Roma Tre News 2/2010

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P Periodico eriodico di Ateneo

Anno XII, n. 2 - 2010

L’importanza di chiamarsi zinco L’Ara Pacis di Augusto

Tae e kai

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Sommario Editoriale

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Primo piano Tae e kai Siamo complicati consumatori di cibo di Paolo Apolito Dalla fattoria alla tavola Il sistema giuridico europeo della filiera agroalimentare di Giandonato Caggiano 2800 kilocalorie pro capite! Se la sicurezza alimentare non è più solo una questione di disponibilità di cibo di Pasquale De Muro La cena di Trimalcione Cibo e parola in Petronio di Mario De Nonno L’etichetta a tavola: dai romani al Galateo di Giovanni Della Casa di Maria Vittoria Marraffa L’Ara Pacis di Augusto Comunicare attraverso le immagini della natura di Giulia Caneva L’importanza di chiamarsi zinco L’insospettabile ruolo di un metallo nell’alimentazione di Marco Colasanti e Daniela Vona Sei davvero sicura di non volere un’altra fetta di torta? Sulle implicazioni sociali del mettersi a dieta di Laura Terragni Il menù dello studente Come si mangia nelle mense universitarie di Gianpiero Gamaleri Corpo e cibo Quell’insostenibile pesantezza dell’Essere di Gessica Cuscunà Campi energetici I biocarburanti: un altro frutto della terra di Ylenia Curci La logica del biologico Alla ricerca (disperata) della qualità di Valentina Cavalletti Misticanza Le storie, le parole, i riti e i ricordi che fanno da ingredienti ai menù di famiglia di Federica Martellini Il cibo è ciò che siamo Dieta mediterranea: croce e delizia di Giacomo Caracciolo «Il cinema è un pezzo di torta» Un secolo di storie tra la tavola e lo schermo di Ugo Attisani Il cibo nei film di animazione ...una questione di catena alimentare di Michela Monferrini Quando la tecnologia esalta i sapori Dalle piastre di sale ai crudi nordici, dal sottovuoto alla riscoperta dei prodotti selvaggi di Indra Galbo Non solo Cina Mappa delle cucine straniere a Roma di Michela Monferrini Le nuove frontiere del pet food Ma ancora una volta la qualità è più importante della quantità di Irene D’Intino

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Rubriche

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Popscene Ultim’ora da Laziodisu Non tutti sanno che…

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La vita della natura morta Da Caravaggio alla Pop Art, un percorso sulle tracce della natura morta di genere alimentare di Michela Monferrini FOOD, inc. La verità su quello che abbiamo nel piatto di Marzia Pitirra Settimana della biodiversità Il cibo incontra la macchina da presa di Martina Micillo Roma wine festival Tanti produttori e tante iniziative per l'appuntamento più importante della capitale sul vino di Indra Galbo

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Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre Anno XII, numero 2/2010

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Direttore responsabile Anna Lisa Tota (professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi)

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Coordinamento di redazione Alessandra Ciarletti (Resp. Ufficio orientamento) Federica Martellini (Ufficio orientamento) Divisione politiche per gli studenti r3news@uniroma3.it Redazione Ugo Attisani (Ufficio Job Placement), Giacomo Caracciolo (laureato del C.d.L. in Giurisprudenza e giornalista pubblicista), Valentina Cavalletti (Ufficio orientamento), Gessica Cuscunà (Ufficio orientamento), Irene D’Intino (studentessa del C.d.L. in Competenze linguistiche e testuali per l’editoria e il giornalismo), Indra Galbo (laureato del C.d.L. in Scienze politiche), Maria Vittoria Marraffa (studentessa del C.d.L. in Storia e conservazione del patrimonio artistico), Elisabetta Garuccio Norrito (Resp. Divisione politiche per gli studenti), Michela Monferrini (laureata del C.d.L. in Lettere), Monica Pepe (Resp.Ufficio stampa), Camilla Spinelli (studentessa del C.d.L. in Comunicazione nella società della globalizzazione), Fulvia Vitale (studentessa del C.d.L. in Giurisprudenza) Hanno collaborato a questo numero Paolo Apolito (docente di Antropologia culturale), Filippo Belisario (Regione Lazio Agenzia regionale parchi), Salvatore Buccola (direttore amministrativo Adisu Roma Tre), Giulia Caneva (docente di Botanica e di Etnobotanica ed etnozoologia), Giandonato Caggiano (docente di Diritto dell’unione europea), Marco Colasanti (professore ordinario di Biologia cellulare e responsabile unità operativa Roma Tre progetto ZINCAGE), Ylenia Curci (dottoranda in Economia e metodi quantitativi), Pasquale De Muro (docente di Economia dello sviluppo umano e direttore del Master in Human Development and Food Security), Mario De Nonno (docente di Letteratura latina e direttore del Dipartimento di Studi sul mondo antico), Gianpiero Gamaleri (professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Presidente Adisu Roma Tre), Massimo Margottini (docente di Didattica generale e delegato del Rettore per le politiche di orientamento), Martina Micillo (studentessa del C.d.L. in Italianistica), Marzia Pitirra (studentessa del C.d.L. in Lettere), Carlo Alberto Pratesi (docente di Marketing e di Comunicazione d’impresa), Roberto Pujia (docente di Filosofia del linguaggio e della comunicazione e delegato del Rettore per il coordinamento e l’attuazione del processo di Bologna), Laura Terragni (Professore Associato presso la Facoltà di Health, Nutrition and Management dell’Akershus University College, Norvegia), Daniela Vona (biologa nutrizionista, specialista in Scienze dell’alimentazione) Immagini e foto Ap©, Filippo Belisario, Pasquale De Muro, Indra Galbo, Maurizio Ranzi, Andrea Severi ©, www.circolosardegna.brianzaest.it/le__foto.htm

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Progetto grafico Magda Paolillo Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma 06 64561102 - www.conmedia.it Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico.

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Impaginazione e stampa Tipografia Gimax di Medei Massimiliano Via Valdambrini, 22 - 00058 Santa Marinella (RM) - Tel. 0766 511644

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Orientamento «A family affair» Merito e orientamento nel sistema formativo italiano di Massimo Margottini

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Incontri Don Pasta. Tom Waits beve Caffè Quarta! di Alessandra Ciarletti Maurizio Ranzi. La cucina che risveglia le nostre memorie di Irene D’Intino

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Recensioni 10

Reportage Natura protetta e cibi I parchi custodi della biodiversità alimentare e rurale di Filippo Belisario La Faggeta: un nuovo Centro studi e ricerche di Ateneo ad Allumiere di Giacomo Caracciolo

Progetto UNICA Roma Tre e le università delle capitali europee di Roberto Pujia Innovation Lab Formazione integrata e scambi con le imprese di Carlo Alberto Pratesi

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In Copertina Guaranà, gli occhi degli dei Finito di stampare settembre 2010 Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998


