchionne che anesercitare l’opzione “put”, versa ben due miliardi di dollari drebbero giocate, per creare imprese capaci di competere nelle casse della Fiat. Il successo insperato si accompagna globalmente su mercati a forte dinamica e risollevare le ad una profonda ristrutturazione che tocca la filosofia aziensorti dell’industria italiana. dale, i nuovi prodotti, il presidio dei mercati esteri, i rappor-

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Il non profit delle banche Recenti esperienze di finanza etica in Europa e in Italia di Francesca Lulli Dalla fine degli anni Settanta cominciano timidamente a diffondersi nel mondo una serie di esperimenti di finanza solidale. L’attenzione ai diritti umani e all’ambiente, suscitata dai movimenti pacifisti ed ecologisti nei paesi anglosassoni, manifestata soprattutto dallo sviluppo dei fondi etici, trova espressione in Europa nella nascita di istituzioni finanziarie eticamente orientate. Pensiamo alla Gemeinschaftsbank tedesca nata nel 1974 per finanziare progetti d’interesse sociale e ambientale esclusi dal finanziamento classico, alla Triodos Bank, nata in Olanda nel 1980 per sostenere imprese votate alla produzione eco-compatibile, alla ricerca di fonti energetiche rinnovabili e alla tutela ambientale o alla BAS (Banca alternativa svizzera) in Svizzera. Negli stessi anni prende l’avvio in Bangladesh la Grameen bank, il cui mandato rispondeva e risponde alla realizzazione dell’accesso al credito per i più poveri, esclusi dal circuito bancario tradizionale. Comunque, la tendenza a includere la finanza in una visione del mondo etica e pratica appartiene di fatto a moltissime esperienze; la stessa finanza popolare in Africa, ma anche in altri paesi del Sud del mondo, testimonia di una tale tensione. Se esiste una propensione delle collettività tradizionali a organizzare l’ambito finanziario integrandolo ai bisogni della comunità e ai valori da essa espressi, è pur vero che nel tempo tale propensione alla solidarietà negli istituti di intermediazione finanziaria classica si è andata perdendo nel tempo. Le esperienze delle banche di credito cooperativo o delle casse di risparmio sviluppatesi a partire dalla fine del 1800 testimoniano, anche in Italia, di categorie di banche

“L’attenzione ai diritti umani e all’ambiente, manifestata soprattutto dallo sviluppo dei fondi etici, trova espressione in Europa nella nascita di istituzioni finanziarie eticamente orientate” che dalle loro origini hanno perseguito fini sociali. La maggior parte di queste esperienze ha perso, però, l’iniziale vocazione solidale, nonché la piccola dimensione e la natura locale: infatti, il sistema bancario risulta oggi dominato da pochi gruppi per i quali la cultura della solidarietà e l’etica non sono valori portanti. Ciononostante, negli anni Ottanta in tutta Europa si assiste ad una crescita dell’attenzione del mondo economico e finanziario verso l’etica e la responsabilità sociale nell’uso del credito. In quegli anni vi è un forte sviluppo di banche alternative caratterizzate da un orientamento dei loro finanziamenti verso progetti attenti alle problematiche so-

ciali e ambientali e verso la ricerca di proposte di servizi finanziari per gli esclusi dai circuiti classici. Il filone dell’ecologia connota maggiormente le attività delle banche etiche del nord Europa, mentre quelle del sud sono più orientate da una sensibilità verso temi sociali quali lo sviluppo sociale delle comunità emarginate, la lotta all’esclusione sociale e alla disoccupazione. Anche in Italia, vi sono esperienze che testimoniano in quegli anni di questa nuova sensibilità e alcune banche tradizionali cominciano ad offrire prodotti di tipo etico, come, fra altri, il Conto Progresso offerto dalla Banca Popolare di Bergamo negli anni Ottanta. La finanza etica basa il suo operato sulla centralità della persona e non del capitale, dell’idea e non del patrimonio, della giusta remunerazione dell’investimento piuttosto che della speculazione. Viene perseguito il doppio obiettivo di orientare i finanziamenti solo verso quelle imprese che riDonne che hanno usufruito del microcredito. Songea, Tanzania (2005)


spettino l’ambiente e i diritti dell’uomo e di garantire l’accesso al credito a quei soggetti considerati dagli istituti finanziari tradizionali non degni di fiducia perché impossibilitati ad offrire garanzie patrimoniali. In Italia lo sviluppo della finanza etica e di istituzioni finanziarie aventi per oggetto privilegiato il finanziamento di realtà non profit ha visto la sua realizzazione a partire dagli anni Settanta, attraverso l’esperienza delle Mag, Mutue per l’autogestione del risparmio, la cui esperienza è alla base della stessa nascita della banca etica. La prima Mag, Mutua per l’autogestione, nasce a Verona nel 1978, come Società di mutuo soccorso, in base ad una legge del 1886, che coordinava le prime cooperative di lavoro nate da esperienze di occupazione e lavoro di terre abbandonate e da iniziative operaie di lavoratori di fabbriche in crisi. La Mag si prefiggeva di assicurare ai soci sussidi e previdenze nei casi di disoccupazione, di malattia, di inabilità al lavoro e di vecchiaia; di cooperare all’educazione, alla cultura e alla formazione professionale dei soci e delle comunità locali; di realizzare fra soci forme di mutuo soccorso e di auto-aiuto negli ambiti dell’economia sociale e del terzo settore. Dunque le Mutue autogestite testimoniano di un rapporto forte con il territorio e i suoi bisogni e un coinvolgimento significativo dei soci in tutti gli aspetti decisionali relativi all’uso dei propri risparmi e delle attività della mutua. Infatti, le Mag sono cooperative in cui il denaro raccolto fra i soci viene prestato a chi di loro

è in difficoltà o propone progetti che abbiano un impatto sociale e ambientale benefico. Nel 1982 accanto alla Mag, società di mutuo soccorso di Verona, nasce Mag Servizi, una cooperativa che sostiene la nascita e lo sviluppo di imprese associative attraverso consulenze tecniche. In seguito, durante gli anni Ottanta, nasceranno altre Mag e ad oggi ve ne sono sei: Milano, Padova, Torino, Reggio Emilia, Roma e Venezia. Le Mag sono caratterizzate dalla partecipazione diretta dei soci (autogestione) e dalla garanzia sugli impieghi del denaro e basate sulla conoscenza delle persone e sull’orientamento dei finanziamenti verso i progetti collettivi di cooperative o associazioni.

“La finanza etica basa il suo operato sulla centralità della persona e non del capitale, dell’idea e non del patrimonio, della giusta remunerazione dell’investimento piuttosto che della speculazione” I settori di intervento comprendono: i progetti di solidarietà sociale, fra cui quelli d’inserimento nel mondo del lavoro di soggetti svantaggiati e di ricerca di alloggi per i meno abbienti e i progetti sensibili all’ambiente e all’ecologia e fra questi quelli legati al riciclaggio dei rifiuti o alla diffusione di prodotti e conoscenze sui prodotti biologici e naturali. Vengono finanziate anche attività di promozione culturale e legate al commercio equo e solidale. Lo sviluppo delle Mag viene rallentato durante gli anni Novanta dalle conseguenze di alcuni interventi legislativi in materia finanziaria che impongono anche a queste istituzioni di intermediazione finanziaria di riorganizzarsi: la legge antiriciclaggio nel 1991 e poi l’introduzione del testo unico in materia bancaria e creditizia. Quest’ultimo provvedimento impone una restrizione dell’ambito dei soggetti abilitati a svolgere l’attività d’intermediazione creditizia, riservando solo agli istituti bancari la raccolta del risparmio tra il pubblico e l’erogazione del credito. Questo provvedimento costringe le Mag a ripensare le proprie funzioni e sollecita la messa in pratica di un’idea che già da tempo era stata considerata: dare vita alla prima Banca etica italiana, attraverso il coinvolgimento anche di altre fra le realtà più significative dell’associazionismo e del volontariato. Così alcune Mag, insieme ad altri soggetti della società civile, quali fra gli altri Pax Christi, Acli, Arci, Agesci, Fiba, Cisl, Gruppo Abele, WWF, nel 1994 danno luogo all’associazione Verso la Banca Etica che nel 1995 si costituisce in cooperativa. Questa cooperativa arriva a comprendere 22 soci e ha come finalità quella di promuovere la Banca etica anche attraverso la raccolta di capitale sociale. Infatti in questo processo gli attori coinvolti hanno deciso per un superamento della sola competenza territoriale locale e per una raggiungibilità nazionale della banca, che verrà permessa dalla formula popolare. Il modello banca popolare richiede però la formazione di un capitale sociale minimo molto più elevato (12,5 miliardi di lire) rispetto a quello ri-

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chiesto per la costituzione di una banca di credito cooperativo. Per raggiungere questa cifra viene realizzata una campagna informativa che vede impegnati i soci più coinvolti nei propri territori di residenza. Nasce, così, la rete dei Gruppi di iniziativa territoriale, i GIT, composti dai membri locali dei movimenti associativi che avevano aderito al progetto Banca etica. I GIT continuano a rappresentare il legame della Banca etica con i territori locali. Infatti con la costituzione della Banca questi gruppi sono stati trasformati in coordinamenti locali, che continuano a diffondere i principi e i valori della finanza etica e gestiscono la relazione con la base, avendo dei legami concreti sul territorio e godendo di un rapporto forte di fiducia con esso. Nel maggio 1998 la cooperativa Verso la Banca Etica si trasforma in Banca popolare etica e viene nominato il primo Consiglio di amministrazione. Dopo pochi mesi, nel 1999, la Banca etica diventa una realtà e comincia la sua operatività. Vi è nella finanza etica una tensione alla costruzione di una realtà locale più giusta, attraverso strategie di accesso al credito per i componenti della comunità in stato di bisogno e attraverso un orientamento responsabile e consapevole, da parte dei soci, del proprio risparmio a favore di quelle iniziative (sociali, economiche e culturali) che contribuiscono a rafforzare la comunità di appartenenza. Al tempo stesso l’attenzione all’ambiente, i cui problemi sono mondialmente condivisi, così come ai diritti e ai proDonne che hanno usufruito del microcredito. Gwembe, Zambia (2008)

getti dei più vulnerabili in aree del mondo geograficamente lontane, permette di realizzare dei progetti e di promuovere una coscienza che valicano i confini di una singola località. In Banca etica i settori d’intervento finanziario includono: la cooperazione sociale, la cooperazione internazionale, l’ambiente e la promozione della cultura e della società civile. La Banca etica continua lo spirito di aiuto reciproco e partecipazione locale delle Mag, e l’elemento territoriale mantiene un ruolo importante attraverso la conoscenza re-

“I settori di intervento comprendono: i progetti di solidarietà sociale, di ricerca di alloggi per i meno abbienti e i progetti sensibili all’ambiente e all’ecologia e fra questi quelli legati al riciclaggio dei rifiuti o alla diffusione di prodotti biologici” ciproca e diretta degli ambiti che il proprio denaro contribuisce a sostenere. Al tempo stesso, l’utilizzo responsabile del proprio risparmio permette la possibilità di un allargamento del proprio territorio di appartenenza e una partecipazione oltre i confini geografici fisici a tutte quelle esperienze di imprenditoria e solidarietà che vanno verso una comune idea di mondo equo e giusto.


Storie di successo Il microcredito come strumento di finanza etica anticrisi di Simona Retacchi e Diana Tiburzi L’accesso al credito, da sempre ritenuto motore e volano dell’economia, è oggi un fenomeno in fermento, sottoposto dagli addetti ai lavori ad un ampio processo di revisione, sia in termini di adattabilità alle molteplici forme di richieste di finanziamento, sia in termini di sostenibilità di “lunga percorrenza”. Si valutano nella fattispecie i criteri di accesso ai finanziamenti, dalla fattibilità delle attività all’affidabilità del richiedente, per citare i due estremi dell’istruttoria che precede l’erogazione del prestito, con la finalità di evidenziarne i parossismi che spesso sono stati la causa dell’esplosione di un sistema, quello bancario e finanziario, che oggi purtroppo ha pienamente mostrato i suoi limiti. Se si vuole recuperare il “buono” di un sistema tanto fallimentare e avviarlo verso un rinnovato rapporto di fiducia con i cittadini/clienti, bisogna tener conto dei virtuosismi che sono emersi, seppure in anni di folle corsa al profitto sistematico che non ha guardato in faccia nessuno, risparmiatori, imprese e stato, infischiandosene delle regole, ri-

maste lettera muta, grazie a controllori “incontrollati” e promotori rapaci. Il buono esiste. Esiste un modo di “fare finanza” alla portata dei bisogni e delle necessità di chi il sistema paese lo manda realmente avanti. Migliaia di piccole imprese, fa-

“La crisi ha fatto aumentare la percentuale degli esclusi dal sistema creditizio tradizionale, poveri, precari, disoccupati, immigrati, donne, già in passato marginalizzati”

miglie, persone che alimentano il circolo economico attraverso il consumo, ma anche attraverso la fruizione della cultura, l’accesso all’istruzione dei propri figli, l’investimento in ricerca e innovazione, la dedizione alla qualità, l’attenzione ai temi etici. Questa fetta di popolazione è oggi più che mai in difficoltà. La crisi economico finanziaria e il conseguente irrigidimento delle procedure di accesso ai capitali, alle fonti di finanziamento, hanno aumentato a dismisura la percentuale degli esclusi dal sistema creditizio tradizionale, poveri, precari, disoccupati, immigrati, donne, già in passato marginalizzati. La crisi cioè alimenta la discriminazione, l’esclusione finanziaria e quindi sociale e allontana le buone idee dal processo produttivo, relegandole, ancora una volta, a sogni irrealizzabili. Le donne sono spesso il primo bersaglio del circuito che si chiude, il primo target da escludere. Eppure la storia recente ci ha mostrato quanto l’economia femminile sia forte, strutturata, al passo con i tempi e spesso oltre. In Italia la micro imprenditoria femminile si è sviluppata, seppur tra mille difficoltà, in maniera esponenziale, anche in settori, come quello edile, di appanI volti del microcredito in Italia: Cristina, dalla Romania, ha aperto un negozio dove vende pizzi e naggio prettamente maschile. In merletti recuperati e suoi lavori artigianali; Monica, dall’Ecuador, ha aperto un’attività di catering di cibi sudamericani; Elvia, dall’Ecuador, gestisce un phone center; Cristiana è italiana e ha aperto regioni come il Lazio e la Lombardia la percentuale di imprese una sartoria; Daniela e Petronela vengono dalla Romania e hanno aperto una tintoria; Mayra, ecuadoreña, ha un alimentari multietnico gestite da donne si avvicina al

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50% del totale, con tassi di crescita in forte ascesa, da dieci anni a questa parte. Questo tessuto produttivo ha bisogno di essere sostenuto, incentivato e soprattutto finanziato. Del resto il professor Muhammad Yunus, economista e premio Nobel per la pace nel 2006, già trent’anni fa ci ha insegnato a credere nelle capacità imprenditoriali e finanziarie delle donne, attraverso l’utilizzo di un potente strumento di lotta alla povertà e di inclusione finanziaria: il microcredito, prestiti di piccola entità per la creazione di micro attività, destinato a tutti i soggetti non bancabili, a chi non possiede garanzie, a chi è discriminato dalle banche, ma vuole realizzarsi, crede nel proprio progetto e nelle proprie idee. Si tratta come detto di un prestito vero e proprio, senza sconti, senza fondi perduti o tassi agevolati, ma con tassi di interesse calibrati sui bisogni individuali e con periodi di restituzione personalizzati, che il beneficiario si impegna a restituire, solitamente, in piccole rate mensili. Yunus per primo si rese conto che chi non ha nulla da perdere rappresenta forse il miglior cliente di una banca, il più solvibile, e su questo semplice assioma ha costruito negli anni un vero e proprio sistema di riforme sociali, a partire dal basso, finanziando i più poveri tra i poveri, tanto da realizzare una banca oggi ramificata in tutto il mondo e i cui soci sono costituiti dagli stessi beneficiari che ne alimentano il capitale sociale. Chi sono i principali clienti di quella che ormai è nota come la Banca dei poveri? Le donne. Ma vediamo perché. Le beneficiarie donne sono la quasi totalità perché sono più affidabili. Le donne investono il capitale ricevuto in prestito in attività che si rivelano in grado di sostentare tutta la famiglia e a cui si dedicano pienamente. Le donne richiedono un secondo finanziamento per allargare l’attività e per pagare l’istruzione dei figli. Le donne restituiscono, con gli interessi, il prestito ricevuto. Le donne acquisiscono un ruolo di guida nella comunità locale di riferimento. Il microcredito ha mostrato tutta la sua forza inclusiva, la capacità concreta di corroborare il circuito economico attraverso la fiducia nelle capacità umane prima ed imprenditoriali poi, di tutti coloro che l’economia aveva erroneamente dimenticato.

“Chi non ha nulla da perdere rappresenta forse il miglior cliente di una banca” Nei paesi in via di sviluppo, dove è nato, così come nei paesi occidentali, il microcredito è stato applicato in forme e modi diversi, ma sempre con la stessa finalità, creare sviluppo, e con lo stesso target di utenti, gli esclusi. Nella gran parte dei paesi ad economia moderna, quali che siano i destinatari, il microcredito viene utilizzato prevalentemente come strumento di lotta alla disoccupazione per favorire l’auto-impiego e il lavoro indipendente, finanziando nella fattispecie un buon progetto di auto imprenditorialità, considerando il “mettersi in proprio” come un valore aggiunto, foriero di sviluppo e di benessere. Nel tempo è stato efficacemente utilizzato anche

con obiettivi diversi: come strumento anti-usura, capace di restituire dignità e fiducia a persone a rischio sociale, come strumento di sostegno all’economia locale attraverso la costituzione di distretti di solidarietà mutualistica, come strumento di finanziamento per imprese o organizzazioni del terzo settore o come strumento di sostegno alle politiche per la famiglia. I destinatari sono in genere costituiti dalle categorie deboli, svantaggiate, considerate ad elevata criticità sociale, come immigrati, disoccupati, ex detenuti, ma si tende anche a garantire credito a persone che solo temporaneamente si trovano in difficoltà, come i fuoriusciti dal mercato del lavoro, i giovani precari, le donne ultraquarantenni, solo per citare alcuni esempi di un vasto bacino di utenza, che sempre più preme con un pesante quanto giustificato carico di bisogni e richieste da soddisfare. Nell’insieme, il quadro delineato dall’utilizzo del microcredito, da parte prima di enti ed organismi intermedi, poi da parte delle banche, delinea quella che viene chiamata l’offerta della finanza etica o microfinanza, in cui oltre al microcredito vengono offerti servizi ad esso correlati quali gestione del risparmio, cre-

“Le donne investono il capitale in attività in grado di sostentare tutta la famiglia, richiedono un secondo finanziamento per pagare l’istruzione dei figli e acquisiscono un ruolo di guida nella comunità locale” dito assicurativo, investimenti etici. Ad operare nel settore sono le istituzioni di microfinanza, organizzazioni specializzate nel reperire fondi e nel seguire i richiedenti nel processo istruttorio e nella fase di accompagnamento che segue all’erogazione del prestito, che generalmente è garantito da un istituto bancario. In Italia è emersa con successo l’esperienza di Banca etica e delle MAG, Mutue auto gestite, che hanno fatto dell’etica, della sostenibilità e della solidarietà i criteri di selezione per finanziare progetti, imprese e cooperative scelte dagli stessi soci, concretamente coinvolti nel perseguimento della mission e delle finalità degli istituti. Ma gli esempi di riuscita della microfinanza sono molteplici, sia a livello regionale che locale. A Roma per esempio, citiamo l’iniziativa di Fondazione risorsa donna, che da anni sostiene la microimprenditorialità e la formazione femminile attraverso il microcredito. I prestiti, fino a 35.000 euro, sono concessi alle donne, italiane e straniere, che intendono avviare o ampliare una piccola attività o che necessitano del capitale per aggiornare il proprio livello di istruzione e formazione. Lo specifico target dei destinatari è stato scelto sulla base di studi che hanno evidenziato una forte domanda di sostegno economico da parte delle donne imprenditrici o aspiranti tali, che nella Regione Lazio sono tante e molto discriminate dalle banche. Citiamo infine l’esperienza della Caritas, che attraverso l’operato delle diocesi sparse su tutto il territorio italiano, ha creato una rete di sostegno e di solidarietà verso le fa-


sce più svantaggiate della popolazione utilizzando e reinventando il microcredito. In tutte queste iniziative il microcredito ha funzionato. I destinatari hanno per lo più restituito il prestito e gli interessi maturati, mostrando tassi di restituzione altissimi, impensabili e irraggiungibili per le banche tradizionali. Quello che però va sottolineato è l’impatto sociale che il microcredito ha generato. Il dibattito attorno alle misurazioni degli effetti del microcredito sulla vita di chi ne beneficia è soltanto agli inizi e non sono ancora stati creati dei veri e propri indicatori condivisi. Ma per quella che è l’esperienza sul campo si può affermare che esiste certamente una forma di rafforzamento del ruolo che ogni destinatario di microcredito raggiunge nella comunità, nella famiglia, nella cerchia delle conoscenze e che si aggiunge al miglioramento, misurabile e quindi assodato, dello stile di vita, grazie ad un aumento del reddito e delle condizioni economiche in genere.

La percorribilità del microcredito, sotto forma di sostenibilità delle istituzioni di microfinanza, è stata provata da anni di esperienze di successo che si sono raggiunte anche grazie al particolare target cui questo strumento è destinato. Credere nelle potenzialità degli esseri umani, dare fiducia e sostegno alle idee, favorire la realizzazione di progetti, sono le azioni che chi opera nella microfinanza deve tenere come punto di riferimento nel lavoro quotidiano. E sono parametri da considerare come possibile via d’uscita dalla crisi economica e sociale che ha pervaso in modo radicale il sistema finanziario e bancario. Una politica che vuole anche solo provare a fornire soluzioni concrete, non può non tener conto dei successi fin qui ottenuti, non può dimenticare che i più poveri restituiscono il debito e alimentano il circuito economico, non può e non deve dimenticare che il sistema tradizionale ha fallito, non può e non deve cancellare l’etica di una finanza alternativa, inclusiva ed equa.

Noi e gli “stranieri” Una storia di multiculturalismo quotidiano di Chiara Giaccardi C’è tanta retorica sul tema dello straniero. Il fastidio è duplice: da un lato tutto il dibattito, non solo quello giornalistico ma spesso - purtroppo - anche quello accademico, è poChiara Giaccardi larizzato tra due grandi metanarrazioni: quella buonista (l’immigrato ha sempre ragione, siamo tutti migranti…) e quella criminalizzante (l’immigrato è un pericolo, ci ruba il lavoro, mette a rischio la nostra sicurezza, tende a delinquere…). Nessuno di questi due frame riveste alcuna utilità per affrontare e possibilmente risolvere le tante e serie questioni che la varietà culturale e la convivenza multietnica comportano: il primo, perché nega il problema (una negazione che è contro ogni evidenza, e non può che essere ideologica); il secondo perché è riduttivo e unilaterale, violento e disumanizzante. Il secondo fastidio è legato al fatto che, nella maggior parte dei casi, e come purtroppo sempre più spesso accade, la parola e l’azione (due categorie antropologiche care ad Hannah Arendt nel loro intreccio) sono tristemente, e spesso colpevolmente, indipendenti: si parla di cose che si conoscono per sentito dire, che non toccano la propria vita, o che non si vuole la tocchino.

Risultato: il modo stesso di inquadrare la questione allontana la possibilità di una soluzione ragionevole, come dimostra un semplice dato: le risorse investite nella gestione della questione della convivenza multietnica sono concentrate sull’unico tema della sicurezza (come difendersi dallo straniero), e pochissimo è investito nell’accompagnamento alla cittadinanza e all’integrazione, nell’accoglienza, nel superamento degli ostacoli a una convivenza pacifica. Si tratta di un cammino lungo, faticoso e in molti casi frustrante, ma è l’unico modo serio e responsabile di affrontare una questione che, certo non solo per colpa dei migranti, può diventare esplosiva.

“Il dibattito è spesso polarizzato tra due grandi metanarrazioni: quella buonista (l’immigrato ha sempre ragione, siamo tutti migranti) e quella criminalizzante (l’immigrato è un pericolo, ci ruba il lavoro, mette a rischio la nostra sicurezza…)” La questione, già spinosa di per sé, è aggravata dalla crisi. C’è una crisi economica ma prima ancora una crisi culturale, che è la più urgente da cui occorre voler uscire, o le “soluzioni” per il problema economico non faranno che aggravarla. Una crisi di umanità, la definirei: un individualismo autoreferenziale e malato mascherato dall’ideologia della libertà di scopo. In questa crisi culturale, in cui anche le risorse per affron-

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tare la questione del rapporto tra le culture si sono logorate, e dove la crisi economica toglie ulteriore attenzione e interesse a un ambito già fragile (e, non c’è bisogno di dirlo, a una situazione in cui gli stranieri, lavoratori in nero e disposti a tutto, sono i primi a perdere il lavoro, rischiando così di scivolare, loro malgrado, in quella perla giudiziaria che è il “crimine di clandestinità”), forse una strada per cominciare ad affrontare il duplice problema può passare da una solidarietà non pietistica ma conviviale, che serve a conoscersi un po’ meglio, a imparare cose nuove, ad accettarsi in ciò che ci dà fastidio (e che non è per questo necessariamente sbagliato!), a educarsi a vicenda (nel senso, letterale, di decentrarsi, uscire dai propri luoghi comuni).

“C’è una crisi economica ma prima ancora una crisi culturale, che è la più urgente da cui occorre voler uscire, o le soluzioni per il problema economico non faranno che aggravarla” Nella profonda convinzione che non ci sono alternative al conflitto (anche l’indifferenza, nel lungo periodo, porta lì) se non l’accoglienza, tre anni fa, grazie al generoso interessamento di un amico sacerdote, allora direttore della Caritas, e poi alla disponibilità di un ordine religioso di offrire una struttura ormai inutilizzata per carenza di vocazioni, mi sono trasferita con la mia famiglia e un’altra coppia di amici in uno stabile adatto al nostro progetto. Caritas e Cariplo hanno finanziato la ristrutturazione e abbiamo potuto ricavare due appartamenti ampi e un mini appartamento per ospitalità più brevi. Dal 2006 sono passate 6 famiglie di 5 nazionalità, 3 di religione musulmana, 3 composte da madri sole con i figli, 20 bambini. Il nostro compito è insieme molto semplice e molto difficile: lo definirei un “vicinato attento”, qualche cosa che per molto tempo, nella nostra cultura italiana, che Cassano giustamente definisce “materna”, si è manifestato come una sensibilità spontanea e che oggi, nell’era dell’iperindividualismo allergico ai legami e ai vincoli, è assolutamente controcorrente (nel senso letterale: bisogna fare una fatica tremenda per evitare di lasciarsi trasportare dalla corrente dell’indifferenza auto assolutoria). C’è una frase ricorrente, molto funzionale a una teoria dello sgravio, per usare un’espressione di Gehlen: il problema è talmente grosso che ci sovrasta, qualunque azione non è che una goccia in un oceano. Alla luce dell’esperienza, piena di soddisfazioni e frustrazioni, successi e fallimenti di questi anni mi sento di dire il contrario: nessuna delle azioni intraprese è risultata vana, al di là del successo o meno, e per tutte le persone che sono passate di qui, questo ha fatto una differenza enorme nella loro vita, oltre che nella nostra. La nostra idea è molto semplice: parte dalla famiglia, un’entità importante che non per forza deve assumere la forma mononucleare del modello borghese contemporaneo (evidentemente asfittico), ma che si esprime nel modo migliore nel momento in cui si caratterizza come un luogo

Momenti del laboratorio di cucina e pasticceria

di accoglienza e di responsabilità reciproca, nel senso di “prendersi cura di” ed “essere disposti a rispondere a”. L’idea di famiglia allargata e aperta è diversa da quella di comunità, almeno nel senso in cui la si intende e la si pratica oggi. È molto meno normata, molto più lasca, molto più aperta alle diverse esigenze che via via si presentano. È un’idea che ha a che fare con l’attenzione, il prendersi cura, il pre-occuparsi, l’accettare che a volte il proprio tempo, come scrive Lévinas, diventi ostaggio di quello degli altri. È, per noi, un modo di affrontare la crisi.


Da una parte ci sono le aspettative (sbagliate) di chi accoglie, che si attende di trovare sempre gratitudine e disponibilità. Dall’altra quelle (altrettanto sbagliate, purtroppo) di chi arriva, magari dopo un viaggio estenuante, magari scappando da una guerra, magari sperando nella democrazia e nel benessere e si scontra con il fatto che non solo ciò non basta ad essere aiutati, ma mette in una condizione di “indesiderabilità”. Eppure nella convivenza qualche angolo si smussa, qualche nodo si scioglie, e soprattutto, quasi sempre, si sente che ciò che unisce è più importante di ciò che divide. Un piccolo aneddoto, uno dei tanti, tanto per capirsi. Una famiglia marocchina, papà con lunghi periodi già trascorsi in Italia, moglie di 15 anni più giovane con due bambini piccoli, più uno in arrivo a breve, senza la minima conoscenza della lingua italiana. La signora (una ragazza, in realtà, di 27 anni) arriva da noi il 26 febbraio e il 4 marzo partono le doglie. La accompagno in ospedale, assisto al parto su sua richiesta, perché sono la donna meno estranea a disposizione, e traduco in linguaggio non verbale le indicazioni che le ostetriche le forniscono in italiano. Nasce una bimba bellissima, commozione e un nodo che si allaccia: io divento, mi spiegano, una “seconda mamma”, la prima donna che la bimba vede dopo la madre. Torno a casa, e poche ore dopo suona il campanello,

“Tre anni fa Caritas e Cariplo hanno finanziato la ristrutturazione di uno stabile, da cui si è potuto ricavare due appartamenti ampi, e un mini appartamento. Dal 2006 sono passate 6 famiglie di 5 nazionalità, 3 di religione musulmana, 3 composte da madri sole con i figli, 20 bambini”

Disarmati i pregiudizi e imbracciate le migliori intenzioni di dimostrare, prima di tutto a me stessa, che una convivenza con persone con appartenenze culturali molto diverse è possibile, mi sono scontrata violentemente con la fatica di accettare alcuni aspetti del vivere quotidiano (da chi può e chi non può venire in piscina a chi deve saltare la scuola per curare un fratellino quando la mamma è stanca, ai bambini lasciati per ore da soli, in questa civiltà così – almeno apparentemente – puerocentrica) che solo in una convivenza prolungata possono emergere pienamente.

e mi viene recapitata dal neopapà una bimba che evidentemente necessitava ormai da parecchio di un cambio pannolino, con la preghiera di provvedere a un compito «che la sua religione gli proibiva». Non credo che il Corano faccia menzione di patelli, e sono sempre più colpita da come le usanze culturali e la religione si mescolino e si confondano (ma tanto accade anche da noi) e, solo per compassione della piccola, provvedo. Seguono lunghe chiacchierate sulla genitorialità, sul ruolo del padre, sul perché di differenze così rigide tra l’educazione dei maschi, piccoli sultani viziati e guardati con sorridente compiacenza nell’infrangere le poche regole, e quella delle bambine, dall’età di 7 anni abituate a fare il pane (unica consolazione: ha imparato anche la mia), le lavatrici, preparare biberon e sgridate con veemenza a ogni cedimento. Per farla breve, la signora è di nuovo incinta, la famiglia (dopo un anno e mezzo da noi e un lavoro finalmente trovato) si trasferisce, nasce un bel bambino e che soddisfazione, nell’andare a rendere omaggio al neonato, vedere il papà che se lo tiene teneramente in braccio e la figlia “grande”, che ormai ha nove anni, giocare in cortile con le amichette.

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Il caso Marocco I diritti delle donne tra le due sponde del Mediterraneo di Barbara Felcini Il Dipartimento di Filosofia di Roma Tre sotto il coordinamento scientifico di Francesca Brezzi è il capofila di un rilevante progetto che ha ottenuto il consenso della Comunità europea ed è stato finanziato nell’ambito del programma Tempus per il triennio 2007-2010. Il progetto prevede l’istituzione e l’attivazione di un master presso l’Università di Tangeri su I Diritti delle donne tra le due sponde del Mediterraneo. Il diritto di famiglia in migrazione. La proposta nasce dalla realtà del Marocco, un paese interessante avviato in un processo di rafforzamento dell’uguaglianza di genere e della democrazia; in particolare tale capacità rinnovatrice è dimostrata dall’entrata in vigore nel 2004, dopo vari anni di riforme, del nuovo diritto di famiglia che ha introdotto notevoli cambiamenti e ha gettato le basi per il riconoscimento dei diritti delle donne. L’obiettivo specifico è quello di realizzare un master di secondo livello destinato a formare professionisti nel campo della giustizia sui temi di tale nuovo codice e della sua applicazione, in relazione anche al diritto di famiglia dei/delle migranti con una specifica ottica di genere. L’approfondimento del concetto di genere, infatti, è una dimensione fondamentale del master nella misura in cui contribuirà a riconoscere l’apporto delle donne allo sviluppo della società. Un’altra caratteristica importante è data dalla scelta di privilegiare una metodologia pluridisciplinare, che unisce il tema del diritto di famiglia e della sua applicazione, con un’attenzione sia al tema più generale dei diritti umani e di cittadinanza e della loro importanza in un mondo globalizzato, sia più in particolare al processo delicato rappresentato dal fenomeno delle migrazioni.

“Le donne non vogliono solo una fetta della torta, ma vogliono sceglierne il sapore e saperla preparare esse stesse” In particolare il master si articola in tre semestri tematici (Nuovo codice della famiglia in Marocco e approccio di genere; I diritti delle donne tra l’universale e il particolare; Applicazione del codice della famiglia marocchino in migrazione) e in un quarto semestre dedicato a stage di professionalizzazione. È importante sottolineare come questo master miri all’allargamento della cittadinanza delle donne: l’Unione europea considera, infatti, la promozione delle pari opportunità (in particolare quella tra donne e uomini) una delle priorità della propria politica sin dalla sua creazione, nonché uno dei principali obiettivi della Commissione europea stessa; ne segue che il tema relativo all’effettiva parità tra le persone è fondamentale e quindi centrale l’attenzione alle problematiche – tuttora presenti – delle discriminazioni sociali e politiche. Non solo ma tale master ha interpretato il concetto di pari opportunità anche in un altro senso, focalizzando la si-

I rappresentanti delle Università partner del consorzio che ha promosso il master

tuazione delle donne immigrate; dal momento che il concetto di pari opportunità si è arricchito e non si limita più alle differenze di genere, ma altresì alle differenze di cultura, di etnia, di lingua e di religione, attraverso il master si svolge una riflessione sul rapporto fra diversità ed eguaglianza nei diversi ambiti sociali e nei contesti organizzativi e istituzionali. Se i cambiamenti sociali e culturali di cui la storia dell’Occidente è stata investita negli ultimi trenta anni hanno portato alla costruzione di una società multietnica e a un profondo cambiamento nei ruoli di genere, nell’elaborazione e nel vissuto di ogni individuo nei confronti della propria e altrui differenza, tuttavia numerose sono le categorie di persone escluse dalla rappresentanza politica così come dall’accesso a tutti i posti di potere decisionale. Lo studio della storia del pensiero politico, della filosofia e della giurisprudenza aiutano a ritrovare le radici culturali e teoriche di una tale esclusione di cittadinanza. Il Dipartimento di Filosofia (forte dell’esperienza del Master in esperti in pari opportunità avviato da lungo tempo nella nostra università) è impegnato in prima linea, ma anche altri docenti di Roma Tre stanno partecipando a questa avventura (come Roberto Cipriani e Anna Aluffi), perché si ritiene che tale master possa rappresentare l’esito di un processo culturale in cui le nuove generazioni sono chiamate ad intervenire in prima persona, per trovare i modi di una convivenza tra soggetti diversi. Sviluppando competenze teorico-culturali ma anche giuridiche e politiche sulle problematiche concernenti le differenze di genere e di culture di provenienza, si offrono riflessioni sul rapporto fra eguaglianza e cittadinanza. Il master si presenta quindi sia come formazione superiore per la creazione di una nuova figura professionale (esperto/a di politiche di pari opportunità e di diritto di famiglia), sia come formazione permanente per chi è già inserito in un contesto lavorativo, in particolare per i professionisti della giustizia. Ricordando Martha Nussbaum si ricerca – attraverso la prassi femminista della filosofia – un universalismo che rispetti le norme multiculturali, contemplanti al proprio interno non solo possibilità di scelta, ma anche convinzioni e preferenze, secondo l’affermazione di una donna indiana: «Le donne non vogliono solo una fetta della torta, ma vogliono sceglierne il sapore e saperla preparare esse stesse».


Libero mercato o libero uomo? La necessità in tempi di crisi di far ripartire le nuove strategie imprenditoriali dall’uomo e dal suo benessere di Indra Galbo In tempi di crisi mondiale, dovuta principalmente alle ormai conosciute e cicliche conseguenze del sistema liberista, le differenze tra occidente e oriente vengono rese evidenti anche nel modo di affrontare la congiuntura economica negativa. Questo avviene fondamentalmente perché diverse sono state le ripercussioni che questa ha avuto nelle aree economiche del mondo: USA-UE, America Latina, Cindia. Possiamo rilevare varie cause per questa ennesima crisi: finanziarie (finanza creativa, scarsa regolamentazione bancaria, speculazioni), industriali (assenza di investimenti e di idee, pochi investimenti nei settori ricerca e sviluppo), politico-militari (spese belliche sproporzionate rispetto a quelle per lo stato sociale).

“In Cina la crisi non incide sulla tragica realtà di milioni di lavoratori già pesantemente sfruttati sia dalle aziende locali che dalle multinazionali presenti” In questa realtà le aree economiche si comportano in modo differente perché diverse sono le esigenze di intervento. Stati Uniti ed Europa, che in proporzione stanno soffrendo maggiormente gli effetti della crisi, stanno tentando reazioni estreme anche contro gli interessi dei propri cittadini: nazionalizzazione degli istituti di credito, licenziamenti, cassa integrazione, nessun tipo di investimento e ammortizzatori sociali sostanzialmente inadeguati. In Sud America, dove in alcuni paesi si sta percorrendo da diversi anni un percorso politico di impronta neo socialista (con molte differenze tra i paesi che hanno scelto questa via) si stanno prendendo decisioni (ad esempio in Venezuela) come l’aumento del 30% del salario minimo per tutti al fine di far ripartire i consumi. Cina e India differentemente, stanno subendo la crisi non come una recessione, ma come una forte riduzione della crescita che però sta bloccan-

do lo sviluppo degli indotti condizionando cosi il lavoro di molte fabbriche (in India è stata rinviata di molti mesi l’uscita sul mercato della Tata Nano) e, dal punto di vista sociale, sta lasciando invariata la tragica realtà di milioni di lavoratori già pesantemente sfruttati sia dalle aziende locali che dalle multinazionali presenti. Date le diverse conseguenze che la crisi sta avendo nel mondo, si possono prevedere anche diverse strategie imprenditoriali da adottare: in Asia possiamo pensare al miglioramento degli indotti industriali, in Europa allo sviluppo della ricerca e al potenziamento delle partnership aziendali, o alla maggiore regolamentazione del sistema bancario e finanziario statunitense. Queste però potrebbero rivelarsi soluzioni fittizie in quanto ciò che veramente produce crisi a livello globale è la trasformazione del cittadino in mero produttore/consumatore di beni e servizi. Ciò non deve essere inteso come una critica nei confronti del lavoro, ma piuttosto come una critica nei confronti dell’uso che se ne fa: non più come fine per il benessere sociale quanto piuttosto come uno strumento di produzione materiale, materialistica e consumistica.