Il cibo degli dei di Anna Lisa Tota

In questo numero abbiamo scelto di occuparci di cibo: come mangiamo? Cosa facciamo quando ci alimentiamo? Cosa rappresenta il cibo nella società contemporanea? I piani da intersecare sono apparsi da subito molteplici e complessi e allora abbiamo voluto iniziare da un cibo un po’ speciale: gli occhi degli dei, ovvero il guaranà. Forse in molti conosciamo questa bevanda o queste pastiglie naturali che ci sostengono quando dobbiamo potenziare la nostra capacità di concentrazione, ma avevate mai visto prima d’ora questi frutti un po’ speciali? Avevate mai avuto la netta sensazione che il cibo vi guardasse, anzi vi interrogasse? Il

“Il cibo è un potente ordinatore culturale. Attorno all’alimentazione si strutturano una serie di prescrizioni sociali forti (su come, quando, cosa, con chi mangiare) che sono successivamente in grado di costruire e legittimare appartenenze sociali o di fondare processi di esclusione” guaranà è nella cultura degli indios l’equivalente della nostra ambrosia di omerica memoria. È un cibo spirituale, un elisir di lunga vita, una medicina capace di far vedere meglio ciò che ci circonda, proprio perché la pianta stessa è dotata di occhi per vedere. Vi sono moltissime leggende nella cultura indios legate a questa pianta, come quella di Cereaporanga che decide di morire insieme all’amato. In tutte queste leggende ricorre la dimensione sacra di questi “frutti che possono vedere” ed è quindi proprio dalla sacralità del cibo che partiremo in questo excursus sul cibo come cultura. Come sottolineano sociologi e antropologi, il cibo è un potente ordinatore culturale, cioè attorno all’alimentazione si strutturano una serie di prescrizioni sociali forti (su come, quando, cosa, con chi mangiare) che sono successivamente in grado di costruire e legittimare appartenenze sociali o di fondare processi di esclusione. Una sorta di «dimmi come mangi e ti dirò chi sei»… Il cibo, in questa sua potentissima dimensione, ricorre in molte religioni: la spiritualità e il sacro richiedono spesso prescrizioni rispet-

to ai tipi di cibo e rispetto ai tempi e ai luoghi del suo consumo (si pensi al digiuno come forma di purificazione spirituale ricorrente in molte tradizioni religiose, ad esempio nella Quaresima). Tuttavia le culture del cibo non solo prescrivono, ma anche interdicono. Come nella sessualità anche nell’alimentazione il principio di interdizione è molto forte: nella sua versione più antica la cultura del cibo interdice il cannibalismo («io non mangio quelli uguali a me»), in quella contemporanea può giungere ad interdire l’assunzione di ogni derivato dal mondo animale («io non mangio i miei amici»). La figura mitologica che incarna nei miti greci la negazione più assoluta dell’interdizione a cibarsi di carne umana è Crono, il padre predatore che divora tutti i suoi figli partoriti da Rea, per timore di essere detronizzato. Toccherà a Zeus, terzo figlio maschio di Rea, avvelenare il padre Crono e ridare vita a tutti i suoi fratelli. Crono incarna nell’inconscio collettivo la figura del padre che può essere ucciso conservando l’integrità morale, cioè senza diventare “assassini”. In generale possiamo dire che le dimensioni etiche messe in gioco dall’atto del mangiare sono molteplici e profondissime: si pensi ai vegetariani, ai vegani, a coloro che prediligono un’alimentazione a base di cibo proveniente dal commercio equo-solidale oppure di cibi prodotti localmente (a chilometro zero). Queste sono soltanto alcune delle alternative culturali che caratterizzano gli stili di vita della contemporaneità e sulla base delle quali si strutturano le identità dei gruppi sociali. Come ci ricordano molti studi antropologici, la rilevanza profondissima del cibo nella nostra cultura è documentata dalla centralità del “mangiare” in quasi tutti i riti di passaggio: quando festeggiamo una laurea, un fidanzamento, un matrimonio, un avanzamento di carriera, mangiamo insieme. In alcune culture, persino quando commemoriamo la morte di un nostro caro, il mangiare insieme diventa un aspetto rituale molto importante. E il modo in cui lo facciamo esclude ed include anche rispetto allo status sociale: il

“La rilevanza profondissima del cibo nella nostra cultura è documentata dalla centralità del mangiare in quasi tutti i riti di passaggio: quando festeggiamo una laurea, un fidanzamento, un matrimonio, un avanzamento di carriera, mangiamo insieme” cibo è legato al gusto e in un celeberrimo libro, Pierre Bourdieu ci ha spiegato come funzionano i meccanismi della distinzione sociale. La mediazione dei quattro diversi tipi di calici e dei tre diversi tipi di posate con cui dobbiamo cimentarci a un banchetto di gala includono


chi sa come fare ed escludono e intimoriscono chi ogni giorno è abituato a mangiare primo e secondo su un piatto solo. Tutti quei bicchieri, oltre a potenziare il delicato sapore delle bevande che sono destinati a contenere, servono a dichiarare, pubblicamente lo status di chi sta bevendo. Ma rispetto al cibo ci sono altri piani, più politici, ancora da considerare: l’accesso al cibo, come fonte di energia per la specie umana, è una risorsa

“Il cibo e l’alimentazione ci introducono a una riflessione più ampia nei termini della giustizia distributiva e dell’economia delle risorse globali” allocata in modo fortemente diseguale. Una delle contraddizioni più violente del mondo globale scaturisce dal contrasto lacerante tra il pancino gonfio per denutrizione di un bimbo dei paesi in via di sviluppo e quello obeso di un bimbo europeo o americano, allevato nella cultura del fast food. Il cibo e l’alimentazione in generale ci introducono a una riflessione più ampia nei termini della giustizia distributiva e dell’economia delle risorse globali. Peraltro l’obesità dell’infanzia rimanda anche a un ulteriore livello di analisi che concerne il rapporto tra cibo e salute. Indipendentemente dal fatto che il cibo sia disponibile o meno, una questione centrale riguarda come lo assumiamo. I disturbi dell’alimentazione – noti come obesità, bulimia e anoressia – coinvolgono una percentuale elevata della popolazione mondiale. Di cibo quindi non solo si guarisce, ma ci si può ammalare. Infine, last but not least, ci possiamo interrogare sui processi economici legati alla produzione, alla distribuzione e al consumo del cibo. Come sottolinea Vandana Shiva, l’industria dell’alimentazione è riuscita a imporci alcune regole stravaganti come, ad esempio, quella secondo cui il cibo prodotto in casa – cioè da noi, dalle nostre mani di madri e padri pieni d’amore – sarebbe “impuro” e quindi inadeguato, anzi vietato. Meglio il cibo davvero “puro”, cioè asettico, prodotto dalle industrie alimentari. Questa stravagante convinzione ha avuto esiti talora non prevedibili: la commercializzazione del latte in polvere concepito come “latte di più elevata qualità rispetto a quello materno” ha comportato un incremento significativo del rischio di mortalità infantile nei paesi

in via di sviluppo, dove l’acqua in cui sciogliere il latte in polvere spesso non è potabile… Alcuni anni fa vi furono boicottaggi in tutto il mondo contro le multinazionali coinvolte in questa commercializzazione. Ma senza andare troppo lontano: provate a festeggiare il compleanno di vostro figlio alla scuola materna con una bella crostata fatta nella cucina di casa, non ci riuscirete di certo. La torta deve essere rigorosamente fatta “fuori casa”, in quanto le nostre mani di mamma sono certamente sporche e i nostri fornelli domestici sono un pericoloso ricettacolo di batteri. Non ci deve sfuggire la gravità di episodi come questo: la cultura industriale del cibo sembra aver imposto a tal punto le proprie regole organizzative, da potersi permettere di intaccare il tessuto sociale del nostro quotidiano. Intacca in questo caso la fiducia reciproca delle famiglie nella cucina degli