“Ciò che veramente produce crisi a livello globale è la trasformazione del cittadino in mero produttore/consumatore di beni e servizi” I cambi di strategie imprenditoriali dovrebbero quindi ripartire sulla base di due aspetti: da una parte una rivoluzione verde (non quella “green revolution” che 70 anni fa ha ucciso le economie agricole locali) che sia in grado veramente di rinnovare i sistemi produttivi in senso ecologista, e dall’altra il fatto di partire da uno dei principi kantiani che hanno fondato la morale illuministica e cioè di rapportarsi agli uomini sempre come fine e mai come mezzo.

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Generazione precaria La flessibilità come norma, l’impiego a tempo indeterminato come eccezione di Giacomo Caracciolo Se in Giovani, carini e disoccupati (1994) Winona Ryder gira un documentario sulla vita dei suoi amici poco più che ventenni, immortalando ambizioni, prospettive e frustrazioni di un’intera generazione di statunitensi, in Tutta la vita davanti (2008) Virzì ha raccontato, a modo suo, le difficoltà e le speranze dei neolaureati italiani di oggi. L’inesorabile crocevia del call center come primo impiego e le ambizioni di una tesi di ricerca riposte nel cassetto. Una commedia, per alcuni versi banale, quest’ultima, che però mostra il mondo del lavoro così com’è oggi per gli under trenta: un lungo iter di formazione quasi totalmente privo di soddisfazioni economiche. In principio fu il co.co.co (collaborazione coordinata e continuativa), poi con il decreto legislativo 276/2003 (conosciuto dai più come legge Biagi) venne introdotto il co.pro. (contratto a progetto), da allora, non senza critiche da parte dei giuslavoristi, la flessibilità è divenuta la regola per

“In principio fu il co.co.co. Da allora, non senza critiche da parte dei giuslavoristi, la flessibilità è divenuta la regola per ogni primo impiego e non solo” ogni primo impiego e non solo. Usciti dall’università, insomma, le prospettive sono ben diverse da quelle delle passate generazioni. Innanzitutto il percorso accademico non si conclude più, salvo rare eccezioni, con la fine del ciclo di studi bensì, sempre più spesso, conseguita la laurea sono necessari oltre ai vecchi tirocini e pratiche, anche scuole di specializzazioni e master. Sono necessari perché permettono, alcuni ufficialmente altri ufficiosamente, di accedere a concorsi e selezioni nel pubblico così come nel privato. Dopo questo iter postlaurea, tortuoso e nient’affatto economico, c’è un altro gradino che divide il giovane (laureato e, ormai, specializzato) dall’equilibrio instabile del precariato: lo stage. Questo periodo può essere più o meno lungo (da 3 a 6 mesi) e può essere prorogato e, perfino, rinnovato. Se si è fortunati si riesce ad ottenere un

rimborso spese, il minimo necessario. Una volta scaduti i termini pattuiti, a meno che lo stage non sia stato un escamotage per procurarsi forza lavoro a basso costo, si viene convocati dall’ufficio del personale per ricevere la prima vera offerta di lavoro, ovviamente flessibile. Il precariato ha molte facce, come un mostro mitologico con più teste e molte bocche. Si può incappare, tra gli altri, in un contratto di apprendistato (professionalizzante, per finalità di istruzione e formazione o per l’acquisizione di un diploma) perchè d’imparare, dicono, non si finisce mai. Nel 2006 le stime contavano oltre 560.000 contratti di questo tipo, oggi, invece, è il contratto a progetto a farla da padrone. In sostanza si tratta di vincolare il rapporto di lavoro e l’annessa retribuzione a un obiettivo finale piuttosto che a un monte ore. E così facendo, se da un lato si può apprezzare l’autonomia accordata al lavoratore, dall’altro l’eventualità di non ricevere un corrispettivo, in caso di insuccesso del progetto curato, lascia non poche perplessità. Attualmente, in Italia, ci sono oltre 1.400.000 lavoratori a progetto, ma ciò che più fa riflettere è che l’83% di questi dichiara di svolgere le funzioni che competono a un lavoratore subordinato. Questo rischia d’avvenire, anche, con il contratto a chiamata (o di lavoro intermittente), il quale dovrebbe far fronte alle esigenze di impiegare un lavoratore per prestazioni a carattere discontinuo (come custodi, giardinieri e portinai), ma non sempre ciò avviene. Infatti, per il momento, nulla vieta al datore di lavoro di “chiamare” il lavoratore inter-

“Il precariato ha molte facce, come un mostro mitologico con più teste e molte bocche” mittente più giorni della stessa settimana, fino ad assimilarlo al lavoratore stabile in termini di produttività, ma ovviamente non sul fronte retributivo e previdenziale. Tutte queste difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro in pianta stabile, aggravate anche dall’attuale crisi economica non sembrano, però, aver demoralizzato i giovani precari, che hanno creato una nuova categoria: i milleuristi. Giovani, freschi, preparati e parsimoniosi.


Focus HIV: a 25 anni dalla scoperta del Virus Hiv: verso il vaccino terapeutico? di Michela Monferrini Secondo stime recensettimane successive. ti, nel mondo si regiChermann e Barré-Sistrano oltre trentatré noussi possono allora milioni di casi di Aids, individuare la presentra cui due milioni di za di un retrovirus che bambini e adolescenti tuttavia causa morte che nella stragrande cellulare e per questo maggioranza vivono motivo pensano di nell’Africa sub-sahachiamare in aiuto i ririana. Da quando, agli cercatori del centro di inizi degli anni Ottantrasfusioni sanguigne, ta, l’infezione (il coper ottenere dai donasiddetto “virus del se- Luc Montagnier, Françoise Barré-Sinoussi e Harald zur Hausen alla conferenza tori globuli bianchi da colo”) ha fatto la sua stampa in occasione della cerimonia di consegna del premio Nobel per la mettere in coltura asmedicina, nel dicembre scorso. Zur Hausen è stato insignito del Nobel insieme comparsa (all’epoca sieme alle prime cela Montagnier e Barré-Sinoussi per le sue ricerche sul Papilloma Virus in particolare negli lule. ambienti frequentati da omosessuali e tossicodipendenFatto curioso è che oggi la squadra di Luc Montagnier lati), le vittime sono state oltre venticinque milioni. vori assieme a quella di Robert Gallo: il medico, che per Nonostante le stime spaventose, Luc Montagnier, setanni è stato a capo di un gruppo di ricercatori americani tantasette anni, nel 2008 premio Nobel per la medicina presso l’Istituto nazionale del cancro (NCI), confermò la (ottenuto assieme a Françoise Barré-Sinoussi, medico scoperta del 1983 e, cambiando nome al virus (lo chiamò e immunologa parigina, classe 1947) assegnato appunT-linfotropico umano di tipo III, HTLV-III), tentò di apto per la scoperta del virus dell’immunodeficienza propriarsi della paternità della scoperta, tanto da far naumana (VIH, LAV in inglese: lymphadenopathy-assoscere una vera e propria disputa, conclusa soltanto nel ciated virus), avvenuta nel 1983, è ottimista sui risulta1987 attraverso una sorta di trattato di pace firmato additi che si potranno raggiungere in un futuro per lui prosrittura dai presidenti Chirac e Reagan, con il quale i due simo: il medico e biologo francese, proprio nel giorno medici vedevano riconosciuta ad entrambi l’ambita paterdella consegna del premio Nobel, ha dichiarato che il nità. Nel 1986, tuttavia, Montagnier riuscì ad isolare un vaccino (terapeutico, non ancora preventivo) potrebbe secondo ceppo del virus, l’HIV2, maggiormente presente in Africa, e nel 1990 si seppe che il virus su cui aveva laessere pronto «entro quattro anni». vorato Gallo proveniva dai laboratori francesi: i due avvenimenti hanno fatto sì che la paternità sia stata poi definitivamente attribuita esclusivamente al medico francese. “È fondamentale continuare a Nonostante la scoperta del virus sia stata di fondamentastudiare le interazioni tra virus e le importanza per il brevetto di un test per la diagnosi e corpo umano e in questa direzione per la messa a punto di farmaci antivirali – e nonostante molto dipende dai finanziamenti che l’attuale collaborazione tra i due team più esperti al mondo – la strada che porta verso la sconfitta del virus è la ricerca riuscirà ad ottenere” forse anche più dura di quel che le parole di Luc Montagnier fanno pensare: soltanto l’anno scorso, la ricerca ha Nel 1967, all’Institut Pasteur, Montagnier iniziò le sue dovuto ammettere l’ultimo fallimento nel tentativo di arricerche nel campo della virologia, diventando cinque rivare ad un vaccino preventivo. anni dopo Capo dell'Unità oncologica virale dello stesSecondo Françoise Barré-Sinoussi, che dopo la scoperta è so istituto, nonché, nel 1974, direttore del Centro nastata impegnata per oltre un decennio sul fronte della rizionale di ricerca scientifica (CNRS). cerca del vaccino anti-Hiv ed è inoltre diventata (nel 1998) È però nel 1982 che inizia la vera e propria ricerca sulresponsabile del laboratorio dell’Istituto Pasteur, professol’Aids: il gruppo, formato oltre che da Montagnier e ressa e dirigente di ricerca, prima di prospettare il successo Barré-Sinoussi, da Willy Rozenbaum, Françoise Brunsarebbe meglio continuare a studiare «le interazioni tra viVezinet e Jean-Claude Chermann, studia una biopsia efrus e corpo umano». E, in questa direzione, molto, purfettuata all’Hôpital de la Pitié-Salpétrière sui gangli di troppo e come per qualsiasi altro ambito di ricerca, dipenun paziente in stato di pre-Aids, mettendo a coltura le de dai finanziamenti che la ricerca riuscirà ad ottenere. cellule del linfonodo e poi osservandole durante le tre

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Conoscere e prevenire: non solo AIDS di Giorgio Venturini Grazie all’entusiasmo e alla dedizione dei colleghi della unità operativa AIDS della ASL RMC, al sostegno del Rettore e alla disponibilità delle Facoltà e dei docenti è stato possibile, nell’anno accademico in corso, organizzare interventi di informazione e di sensibilizzazione sulle problematiche legate all’AIDS per gli studenti di quasi tutte le Facoltà. Per una valutazione dell’attività svolta rimando all’articolo dei colleghi Rossella Di Bacco e Mauro Benvenuti, qui invece voglio proporre alcune riflessioni su possibili sviluppi della nostra iniziativa. Se una informazione corretta sul rischio di contagio da HIV e sulle modalità di prevenzione deve rappresentare certamente un obiettivo primario per l’educatore e per l’operatore sanitario, non possono essere trascurati i problemi legati ad altre malattie sessualmente trasmesse (infezioni batteriche come la gonorrea o la sifilide, infezioni da micoplasmi, da protozoi, da miceti e da virus diversi da HIV, come papilloma, herpes, o virus delle epatiti B e C). Le patologie legate a questi agenti infettivi rappresentano un problema socio-sanitario preoccupante, sia per la loro crescente diffusione, sia per la comparsa di farmaco-resistenze sia per le gravi conseguenze che possono provocare, quali sterilità o cancerogenesi. È quindi importante che la nostra campagna educativa si estenda anche a queste problematiche, soprattutto considerando la scarsissima attenzione che i mezzi di informazione dedicano a questi argomenti e la quasi completa ignoranza dell’argomento nella popolazione studentesca che, se da un lato sottovaluta il problema dell’AIDS, dall’altro è in pratica ignara dell’esistenza delle altre patologie. Inoltre è da ricordare che i mezzi di prevenzione utili per HIV lo sono anche nei confronti degli altri patogeni sessualmente trasmessi. Un’ulteriore causa di preoccupazione, che deve stimolare la nostra attenzione, è data dalla crescente diffusione tra i giovani dell’abuso di alcool e di droghe. Oltre al grave danno alla salute direttamente indotto da queste sostanze, si deve infatti ricordare come la perdita di auto-controllo da esse indotto diviene facilmente causa di comportamenti sessuali a rischio di contagio da HIV e da altri patogeni. Non sono rari i casi di pazienti che hanno contratto un’infezione da HIV in seguito ad atti sessuali svolti sotto l’effetto dell’alcool e di cui l’interessato non conserva memoria. Deve essere quindi nostra preoccupazione estendere anche a questi argomenti la attività di informazione e di sensibilizzazione, pur senza nasconderci le gravi difficoltà implicite in questi argomenti. I giovani infatti, più vulnerabili rispetto agli effetti fisici e psichici dell’alcool, sono considerati particolarmente a

rischio. Purtroppo i mezzi di informazione e la pubblicità non aiutano la riduzione del consumo di bevande alcoliche, anzi il marketing delle industrie che producono queste bevande considera i giovani il target d’eccellenza e l’uso di alcolici è visto come uno status symbol delle classi socio-economiche privilegiate. L’OMS stima che in Europa un quarto delle cause di morte tra i 15 e i 29 anni, è da imputarsi direttamente o indirettamente all’alcool, che risulta il primo fattore di rischio di invalidità, mortalità prematura e malattia cronica nei giovani. Tra il 40 e il 60% di tutte le morti dovute a ferite intenzionali e accidentali sono attribuibili al consumo di alcool che costa, nel complesso, alla società un importo pari al 2-5% del prodotto interno lordo. Per quanto riguarda il nostro paese, i dati non sono confortanti e il fenomeno ha raggiunto proporzioni decisamente gravi. Le ricerche effettuate rivelano che il 61% dei ragazzi fra i 15 e i 17 anni ammette di lasciarsi sedurre dal richiamo della bottiglia, una percentuale che arriva al 78% se consideriamo i giovani fra i 18 e i 24 anni e all'81% nella fascia 25-34 anni. Il giovane comincia a bere, oltre che per imitazione, soprattutto nei momenti di euforia e/o di noia. Questo percorso è ormai noto e sembra essere la costante di molte situazioni di abuso, non solo di bevande alcoliche, ma anche di sostanze stupefacenti. In molte occasioni il giovane utilizza sostanze stupefacenti e/o alcool per essere al centro dell’attenzione nel gruppo dei coetanei, per fare nuove amicizie, per conquistare l’altro sesso. Una sempre più diffusa insicurezza, la noia, l’incapacità di essere originale e simpatico conducono il giovane verso l’assunzione di dosi sempre più massicce di alcool e droghe. Questi dati devono indurre educatori e operatori sanitari a impegnarsi in una campagna che deve mirare a ridurre le motivazioni psicologiche che spingono i giovani verso l’alcool e le altre droghe. Le maggiori difficoltà che si incontrano nella nostra attività di educazione e di prevenzione sono legate alla diffidenza e alla noia: diffidenza del giovane/studente verso l’adulto/docente con cui difficilmente riesce a instaurare un rapporto di confidenza e di fiducia, di noia per sentirsi raccontare «le solite cose che non mi riguardano». In questo senso sarebbe di primaria importanza il coinvolgimento nelle campagne educative di studenti adeguatamente formati che potrebbero collaborare strettamente con gli operatori sanitari per continuare e rendere più penetrante e capillare l’informazione fornita negli interventi in aula e nei check point, aiutan-


do anche a superare le barriere comunicative. Le organizzazione studentesche e i rappresentati degli studenti potrebbero impegnarsi a fondo in questa direzione. Anche se il contatto diretto rimane a nostro giudizio insostituibile, è probabile che il ricorso a strumenti telematici possa rappresentare uno strumento importante di penetrazione. In questo senso sarebbe utile una pagina web di alta visibilità che presenti in modo semplice e coinvolgente una informazione essenziale e che possa facilitare il contatto tra studenti e operatori sanitari eventualmente tramite un forum dedicato. Per questo

sarebbe importante la collaborazione di esperti delle tecniche di comunicazione per elaborare un progetto idoneo. Anche una linea telefonica che permetta uno scambio di SMS tra studenti e operatori sanitari, eventualmente con un filtro operato da studenti-collaboratori, potrebbe facilitare il superamento di diffidenze e stimolare i giovani a proporre i loro dubbi e i loro timori. Sono certo che l’impegno dimostrato da Rettore e organi accademici continuerà anche per il futuro, permettendoci di affrontare questi impegni nel migliore dei modi.

Campagna di prevenzione AIDS: per una sessualità consapevole e serena di Mauro Benvenuti e Rosella Di Bacco Durante questo anno accademico 2008/2009 l’Università Roma Tre e l’Unità operativa AIDS della ASL RM C hanno proseguito l’attività di prevenzione a favore degli studenti universitari organizzando numerose conferenze in aula per i ragazzi dei primi anni di corso, grazie alla disponibilità e collaborazione delle presidenze di Facoltà e dei singoli docenti. Sono stati inoltre realizzati check-point sulla prevenzione presso le sedi universitarie, dove sono stati distribuiti depliant preventivi-informativi e un questionario di autovalutazione sulle conoscenze possedute dagli studenti in materia di infezione da HIV. I check-point sono stati anche la sede in cui gli studenti hanno potuto incontrare un medico, uno psicologo e un assistente sociale della ASL, per approfondire conoscenze, chiarire dubbi, ottenere informazioni sulla fruibilità del servizio sanitario. Durante queste attività sono emersi preziosi spunti di riflessione per gli operatori sanitari e per la struttura universitaria: la reazione degli studenti all’iniziativa è stata caratterizzata da un certo consenso, ma era percepibile, almeno nella fase iniziale, un’atmosfera di “distacco annoiato” e di disinteresse. In molti casi è stata altrettanto percepibile una reazione di “superstiziosa” incredulità: «ma l’AIDS esiste ancora?», «ma esiste a Roma, nel Lazio?», «a me non capiterà mai». La presenza e collaborazione dei docenti nel sottolineare l’importanza dell’iniziativa è stata, in molte situazioni, determinante per superare il muro della diffidenza e del bisogno di allontanamento dal problema. Sentita la comunicazione scientifica in aula e approfonditi i riflessi pratici sulla sessualità “normale” infatti si è creato un clima di rico-

noscimento dell’importanza della campagna di prevenzione e del valore della scelta da parte dell’università. Altro elemento di riflessione è scaturito dal fatto che sono stati evidenziati comportamenti ludici e sessuali correlati all’uso di alcool e di altre sostanze non riconosciute culturalmente dagli studenti come sostanze stupefacenti: ovviamente tali informazioni, rivelate in maniera più o meno chiara, suscitano l’obbligo da parte delle istituzioni sanitaria e universitaria di aiutare i ragazzi ad acquisire consapevolezza circa il potenziamento dei fattori di rischio cui vanno incontro, ma anche offrire accoglienza e aiuto a quanti ne evidenziassero la necessità. In tutte le situazioni, aldilà delle difficoltà iniziali, il rapporto tra studenti e operatori sanitari si è concluso con un clima di consenso e di fiducia reciproca, basi fondamentali per realizzare la prevenzione. Altro elemento di particolare utilità si è rivelato il questionario informativo-preventivo corredato da una griglia di autovalutazione: tutti gli studenti che hanno ricevuto questo questionario, unitamente al depliant sulla prevenzione, sono stati in grado di valutare autonomamente le proprie conoscenze e di rivolgere agli operatori sanitari presenti le proprie domande di approfondimento in maniera specifica. Questo questionario, così concepito, ha consentito anche agli studenti, che non erano nella possibilità di fermarsi a fare domande, di poter trovare autonomamente dei chiarimenti. Quanto emerso dall’esperienza di quest’anno dovrà necessariamente essere oggetto di riflessione nell’impiego costante da parte della ASL e dell’università per essere vicine al meglio alle giovani generazioni.