“La cultura industriale del cibo sembra aver imposto a tal punto le proprie regole organizzative, da potersi permettere di intaccare il tessuto sociale del nostro quotidiano” uni e degli altri e la fiducia è un capitale sociale fondamentale. Provate a immaginare: potreste invitare a cena qualcuno a casa vostra che, prima di mangiare, vi chiedesse di ispezionare la vostra cucina? Non si tratta di de-valorizzare, o ancora peggio demonizzare, la cultura industriale del cibo che ha certamente molti pregi, si tratta semplicemente di prendere le distanze dai suoi eccessi, come quando una nuova direttiva della Comunità Europea, al posto di produrre innovazione culturale rispetto al cibo, mette a rischio i processi di stagionatura della fontina valdostana, con buona pace delle mucche nostrane. Insomma, parlare di cibo significa interrogarsi su una delle questioni centrali della nostra esistenza e in questo numero lo facciamo grazie al contributo dell’antropologia, della sociologia, della filosofia, delle scienze ambientali, degli studi sul mondo antico e di quelli sulla sicurezza alimentare, interroghiamo artisti come Don Pasta per capire loro con il cibo che cosa fanno. E alla fine dovremo ricordarcene: il cibo ci guarda, ci interroga, ci interpella con urgenza, perché noi siamo anche ciò che mangiamo.

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Tae e kai Siamo complicati consumatori di cibo di Paolo Apolito retroattivo su tutta la scena. E diventerà ciò che tutti siamo quando mangiamo, complessi raccontatori e drammatizzatori della nostra storia e ascoltatori più o meno partecipi di quella degli altri. Perché se tutto si concentrasse nel retropalco fisiologico, come avviene per gran parte degli organismi viventi sufficientemente evoluti per avere la sensazione del gusto ma non tanto da avere una scena complessa a disposizione come la nostra, allora non capiremmo com’è possibile che l’olfatto e la vista e infine il gusto del retropalco fisiologico, una volta spostatisi sul palco cosmologico hanno effetti diversi o contrari a quelli che avevano prima. Il cane di casa che vede, sente, gusta la carne, non va per il sottile quanto alla provenienza della sua succosa

“Tae, cioè escrementi, chiamano i Tikopia del Pacifico occidentale studiati da Raimond Firth, gli alimenti non commestibili. Dappertutto, in giro per il mondo, cambiano le etichette, impurità, tabù, cibo del diavolo, ma rimane la presenza di cibo interdetto, proibito” bistecca. Ditelo ad un indù, ditelo a un musulmano, ditelo a un ebreo. Ditelo a un salutista. E ditelo a voi stessi, se vi trovate davanti all’alternativa della fame o di una bistecca di carne di cane (o peggio, umana). Tutti insieme rifiutiamo un cibo che l’intero retropalco congiura a dichiarare ottimo per la sopravvivenza, ma che nel palco, la nuova regia cosmologica dichiara immangiabile. Tae, cioè escrementi, chiamano i Tikopia del Pacifico occidentale studiati da Raimond Firth, gli alimenti non commestibili. Dappertutto, in giro per il mondo, cambiano le etichette, impurità, tabù, cibo del diavolo, ma rimane la presenza di cibo interdetto, proibito. Il bambino che per

primo piano

Tutte le volte che ci mettiamo a tavola ci raccontiamo la nostra storia. Ci diciamo chi siamo, da dove veniamo, in cosa crediamo, cosa vogliamo essere. E la raccontiamo agli altri. Lo facciamo anche tutte le volte che ascoltiamo la storia degli altri, mangiando insieme, e verificando se è la nostra stessa storia o se è Paolo Apolito un’altra, e allora ci diciamo se ne siamo interessati o rigorosamente estranei. Nel pulviscolo delle azioni quotidiane che compiamo meccanicamente o quasi, nella corsa senza direzione tra le cose della routine quotidiana, quella del mangiare è forse la più complessa, piena di sottofondi e doppifondi. Sembra la più lineare e immediata, un panino e via, un surgelato e via, un fastfood e via, e invece è contorta, sinuosa, penetra nella nostra storia personale, di gruppo, di cultura, di specie. Ma più che raccontarla sobriamente, questa storia, noi la drammatizziamo, la rappresentiamo su una scena che è contemporaneamente parecchie scene, insieme palco, retropalco, proscenio e platea. Nel retropalco fisiologico del mangiare e del bere, seguiamo gli impulsi naturali, gli “ordini” di una regia del gusto tutta interna al corpo ereditato dall’evoluzione. Nei primissimi momenti di vita un neonato reagisce positivamente allo stimolo di una soluzione dolce sulla lingua, negativamente a una soluzione amara. Il nostro gusto è l’orientatore biologico delle risorse energetiche che possiamo trarre dall’ambiente. Anche se potremmo essere alimentati attraverso un catetere, e la sopravvivenza sarebbe garantita perché le sostanze energetiche affluirebbero nel nostro corpo, queste non avrebbero la stessa forza nutritiva che hanno quando sono mediate dal senso del gusto, quando passano cioè per la bocca. La vista, l’olfatto rendono appetibile il cibo, non appena lo si impara a riconoscere visivamente e olfattivamente, ma è il gusto a chiudere felicemente la sinestesia del mangiare. Il gusto non è un lusso che potrebbe essere abolito in una società biomeccanica del futuro, è un prodotto sofisticatissimo dell’evoluzione, dà disciplina all’alimentazione e al tempo stesso la rende piacevole. Ma quando il neonato cresce, si fa bambino e si avvia a farsi adulto, eccolo spostarsi dal retropalco dove era rimasto fermo nei primi momenti di vita, eccolo darsi ad un andirivieni frenetico in tutti gli altri luoghi della scena del mangiare. E più maturerà nel mondo in cui gli è stato dato di vivere, più acquisterà un dinamismo circolare e

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effetto della sua maturazione esistenziale si è spostato dal retropalco al palco, trova dunque interdetti e proibizioni alla sua fame. Ed è bene che si abitui ad essi, al più presto. E lo farà, perché non ha alternative per la sua sopravvivenza culturale, sociale e dunque esistenziale. Nessuno può crescere fuori dal contesto in cui vive. E però la rappresentazione che la sua vita è, gli consentirà spesso di non sentire la proibizione come tale, poiché ben presto la regia culturale del palco retroagirà sulla regia naturale del retropalco, imponendo nuove regole al meccanismo automatico del gusto (e della vista e dell’olfatto). Regole cosmologiche alla regia fisiologica. Allora egli non desidererà più il cibo proibito, che infatti il suo gusto troverebbe rivoltante. Tae, escrementi. Disgusto. La carne del cane di casa. La carne umana. Sarebbe il caso di non considerare più come mondi separati la natura e la cultura, il corpo e lo spirito, il retropalco e il palco, perché la vita vissuta è un insieme di intrecci retroagenti tra le varie dimensioni dell’esistere umano e solo una logica di ordinamento ideologico può vedere separazioni nette là dove queste non esistono. Con buona pace di Cartesio. Ma anche con buona pace di tutti noi umani, dappertutto, in tutte le culture, quando in modi diversi ci raccontiamo qual è per noi la realtà delle cose, cioè che c’è un ordine in esse e dunque cosa dobbiamo fare per corrispondere a quest’ordine, che è indipendente da noi e viene da prima di noi, da Qualcuno, Alcuni, Qualcosa che ci precede, ci sovrasta, ci condiziona. Quando mangiamo, anche quando mangiamo, confermiamo quest’ordine, attraverso esclusioni e inclusioni. Tae e kai, escrementi e alimenti, dicono i Tikopia, qui scelti a esemplare dell’umanità. Per noi oggi, nel racconto contemporaneo, l’ordine è quello della prevenzione, della salute, della dieta. Scientificamente fondato, ci consente di preservare o danneggiare la nostra salute, ma è il caso di dirlo, è un ordine come gli altri. Che crea interazione tra palco e retropalco, più o meno come ad altri per altre ragioni. E poiché siamo su una scena potenzialmente estensibile e interagente, con quinte e contro quinte, possiamo al tempo stesso partecipare a più racconti di ordini diversi e venirne influenzati simultaneamente: religione, scienza, abitudini di gruppo, memoria, ricerca di

“Il gusto non è un lusso che potrebbe essere abolito in una società biomeccanica del futuro, è un prodotto sofisticatissimo dell’evoluzione, dà disciplina all’alimentazione e al tempo stesso la rende piacevole” identità. Mangiamo e raccontiamo, mangiamo e recitiamo, mangiamo e ascoltiamo gli altri. E poi ognuno di noi, su questa scena immaginaria del mangiare, si sposta verso il proscenio personale - ognuno ne ha uno suo, individuale - e là incorporiamo le nostre elaborazioni delle eredità del retropalco e dei passaggi nel palco, attraverso i dinamismi biografici individuali. Io non mangio più carne, tu non mangi più pesce, io mangio solo carne di animali al pascolo, tu solo vege-

In una moschea a Lahore, alcuni musulmani pakistani preparano i piatti con frutta e altre pietanze per un momento di pausa del Ramadan

tali di coltivazioni biologiche. E se mangiamo altro stiamo male, attacco alla salute. O disgusto, peccato, colpa, tae. Così, mangiando, in fitti andirivieni e corti circuiti con il retropalco fisiologico, raccontiamo il dinamismo della nostra storia, tra palco cosmologico e proscenio personale, rappresentiamo la costituzione del Sé, del Noi e dell’alterità. Lévi-Strauss ha scritto opere ponderose e insuperate intorno al tema che le cose buone da mangiare dipendono dalle cose buone da pensare. C’è una logica in ciò che mangiamo, prima che una biologia. Una biologica di opposizioni e mediazioni: crudo/cotto, bollito/arrostito, salato/dolce, liquido/asciutto, blando/speziato. Nella storia umana i lavorii delle mediazioni delle più diverse origini hanno agito profondamente. Le opposizioni diventano triangoli, che risolvono nel-


la logica almeno ciò che nella vita non si può risolvere. L’affumicato, per esempio si mette in mezzo tra bollito e arrostito. Il putrido, tra il crudo e il cotto. Un piatto natalizio gallese, come l’oca arrosto con lingua di manzo lessa rivestita con battuto di carne e impasto è un capolavoro di riassunto del cosmo delimitato tra crudo, cotto e putrido. E non è finita. Perché se passiamo dalle cose buone da pensare, che sono nel nostro piatto, alle cose buone da fare, dentro e intorno al nostro piatto, scopriamo che questa rappresentazione si sposta ora in una platea sociologica, e là assistiamo, guardiamo, osserviamo e apprezziamo o disapproviamo. Perché mangiare è anche una pratica sociale. In molti paesi orientali gli insetti vengono comunemente consumati come street food

“C’è una logica in ciò che mangiamo, prima che una biologia. Una bio-logica di opposizioni e mediazioni: crudo/cotto, bollito/arrostito, salato/dolce, liquido/asciutto, blando/speziato” Non potremmo neppure immaginare che un momento importante della nostra vita sociale, una cerimonia, un rito, un evento importante, sia privo di una fase dedicata al cibo, spesso specifico dell’occasione. In questi casi il cibo elabora le nostre relazioni sociali, dà loro valore, ruolo. Quando elaboriamo le nostre relazioni sociali, inevitabilmente selezioniamo, inevitabilmente separiamo. E a questo lavoro il cibo si presta meravigliosamente. La cena di gala, il pranzo di nozze, l’aperitivo di lavoro, il coffee break del meeting, la sagra della polpetta di qualche cosa in qualche posto sono tutte occasioni in cui ci si dice chi può e chi non può, si proclama chi si metta di qua e chi di là, chi è come Noi e chi è diverso. E allora, se leggiamo che a Dobu moglie e marito una volta mangiavano con le rispettive famiglie per paura delle fatture che l’uno e l’altra potevano reciprocamente farsi, solo per miopia potremmo pensare che questo esotico costume è totalmente estraneo alla nostra mentalità laica e moderna che vede l’atto del consumare cibo fondamentalmente come mera funzione biologica. Perché quella è solo una variante di una rappresentazione universale nella platea del teatro del cibo, di cui noi stessi siamo protagonisti con altre varianti. Nella platea sociologica, noi raccontiamo chi siamo e con chi vogliamo stare, chi non vogliamo essere e chi non vogliamo avere per compagno. I tavolini del fast food sono diversi da quelli della mensa aziendale ed entrambi dal tavolo di casa o dal separé del ristorante. Il cibo è un selettore/separatore delle nostre relazioni sociali. E poiché siamo complicati davvero, non ci limitiamo a includere/escludere. Perché una volta messici con qualcuno, diciamo anche come starci con questi. Accanto, di fronte, vicino ma quanto, o quanto lontano. Calcoliamo e misuriamo distanze, avvicinamenti, preferenze, priorità. E definiamo formalità e informalità, che corrispondono all’intensità della convivialità, che si rappresenta con il

tipo di contiguità fisica nel consumarlo insieme, il cibo. Storie diverse di sé in rapporto agli altri e degli altri in rapporto a sé. E già che ci troviamo, commentiamo con il cibo anche l’occasione che abbiamo, questa specifica, in cui lo consumiamo insieme. La cena di gala con il capo non è la grigliata tra vicini di tenda al campeggio estivo. Anche se le stesse persone possono essere da una parte e poi dall’altra. Cambiano le occasioni. E ci diciamo tutto questo anche con il tipo di cibo che consumiamo, o di bevanda. Perché se invece che cibo solido e cotto, e da seduti, consumiamo in piedi una bevanda e uno stuzzichino ci stiamo raccontando storie diverse. Tipo di cibo o bevande rappresentano i tipi di relazioni e di occasioni sociali. Complicati consumatori di cibo, siamo.