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Quando il Futurismo è donna Intervista a Francesca Brezzi sulla figura della pittrice Barbara, protagonista del suo ultimo libro

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a cura di Maria Vittoria Marraffa

Francesca Brezzi è ordinaria di Filosofia morale presso l’Università degli Studi Roma Tre. È stata direttore del Dipartimento di Filosofia della Facoltà di Lettere della medesima Università dal 1998 al 2004. Dal maggio 2000 è delegata del Rettore per le Pari opportunità - Studi di genere. Ha ideato e dirige dal 2000 la rivista filosofica on line del Dipartimento di filosofia: B@bel, voci e percorsi della differenza (www.b@belonline.net), che esce con due numeri all’anno anche come volume e ha vinto nel 2007 il premio filosofia di Siracusa. Tra le sue opere più recenti da ricordare: Antigone e la philia. Le passioni tra etica e politica, Milano, Franco Angeli, 2005 (2a ed.); Intoduzione a Ricoeur, Bari, Laterza, 2006; Esuli figlie di Eva: filosofia della differenza e teologia, Verona, Il segno dei Gabrielli editori, 2007; Nelle radici e nelle vette, Milano, Vita e pensiero, 2008; Quando il futurismo è donna. Barbara dei colori, Milano, Mimesis, 2009.

Il suo libro ha come sfondo la corrente artistica del Futurismo, sviluppatosi nei primi anni del Novecento. Movimento notoriamente antifemminista, sembra invece aver attratto al suo interno molte artiste donne in cerca di una nuova identità, dichiarando guerra ai più diffusi stereotipi femminili. Non costituirono mai un gruppo, ma condividevano la lotta in difesa della propria autonomia. Nel libro ne cita alcune: Valentine de Saint Point, Rosa Rosà, Fulvia Giuliani, Enif Robert, Benedetta Cappa (moglie di Marinetti) e ovviamente Barbara, della quale si parlerà quasi esclusivamente negli ultimi quattro capitoli. Chi erano queste donne e come affrontarono le loro battaglie? L’interesse per questo movimento così composito e anche controverso nasce proprio dalla sua interna ambivalenza: da un lato il “disprezzo della donna” e altre dichiarazioni antifemministe sostenute nel decimo punto del Manifesto futurista redatto da Marinetti, dall’altro la presenza di tante donne, attive ed operanti nel Futurismo, donne che si espressero in diverse forme di arte (pittura, danza, scrittura, saggistica, narrativa etc.) Chi erano queste donne? Donne dotate di un surplus di intraprendenza che scelgono di partecipare a un movimento così provocatorio, come sottolineano le studiose del Futurismo. L’adesione a tale movimento rappresentò per molte artiste una sfida e un atto convinto di distruzione e smantellamento; sfida allo spirito di abnegazione e sacrificio teorizzato fino ad allora per le donne; demolizione di stereotipi femminili, in nome di una esaltazione, di una esuberanza, talvolta – direi – anche di una allegria, che rendeva compenetranti sfera estetica e vita.

Secondo la studiosa Anna Nozzoli la produzione femminile appartiene quasi interamente alla fase del tardo Futurismo, affermazione che non la trova totalmente d’accordo. Perchè? Perché anche nel primo Futurismo, cioè intorno agli anni 1910-1915, troviamo significative prese di posizione femminili, una per tutte Valentine de Saint Point, che scrive nel 1912 il Manifesto della donna futurista e nel 1913 il Manifesto futurista della Lussuria, in cui si ritrovano le caratteristiche sopra delineate e cioè vistosi atteggiamenti eversivi della morale, in nome di un’estetica “rivoluzionaria”, che metteva in discussione la morale tradizionale e i ruoli consolidati. Quindi emerge un primo futurismo “attivistico, polemologico e antagonistico”, diretta espressione

“Il primo futurismo è portatore di un’estetica rivoluzionaria, che mette in discussione la morale tradizionale e i ruoli consolidati” di Marinetti, nel quale Valentine de Saint Point definisce il femminismo «errore politico... errore cerebrale della donna» (e penso che in quegli stessi anni del Novecento si andavano affermando le prime forme di femminismo, iniziava il lungo cammino emancipazionista delle donne e per l’Italia è significativa la presenza di Anna Maria Mozzoni, Anna Kulilscioff e altre). Ancora nel suo Manifesto Valentine de Saint Point oltre a far emergere il disprezzo per l’umanità mediocre, radicalizza la distinzione sesso/sentimento ed esalta dapprima figure muliebri come le Erinni e


le Amazzoni e poi l’androgino. Contro l’istinto materno, in nome di un anticonvenzionalismo e dell’indipendenza dai ruoli, nel Manifesto futurista della lussuria Saint Point delinea un «disfrenamento dell’istinto, scialo dell’eros aggressivo», invocando una ferinità maschile, valida per entrambi i sessi, anzi lo scopo ultimo è colto proprio nella negazione delVomito dall’aereo, 1938 la differenza sessuale, in particolare si rifiuta la funzione generatrice della femminilità. Tema quest’ultimo che il secondo Futurismo invece lascerà cadere in nome di un “Futurismo della specie”, in cui si esalterà il ruolo tradizionale della donna, discettando sulla donna stirpe, donna razza, ribadendo concezioni antropologiche positivistiche e, di più, regredendo ad una visione della femminilità come funzione biologica. In questo ambito fiorì una ricca produzione, molto spesso maschile, che si intreccerà poi strettamente con le tesi del fascismo sulla maternità come dovere verso lo Stato, sul mito della madre esemplare etc. Perché tra tutte le futuriste ha scelto di raccontare proprio la vita e l’arte di Olga Biglieri Scurto, in arte Barbara? Le scelte di un tema o di un argomento di studio sono spesso inspiegabili, posso solo dire che mi ha colpito il lungo viaggio della sua esistenza, viaggio che l’ha vista percorrere tutto il Novecento, iniziando con l’adesione al Futurismo passando attraverso il femminismo e approdando infine al movimento pacifista. In particolare poi sono stata interessata dalla sua empatica vicinanza con una filosofa, centrale per la riflessione femminista come Luce Irigaray. Sono note le passioni giovanili di Barbara per il volo e per la pittura: «Due glorie da sventolare» diceva. Come spiega il legame tra due attività così diverse che hanno influenzato la sua carriera di artista, facendola entrare di diritto tra le esponenti di spicco del Futurismo italiano? Se il binomio pittura-volo fu un binomio centrale per molti futuristi, Barbara vi giunse quasi inconsapevolmente, cioè prima dell’adesione al Futurismo. Dalla sua autobiografia sappiamo che iniziò presto «a pasticciare coi colori», ma insieme, di nascosto, si iscrive e frequenta – prima e unica donna – una scuola di volo a vela, dimostrando subito un carattere avventuroso e anticonformista e conseguendo il brevetto di pilota appena diciottenne. Le due passioni si intrecciano nella giovane che comincia a dipingere proprio le sue sensazioni di volo, un mondo quindi che appariva insolito, dai contrasti cromatici, dalle prospettive distorte, ruotanti, in cui emergono le linee forza del movimento e della velocità, pittura che era già un “deformare” e che solo dopo incontrerà il Futurismo. Infatti Marinetti vide per caso la sua prima aeropittura, Vomito dall’aereo (1938), e fu spinto a invitarla alla Biennale di

Venezia dello stesso anno, dove la pittrice espose un quadro di notevoli dimensioni, L’aeroporto abbranca l’aeroplano, firmato: Barbara aviatrice futurista. Barbara è soprattutto una donna immersa in un mondo nel quale non sempre è facile vivere. È moglie, madre e poi giovane vedova, smette di dipingere e comincia la carriera di giornalista «indispensabile per sostenere il quotidiano». L’orrore della guerra e la ricerca dell’emancipazione: la vita di Barbara è stata sostanzialmente simile a quella di altre sue contemporanee immerse in un’epoca di passaggio? Ritengo di sì. O meglio questa è stata la mia ipotesi di lettura, in quanto la giovane ventenne Olga, dopo aver dato vita pittorica alle emozioni provate e alle visione delle esperienze del volo, rivelando il suo particolare genere di pittura, si esalta e aderisce con entusiasmo al Futurismo, apprendendo regole, idee, ideologie, ma anche avvertendo subito con fastidio il maschilismo della scuola futurista. La guerra interrompe quel periodo esaltante e Barbara si chiede: «Chi aveva inventato quel caos della guerra? Chi comandava, chi aveva il potere? E come mai i futuristi, con a capo Marinetti, esaltavano quel disastro?»

“I contrasti cromatici, le prospettive distorte e ruotanti, in cui emergono le linee forza del movimento e della velocità: la pittura di Barbara era già un “deformare” e solo dopo incontrerà il Futurismo” Ma dopo gli eventi bellici niente è più come prima, il pesantissimo carico di lutti, distruzioni, dolore e miseria aveva fatto tabula rasa e segue un periodo di crisi e di cambiamenti, che Barbara avverte in sé e fuori di sé, da cui esce tuttavia intraprendendo nuovi itinerari, quali l’adesione al movimento delle donne e il pacifismo. «La guerra aveva distrutto i miei sogni, il mio amore, la mia vita, sì, volevo lottare per la pace!». L’impegno politico negli anni Settanta con le donne della sinistra, la partecipazione al femminismo fino all’adesione al movimento pacifista porteranno alla nascita di una delle opere più importanti di Barbara: L’Albero della Pace, esposto a Hiroshima. Un urlo di pace che partiva dal profondo della sua anima ma che forse il mondo intero condivideva: tra i palmi delle mani che lo compongono troviamo infatti anche quelli di molti personaggi noti… La realizzazione de L’Albero della Pace è il simbolo degli anni Ottanta e di tale impegno di Barbara: si tratta di un ro-

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tolo di carta da tempere lungo dieci metri, ricco di impronte di mani intinte nel colore, dalla prima – della pacifista giapponese giunta in visita in Italia, Machiyo Kurokawa – ai palmi di bambini, di donne, di persone note (Rita Levi Montalcini e Camilla Ravera, Nilde Jotti e Enrico Berlinguer e rappresentanti di altri partiti) e sconosciute, impreziosito da tante frasi e firme, contriL’aeroporto abbranca l’aeroplano, 1938 buti che ne rappresentano quasi le fronde, sul tema. Un grande mosaico di mani e parole per la pace. Un lungo e delicato albero con le radici non del tutto interrate. Un albero come simbolo della vita che cresce nell’armonia dell’uomo con se stesso, con gli altri uomini, con la natura, «ma anche simbolo di una pace che può crescere proprio grazie a questa armonia». Una volta completato, nel 1986, quarantunesimo anniversario dello sganciamento delle bombe atomiche, l’Albero è donato da Barbara – durante un suo viaggio coinvolgente e carico di emotività – al Memorial Museum di Hiroshima. Per esporlo in tutta la sua altezza in Giappone è stata realizzata appositamente una sala con una parete di più di 10 metri. Per quest’opera e per tutto il suo impegno creativo che si mette al servizio di una causa grande e giusta fu avanzata la proposta di una sua candidatura al Nobel per la Pace, da parte di varie istituzioni, tra cui l’Università Roma Tre. Nei primi anni Ottanta comincia un’evoluzione nella pittura di Barbara. In concomitanza con la perdita della madre e con l’aspra polemica in atto in Italia sul tema dell’aborto, nascono le pitture placentarie: viaggio nel segreto della maternità o ricerca del legame materno ormai indissolubilmente spezzato? Direi l’uno e l’altro percorso, che le pitture placentarie rivelano significativamente. Esse esprimono la doppia radice – biologica e storica – della specificità del corpo femminile, non solo, ma manifestano anche come la produzione artistica racchiuda l’immaginario, l’emozionale, il sentire personale intrecciato con la ricerca concettuale, quale nuovo rap-

porto tra soggettività, idea e realtà. «Vedere con la fantasia per trovare il divino… Il corpo magico della donna è indagato nell’interno, nella sua parte più segreta e preziosa», queste le parole di Barbara che mostrano quanto cammino era stato percorso dalle cupe e fanatiche elaborazioni futuriste sulla maternità. L’ultimo capitolo del libro s’intitola: Una grande danza noetica tra Barbara e Luce, una danza infinita, è l’effetto dell’incontro tra Barbara e i testi della filosofa Luce Irigaray. Cosa ha determinato la forte sintonia nonché la collaborazione tra le due artiste? Si può parlare di arte che incontra la filosofia, per esempio nell’opera Contact placental avec Luce? Si tratta del nodo che mi ha spinto a studiare e ad appassionarmi a questa pittrice: il suo inaspettato legame con una grande filosofa come Irigaray: da un lato la produzione di Barbara, la pittura noetica, dall’altro la riflessione di Irigary che irrora dall’interno, stimola la pittura stessa. In particolare la sintonia fra le due nasce proprio nella caratterizzazione del soggetto femminile come un’identità costituita non solo di logos ma di categorie “originarie”, le passioni quali l’ammirazione, il desiderio, la carezza, che rappresentano le tappe fondamentali di questo viaggio identitario. La pittura delle donne – e il termine noetico la riassume con voluta ermeticità – rivela che: «la via della donna all’espressione creativa, all’arte non è una via tecnica, razionalistica; non nasce da un pensiero astratto e ben organizzato...; la donna ricompone mente e corpo, arte e vita, pensiero e azione; il suo è un procedere per conoscenza intuitiva, per noesi appunto», come afferma Barbara stessa, che in un’ultima sua realizzazione – opera interattiva a tecnica mista, più scultura che pittura, cinque tubi di rodoide... espressione di pittura liquida, avvolgente, capace di intriganti trasparenze, attua un gioco simbolico: una grande danza noetica tra Barbara e Luce, una danza infinita.

Come spiegare l’adesione di tante donne a una corrente pittorica come il Futurismo, così misogino, aggressivo, talvolta volgare nei confronti della femminilità? In questo saggio si vuole definire dapprima lo sfondo teorico del Futurismo, cioè l’elaborazione concettuale sul “femminile” che si espresse in quegli anni e in quel movimento. Da un lato, l’adesione al Futurismo rappresentò per molte artiste una sfida e un atto convinto di distruzione e smantellamento di consolidati stereotipi femminili, dall’altro – questa è l’ipotesi – tali gesti eversivi e antipassatisti non furono elaborati dalle donne, ma ricevuti passivamente, e ciò determinerà le equivocità, spesso le posizioni conciliative ed appiattite all’ideologia maschilista. Nella seconda parte si affronta una figura particolare di donna e di artista, Barbara, nata come futurista e poi approdata a esiti molto diversi, come il movimento pacifista e il femminismo, in empatica vicinanza con i testi di Luce Irigaray. Prismatica esistenza quella di Barbara, in cui si intrecciano arte e vita. La sua identità di donna è conquistata solo dopo aver percorso un labirinto, il labirinto di Barbara. (dalla quarta di copertina). Francesca Brezzi, Quando il futurismo è donna. Barbara dei colori, Milano, Mimesis, 2009.


I diritti umani nel secolo sino-americano Intervista al filosofo Giacomo Marramao di Michela Monferrini

Giacomo Marramao è professore ordinario di Filosofia teoretica e di Filosofia politica all’Università Roma Tre. È inoltre direttore scientifico della Fondazione Basso, membro del Collège International de Philosophie e professor honoris causa dell’Università di Bucarest. È stato visiting professor in diverse università europee, americane e asiatiche. Tra le sue opere, tradotte in numerose lingue: Potere e secolarizzazione (1983, nuova ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2005); Passaggio a Occidente (2003, nuova ed., Bollati Boringhieri, Torino 2009); La passione del presente (Bollati Boringhieri, Torino 2008). Esiste il rischio che le potenze occidentali, non potendo fare a meno della Cina per superare la crisi economica, “chiudano un occhio” sulla questione dei diritti umani, anche attraverso una minore attenzione da parte dei mezzi di informazione? È quanto sta già accadendo. La questione va inserita nel quadro globale dell’economia mondiale, sempre più contrassegnato dall’egemonia bipolare di Stati Uniti e Cina. Tra i due poli intercorre una relazione ambivalente: di competizione e, al tempo stesso, di complicità (come si può del resto riscontrare anche in rapporto alle vicende dell’attuale crisi finanziaria). Non tenere conto di questa ambivalenza equivale a non comprendere la natura del XXI secolo, che già alcuni definiscono “sino-americano”. Non esiste al mondo alcuna entità geoeconomica e geopolitica in grado di rappresentare un’alternativa globale al modello americano quanto quella rappresentata dalla Cina. Non certo il mondo arabo-islamico, ad onta dell’aperta ostilità che ha manifestato nei confronti dell’Occidente, e in particolare degli Stati Uniti (ma penso che le cose dovrebbero cambiare con l’avvento di Barack Obama alla Casa Bianca). A questo proposito, sono sempre stato in dissenso con la diagnosi-prognosi avanzata da Huntington ne Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale: per la quale il XXI secolo sarebbe stato contrassegnato dal confitto aperto tra il mondo occidentale e il mondo islamico. Il mondo islamico – che, detto per inciso, non è affatto “Oriente” ma al contrario una variante, o se si vuole un’eresia, dei monoteismi occidentali (con i quali condivide in tutto e per tutto la propensione attivistica) – è destinato a un graduale assorbimento nella modernità; proprio per questo le sue frange ‘fondamentaliste’ sono tanto più minacciose e violente nei confronti dell’Occidente quanto più incapaci di produrre una vera alternativa globale. La Cina, al confronto, si configura come un’alternativa meno violenta, meno patentemente conflittuale, ma molto più insidiosa: il che si può spiegare soltanto uscendo dall’onda corta o media, per dar mano a un’analisi di lungo periodo, attrezzata “comparativisticamente”. Il senso nazionale della popolazione cinese è davvero più forte che in altri paesi o quest’argomento oggi ser-

ve da giustificazione in caso di mancato rispetto dei diritti umani? La Cina possiede una serie di codici etici di comportamento che la rendono fortemente coesa dal punto di vista culturale. I cinesi si sentono appartenenti ad una grande comunità nazionale che ha attraversato millenni di storia ed è quindi molto più antica della civiltà europea: anche della nostra civiltà italica – della pur antiquissima italorum sapientia – e della stessa civiltà greca. Ed è proprio l’identità profonda di un Dna culturale dalle origini plurimillenarie a far sì che il capitalismo venga declinato nel codice e nel lessico culturale cinese.

“In vari paesi asiatici esiste la tendenza a una reazione polemica a quel che viene chiamato l’imperialismo dei diritti umani, cioè l’imposizione del criterio occidentale” Mantenendoci in questa prospettiva, dobbiamo tenere conto di cosa rappresentino gli individui nella visione cinese. Essi contano, certo. Ma contano come membri di una comunità improntata al modello e ai codici di lealtà di stampo familistico. La cosa non dovrebbe sorprendere più di tanto noi italiani. Noi conosciamo molto bene l’etica di tipo familistico che in Oriente, e in particolare in Cina, fa sì che lo stesso Stato venga concepito come una famiglia allargata e i capi di stato siano considerati padri, saggi, detentori di un potere di tipo paternalistico. A livello economico avviene lo stesso: l’impresa è la famiglia allargata, i manager sono i padri e la competizione vale da impresa ad impresa, non tra individui all’interno di uno stesso gruppo. Coloro che risulteranno più meritevoli avranno maggiori gratificazioni e riconoscimenti, ma pur sempre restando entro gli orizzonti di un’etica del corpo, della comunità, fondamentalmente anti-individualistica. L’obiettivo che si persegue, il goal, non è quello del profitto individuale, ma quello dell’utile collettivo, del beneficio della famiglia allargata: che sia la bottega, l’impresa, la regione, oppure lo Stato, la Cina in quanto tale. Quando in Cina una famiglia si riunisce, essa è composta da un centinaio, magari duecento persone – cosa, ripeto,

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tutt’altro che strana per noi italiani: basti ricordare le famiglie meridionali di qualche decennio fa – ed è l’intera comunità familiare a decidere, in base alle inclinazioni e ai talenti dei giovani rampolli, a chi tocchi metter su bottega o proseguire l’attività commerciale, chi debba essere iscritto alla Harvard University, chi ha il bernoccolo degli affari e possa essere mandato in giro per il mondo ad impiantare nuove imprese. Non è l’individuo a decidere. Questo spirito di corpo serve anche a capire lo straordinario impasto che si è venuto a creare tra un’etica anti-individualistica, comunitaria, collettiva, gerarchica, legata all’autorità, e un’estrema produttività dell’economia. È un mix incredibile, miracoloso, che ha smentito tutte le previsioni fatte sia dai marxisti, sia dai liberali. Basti pensare alla prognosi del massimo esponente della sociologia del secolo scorso, Max Weber, con la sua sottovalutazione del potenziale dinamico dell’economia e della società cinese. Per Weber l’etica confuciana, con la sua propensione adattiva e ossequiosa nei confronti dell’autorità, si collocava agli antipodi del modello etico-religioso propizio alla genesi del capitalismo: il modello individualistico-attivistico del protestantesimo ascetico. Il tipo ideale dell’imprenditore capitalistico coincideva dunque per Weber con la figura di un asceta laico di stampo puritano che, rifuggendo da qualunque tentazione edonistica, fonda la sua attività sull’imperativo dell’autodisciplina, del sacrificio, della rinuncia al proprio piacere personale, ai fini esclusivi del profitto e dell’accrescimento dell’impresa. Anche ammesso e non concesso che fosse vera, la diagnosi weberiana dovrebbe oggi fare i conti con una paradossale eterogenesi dei fini, che ci fa assistere a una sorta di inversione dei ruoli tra Oriente e Occidente: mentre in Occidente l’asceta puritano sembra aver lasciato il posto all’edonismo più sfrenato dei cittadini-consumatori (con la conseguente erosione, segnalata anche da alcuni economisti, delle basi morali e motivazionali che erano alla base della civilisation capitalistica), in Cina questa contraddizione non sussiste proprio per quel circolo virtuoso tra etica paternalistica e capacità di svilupparsi in base a coefficienti di produt-

Xian, vista dal muro di cinta, foto di Indra Galbo

tività elevatissimi, per noi impensabili, che sta per trasformarla nella prima economia del pianeta. Si tratta allora innanzitutto di capire quale cultura dei diritti viga in Cina, tenendo presente che i diritti umani possono avere diverse declinazioni culturali. Secondo i cinesi, l’individuo è tale se posto all’interno di un contesto, di una cornice comunitaria: i diritti del collettivo vengono prima di quelli individuali. Questo è il principio di fondo della Dichiarazione di Bangkok, votata non soltanto dalla Cina, ma anche da Corea, Singapore, Taiwan, e molti altri paesi del Sud-est asiatico.

“Non è l’individuo a decidere. Vige un’etica del corpo, della comunità, antiindividualistica: l’obiettivo non è quello dell’utile individuale, ma quello della famiglia allargata, che sia la bottega, l’impresa, la regione, oppure lo Stato, la Cina in quanto tale” Un paio di anni fa è accaduto un episodio esemplare in tal senso, riportato in Italia soltanto dal Corriere della Sera (a riprova dell’iperselettività, o più semplicemente inadeguatezza, con cui i nostri giornali ci informano sul quadrante internazionale). È un episodio che non riguarda la Cina, ma il Giappone – il paese più occidentalizzato dell’Asia, definito da molti come l’“estremo Occidente” – dove negli ultimi anni si è registrata una riscoperta delle tradizioni. Il direttore di una scuola ha comminato una severa sanzione a un’insegnante che si era rifiutata di cantare l’inno nazionale assieme al coro di studenti e docenti. Per ricorrere contro il provvedimento, la donna si è rivolta alla Corte Suprema, l’equivalente della Corte Costituzionale, chiedendo che venissero salvaguardati i suoi diritti. La sentenza ha dato ragione al direttore con il seguente argomento: per motivare il proprio diritto alla disobbedienza, l’insegnante si era appellata a criteri culturali occidentali, non giapponesi. Anche in Giappone i diritti patriottici, della comunità, vengono prima di quelli individuali e questo è il segnale che in vari paesi asiatici esiste la tendenza a una reazione polemica a quel che viene chiamato l’“imperialismo dei diritti umani”, cioè l’imposizione del criterio occidentale. Io ritengo che se vogliamo affermare un allargamento del rispetto dei diritti umani in Cina, dobbiamo cercare di farlo lievitare dall’interno, non di proporlo come la campagna dell’Occidente contro la Cina, perché questo scatenerebbe una reazione nazionalista, un compat-


tamento, anche ricordando che i cinesi si ritengono la prima nazione del mondo dal punto di vista della civiltà, hanno un enorme superiority complex, oltre che una grande adattabilità. E il loro modo di adattarsi, per esempio nella diaspora, somiglia, se guardiamo ad alcuni decenni fa, a quello degli italiani: essi restano all’interno della comunità (a New York esistono, non a caso, Chinatown e Little Italy). I cinesi mantengono una sorta di sovranità, di autoreferenza, anche quando si trovano in realtà come quella italiana. Pensiamo ai cinesi che si sono stabiliti a Prato: hanno un loro quartiere, fanno sparire i morti, non si riesce a capire quale sia la loro entità in termini numerici. Però è difficile immaginare che gli italiani possano creare una Little Italy in Cina, o no? È difficile che ciò avvenga perché i cinesi hanno una propensione assorbente, un enorme potere di seduzione, sono accoglienti e conviviali. Io conosco poco la Cina, ho insegnato ad Hong Kong e ho fatto un giro nei territori popolari là attorno, però posso dire che se diverrà sede di grandi investimenti, di crescita di relazioni economiche internazionali, inevitabilmente si creeranno delle comunità straniere. Durante il mio soggiorno, ho sperimentato la loro volontà di assimilarmi, ma anche un’estrema amabilità e simpatia, una straordinaria intelligenza e capacità di capire le situazioni, oltre che la straordinaria sensibilità delle donne anche giovanissime, al tempo stesso gentili e dotate di forte personalità. Grazie a queste attitudini, hanno la possibilità di configurare una globalizzazione alternativa: per le strutture relazionali collaudate, laddove il fondamentalismo islamico può imporre le sue relazioni solo in stato d’eccezione perché in una situazione di normalità non funzionerebbero. Il tenere insieme produttività e convivialità, fa della Cina un attrattore notevole. Ritiene attuabile già nella Cina di oggi il “Piano d’azione per i diritti umani” che è stato recentemente varato? A me non piace questa denominazione: “Piano d’azione per i diritti umani”... Il cittadino cinese non ha i caratteri individualistici che ha il cittadino americano (che è comunque diverso da quello europeo: per l’americano, ad esempio, il numero delle citazioni è un indicatore di valore, mentre noi iniziamo soltanto adesso a entrare nell’ottica, peraltro sbagliata, di quel che io chiamo il “reame della quantità”) e noi dobbiamo fare in modo che emerga il principio che i diritti fondamentali sono i diritti a tutela del singolo: una comunità deve rispettare il dissenso interno, fondamentale perché in democrazia conta più del consenso. Ma questa eredità che abbiamo faticosamente raggiunto, dobbiamo farla germogliare e crescere lungo i binari culturali del paese in questione, altrimenti i cinesi potrebbero ricordarci i vari Hitler, Mussolini, o il periodo in cui, mentre in Europa venivano bruciati gli eretici, in Cina governavano imperatori saggi e tolleranti. A questo proposito, mi trovo d’accordo con un comparativista delle religioni, Pier Cesare Bori, docente all’Università di Bologna, che ha sottolineato la necessità di tenere conto dei diversi percorsi culturali. Come dice Amleto ad Orazio, vi sono più vie alla libertà e alla democrazia di quante la nostra povera filosofia ci abbia finora dato a intendere. Non c’è un’unica strada.

Durante le riunioni preparatorie della Dichiarazione dei diritti umani del 1948, il delegato cinese obiettò spiegando il termine ren: ren è diverso da “umano”, significa tante cose, indica le relazioni, il nesso tra individuo e comunità. Il delegato, in altre parole, poneva il problema del radicamento culturale dell’etica. Ciò non significa che io voglia abbracciare una posizione relativistica: il relativismo è uno strumento di conoscenza e anche se alcuni filosofi pensano di farlo passare come un quadro normativo, da Montaigne fino all’etnologia del XX secolo, il relativismo è stato un modo per conoscere i diversi contesti di civiltà iuxta propria principia, secondo i propri principi, entrando dentro le diverse logiche. Non che questo giustifichi un interdetto a giudicare: le civiltà si giudicano, e una cultura non è mai talmente omogenea da non avere linee di conflitto etico al suo interno. Ogni cultura produce tanti valori, per cui anche in Cina avremo sostenitori dei diritti dell’individuo, ma dovremo sapere che quei sostenitori intenderanno l’individuo in modo diverso da noi europei, dagli americani, dagli occidentali. In altre parole, l’universalismo va affermato all’interno di una prospettiva di traduzione.

“I cinesi hanno una propensione assorbente, un enorme potere di seduzione, sono accoglienti e conviviali: è per questo modo di fare, per le strutture relazionali collaudate, che hanno la possibilità di configurare una globalizzazione alternativa” “Umano” è un concetto in progress, in divenire, ma anche controverso: terreno di plurimillenarie contese, guerre, confronti teologici, metafisici ed etici – ancor prima che politico-ideologici. Per questo nei miei lavori degli ultimi anni ho tentato di avviare un programma filosofico e politico-culturale improntato a quello che io chiamo universalismo della differenza, in contrapposizione all’universalismo dell’identità che ha fino ad oggi segnato la vicenda della politica e del diritto occidentale: l’universale non può essere concepito in modo omogeneo, omologante. La sola universalità è la pluralità delle vie. Un grande pensatore religioso come Raimon Panikkar, che intreccia nella sua persona le due culture indiana e occidentale-europea (anzi spagnola o, per essere ancora più precisi, catalana), insegna che la casa dell’universale, la casa dei diritti umani, non è già costruita: non è già edificata da noi occidentali, che accogliamo benevolmente dentro la “nostra” casa “gli altri”, assimilandoli alla nostra “superiore” civiltà del diritto. La casa dell’universale va edificata multi lateralmente: per la decisiva ragione che le altre culture possiedono valori non meno universali e nobili dei nostri (per esempio in materia di libertà e dignità della persona, come la cultura indiana e la stessa cultura cinese ci dimostrano). Bisogna, dunque, muoversi nella prospettiva di un universalismo della differenza, non dell’identità. Soltanto allora anche il concetto di diritti umani uscirà dalla sua gabbia etnocentrica o suprematistica, per essere riformulato tenendo conto della pluralità delle vie.

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Latifondisti in sciopero A otto anni dalla crisi in Argentina sono ricomparsi i piqueteros e i cacerolazos, ma questa volta a protestare non sono i disoccupati ma i proprietari terrieri di Fulvia Vitale

Rogo di pneumatici al piquete dei produttori agricoli

protestare contro quelle misure governative che hanno provocato un aumento consistente delle tasse sui prodotti agricoli.

“La notte era umida e puzzava di gomma bruciata: per delimitare il luogo del piquete vi erano due cumuli di pneumatici che ardevano innalzando fumo” Di recente anche un articolista italiano ha etichettato questi piquetes come “manifestazioni dei ricchi”. Ma le testimonianze che raccolgo durante il mio viaggio e che accompagneranno tutta la mia permanenza nella terra argentina, sembrano smentire questo mito: non sono solo i grandi proprietari terrieri o i presidenti delle multinazionali ad essere colpiti dall’aumento delle tasse nel settore agricolo; al contrario, mi dicono che questo tipo di tassazione si riflette soprattutto sul resto della popolazione. L’Argentina infatti è una nazione agricola, quindi le problematiche inerenti al “campo” si riverberano su tutto il paese. Quella notte, mentre intorno ad un fuoco mangiavamo carne e bevevamo mate (la preparazione del mate è un vero e proprio

reportage

Attraversando in macchina lo sconfinato territorio argentino, non è insolito imbattersi in un piquete. È quello che è successo a me, mentre mi inoltravo nelle pampas sudamericane per passarvi una settimana. Un piquete è una forma di protesta molto diffusa in Argentina: uno sciopero o meglio una manifestazione, diffusa in origine soprattutto fra i movimenti dei disoccupati o comunque negli ambienti delle fabbriche, ma divenuta col tempo una modalità di protesta comune. Coloro che vi prendono parte (i piqueteros), si appostano presso i luoghi delle istituzioni o bloccano le strade in prossimità di incroci nevralgici. Mi sono trovata, per banali circostanze, a partecipare a una di queste proteste. La notte era umida e puzzava di gomma bruciata: infatti per delimitare il luogo del piquete vi erano due cumuli di pneumatici che ardevano innalzando fumo. La protesta in questione era di produttori agricoli, era uno di quelli che qualcuno ha chiamato los piquetes de la abundancia. A rendere particolare la serata tuttavia è stato, alla fine, solamente un asado (la caratteristica brace argentina), perché di camion bloccati neanche l’ombra. Mi spiegano che non tutti i camion vanno fermati, ma solo quelli carichi, diretti ai porti o ai mulini, al fine di evitare o ritardare le vendite dei prodotti agricoli. Il disagio che si vuol creare in questo modo è per

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rito: il cebador lo fa girare fra tutti i presenti ed è molto forte la sensazione di convivialità che si prova scambiandosi da bere dalla stessa cannuccia con degli sconosciuti, in un rituale che può durare anche per ore) quella notte, dicevo, bevendo mate e mangiando asado, ho colto l’occasione per approfondire la questione. Noto con stupore che qui tutti parlano di economia, tutti chiacchierano, commentano, si confrontano, si inalberano ed esprimono focosamente le proprie opinioni. Non esiste una terzietà indifferente. Qui, forse in maniera più tangibile che altrove, si riesce a toccare con mano come le scelte politico-economiche dei governi incidano sui cittadini e come un differente orientamento economico possa cambiare la vita a milioni di persone.

“L’olandese insisteva con fervore sul fatto che la crescita di cui i media vanno parlando, è stata in realtà una crescita apparente” L’Argentina è stata protagonista nel 2001 di una crisi economica devastante che ha anticipato, se così si può dire, la crisi economica che ora sta vivendo quasi l’intero pianeta. Si sa che la storia banalmente si ripete, che magari si camuffa con nuove maschere, ma le dinamiche sono sempre le stesse, per questo è importante avere sempre un approccio critico alla realtà. Quello che è accaduto in Argentina è stato il risultato di politiche economiche e monetarie sbagliate, che vanno dall’iperinflazione di Raul Alfonsín, alle privatizzazioni selvagge e le follie finanziarie di Carlos Menem, che con un decennio di parità cambiaria fissa fra peso (la moneta nazionale) e dollaro ha condannato il paese all’esplosione del debito estero, un debito che lo Stato non è più riuscito a pagare. Quando l’ancoraggio del peso al dollaro venne abbandonato perché divenuto controproducente, la moneta argentina ritornò immediatamente ai suoi valori reali, producendo un grosso deprezzamento della valuta e, in pochi giorni, si venne a creare un altissimo picco di inflazione. Le conseguenze di questa crisi furono disastrose: vi fu un allarmante crescita della disoccupazione e di nuovi poveri, che si rifletté su un esponenziale aumento di microcriminalità e instabilità sociale. In Italia forse ricordiamo le immagini che rimbalzarono dai telegiornali: le code agli sportelli delle banche per ritirare i risparmi di una vita prosciugati dal crollo della moneta; gli assalti ai supermercati da parte di intere famiglie; i cacerolazos, le proteste a suon di pentole e coperchi per le strade di Buenos Aires. Allora ci si chiese come potesse essere arrivato a tanto un Paese così ricco di potenziale: l’ex granaio del mondo possiede un’enorme quantità di risorse naturali e agricole, è uno dei maggiori produttori di materie prime quali il grano, la soia, la carne e il petrolio e il quinto esportatore di generi alimentari al mondo e gode di buoni rapporti e legami con il mondo occidentale maggiormente industrializzato. Ad essere chiamati in causa furono l’inadeguatezza della classe dirigente a tutti i livelli, la corruzione e l’atteggia-

mento predatorio verso la propria terra e i propri connazionali, l’incapacità di gestire al meglio l’invidiabile dotazione di risorse che possiede, i paradigmi economici e i processi democratici. Durante il mio viaggio ho avuto le conferme di quello che si sente dire: se è vero che dal 2001 ad oggi c’è stata una ripresa, è altrettanto vero che il malcontento dilagante nel paese è causato dal fatto che, questa ripresa, è stata infinitamente inferiore di quella che avrebbe potuto essere se si fosse sfruttato diversamente il potenziale economico dell’Argentina. Si dice che dopo aver toccato il fondo non ci possa essere niente di peggio: è che gli argentini, dopo aver toccato il fondo, si auguravano un qualcosa di più. Quello che salta agli occhi girando per Buenos Aires e le sconfinate campagne sono le tante contraddizioni evidenti. La capitale è profondamente segnata dal convivere di ricchezza e povertà estrema. La miseria si impone arrogante, si mostra con dispetto e non si nasconde mai. Baires (così è chiamata dai suoi abitanti) accoglie alti e luccicanti grattacieli, ma ai loro piedi si insinuano le cosiddette villas o villas miserias. Le villas sono le bidonvilles argentine, similissime alle loro sorelle brasiliane, le favelas, anche se, a differenza di queste ultime, non sono costruite solo con lamiere. I governi nel tempo hanno fornito ai loro abitanti cemento e mattoni, ma le villas sono comunque prive di elettricità e acqua corrente; se ne contano a decine in città e dintorni, e vanno sempre ingrandendosi: è la povertà che avanza verso il centro, dove c’è il lavoro e dove c’è il denaro. Questa povertà è lo specchio di scelte politico-economiche sbagliate? Non è un paradosso che il quinto Una veduta di Buenos Aires: le villas a ridosso della città


È insieme agli altri, tra esportatore al mondo di cui noi, guardati con cugeneri alimentari non ririosità e allegria, ad un esca a sfamare la propria incrocio perfetto, tra due popolazione? Se all’esestrade perfettamente dritcutivo si fossero sussete, con una corsia per guiti governi meno egoicarreggiata, strade senza sti, ora gli argentini salampioni, di cui non si rirebbero meno divisi e la esce nemmeno ad immaqualità della vita superioginare da dove sia partito re? e dove finirà l’asfalto, Queste domande affollatanto sono lunghe. Le dino senza sosta la mia stanze in Argentina supemente, la mia curiosità rano la nostra immaginaper la situazione di quezione. Non si può rimasta gente cresce di giorno nere che senza parole in giorno, e ritorno con la Ballerini di Tango si esibiscono in strada a Buenos Aires quando il primo cartello memoria alla notte del stradale che incontri dopiquete, dove ho avuto po ore, segna che la città più vicina è a 700 km. l’occasione di conoscere da molto vicino le idee di una Immersa in questa situazione surreale ascolto l’olandese. precisa categoria di popolazione attualmente a disagio con le scelte dello stato in cui vive. Si lamenta (il lamentarsi è una cosa che riesce bene agli arL’olandese (così era chiamato un piquetero anomalo nelgentini, forse per i retaggi storici, per gli abusi di cui sono stati vittime, per le dignità calpestate e per i figli scomparl’aspetto, in quanto biondissimo e con gli occhi chiari, a si), lamenta il fatto che il loro governo sta agendo e ha causa delle sue origini nord europee) insisteva con fervore sempre agito per meri interessi elettorali, che non guarda al sul fatto che la crescita di cui i media vanno parlando, è lungo termine. Dal 2001 a oggi i prezzi dei prodotti agricostata in realtà una crescita “apparente”, perché è coincisa li, quelli di cui si occupano i piqueteros, si sono alzati a licon un momento in cui tutti i fattori economici decisivi vello internazionale. Questa sarebbe stata un’ottima occaper l’Argentina toccavano un massimo storico. Il contesto sione per ampliare le esportazioni. Il governo ha invece alinternazionale era così favorevole che una ripresa era zato le tasse sui prodotti agricoli, in particolar modo sul scontata, ma non si è sfruttata in modo corretto l’onda pograno, e limitato così le esportazioni, con la ratio di tenere sitiva. Un’occasione perduta. bassi i prezzi interni del pane, prodotto di prima necessità. L’olandese è un proprietario terriero, è un attivista convinÈ stata una scelta populista? Per guadagnare i voti della to e sono svariate ormai le notti che non passa a casa sua. parte povera, che rappresenta una larga fetta dell’elettorato? E quali sono i risultati? Non ho queste risposte, ma so che l’olandese l’anno dopo queste misure governative ha dimezzato la sua produzione di grano e l’anno dopo ancora ne ha prodotto sempre meno: dice che non gli conviene: e se per paradosso l’Argentina, anticamente soprannominata “granaio del mondo”, dovesse finire con l’importare grano per soddisfare la propria domanda interna? Vivendo l’Argentina dall’interno, ciò che si percepisce è l’assenza dello Stato, unico garante dei diritti civili dei propri cittadini. In un Paese dove l’orgoglio nazionale è fortissimo e dove la gente crede profondamente nelle proprie tradizioni, questa mancanza si avverte ancora di più. Ci sono molte colpe, in troppi hanno pensato di poter giocare con i conti, con la credibilità e con la fiducia che la gente riponeva nello Stato, per poi andarsene quando le cose si mettevano male. Ma gli argentini sono un popolo caparbio, la storia degli ultimi anni non è stata clemente con loro, ma, nonostante questo, camminando per le vie di Buenos Aires, la vitalità si respira ad ogni angolo: dai ballerini di tango che si esibiscono passionali notte e giorno, agli odori penetranti di empanadas, ai musicisti di strada, ai mercanti d’arte e alla gioventù socievole. Le persone che ho conosciuto sono coscienti e consapevoli, e queste sono per me le basi giuste per cercare di riconquistare il proprio senso dello Stato e di abbattere le troppe disuguaglianze sociali.