“Sarebbe il caso di non considerare più come mondi separati la natura e la cultura, il corpo e lo spirito, il retropalco e il palco, perché la vita vissuta è un insieme di intrecci retroagenti tra le varie dimensioni dell’esistere umano” E il dinamismo non s’arresta, nuove dinamiche, questa volta nelle sequenze tra cibi, secondo ordini diacronici e sincronici. In Italia un tradizionale ordine di successione regola il ritmo tra un primo e un secondo piatto, con varianti e complicazioni varie, tra aperitivo, frutta, dessert, caffè, bevande. C’era e c’è, ma ormai insidiato da altri ordini: tutto il cibo simultaneamente su un carrello, da prendere secondo ordini vari. O tutto insieme in un piatto unico. Il Giappone è all’opposto dell’Italia, quanto a diacronie e sincronie del cibo. Ma tra queste diversità, le mediazioni sono innumerevoli. Ecco tutto: la specie umana si racconta una storia complessa su un teatro complesso tutte le volte che consuma cibo. Tutti allo stesso modo. Anche se le storie sono diverse. Ora che ho finito vado a mangiare. Senza pensarci troppo su.

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Dalla fattoria alla tavola Il sistema giuridico europero della filiera agroalimentare di Giandonato Caggiano Il diritto europeo dell’alimentazione è oggi un sistema integrato di regole per l’agro-alimentare, che protegge “dalla fattoria alla tavola” la nostra salute, che costituisce un obiettivo da realizzare in tutte le politiche dell’Unione Europea (art. 168 TFUE ex art. 152 del TCE). La sicurezza alimentare implica una politica e una legislazione europea Giandonato Caggiano sulla qualità e sui rischi in un processo di valutazione, basato sulle prove scientifiche disponibili allo stato dell’arte, tramite la partecipazione di tutti i protagonisti (autorità pubbliche e private, organizzazioni rappresentative, produttori e consumatori). Un approccio integrato a beneficio del consumatore richiede norme europee sull’intera catena alimentare (produzione, trasformazione, trasporto, distribuzione). La necessità di efficaci misure di regolamentazione e di controllo dell’alimentazione ha portato, nell’ultimo decennio, alla convergenza delle azioni dell’Unione Europea per la politica agricola comune e per il mercato unico dei prodotti alimentari. Un ruolo importante e complementare è attribuito agli stati membri e agli operatori. Da un lato, gli stati membri controllano l’applicazione delle norme, verificandone il rispetto da parte degli operatori anche con la previsione di misure e sanzioni applicabili in caso di violazione; in caso di rischio, le autorità pubbliche ne informano la popolazione e mettono in atto misure provvisorie cautelari. Dall’altro, gli operatori adottano sistemi e procedure che consentono la tracciabilità dei prodotti alimentari, degli alimenti per animali e di qualsiasi altra sostanza introdotta nei prodotti alimentari; l’operatore provvede al ritiro dal mercato dei prodotti alimentari e degli alimenti per animali (importati, prodotti, trasformati, fabbricati o distribuiti) quando ritenga che siano nocivi alla salute umana o animale, oltre alla relativa notificazione alle autorità com-

La sede del Parlamento europeo a Strasburgo

petenti; nel caso in cui il prodotto sia già stato malauguratamente acquistato dai consumatori, deve informarli sui rischi. La prima fase dello sviluppo europeo della sicurezza alimentare è stata caratterizzata dall’applicazione dei principi della circolazione delle merci e del ravvicinamento delle legislazioni nazionali per il mercato comune. Il funzionamento del mercato interno sarebbe certamente ostacolato senza l’armonizzazione europea delle misure nazionali in materia. Basta ricordare a riguardo la direttiva 89/397 del Consiglio sul controllo ufficiale dei prodotti alimentari con la finalità della protezione della sanità pubblica e la tutela dei consumatori (adottata sulla base giuridica dell’art. 100A AUE per l’obiettivo del mercato unico del ‘92). La fase successiva, a seguito della crisi dell’epidemia di BSE (mucca pazza), ha portato a un nuovo approccio di protezione dell’intera catena agro-alimentare, che comporta la saldatura della politica agricola comune e della politica di mercato per la rimozione degli ostacoli alla libera circolazione dei prodotti agricoli. In questo senso, sono da ricordare i principi generali della legislazione alimentare nell’Unione europea, contenuti nei Libri Verde e Bianco della Commissione (1997 e 2000), e il Regolamento sulla tracciabilità e l’eti-

“Un approccio integrato a beneficio del consumatore richiede norme europee sull’intera catena alimentare (produzione, trasformazione, trasporto, distribuzione)” chettatura della carne bovina, adottato dal Consiglio esclusivamente sulla base giuridica dell’organizzazione dei mercati agricoli. L’attuale prospettiva di regolazione integrata dell’attività dei soggetti della filiera produttiva per la protezione dei consumatori si consolida, subito dopo, per via giurisprudenziale. La svolta nell’approccio europeo alla sicurezza alimentare costituiva l’oggetto di due fondamentali sentenze della Corte di Giustizia. Il primo principio riguardava il rilievo per la politica agricola delle esigenze di interesse generale, quali la tutela dei consumatori, della salute e della vita delle persone e degli animali (sentenze 5 maggio 1998, Regno Unito/Commissione). Il secondo riguarda la legittimità della base giuridica esclusiva dell’organizzazione dei mercati, relativi alla produzione e alla messa in commercio dei prodotti agricoli (sentenza 4 aprile 2000, in causa C-269/9, Commissione/Consiglio), in quanto la politica agricola comune può rappresentare l’ambito di protezione ottimale della sicurezza alimentare. Si è aperta così la terza fase del definitivo decollo del diritto europeo dell’alimentazione, tramite la codificazione dei principi della sicurezza dei prodotti alimentari (ivi compresi quelli per animali) contenuta nel Regolamento 178/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio. Il carattere unitario del quadro giuridico vigente, che riguarda sia la legislazione