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“Aperto per fallimento” Fabbriche e imprese recuperate dai lavoratori in Argentina di Leticia Marrone Il fenomeno delle “imprese recuperate” è una delle tante azioni di risposta sociale al più grande default politicoeconomico della storia argentina nel 2001. Le imprese recuperate non sono altro che fabbriche che prima della crisi funzionavano secondo un modello di impresa capitalista tradizionale. Chiuse a causa del fallimento o insostenibilità economica, nonché per effetto dell’abbandono o “svuotamento” (ovvero la distrazione fraudolenta di capitali, beni e risorse dell’impresa) da parte dei proprietari, queste fabbriche sono state rimesse in produzione dai lavoratori, ma con uno schema produttivo differente. Questo modo di produzione alternativo deve convivere necessariamente con la logica dell’economia di mercato, ma ridefinisce il modo in cui si realizza la produzione con altri valori e altre dialettiche. Gli operai, che prima erano solo mano d’opera sfruttata dalla massimizzazione del profitto del capitale, diventano oggi attori protagonisti del proprio destino. Non solo continuano a produrre con altre pratiche di produzione, ma riformulano anche i rapporti sociali tra lavoratori all’interno della fabbrica e tra la

fabbrica e il mondo esterno. Nasce così un altro tipo di legame sociale. Secondo i dati del Programa nacional de promoción y asistencia al trabajo autogestionado y la microempresa del Ministero del Lavoro e della sicurezza sociale argentino

“Ma chi sono i lavoratori che rimangono nelle fabbriche a resistere contro la disoccupazione come destino socialmente già assegnato? I deboli del mercato: quelli che, per motivi d’età, di genere o di qualifica professionale, non troveranno lavoro altrove” nel 2008 le imprese recuperate erano 219 e occupavano circa 10.000 lavoratori. Le fabbriche e imprese recuperate si trovano su tutto il territorio argentino, nonostante l’85% delle unità produttive

Il 5 gennaio scorso la proprietaria della storica fabbrica dolciaria bonaeresnse Arrufat, Diana Arrufat, per mancanza di capitale, annuncia la chiusura degli stabilimenti. I 50 operai rimasti decidono di occupare l’impresa e gestirla autonomamente. La situazione non è semplice, mancano i soldi per le materie prime e per pagare l’energia elettrica e il gas. La produzione pasquale viene eseguita interamente senza l’aiuto di macchinari. «Vogliamo al più presto risolvere il problema della luce per poter continuare a lavorare, non riceviamo uno stipendio da dieci mesi e ognuno di noi ha una famiglia da mantenere – dice Marta – è dura ma se non ci ostacolano questa fabbrica può resistere e produrre con la qualità di sempre». Le immagini di questo reportage sono state realizzate dal fotografo Massimiliano Pinna ©


tori è compresa tra i si trovi nelle regioni 26 e i 45 anni, nel tradizionalmente in44% tra i 46 e i 65 dustriali: 109 nella anni. C’è solo un 8% Provincia di Buenos di giovani tra 17 e 25 Aires, altre 39 nella anni. Città di Buenos Aires, A livello giuridico il 35 a Santa Fé, 13 a 95% delle imprese è Córdoba e le altre costituito come cosparse in tutto il paeoperativa di lavoro. se. La Legge fallimentare Il recupero delle iminfatti abilita il giudiprese coinvolge pratice a dare ai lavoratori camente tutti i settori la possibilità di contiproduttivi. Il fenomenuare l’attività a patto no nasce come prettadi adottare la figura mente industriale, giuridica della coopequello industriale in rativa. effetti è uno dei setto- Preparazione dei bocaditos, cioccolatini ripieni con dulce de leche. Le sale adibite a questo lavoro sono senza luce e gli operai si avvicinano alle grandi finestre dell’atrio Il fenomeno delle ri più colpiti dalla crifabbriche recuperate si del capitale e di dal suo inizio non ha maggior espulsione di conosciuto fino ad ora tasso di mortalità, piuttosto si conmanodopera e anche quello con maggior storia sindacale tinuano a portare avanti processi di recupero: dal 2000 al ed esperienza organizzativa dei lavoratori. Con il tempo 2003 sono state create 74 nuove cooperative di lavoro, dal tuttavia, queste esperienze si espandono a un ampio e va2004 al 2008 altre 75. Questi dati indicano come il fenoriegato settore di servizi. Tra le unità produttive distribuite meno, nato come risposta alla crisi del capitale, si è traper settore di attività riscontriamo nell’industria metallursformato in un’alternativa valida di fronte alla minaccia di gica un 22%, nel settore alimentare un 16%, in quello delperdita dei posti di lavoro. la carne un 8%, nel tessile un 6%, nei prodotti edili un 5% e un altro 5% nel settore grafico. Il settore dei servizi è rappresentato dal 19%, che include al suo interno svariate tipologie di attività come quella gastronomica, alberghiera, di trasporto, stampa, e persino il servizio sanitario e l’istruzione. L’eterogeneità è la caratteristica che contraddistingue i settori dell’industria e dei servizi e in pratica non è possibile individuare due imprese uguali tra loro. In generale quelle “recuperate” sono piccole e medie imprese (il 70% di queste impiega non oltre 50 lavoratori) e ciò facilita il processo di recupero, poiché si tratta di una parte periferica del capitale.

“E dietro i numeri esistono centinaia di storie di gruppi di lavoratori, storie di luoghi che già non esiterebbero, di palazzi che sarebbero vuoti, di magazzini chiusi, in vendita o messi all’asta, posti smantellati, senza macchinari, senza produzione, senza lavoratori, senza vita” Ma chi sono i lavoratori che rimangono nelle fabbriche a resistere contro la disoccupazione come destino socialmente già assegnato? I deboli del mercato: quelli che, per motivi d’età, di genere o di qualifica professionale, non troveranno lavoro altrove e andranno a ingrossare le fila della disoccupazione strutturale, che nel 2002 raggiungeva il più alto tasso storico dell’Argentina con il 21,5% della popolazione attiva. Su un campione di 3.951 lavoratori delle imprese recuperate, nel 45% dei casi l’età dei lavora-

Un momento della decorazione. Quest’anno, non potendo utilizzare i macchinari a causa del taglio della luce, tutte le uova sono state prodotte manualmente

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Dietro questi numeri esistono centinaia di storie di gruppi di lavoratori che lottano quotidianamente per riprendere la propria vita in condizioni estremamente difficili, soprattutto per chi ha lavorato per anni sotto la direzione di un imprenditore, restando al di fuori di tutto ciò che riguardava gli aspetti di gestione, dei quali hanno dovuto farsi carico in maniera a volte improvvisa. Storie di luoghi che già non esiterebbero, di palazzi che sarebbero vuoti, di magazzini chiusi, in vendita o messi all’asta, posti smantellati, senza macchinari, senza produzione, senza lavoratori, senza vita. Oggi al contrario, di fronte alla chiusura o abbandono delle imprese, nel momento in cui sono entrati in gioco gli interessi dei lavoratori, si è ricorso a una strategia già conosciuta per difendere il lavoro, ricalcando la linea seguita da altre unità produttive i lavoratori stessi hanno riattivato le imprese in maniera autogestita. E se la portata del fenomeno in termini quantitativi potrebbe sembrare non molto significativa, tuttavia la sua incidenza e le ripercussioni

“Secondo i dati del Ministero del Lavoro e della sicurezza sociale argentino nel 2008 le imprese recuperate erano 219 e occupavano circa 10.000 lavoratori” nonché l’impatto simbolico superano ampliamente la dimensione relativa e permettono di capire l’importanza economica, sociale e politica di questo movimento. Le imprese recuperate influiscono in maniera incisiva nell’ambi-

to dei rapporti lavorativi, diventando uno strumento di pressione nei confronti della classe imprenditoriale e nella negoziazione collettiva. Nei casi in cui i datori di lavoro minacciano di chiudere, di licenziare o di ridurre i salari, i lavoratori si appellano alla strategia del “recupero d’im-

“Le continue crisi del modo di produzione egemonico trovano, nella ricerca della sopravvivenza, risposte creative da parte di quelli che Serge Latouche chiama i «naufraghi dello sviluppo». Ma questi «naufraghi» non scompaiono, e per sopravvivere si organizzano secondo un’altra logica, inventano un altro sistema, un’altra vita” presa” seguendo l’esempio delle imprese già recuperate. Le continue crisi del modo di produzione egemonico trovano, nella ricerca della sopravvivenza, risposte creative da parte di quelli che Serge Latouche chiama i «naufraghi dello sviluppo». Gli esclusi dell’economia mondiale, che non sono pochi emarginati bensì centinaia di milioni nel mondo intero. Ma questi “naufraghi” non scompaiono, e per sopravvivere si organizzano secondo un’altra logica. Essi inventano un altro sistema, un’altra vita. Come dicono molti dei lavoratori di queste imprese: «se non ci credete, venite a vedere».

Il punto vendita si trova al lato della fabbrica. Nonostante abbiano iniziato la stagione con molto ritardo il bilancio finale è stato positivo. Tutte le uova prodotte sono state vendute


Reti per l’orientamento Alla ricerca di nuove sinergie tra scuola, università e mondo del lavoro

Una concezione moderna dell’orientamento si fonda sulla natura complessa delle azioni formative, rivolte a soggetti considerati attori consapevoli delle scelte da compiere per realizzare il proprio progetto di vita. Una impostazione, questa, che si traduce nella produzione di occasioni e strumenti di auto-orientamento per proMassimo Margottini muovere e sostenere un processo che impegna il soggetto al raggiungimento dei propri obiettivi cognitivi e professionali, al potenziamento delle capacità personali, ma non trascura le dimensioni emotive, etiche e valoriali. Tuttavia, se per un verso è largamente condivisa la convinzione che l’orientamento debba essere concepito come un processo continuo di natura formativa, dall’altro, nelle pratiche che segnano le azioni quotidiane, si deve spesso constatare la oggettiva difficoltà a tenere le fila delle iniziative sotto un disegno progettuale coerente e condiviso. Tanto che l’ultimo rapporto del Censis registra come «il fervore che in questi anni ha percorso il lato dell’offerta non è stato indirizzato secondo un’ottica di sistema. Lo scenario si caratterizza ancora per un insufficiente livello di formalizzazione normativa; le norme sull’orientamento sono distribuite in testi, disciplinanti ambiti di altra natura. La mancanza di un quadro normativo unitario e semplificato nelle sue articolazioni origina sul fronte operativo, ovvero dell’erogazione dei servizi, frammentazione istituzionale, incertezza tecnico-organizzativa e talvolta precarietà professionale». In un quadro, quindi, che deve tener conto della molteplicità dei soggetti istituzionali interessati e delle inevitabili “intersezioni” che nella pratica progettuale vengono a crearsi, una risposta di integrazione non può che essere cercata in una “logica di rete”, di connessione e collaborazione tra i vari “nodi” che a titolo diverso sono coinvolti nelle azioni di orientamento. Il nostro Ateneo, da diversi anni ormai, ha reso operative le scelte di un lavoro in rete attraverso il GLOA, Gruppo di lavoro per l’orientamento di Ateneo, costituito da due rappresentanti di ciascuna delle nostre otto Facoltà, delegati dai Presidi, dalla Responsabile della Divisione politiche per gli studenti e dal delegato del Rettore per le politiche di orientamento che ne coordina i lavori. Accanto al GLOA operano gli Uffici orientamento, Job placement e Stage e tirocini che svolgono la funzione di “esecutivo” delle politiche concordate e sviluppate all’in-

terno del GLOA. Si tratta di una complessa opera di mediazione che deve tener conto delle esigenze specifiche di ogni Facoltà e Corso di laurea e allo stesso tempo sviluppare queste esigenze in azioni coordinate, coerenti con gli indirizzi strategici dell’Ateneo. Di pari importanza e complessità è la rete delle relazioni esterne. Per sua stessa definizione l’orientamento è un processo che si sviluppa in una dimensione longitudinale, diacronica e che non può quindi prescindere dalla storia del soggetto. In primo luogo storia di una scolarità pregressa, che implica, di conseguenza, un rapporto di continuità con le scuole superiori, teso a prevenire e colmare quelle distanze che quotidianamente vengono rilevate tra i requisiti posseduti dagli studenti e quelli necessari ad affrontare con pieno profitto il percorso universitario. E tanto più è stretto e qualificato il rapporto di collaborazione scuolauniversità tanto più sarà possibile realizzare interventi che aiutino gli studenti ad avere consapevolezza dei requisiti necessari a compiere con successo il percorso universitario, arrivando pronti al momento della scelta. Su questi presupposti si sviluppano le azioni che vedono coinvolte le scuole superiori: dalle Giornate di vita universitaria che si svolgono in ciascuna delle otto Facoltà, alla giornata di luglio Orientarsi a Roma Tre, agli strumenti di informazione ed auto-orientamento on line, alla collaborazione con i docenti delle superiori per un confronto aperto sui temi della didattica. Quindi, le scuole superiori costituiscono il principale bacino di provenienza degli studenti (principale ma non unico visto il crescente numero di adulti che si avvicina o torna agli studi universitari) e definiscono, con tutto l’apparato dell’amministrazione scolastica, la principale rete di relazioni per l’orientamento in ingresso. Ma la natura processuale delle azioni di orientamento si snoda nell’orientamento in itinere, con il tutorato, e in quello in uscita, che riguarda gli studi post lauream e l’inserimento nel mondo del lavoro, e che implicano, a loro volta, ulteriori rapporti: con il Ministero del lavoro, gli enti locali, l’Agenzia per il diritto alla studio, enti, associazioni e imprese del mondo del lavoro... In questa complessità di reti e relazioni Roma Tre vuole conservare e conserva la propria forte identità di Ateneo a dimensione di studente, coniugando ricerca e impegno nella società civile, e al tempo stesso si apre a nuove identità collettive con progetti che richiedono nuove collaborazioni, a partire da un lavoro comune con gli altri Atenei. Vi sono territori, quello del lavoro ad esempio, nei quali la sfida non ha confini e unire forze e risorse può essere la sola strada per conseguire risultati. È il caso del progetto SOUL (Sistema Orientamento Università Lavoro) che vede Roma Tre impegnata con gli altri Atenei romani (La

orientamento

di Massimo Margottini

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Sapienza, Tor Vergata, Foro Italico, già IUSM, e Accademia di Belle Arti) a sviluppare un sistema di placement capace di coniugare servizi agli studenti all’interno di ciascun Ateneo e al tempo stesso costituire un nodo nella rete degli interventi pubblici per i Servizi per l’impiego, secondo le logiche di promozione delle politiche attive del lavoro. Si tratta di una prospettiva che vede l’università impegnata in un nuovo compito (nel quadro normativo della “Legge Biagi”): ossia quello di sostenere e accompagnare i propri laureati nella fase di inserimento nel mondo del

lavoro. Per la realizzazione di questo compito gli Atenei di SOUL possono avvalersi di una avanzata piattaforma informatica che favorisce l’incontro tra domanda e offerta attraverso un sofisticato matching tra proposte delle aziende e curricula dei laureati. Ma una piattaforma informatica, per quanto avanzata, non è sufficiente a sostenere i processi di orientamento al lavoro ed è quindi integrata da una serie di servizi agli studenti che si realizzano in attività di consulenza e accompagnamento per un pieno sviluppo professionale con proposte di stage e tirocini.

Il seme della ripresa Dai dati del rapporto AlmaLaurea emerge la necessità di investire in formazione, ricerca e sviluppo e nelle risorse umane dei giovani laureati di Andrea Cammelli Sono i giovani laureati e il loro ingresso nel mercato del lavoro la chiave per interpretare i nuovi orizzonti che domineranno la scena all’uscita dalla crisi economica internazionale. Sarebbe infatti un errore imperdonabile dimenticare o evitare di intervenire là dove sta il seme della ripresa: l’investimento in risorse Andrea Cammelli umane. Qui si fondano le speranze e il desiderio di recupero di competitività, di capacità di concorrere ad ogni livello su scala mondiale. Il prerequisito, per l’Italia in particolare, dunque, è il raggiungimento di una nuova, più elevata e diffusa soglia educazionale. Ma, senza destinarvi le risorse necessarie, è difficile ipotizzare un futuro simile. Vi sono dati inconfutabili che segnalano lo sforzo insufficiente del Paese in questa direzione, misurato dalla spesa pubblica nel campo dell’istruzione universitaria e della ricerca e sviluppo. Alla prima l’Italia destina solo lo 0,78% del prodotto interno lordo contro più del 2% dei paesi scandinavi, l’1,02 del Regno Unito, l’1,16 della Germania, l’1,21 della Francia, l’1,32 degli Stati Uniti. Al settore strategico della ricerca e sviluppo il nostro Paese, tra risorse pubbliche (prevalenti) e private, destina l’1,10% del PIL, risultando così ultimo fra tutti i paesi più sviluppati. Il risultato di tutto ciò è che fra gli italiani di età compresa fra i 25 e i 34 anni i laureati sono 17 su cento, mentre in Germania sono 22, nel Regno Unito 37, in Spagna e negli Stati Uniti 39, in

Francia 41, in Giappone 54. D’altronde l’insufficienza dello sforzo compiuto ha radici antiche, testimoniate dal ridottissimo numero di laureati nella popolazione di età più avanzata. In Italia, nella classe di età 55-64 anni, sono presenti solo 9 laureati su cento (in Francia sono 16; in Germania e Regno Unito 23-24, negli Stati Uniti 38). In questo contesto garantire al mondo delle imprese l’accesso al credito è certamente azione urgente, ma insufficiente. Occorre anche favorire l’accesso delle imprese, incluse quelle piccole e medie, alle risorse umane più giovani e di qualità formatesi all’università. Con apposite agevolazioni, il Governo potrebbe così cogliere un duplice obiettivo: sostenere l’iniezione di risorse umane di più elevata qualità nel sistema produttivo e assicurare alle più giovani generazioni, quelle più capaci e preparate, un futuro lavorativo incoraggiante nel proprio Paese. Evitando, ancora una volta, che un patrimonio di studi e di conoscenze, costato caro al Paese, sia costretto a cercare la propria realizzazione al di là delle Alpi. Il rapporto AlmaLaurea 2009 sulla condizione occupazionale ha coinvolto quasi 300 mila laureati di 47 università italiane, tra cui Roma Tre. In particolare l’indagine, nel complesso, ha riguardato quasi i due terzi dei laureati post riforma usciti nel 2007 dal sistema universitario italiano. Il periodo di osservazione delle indagini AlmaLaurea, concluse nell’autunno 2008, ha solo sfiorato la crisi più acuta, ma i suoi segnali sono già stati intercettati. L’evoluzione della condizione occupazionale, analizzata dal 2001 al 2008 sui laureati pre-riforma, gli unici che consentono un’analisi di medio periodo, ci dice che la quota di laureati occupati si contrae di 6 punti percentuali. La contrazione della quota di occupati non si è tradotta, tuttavia, in un minor numero di neo-dottori assorbiti dal mercato del lavoro, dato il forte aumento dei laureati usciti


in questo periodo dal sistema universitario (da circa 55 mila nel 2001 a 74 mila nel 2007). A cinque anni dal conseguimento della laurea, la stragrande maggioranza dei laureati è inserita nel mercato del lavoro: il tasso di occupazione, per i laureati del 2003, è pari all’84,6% (ma altri 7,4 proseguono gli studi); la stabilità del lavoro coinvolge il 70% degli occupati. Nota dolente è rappresentata dalle retribuzioni che, nell’ultimo quadriennio, seppure superiori a 1.300 euro, hanno visto il loro valore reale ridursi di circa il 6%. Resta confermato che nell’intero arco della vita lavorativa (25-64 anni), la laurea risulta comunque premiante: chi è in possesso di un titolo di studio universitario presenta un tasso di occupazione di oltre 10 punti percentuali maggiore di chi ha conseguito un diploma di scuola secondaria superiore e un reddito più elevato del 65%. Ma come vengono accolti i nuovi laureati nel mercato del lavoro? Per rispondere occorre tenere presente la generale tendenza a proseguire gli studi, soprattutto dopo la laurea di primo livello (57%), ma anche l’incidenza di chi lavorava alla laurea (il 35% dei laureati di primo e secondo livello del 2007). In generale l’analisi dell’occupabilità dei laureati post-riforma, soprattutto se confrontati, pur con tutte le cautele del caso, con quelli dei laureati pre-riforma degli anni precedenti, mostra segnali positivi a testimonianza di un mercato del lavoro che, prima della crisi mondiale, sembrava ben accogliere i laureati figli della riforma senza particolari penalizzazioni tra i titoli di primo e secondo livello. Il guadagno ad un anno supera complessivamente i 1.100 euro netti mensili (contro i 1.010 euro dei pre-riforma). Si conferma invece la consistenza del lavoro precario già segnalata anche per i laureati pre-riforma. La stabilità, merce rara a un anno dalla laurea, è più elevata per i laureati di

primo livello rispetto agli specialistici, ma pur sempre non raggiunge il 40%. Nel caso dei laureati specialistici biennali è la prima volta che il rapporto restituisce la documentazione sulla loro condizione occupazionale a un anno dalla laurea. L’indagine mostra chiaramente come si tratti in assoluto della generazione più giovane, migliore, più preparata; ed anche con un alto tasso di occupazione ad un anno dalla laurea: il 75%, tenendo conto solo di coloro che hanno iniziato a lavorare una volta acquisita la laurea di secondo livello e di quanti, anche dopo la laurea specialistica continuano a studiare in formazione retribuita (una quota che riguarda il 22% del complesso dei laureati specialistici!). Guardando meglio è stato messo in luce che il 50% di loro lavora con un lavoro atipico, un altro 22% continua a studiare. Anche i laureati specialistici di Roma Tre che hanno compiuto il percorso di studi esclusivamente nel nuovo ordinamento, anche perché sono i primi, presentano performance particolarmente brillanti negli studi: si laureano a 25,9 anni, il 61% di loro in corso, il 21% ha svolto esperienze di studio all’estero, il 49% ha svolto stage durante gli studi. E il mercato del lavoro li ha accolti bene. La loro condizione occupazionale è buona già a un anno dalla laurea: lavora il 58%. Il tasso di occupazione nazionale è più elevato (62%), ma c’è anche un quinto dei laureati che continua la formazione (è il 18% a livello nazionale). Chi cerca lavoro è il 22% dei laureati specialistici di Roma Tre, contro il 20% del totale laureati. Nota dolente, anche in questo caso, è la stabilità che coinvolge il 32% dei neolaureati specialistici di Roma Tre. Mentre il guadagno è sostanzialmente in linea con la media nazionale: 1.130 euro mensili netti contro i 1.154 del complesso. Di fronte a questi risultati, ciò che deve dunque essere scongiurato è che una risorsa preziosa e qualificata, una generazione di giovani fra i meglio preparati, e quelle che seguiranno, rischino di essere schiacciati fra un sistema produttivo che non assume ed un mondo della ricerca privo di mezzi. È la vera sfida che ci attende, consapevoli che superare la crisi ed uscirne sarà operazione complessa. Ma che sarà realizzabile solo attraverso l’impegno comune delle forze più vitali del Paese.

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Crescita personale e utilità sociale Il diritto allo studio tutelato dalla nostra Costituzione di Gianpiero Gamaleri Il miglior sistema formativo, i docenti più preparati, gli studenti più capaci e volonterosi: tutto questo fallirebbe se non fosse sostenuto dal diritto allo studio. Questo hanno capito i nostri padri fondatori, che nella Costituzione all’articolo 34 hanno affermato il principio «I capaci e Gianpiero Gamaleri meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». Questi stessi concetti ha ribadito più volte Barack Obama quando ha detto: «Se non avessi potuto studiare malgrado le mie modeste condizioni non sarei mai diventato presidente degli Stati Uniti». Il diritto allo studio è anche un poderoso strumento di mobilità sociale, consentendo di non soffocare, ma di far emergere le qualità dei soggetti più dotati e quindi più utili alla società. Oltre che essere, naturalmente, un incentivo decisivo alla realizzazione personale degli studenti. È il grimaldello che apre la cassaforte che contiene il tesoro costituito dalle capacità intellettuali, professionali ed etiche di giovani che rimarrebbero tagliati fuori se non gli si

Gli uffici dell'Adisu Roma Tre

offrisse la possibilità di crescere negli studi, dalla scuola dell’obbligo, alle superiori, all’università fino alle ulteriori specializzazioni. Questi principi sono chiari nel nostro ordinamento, che affianca alle università le regioni per rendere effettivo questo fondamentale diritto. In effetti già la legge n. 642 del 1979 disponeva il trasferimento delle funzioni, dei beni e del personale delle “Opere universitarie” alle regioni, nella prospettiva di offrire a tutti gli studenti le stesse opportunità, indipendentemente dall’ateneo di appartenenza. Successivamente veniva emanata la legge quadro n. 390 del 1991 che prescriveva alle regioni di adottare proprie normative, sostanzialmente caratterizzate da un’omogeneità delle provvidenze, come borse di studio, alloggi per gli studenti, servizi di ristorazione, ecc. Questa è l’impostazione del nostro ordinamento in tema di formazione. Possiamo dircene soddisfatti? In parte sì, in parte no. La strada è giusta, ma le risorse scarseggiano e, come anche nel sistema sanitario nazionale, ci sono ancora sperequazioni tra regione e regione. La stretta collaborazione con i singoli atenei, tra cui ovviamente c’è Roma Tre, nonché la partecipazione responsabile degli studenti è fondamentale. La nuova legge regionale del Lazio prevede la loro presenza negli organi direttivi di Laziodisu, l’ente regionale per il diritto allo studio e delle Adisu dei singoli atenei. Occorre lavorare insieme per rendere il diritto allo studio la vera strada per la piena maturazione degli studenti e la crescita del Paese.


La nuova residenza e la rete dei laureati Due iniziative di collaborazione tra l’Ateneo e l’Adisu di David Meghnagi Gli studenti di Roma Tre avranno presto una casa dello studente, con 400 posti letto. Decisiva per la sua piena utilizzazione sarà la collaborazione tra l’Ateneo e l’Adisu. La prima parte di questa importante sfida è stata finalmente vinta o quasi. Resta ora la parte più delicata e complessa che dovrà rendere la futura resiDavid Meghnagi denza uno spazio vivo in cui si produca e si fruisca cultura. Solo se vinciamo questa seconda e più difficile sfida, la casa dello studente potrà evitare i rischi del degrado, come è purtroppo accaduto in molte altre sedi universitarie che di studentesco hanno conservato solo il fatto che molti studenti dormono lì. Occorre dunque che sin d’ora gli organi di Ateneo e gli studenti tutti, perché il problema riguarda tutti gli studenti e non solo quelli che ci andranno a vivere, discutano e approfondiscano le forme attraverso cui l’Ateneo renderà possibile questo salto di qualità. Un aspetto importante della vita universitaria è la capacità di saldare il percorso di formazione e di frequenza universitaria con la fase successiva. La legislazione sul tirocinio da sola non basta a garantire questo delicato passaggio. Per

La mensa dell'Adisu di Via della Vasca Navale

molti laureati il rischio è di precipitare in una situazione di anomia sociale e culturale. Soprattutto nelle Facoltà umanistiche molti studenti dopo aver terminato il proprio percorso formativo, si iscrivono a nuovi corsi proprio per sfuggire a questa loro condizione insopportabile, col risultato però di rimandare a tempi indeterminati le scelte più decisive. La casa dello studente potrebbe diventare uno degli spazi per sviluppare una riflessione condivisa su come sviluppare al meglio le potenzialità dei nostri studenti durante la loro vita universitaria e nel passaggio alla vita lavorativa. Sarebbe inoltre opportuno promuovere e sostenere iniziative e progetti, come quello dell’Associazione laureati, volti a costituire una rete di coloro che si sono laureati nel nostro Ateneo perché mettano a disposizione dei nostri studenti il proprio sapere e le proprie esperienze nel mondo del lavoro. I processi di identificazione sviluppati dagli studenti nel proprio percorso di studi a Roma Tre ne potrebbero uscire rafforzati, trovando un canale di mediazione, e potrebbero divenire una risorsa per il nostro Ateneo e per gli studenti alle prese con le sfide del mondo del lavoro. Da Roma Tre sono usciti molti studenti brillanti che hanno fatto carriera. Non si vede perché il loro rapporto con il nostro Ateneo debba interrompersi ora che non ne fanno più parte. L’Ateneo in collaborazione con l’Adisu potrebbe farsi carico di individuare le forme organizzative e culturali che possano rendere possibile la continuità di questo legame. In molti paesi esteri e in alcuni atenei italiani di prestigio si fa già. Non si vede perché non debba essere fatto qui da noi. Il progetto può essere portato a termine se è largamente condiviso dagli studenti. Sono loro a dover sentire che i presupposti e la reciprocità di questa iniziativa hanno come scopo qualcosa che li oltrepassa e che apparterrà agli studenti che li seguiranno. Le iniziative che in tal senso sono fallite, difettavano di questo ingrediente.

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Procedure telematiche I successi dell’informatizzazione in Ateneo di Roberto Maragliano e Alessandro Masci Il modulo ISEEU è l’autodichiarazione richiesta allo studente universitario che, all’atto dell’iscrizione, dà conto della situazione patrimoniale del nucleo familiare di appartenenza. Fino all’anno accademico 2008/2009 Roma Tre si limitava a comunicare l’elenco dei centri di assistenza fiscale (C.A.F.) convenzionati con l’università, ai quali gli interessati erano invitati a rivolgersi per la compilazione; i dati relativi venivano successivamente inseriti nel data base dell’università, tramite la trasmissione dei dati da parte dei centri o direttamente dagli studenti. Dal 2008/2009 è stato istituito, sperimentalmente, un servizio di assistenza autonomo, gestito dall’università stessa, per la compilazione del documento. Il servizio fa capo alla Piazza telematica, dove, in orari stabiliti e pubblicizzati via web, gli studenti interessati possono predisporre la compilazione delle dichiarazioni, fruendo dell’assistenza di borsisti preparati ad hoc e sveltendo così, attraverso l’eliminazione di un passaggio, il processo di caricamento dei dati. Alla chiusura del periodo ufficiale delle immatricolazioni (22 settembre/5 novembre 2008) quasi un quinto delle dichiarazioni (precisamente il 18%) risultavano pervenute dalla Piazza telematica. Non solo: per molti l’approccio con i borsisti, studenti

La Piazza telematica di Ateneo

senior, si è rivelata un’occasione importante per familiarizzare con alcuni meccanismi impliciti alla comunicazione in ambito universitario e ricavarne indicazioni utili per il proprio futuro percorso universitario. Successivamente, e fino al 2 aprile 2009, i termini per la presentazione dei moduli sono stati riaperti, per accogliere gli studenti immatricolati alla laurea magistrale dopo il 5 novembre e per recuperare dati non trasmessi dai centri di assistenza fiscale. In questa occasione, avendo avuto il servizio offerto dalla Piazza telematica un battesimo positivo, è stato possibile comunicarne più capillarmente e sistematicamente l’esistenza. A conclusione di questa seconda fase il 60% dei documenti è risultato pervenire dalla Piazza telematica. Nel suo complesso, l’operazione ha portato significativi vantaggi: dalla riduzione delle file e degli intasamenti agli sportelli della segreteria studenti alla semplificazione dei processi di incameramento e controllo dai dati da parte degli uffici. Non ultimo il fatto che il primo impatto degli iscritti con l’Ateneo Roma Tre (l’unico, fin qui, ad aver istituito un tale servizio) è stato segnato dal rapporto con una tecnologia avanzata e con un adeguato sostegno umano.

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Oltre la laurea FIxO: formazione e innovazione per l’occupazione di Francesca Rosi L’Università degli Studi Roma Tre guarda ormai da anni, con attenzione e sensibilità, al tema del rapporto fra Università e mondo del lavoro. Il nuovo scenario normativo, esplicitato prima dalla Legge 196/97 e dal relativo regolamento di attuazione introdotto dal D.M. 142/98 con il quale le università sono identificate quali soggetti che possono promuovere le attività di tirocinio e, successivamente, dalla Legge 30 (Legge Biagi), assegna alle Università il compito di sostenere i propri laureati nella fase di inserimento nel mercato del lavoro. Alla luce di ciò le Università sono chiamate a sviluppare competenze in materia di intermediazione al lavoro, con l’obiettivo di offrire risposte adeguate di fronte alle mutate esigenze di un mercato caratterizzato sempre più da dinamicità e flessibilità. Questo nuovo scenario legislativo, economico e sociale ha spinto l’Università Roma Tre a cogliere l’opportunità offerta dalla Direzione generale per le politiche per l’orientamento e la formazione del Ministero del Lavoro e della previdenza sociale, aderendo al Programma nazionale FIxO - Formazione & Innovazione per l’Occupazione. FIxO ha coinvolto 61 università italiane in un’azione di sistema tesa a incrementare l’occupazione e l’occupabilità dei giovani laureati attraverso lo sviluppo dei servizi universitari di placement, l’integrazione tra ricerca scientifica e il trasferimento di innovazione tecnologica al sistema delle imprese. Il 9 ottobre 2007 Roma Tre ha firmato un protocollo di intesa con il Ministero del Lavoro, della salute e delle politiche sociali nel quale sono stati definiti gli impegni reciproci per la più efficace realizzazione delle azioni del Programma FIxO; il 18 marzo 2008 Roma Tre ha sottoscritto un protocollo operativo con l’agenzia tecnica del Ministero del Lavoro, Italia Lavoro S.p.a., nel quale sono state individuate nel dettaglio le attività da realizzare. La Divisione politiche per gli studenti, e in particolare gli Uffici Stage e tirocini e Job placement, sono stati impegnati, sotto il coordinamento della prof. Maria Rosaria Stabili, Prorettore con delega alle Politiche per gli studenti dal 2004 al 2008, nella realizzazione del programma e si sono avvalsi dell’assistenza tecnica di Italia Lavoro. In particolare nell’ambito dell’azione 1 del programma (promozione e sviluppo dei servizi di placement universitario finalizzati all’incremento dell’occupabilità e dell’occupazione) è stata effettuata l’analisi della struttura organizzativa e proposta, nella progettazione di dettaglio, una riorganizzazione del servizio di placement di Ateneo con l’inserimento di figure professionali da dedicare ai servizi alle persone e alle imprese, all’implementazione di un sistema di monitoraggio dei servizi erogati e alla realizzazione di attività di benchmarking. In questa ottica sono stati attivati due nuovi servizi di placement: Servizio alle persone - potenziamento dei servizi di accoglienza e informazione rivolti ai laureati; - offerta di un servizio di orientamento individuale.

Servizi alle imprese - creazione di un percorso di accounting, mappatura e segmentazione del sistema locale delle imprese, rilevazione dei fabbisogni professionali delle aziende presenti sul territorio; - potenziamento dei servizi di incrocio domanda e offerta di lavoro, attraverso preselezioni ad hoc. Nell’ambito della linea 2 del programma (sperimentazione di percorsi assistiti di accompagnamento al lavoro di giovani in uscita dall’università attraverso la promozione e il sostegno di tirocini formativi finalizzati all’incremento dell’occupabilità e dell’occupazione) è stato fissato un obiettivo di 300 tirocini di inserimento lavorativo (TIL) che è stato ampiamente raggiunto. I TIL hanno coinvolto 119 aziende private e 28 enti pubblici, coprendo diverse aree geografiche, di studio e settori aziendali. Attualmente è in corso il monitoraggio che determinerà l’indice di placement delle azioni realizzate.