In seguito alla crisi dell’epidemia di BSE (mucca pazza) si è sviluppato un nuovo approccio di protezione dell’intera catena agro-alimentare, che comporta la saldatura della politica agricola comune e della politica di mercato

alimentare che le procedure di controllo, si poggia sulla complementarietà delle basi giuridiche per l’azione dell’Unione in materia: l’organizzazione comune dei mercati agricoli (art. 37 CE ora art. 43 TFUE), il ravvicinamento delle legislazioni in materia di sanità pubblica ed ambiente (art. 95 CE, ora art. 114 TFUE), la politica commerciale comune (art. 133 CE ora art. 207 TFUE), misure nei settori veterinario e fitosanitario (art. 152, para. 4, lett. b) ora art. 168, para 4, lett. b). Il medesimo regolamento ha creato l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, che opera a Parma, quale riferimento scientifico per il controllo e per la valutazione degli alimenti. La codificazione dei principi è stata, infine, completata in relazione all’accreditamento degli enti di certificazione dei prodotti agricoli dal regolamento del Parlamento e del Consiglio del 9 luglio 2008 che, peraltro, generalizza a tutto il mercato interno l’esperienza acquisita nel settore alimentare sui sistemi di sorveglianza e il controllo dei prodotti importati da Paesi terzi. Un ulteriore profilo interessante della materia è costituito dal principio del controllo sul rischio della responsabilità dell’impresa. La direttiva 43/93/CEE del 14 giugno 1993 ha introdotto: il principio della responsabilità dell’impresa per fatti di organizzazione e non solo per concreti esiti di danno; la valorizzazione della collocazione relazionale nel mercato; la comunicazione come oggetto di garanzia e di caratterizzazione dell’offerta. Il principio dell’autocontrollo e autocertificazione del produttore promuovono la cultura del rispetto della salute e della genuinità, piuttosto che misure di rigida prescrizione esterna di autorizzazione preventiva e normalizzatrice dei locali e di controllo successivo sul prodotto. È in funzione un sistema europeo di “allarme rapido” che consente l’individuazione delle misure di emergenza e di gestione delle crisi in atto (Comitato permanente della catena alimentare e della salute animale). La direttiva 2001/95/CE relativa alla sicurezza generale dei prodotti prevede un sistema comunitario d’informazione rapida (RAPEX) e la relativa procedura di notifica da attuare secondo le linee guida emanate dalla Commissione (Decisione del 16 dicembre 2009). Per quanto riguarda l’interpretazione del principio di precauzione, il Tribunale di primo grado (sentenza 10 marzo 2004, causa T-177/02, Malagutti-Vezinhet) ha ritenuto legittimo un intervento della Commissione di attivazione del “sistema rapido di allerta” a causa dell’alto livello di pesticidi presenti in alcune importazioni di mele. Respingendo la richiesta di danni dell’im-

portatore interessato, il Tribunale ha chiarito che l’applicazione del principio può comportare misure appropriate per prevenire taluni rischi potenziali, senza bisogno di attenderne la preventiva ed esauriente dimostrazione della effettività e della gravità del rischio per la salute. In caso contrario, il principio di precauzione sarebbe privato del suo effetto utile. In sostanza, alla “protezione della sanità pubblica deve vedersi accordare un’importanza preponderante rispetto alle considerazioni economiche” . In materia di integratori alimentari, la Corte di giustizia (sentenza 12 luglio 2005, cause riunite C-154/04 e C-155/04, Alliance for Natural Health c. Secretary of State for Health), ha confermato che la direttiva del 2002 consente un corretto svolgimento della procedura (di modifica degli elenchi dei componenti consentiti) entro termini ragionevoli, anche in assenza di una completa garanzia di trasparenza e dei termini della fase di consultazione dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare. Per quanto riguarda gli elenchi di vitamine e minerali che possono essere aggiunti agli alimenti, la Corte (sentenza Solgar Vitamin’s France C-446/08 del 29 aprile 2010) ha chiarito che gli Stati membri restano competenti ad adottare una disciplina relativa ai quantitativi massimi di queste componenti nella fabbricazione degli integratori alimentari se la Commissione non ne ha stabilito i quantitativi. La fissazione di quantitativi massimi non è indispensabile, a meno che, in forza del principio di precauzione, non vi sia un pericolo probabile per la salute delle persone. Per il risarcimento dei danni causati dagli organi della Comunità, il Tribunale di primo grado (sentenza 14 dicembre 2005, cause riunite T-69/00 ed altre), può essere riconosciuto anche in assenza di comportamenti illeciti. La sentenza riguardava le misure di blocco assunte dalle autorità statunitensi per ritorsione contro misure europee relative all’importazione di prodotti alimentari. Per evitare una tale situazione negativa, le istituzioni europee (in primis, la Commissione) devono ponderare “a monte” le decisioni da adottare in considerazione dei diversi interessi in gioco (bilanciamento degli interessi). In concreto, il Tribunale, non ha ritenuto adeguata la prova del danno lamentato. In questo contesto è impossibile entrare nel dettaglio della disciplina europea in vigore che contiene misure improntate sia a motivi di ordine igienico-sanitario che ai profili di mercato. Ricordo soltanto la disciplina in tema di DOP e IGP e, più di recente, la direttiva sugli allergeni, la normativa in materia di OGM, le discipline sui novel foods. Per l’attualità, qualche considerazione merita, però, la proposta di regolamento europeo sulle etichette sugli alimenti al fine di una migliore informazione per i consumatori, adottato il 16 giugno scorso. dal Parlamento europeo e di prossima definitiva approvazione da parte del Consiglio dei ministri dell’Unione. I produttori avranno l’obbligo di indicare nella parte anteriore della confezione alimentare il contenuto di energia, sale, zucchero, grassi, grassi saturi e dolcificanti del prodotto, nonché l’origine della carne, pollame, pesce e latticini. È stata però bocciata dai parlamentari la proposta, sostenuta dai verdi e dalle associazioni dei consumatori, del cosiddetto «sistema a semaforo» che avrebbe aiutato a riconoscere facilmente i fattori di rischio dei diversi prodotti alimentari. L’industria alimentare ha sostenuto a riguardo una grande azione di lobby, forse la più grande dopo quella che fu realizzata contro l’approvazione del Regolamento Reach sui prodotti chimici.

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2800 kilocalorie pro capite! Se la sicurezza alimentare non è più solo un problema di disponibilità di cibo di Pasquale De Muro Nel dibattito internazionale sulla fame il concetto di sicurezza alimentare ha subito nel corso degli ultimi decenni alcuni importanti cambiamenti. Infatti, mentre fino agli anni Settanta il significato attribuito alla sicurezza alimentare (food security) coincideva largamente con l’idea di disponibilità di alimenti – e dunque di Pasquale De Muro prodotti agricoli – successivamente si sono susseguite varie elaborazioni che hanno condotto ad un concetto più ampio e multidimensionale. Oltre alla disponibilità, si parla oggi anche di almeno altre tre fondamentali dimensioni, che sono l’accesso, l’utilizzazione e la stabilità. La questione della disponibilità di cibo ha da secoli rappresentato una preoccupazione per economisti e politici. Se consideriamo in particolare la disponibilità pro capite, il reverendo Malthus alla fine del 1700 ha reso celebre lo spettro della scarsità di cibo dovuta alla prospettiva di uno squilibrio crescente tra l’offerta alimentare e la popolazione. Questo noto paradigma, benché si sia dimostrato scientificamente infondato e politicamente reazionario, non ha mai perso vigore fino ai giorni nostri: la maggior parte dei discorsi che si fanno oggi sulla fame – nei media, nelle organizzazioni internazionali e a livello scientifico e politico – ancora richiamano, di fatto, lo spettro della scarsità di cibo, spesso accompagnato da preoccupazioni demografiche. Questa bandiera negli ultimi anni è stata raccolta da certe posizioni ecologiste: a ben vedere, infatti, alcuni concetti come quelli di impronta ecologica o di carrying capacity non sono altro che riformulazioni ambientaliste del paradigma malthusiano, in cui il problema centrale è quello del rapporto fra risorse naturali e produzione. Il merito principale di aver superato l’approccio della scarsità e introdotto la questione dell’accesso delle persone

agli alimenti è certamente da attribuire all’economista indiano Amartya Sen, premio Nobel nel 1998. Alla fine degli anni Settanta, Sen ha condotto una serie di studi (raccolti nel volume Poverty and Famines) in cui ha mostrato in maniera rigorosa che la principale causa delle carestie non è la mancanza di cibo (cioè l’insufficiente disponibilità), ma piuttosto la circostanza per cui le persone affamate non hanno la possibilità di accedere al cibo che è disponibile. Il mancato accesso è dovuto ad

“A ben vedere alcuni concetti come quelli di impronta ecologica o di carrying capacity non sono altro che riformulazioni ambientaliste del paradigma malthusiano, in cui il problema centrale è quello del rapporto fra risorse naturali e produzione” una varietà di fattori economici e sociali, riconducibili sostanzialmente alla condizione di povertà di queste persone e alle carenze dell’azione pubblica. Il contributo di Sen, sviluppato in ricerche successive, non riguarda soltanto le carestie, ma più in generale tutte le situazioni di fame, e ha cambiato radicalmente l’idea di sicurezza alimentare. Infatti, dato che a livello globale la disponibilità di cibo, nonostante le crisi che si sono succedute, è ormai da molto tempo sufficiente a garantire una quantità di calorie pro capite superiore ai bisogni (oggi abbiamo sul pianeta circa 2800 kilocalorie pro capite), è evidente che nell’epoca contemporanea il mancato accesso al cibo è la causa principale della fame ed è la dimensione più critica della sicurezza alimentare. È su tale dimensione, dunque, che andrebbe concentrata l’attenzione e le risorse della comunità internazionale, dei governi e di tutti gli altri attori coinvolti. Anche la terza dimensione, l’utilizzazione, ha guadagnato negli ultimi decenni una certa importanza, grazie anche al contributo dei nutrizionisti. Questa


dimensione riguarda il modo in cui le persone e le comunità utilizzano il cibo, ossia lo trasformano in nutrimento. Ciò dipende sia dalla qualità e salubrità del cibo (food safety, da non confondersi con food security) sia dalle pratiche alimentari, ossia dai modi in cui il cibo viene trattato e consumato. Anche in questo caso, ciò che conta non è dunque soltanto la disponibilità di cibo salubre ma anche il modo in cui le persone usano il cibo disponibile. A sua volta, ciò dipende sostanzialmente da una varietà di fattori sociali, culturali ed economici. Fra questi, un’importanza fondamentale è rivestita dalle conoscenze nutrizionali delle persone (e dunque anche dal loro livello di istruzione), in particolare di quelle persone che sono preposte alla scelta e alla preparazione del cibo, che in molti paesi del mondo sono ancora soprattutto le donne. Da questo punto di vista, il ruolo dell’istruzione primaria delle donne riveste un ruolo fondamentale per la sicurezza alimentare famigliare, così come confermato da alcune ricerche svolte presso il Dipartimento di Economia dell’Università degli Studi Roma Tre. La quarta ed ultima dimensione, la stabilità, ha un carattere trasversale perché riguarda sia la disponibilità sia l’accesso. Infatti, le persone devono avere nel tempo una disponibilità e un accesso costante al cibo affinché non soffrano la fame. Ciò vuol dire che bisogna evitare il più possibile due tipi di instabilità che colpiscono i mercati alimentari. La prima è una instabilità “naturale”, dovuta al fatto che la produzione di alimenti, per quanto fortemente industrializzata, si basa in larga parte sulla produzione agricola, la quale subisce non solo i cicli stagionali ma anche le avversità climatiche e atmosferiche (siccità, inondazioni etc.) che provocano una oscillazione della produzione, che è stata soltanto in parte attenuata dalle moderne tecnologie. Questo è uno degli aspetti in cui il cambiamento climatico in corso incide negativamente, aggravando l’instabilità e l’incertezza della produzione agricola e dunque della sicurezza alimentare, così come sta avvenendo in alcune aree dell’Africa subsahariana. Il secondo tipo di instabilità, che è in parte collegato alla prima, è l’instabilità dei mercati, dovuta sia al ciclo economico sia al carattere stesso dell’economia capitalista (speculazioni, finanziarizzazione etc.). Questa instabilità si manifesta soprattutto attraverso la volatilità dei prezzi agricoli e alimentari che può mettere gravemente a repentaglio l’accesso. La recente impennata dei prezzi agricoli ne è un chiaro esempio, che conferma ancora una volta la necessità di una governance mondiale di questi mercati. La dimensione della stabilità, inoltre, è particolarmente

rilevante per i gruppi socioeconomici più vulnerabili, come ad esempio coloro – in maggioranza localizzati nelle aree rurali dei paesi a basso reddito – che hanno come unica o principale fonte di sostentamento (in termini di reddito e/o di consumo alimentare) la propria produzione agricola o zootecnica: una disponibilità o un accesso instabile per questi gruppi, in assenza di una appropriata azione pubblica, può significare per loro la fame. Da questo punto di vista, la diversificazione delle fonti di sostentamento nelle aree rurali, piuttosto che una maggiore specializzazione agricola, può contribuire alla riduzione della vulnerabilità e dell’insicurezza alimentare. Le quattro dimensioni della sicurezza alimentare sono strettamente interdipendenti: ad esempio, è evidente che senza disponibilità e stabilità non vi è accesso costante, e che l’accesso non implica necessariamente una adeguata utilizzazione. Pertanto, è evidente che le politiche di lotta alla fame debbano agire su tutte le quattro dimensioni, combinando appropriatamente gli interventi a seconda delle circostanze. Tuttavia, se consideriamo le iniziative, peraltro ancora insufficienti, intraprese dalla comunità internazionale e dai governi si osserva ancora di fatto il prevalere di approcci e politiche che, sotto la pressione dell’agribusiness e delle lobbies dei grandi produttori agricoli, tendono a privilegiare la dimensione della dis-

“A livello globale la disponibilità di cibo, nonostante le crisi che si sono succedute, è ormai da molto tempo sufficiente a garantire una quantità di calorie pro capite superiore ai bisogni ed è quindi evidente che il mancato accesso al cibo è la causa principale della fame ed è la dimensione più critica della sicurezza alimentare.” ponibilità e a dare minore attenzione alle altre dimensioni, e dunque alle cause principali che non consentono oggi a più di un miliardo di persone nel mondo di poter accedere al cibo che è già disponibile e sufficiente per tutti. Se non cambiamo al più presto questo atteggiamento, il numero di persone affamate, che sono soprattutto donne e bambini, è destinato tristemente ad aumentare ancora, così come accade ormai dalla metà degli anni Novanta.