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Ultim’ora da Laziodisu di Salvatore Buccola È trascorso circa un anno dal mio insediamento a Direttore Amministrativo dell’Adisu Roma Tre, avvenuto proprio in concomitanza del varo della nuova legge regionale di riforma del diritto agli studi universitari nel Lazio. Sin dai primi momenti di lavoro mi sono reso conto che ogni azione doveva essere orientata a realizzare quella centralità dello studente indicata dall’intera normativa. Giorno dopo giorno, pur tra non poche difficoltà e con l’impegno di tutto il personale amministrativo, ci siamo attivati per una più efficiente organizzazione dei nostri uffici che, ol-

rubriche

L’Adisu Roma Tre è una delle cinque strutture – cinque quante sono le università pubbliche del Lazio – che fanno parte dell’ente regionale per il diritto allo studio, Laziodisu. Ha sede in via della Vasca Navale 79, tel. 06.5534071 ed eroga i seguenti servizi: Servizi a concorso. Si tratta di servizi, la cui fruizione è subordinata al possesso di specifici requisiti di reddito e merito. I bandi di concorso definiscono criteri e modalità e vengono pubblicati annualmente sul portale dell’ente all’indirizzo: www.laziodisu.it. - Borse di studio - Servizi abitativi - Contributi monetari alloggio - Contributi mobilità internazionale U.E. - Premi di laurea

tre al dato materiale della ricerca del miglioramento della qualità dei servizi erogati, riuscisse a perseguire l’ambizioso traguardo di costituire un legame di fiducia tra noi e i “nostri” studenti, di essere davvero una struttura di servizio, consapevoli dell’importanza sostanziale che riveste la stagione dell’apprendimento universitario nella vita di ogni persona. Qui di seguito ho fornito una schematica indicazione dei servizi che l’Adisu Roma Tre offre. Vi aspettiamo, dunque, per farci conoscere meglio e per accogliere i vostri preziosi suggerimenti. Servizi rivolti alla generalità degli studenti. Si tratta di servizi rivolti agli studenti iscritti presso le università e le altre istituzioni che hanno sede legale nella Regione Lazio e rilasciano titoli di studio aventi valore legale. - Ristorazione - Orientamento formativo - Supporto alle attività culturali e sportive - Attività a tempo parziale - Agevolazioni finalizzate all’attuazione di programmi universitari per la mobilità degli studenti - Sussidi straordinari per studenti in condizioni di sopravvenuto disagio economico - Fornitura di ausili e supporti specialistici per studenti disabili - Contributi iniziative culturali Agenzia degli affitti

Non tutti sanno che…

Mille e una vela per l’Università In merito all’articolo pubblicato sul precedente numero di Roma Tre News, Mille e una vela per l'Università. Gli atenei si sfidano per mare nella regata annuale promossa da Roma Tre, si precisa che il progetto barca a vela nasce nel 2005 a Roma da una proposta dei professori Massimo Paperini, Paolo Procesi e Maurizio Ranzi e che le immagini pubblicate sul n. 1/2009 fanno parte di un servizio fotografico realizzato dagli studenti di architettura Simone Mieli e Valeria Perna.

Orientarsi a Roma Tre 2009 Il 23 luglio prossimo si svolgerà, presso la sede del Rettorato, si svolgerà la IX edizione della manifestazione Orientarsi a Roma Tre, un appuntamento dedicato agli studenti degli ultimi anni delle scuole secondarie superiori durante il quale verrà presenta l’offerta didattica del prossimo anno accademico. L’iniziativa si inserisce nel quadro degli interventi che Roma Tre, anche grazie alla collaborazione delle Scuole, sta realizzando sui temi dell’orientamento, con l’obiettivo di favorire una scelta consapevole da parte degli studenti per il loro inserimento nella vita universitaria. La giornata Orientarsi a Roma Tre prevede, a partire dalle ore 9.30 e per tutto l’arco della mattinata, l’illustrazione delle Facoltà e dei Corsi di Laurea da parte dei rispettivi presidi e docenti. Si prevedono inoltre una serie di punti informativi ai quali gli studenti potranno rivolgersi per avere chiarimento sull’organizzazione didattica, i servizi, le modalità di accesso ai corsi di studio. Presso gli stessi punti potranno essere ritirate guide e materiale illustrativo delle varie Facoltà.


Tra parole e cinema Incontro con Niccolò Ammaniti

Abbiamo incontrato Niccolò Ammaniti a Taranto, in occasione del primo appuntamento della rassegna letteraria Penne a sonagli, promossa dall’Associazione Punto A Capo. Lo scrittore romano, classe 1966, si è raccontato nella veste di scrittore prestato al cinema. Due dei suoi romanzi di maggior successo Io non ho paura (Einaudi, 2001) vincitore del Premio Viareggio e Come Dio comanda (Mondadori, 2006) vincitore del Premio Strega, grazie alla collaborazione Niccolò Ammaniti con il regista Gabriele Salvatores, sono divenuti anche film apprezzati dal pubblico e dalla critica. La trasposizione cinematografica di Io non ho paura ha vinto tre Nastri d’argento e un David di Donatello, è stata candidata all’Oscar ed è stata riconosciuta di interesse culturale nazionale dalla Direzione generale per il cinema del Ministero per i Beni e le attività culturali. Dal suo racconto lungo L’ultimo Capodanno dell’umanità è nato L’ultimo Capodanno del regista Marco Risi (1998). È un fiume in piena Niccolò Ammaniti quando parla del suo lavoro di scrittore e sceneggiatore: «La differenza sostanziale – dice – è che quello dello scrittore è un lavoro molto solitario, anche il rapporto con il tuo editor è relativo». Spiega che «per un editore oggi fare un libro costa talmente poco che molti si buttano, lo pubblicano, vedono cosa succede sul mercato e solo a quel punto decidono di spingerlo, investendo in pubblicità. Con il cinema è tutto molto diverso – continua – girano più soldi, le cose si fanno e pensano in modo più concreto. Non hai la stessa libertà che hai nella stesura di un libro. E poi non sei solo. Lavori sempre a contatto con gli altri, ogni singola persona collabora con le sue specializzazioni alla realizzazione di una storia che prima non c’era». Difficile non pensare che per uno scrittore tutta questa gente che ruota attorno alla trasposizione cinematografica della sua “creatura” possa rappresentare un’invasione di campo, ma è lo stesso Ammaniti a fugare ogni dubbio: «quando finisco un libro sento di averlo consumato, di aver già scritto tutto ciò che avrei voluto dire per cui, nel

momento in cui mi viene chiesto di scriverne la sceneggiatura, faccio un lavoro di adattamento. Solo due volte ho scritto sceneggiature ex novo, a prescindere dai miei libri. In realtà ogni volta penso sarà l’ultimo soggetto che scrivo, così quando mi chiamano un regista o un produttore dico a me stesso “anche no” …poi – ride – mi dicono che mi pagano e allora penso “si può fare” – e ride ancora». Una volta finito il libro, allora, sono tutti lì ad aspettare che tu scriva il copione per farne un film? «In realtà accade una cosa tremenda: mentre scrivi la sceneggiatura sei il re indiscusso, poi quando consegni il “bambino” automaticamente smetti di esistere e se mi presento sul set avverto un certo fastidio attorno a me. Molti pensano io abbia addirittura collaborato alla scelta dei protagonisti dei film». «Molto dipende dai registi – spiega – in Marco Risi ho trovato una persona desiderosa di insegnare il cinema. Così l’ho affiancato in tutte le fasi della realizzazione del film, dal girato al montaggio. Salvatores è diverso, più orientato a una netta distinzione dei ruoli. Io a scrivere la mia sceneggiatura e lui poi a fare il suo film». Tutti e tre i film realizzati dai suoi libri gli hanno dato soddisfazione. Non cita mai l’adattamento di Branchie, il suo primo libro, un flop al botteghino. In generale a proposito delle trasposizioni cinematografiche di romanzi dice «esistono due diverse possibilità, vai al cinema dopo aver letto un libro ed è come se stessi assistendo alla rappresentazione figurata di ciò che un lettore X ha immaginato di quel libro. La sensazione è sgradevole, perché tu il tuo film te lo sei già creato in mente quando leggevi il libro. L’altra eventualità, drammatica, è che tu veda un film e poi decida di leggere il libro. A quel punto sei fregato, perché per quanto possa sforzarti di dar sfogo alla tua immaginazione nel dare un volto ai personaggi, ecco che prepotentemente ti appaiono col viso dell’attore che li ha interpretati al cinema». E poi conclude «ogni libro appartiene all’autore per il 50% e per l’altra metà è di ciascuno dei suoi lettori. Questa è la forza della letteratura, ciò che la rende superiore al cinema».

recensioni

di Mariangela Carroccia

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Quale cultura nell’Italia in crisi? Baricco propone finanziamenti pubblici solo a scuola e tv. Elogi… e critiche di Rosa Coscia In tempi di crisi ecogrammi formativi, nomica, in Italia si è che attraverso la teletornati a parlare di fivisione sono in grado nanziamenti alla culdi raggiungere anche tura. le persone più lontane A riaccendere il die isolate, e la formabattito è stato Aleszione dei giovani musandro Baricco, col sicisti, sono tutti amsuo intervento su Rebiti dove è necessario pubblica del 24 febil sostegno delle istibraio scorso. Nel suo tuzioni pubbliche…». articolo, l’autore toriDella stessa opinione nese scriveva che, con anche Salvatore Acla recessione in corso, cardo, violinista e alnon è più possibile fitrettanto importante nanziare massicciadirettore d’orchestra. mente coi soldi pubCi sono, poi, le critiblici teatri stabili, fe- Un’immagine della rappresentazione dell’Aida di Franco Zeffirelli al teatro che. Sergio Escobar, stival musicali e fon- Massimo di Palermo (30 novembre 2008) direttore del Piccolo dazioni a scopo cultuTeatro, primo teatro rale, giacché si regipubblico finanziato strano troppi sprechi. Queste realtà dovrebbero rivolgersi dallo Stato, non riuscendo a reprimere il suo dissenso, dead imprenditori privati, da incentivare, magari, ad occufiniva le tesi di Baricco «sconclusionate». Anche Luca parsi di cultura con opportune agevolazioni fiscali. Il deBarbareschi attaccava: «Ma proprio Baricco che ha fatto naro dello Stato, invece, dovrebbe concentrarsi su scuola e teatro a botte di sovvenzioni?». Lella Costa faceva notare televisione, perché attraverso questi due canali oggi si forche «fare uno spettacolo non è come fare un libro». mano maggiormente i giovani e la cultura media italiana. I costi di stampa e distribuzione di un libro e quelli di uno Le reazioni alle sortite dello scrittore non si sono fatte atspettacolo o di un film sono, infatti, alquanto differenti. Lo tendere. Per replicare si sono scomodati i grossi nomi deldiceva pure Paolo Sorrentino, regista, che senza finanziala musica, del teatro e del cinema più impegnato, ma anmenti statali non sarebbe mai riuscito a girare Il Divo. Ma che politici e rappresentati del mondo accademico. Tutti devono cambiare anche le regole del sostegno, che vanno sembrano concordi almeno su due punti. In primis, in nesliberate dalla politica. D’accordo su questo Dario Fo. Agsun paese al mondo teatro e musica riescono a sopravvivegiungeva però: «sul finanziamento non si discute, anzi, in re senza sovvenzioni statali. In secondo luogo, occorre che Italia la percentuale del PIL alla cultura è dieci volte infele regole di sovvenriore alla media eurozionamento siano pea». cambiate e riformate. Venerdì 27 febbraio, Per il resto, le opinioEugenio Scalfari rini sono differenti. spondeva a Baricco Già il giorno succescon un lungo articosivo, sulla stessa telo, ancora su Repubstata, Anna Benedettiblica. In sostanza ni raccoglieva pareri Scalfari ammoniva illustri come quello di che, sebbene la libera Riccardo Muti, che iniziativa dei privati riconosceva nella rinon possa essere neflessione di Baricco gata, lo Stato ha l’obmolti punti che egli bligo di «tutelare il stesso sostiene da patrimonio culturale tempo. In particolare, della società che lo dichiarava: «la cenesprime». tralità della scuola fin Il 22 aprile scorso, la dalla tenera età, il po- Tra la terra e il cielo di Giorgio Barberio Corsetti, all’Auditorium Parco della nostra Università ha tenziamento di pro- Musica di Roma (19 novembre 2008) ospitato un convegno


dal titolo Una nuova politisuo favore vanno la qualica culturale dello Stato, tà e il volume di occupaorganizzato in collaborazione che genera, l’assenzione con la Fondazione za di concorrenza dall’eRomaeuropa. È stata una sterno, un moltiplicatore ulteriore occasione di ritrodel PIL relativo alla spesa vo e riflessione per gli dedicata ad esso con miesponenti del campo della nori leakage di altri. In semusica (Bruno Cagli, precondo luogo, di questi sidente Accademia naziotempi, «è illusorio ritenere nale di Santa Cecilia), del che vi possa essere un ficinema (Giuliano Montalnanziamento privato sostido, regista, sceneggiatore e tutivo dei tagli operati dal attore), dell’editoria (Carsettore pubblico». Il conmine Donzelli, direttore vegno deve essere, allora, editoriale di Donzelli Edi«un richiamo alla respontore Srl), dei festival (Fasabilità di tutti nel mantebrizio Grifasi, direttore genere al più alto livello posnerale e artistico Fondaziosibile l’attività più demane Romaeuropa arte e cul- Alessandro Baricco e Eugenio Scalfari sono stati due dei principali terializzata tra quelle che tura), dei musei (Maria Vit- protagonisti del dibattito sui finanziamenti pubblici alla cultura formano un’economia». toria Marini Clarelli, diretGiro e Croppi hanno latore GNAM), della regia mentato la mancanza di (Daniele Abbado, direttore una reale e diretta possibiartistico del Consorzio I lità di gestione dei fondi Teatri), delle manifestaziorelativi alla cultura e ai beni europee (Monique Veauni artistici (così importanti te, amministratore delegato in Italia e a Roma, in partidi Palazzo Grassi), del pacolare) da parte delle istitrimonio artistico-culturale tuzioni di cui sono a capo, (Vittorio Emiliani, scrittore non mancando di rivolgere e giornalista), dell’innovaqualche rimprovero a chi, zione tecnologica (Carlo prima di loro, avrebbe conFornaro, direttore Relaziotribuito al raggiungimento ni esterne Telecom Italia). della triste situazione atLe istituzioni del settore tuale. Di conseguenza, sesono state rappresentate, a livello nazionale, dal Sottosecondo Croppi, l’apertura agli interventi dei privati risultegretario ai Beni e alle attività culturali Francesco Maria rebbe, in alcuni casi, l’unica possibilità di rimediare in Giro e, a livello locale, dall’assessore alle Politiche cultutempi brevi al degrado di alcune aree archeologiche romarali e alla comunicazione del Comune di Roma Umberto ne, per esempio. Croppi. Hanno avuto voce anche economisti come Paolo Sulla necessità dei finanziamenti anche privati è sembraLeon, docente di Economia pubblica, e Marco Causi, deto d’accordo Cagli, il quale ha criticato, però, proprio il putato e docente di Economia politica, entrambi afferenti ricorso ad essi solo come «ancora di salvataggio». alla nostra Università. «L’incoraggiamento a chi aiuta la cultura non sembra da Il Rettore Guido Fabiani ha aperto l’evento esprimendo noi in linea con quello che si fa in tanti altri paesi all’asoddisfazione per la possibilità di parlare dei problemi vanguardia». della cultura proprio nel luogo ad essa per eccellenza deMolti i suggerimenti per portare rimedio al disagio che il putato, l’Università. mondo della cultura sta vivendo. Come le 10 proposte di A seguire, il senatore Giovanni Pieraccini, Presidente della Marco Causi. In polemica con Baricco, Causi ha delineato Fondazione Romaeuropa, ha introdotto il tema centrale la possibilità di un contributo sulla pubblicità televisiva da dell’incontro, ovvero la necessità di una riforma dell’interdedicare al resto del settore culturale, mentre ha fatto provento statale nella cultura, che tutti hanno mostrato di riprio il richiamo dello scrittore torinese ad un rinnovamenconoscere. Tuttavia, «è evidente che lo Stato deve conserto della formazione alle diverse forme della cultura nella vare un ruolo importante nella politica culturale». scuola. Più in generale, dal convegno è emersa l’esigenza Della stessa opinione è Paolo Leon che, nella sua reladi progettare una nuova politica culturale, che favorisca le zione introduttiva, ha giustificato questa convinzione a collaborazioni e i partenariati tra Stato, regioni ed enti lopartire da riflessioni economiche. In primo luogo, ha cali, soprattutto comuni, in una visione progettuale d’insuggerito di guardare alla attuale crisi economica come tervento pluriennale. un’opportunità. In tali circostanze, infatti, «un aumento C’è da sperare che di tutto questo si continui a discutere di spesa pubblica a fini anticiclici è necessario, indipenancora, perché senza cultura non esiste civiltà. E dialogare dentemente dal livello del deficit o del debito pubblico». su quale sia il modo migliore per diffonderla e salvaguarE la cultura è uno dei settori più indicati per riceverlo. A darla è necessario.

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Corti d’autore contro la crisi Ritroviamo fiducia con Olmi, Salvatores e Sorrentino di Rosa Coscia Per Fiducia. Questo è il nome del progetto cinematografico, sostenuto da Intesa Sanpaolo, che ha visto coinvolti tre grandi cineasti: Ermanno Olmi, Gabriele Salvatores e Paolo Sorrentino. Entusiasti di collaborare insieme, nei tre rispettivi cortometraggi hanno cercato di portare a termine la missione affidata loro dall’ente sponsorizzatore: rispondere al pessimismo dilagante nel momento di crisi attuale con un’iniezione di fiducia nel pubblico italiano. Ognuno l’ha fatto a suo modo, con storie diverse e poetiche differenti. A partire dal 30 marzo e per tre settimane, una ciascuno, il grande pubblico ha potuto vedere i risultati ottenuti, sia al cinema, nelle versioni integrali della durata di dieci minuti, che in tv, in edizioni da tre minuti o da novanta secondi. Sulla rete i cortometraggi sono disponibili su www.perfiducia.com. Con Il premio, Olmi racconta la storia vera di due studentesse (che nel film interpretano se stesse) premiate per una brillante invenzione scientifica. Qui termina la cronaca e continua la finzione. Sul treno che le riporta a casa, le ragazze si imbattono in un personaggio famoso e autorevole che offre loro un insperato finanziamento per realizzare il prototipo. Nella realtà, Intesa Sanpaolo si sta interessando all’invenzione delle protagoniste e potrebbe davvero realizzare il loro sogno! La fiducia che racconta Olmi è, dunque, quella “nei” e “dei” giovani. Stella, di Salvatores (soggetto di Valter Lupo), è la storia di una bambina che, dopo aver conosciuto gli stenti peggiori, ormai trentenne dei giorni nostri, trova il suo riscatto in un inaspettato e prestigioso posto di lavoro. Nel raggiungimento del successo, la protagonista conoscerà il valore della solidarietà con un’altra donna. Ne La partita lenta, Sorrentino ha filmato al rallentatore una partita di rugby e i brevi momenti che la precedono, interamente in bianco e nero e senza dialoghi. Le parole rischiavano di farlo “cadere nella retorica”, dice. Il regista cerca di raccontare come la fiducia e la voglia di arrivare ad un traguardo spesso nascano dalla fatica, dalle difficoltà, dalla caparbietà e anche dallo spirito di gruppo. Olmi, parlando di sé e dei suoi colleghi, correttamente afferma: «siamo tre generazioni distinte, che i nostri corti rispecchiano». Al periodo che stiamo vivendo hanno approcci dif-

Paolo Sorrentino, Ermanno Olmi e Gabriele Salvatores alla presentazione di PerFiducia

ferenti. Il più anziano, Olmi, sembra anche il più positivo, sostenendo che la crisi va accettata: «l’importante è ricominciare». Salvatores esterna un maggior disagio, ammettendo che «è difficile raccontare il nostro paese, così come lo è riconoscerlo e riconoscersi». Sorrentino arriva addirittura all’afasia. In ogni caso, il progetto è stato una «occasione per sperimentare, grazie ad un budget molto buono», ha commentato Salvatores. Intesa Sanpaolo ha destinato ad esso una quota delle risorse stanziate per la comunicazione commerciale: lo scopo, oltre che pubblicitario, voleva essere quello di far ascoltare la voce delle eccellenze in campo artistico e diffondere insieme a loro incoraggiamento e fiducia. A dire di Sorrentino, «il committente ha fatto sì che tutto fosse contrassegnato da una estrema libertà». Ad una iniziativa così non si può che plaudire. Soprattutto se permette di raggiungere vette d’intensità espressiva come quella del regista partenopeo. Sulla effettiva possibilità che il pubblico italiano si identifichi nei casi narrati dagli autori dei film, rimane qualche dubbio. L’ottimismo, in particolare nei corti di Olmi e Salvatores, ha il sapore di un “partito” preso su richiesta. Tuttavia, anche solo l’esistenza del progetto è significativa: la fiducia sorge già nel momento in cui qualcuno crede che nella cultura val la pena investire, e non solo per il mero guadagno.




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