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La cena di Trimalcione Cibo e parola in Petronio di Mario De Nonno La costruzione dell’intero Satyricon, per quel che si può ricavare da ciò che ce ne rimane (forse un libro intero, più due gravemente lacunosi, degli almeno sedici originari), sembra essere stata architettata da Petronio secondo ritmi che privilegiano lo scheMario De Nonno ma della “composizione ad anello” e della ricorsività ciclica di situazioni e moduli narrativi. Ma nell’ambito dell’unica sequenza veramente ampia del romanzo conservataci per intero, la grandiosa cena di Trimalcione, la “regia dell’evento” escogitata dall’impareggiabile padrone di casa deve inevitabilmente articolarsi, come nelle scene di un dramma antico, secondo la progressione lineare del susseguirsi delle spettacolari portate. Nel “labirinto di nuovo tipo” costituito dalla casa dello straricco liberto, dunque, la teoria delle pietanze forma un vero e proprio percorso obbligato per l’esibizione delle competenze e delle qualità di volta in volta di astrologo, di fisiologo, di critico e filosofo, di mitologo, e infine di filantropo, dell’onnipotente e onnipresente padrone di casa. Solo dopo che la serie delle portate si è conclusa, il ferreo controllo del regista sul suo spettacolo si allenta e il suo atteggiamento, secondo una felice formulazione di Vincenzo Ciaffi, «da estroverso, e alla ricerca degli altri, (…) si fa introverso», mentre emerge prepotente il sempre sotteso tema autobiografico, intrecciato con quella personalissima meditazione sulla morte che condurrà alla fine Trimalcione alla tragicomica messa in scena del proprio funerale. Se però nell’orgogliosa rivendicazione trimalcionica nihil novi mihi potest afferri («a me non si può mettere sotto gli occhi nulla di nuovo») sembra addirittura risuonare l’eco della regale raccomandazione che, secondo la Ciropedia di Senofonte, Ciro il Grande impartiva ai suoi dignitari («Si curò anche che essi non apparissero volgersi a osservare alcunché, come se non si meravigliassero di nulla»), in qualche modo fusa con il sempre attuale precetto nil admirari («non ti stupire di nulla») del filosofeggiante Orazio delle Epistole, l’«inesauribile (…) sfilata delle portate» della cena – com’è stato detto con efficace sintesi da Mario Citroni – ha come «principale caratteristica», più che l’esibizione di una specifica “cultura gastronomica”, proprio «la spettacolarità e l’effetto “a sorpresa”: tutte sono costruite con artifici meravigliosi, e tutte contengono qualcosa di inatteso, o sono fatte di una materia diversa da ciò che si penserebbe». Ma d’altra parte – riprendo ora parole di Gian Biagio Conte – «il cibo servito ai commensali prima che un’esibizione di lautitiae», oggi diremmo di “luxury”, «è per Trimalchione il medium di una comunicazione “intellettuale”». In partico-

lare egli costruisce tutta la sua esibizionistica cena «in funzione degli ospiti colti», in una continua e drammatica tensione fra disprezzo e venerazione dei ceti acculturati, trionfante autarchia materiale e brama di riconoscimento socioculturale da parte del professore di retorica Agamennone e degli intellettuali (più o meno velleitari) che lo accompagnano. Proprio per questo Trimalcione non intende che il suo ostentato dominio sul mondo del reale si manifesti senza una corrispondente e speculare manifestazione di potere sui nomina, che delle res sono il segno e – conformemente a un’idea forte della nominazione, sulla quale anche l’autore Petronio fonda un importante aspetto della sua poetica (nomen omen) – delle cose (e degli uomini) custodiscono il segreto. Del resto, si sa, solo come Nessuno Odisseo sfuggirà al Ciclope, solo diventando Pietro Simone figlio di Giona sarà il fondamento della Chiesa. In questa ben definita prospettiva esegetica si colloca la valorizzazione del carattere tematico e strutturante

“Trimalcione costruisce tutta la sua esibizionistica cena in funzione di una continua e drammatica tensione fra disprezzo e venerazione dei ceti acculturati, trionfante autarchia materiale e brama di riconoscimento socioculturale da parte del professore di retorica Agamennone e degli intellettuali (più o meno velleitari) che lo accompagnano” dell’“erudizione” di Trimalcione («anche a tavola bisogna fare un po’ di cultura»: etiam inter cenandum oportet philologiam nosse, egli proclama), e in questo contesto un rilievo particolare va riconosciuto al ricercato parallelismo fra le singole portate del banchetto e quei “giochi di parole” che nelle convergenti (ma tutt’altro che coincidenti) intenzioni dei due registi della cena (quello nascosto Petronio e quello palese Trimalcione) ambiscono di fatto a configurarsi come vere e proprie onomaturgie e “imposizioni di nomi”. E così, dopo l’antipasto a base di olive bianche e nere, ghiri al miele e sesamo e salsicciotti disposti su una graticola d’argento in un letto di prugne e grani di melograno (a simulare le braci incandescenti), servito in assenza di Trimalcione e integrato dopo il suo ingresso da finte uova di pasta di farina con ripieno di beccafichi in tuorlo pepato, davanti agli occhi dello studente-narratore Encolpio, che progressivamente passa da una stupita ammirazione alla summa nausea, si dipana un doppio binario di portate e “calembours” la cui sorprendente regolarità corrisponde a una evidente strategia di rappresentazione del reale.


La prima portata della cena vera e propria è costituita da un “piatto a sorpresa”, che sotto un coperchio su cui sono disposti, in apparente modestia, cibi simboleggianti i dodici segni zodiacali disvela, a un sornione invito di Trimalcione, un succulento e scenografico misto di pollame e pancette, con in mezzo una lepre travestita da Pegaso, il tutto accompagnato da pesci annaffiati da fontane di salsa pepata. La presentazione del piatto è accompagnata dalla compiaciuta dimostrazione di controllo dell’“ambiguità del significante” offerta dal “pun” del padrone di casa sul nome del trinciatore Carpus (il cui vocativo Carpe è omofono dell’imperativo del verbo carpere ‘trinciare’, per cui «con la stessa parola Trimalcione lo chiama e gli comanda») Viene poi portato in tavola, fra l’irrompere di cani da caccia e in una scenografia venatoria rapidamente allestita, un cinghiale dalle cui zanne pendono cestini di datteri freschi e secchi, contornato da porcellini di pasta biscottata; dalla pancia del cinghiale, a un colpo di coltello, si leva un volo di tordi, ma la più singolare caratteristica dell’animale, il fatto cioè di recare in capo il berretto tipico degli schiavi liberati, il pilleus, è strettamente collegata con la dinamica della (ri)nominazione sinonimica dello schiavetto Dionysos, che in veste bacchica serve ai commensali grappoli d’uva. Costui viene d’imperio ribattezzato da Trimalcione col nome di ‘Libero’ (divinità romana equivalente appunto al greco Dioniso), e nel momento in cui diventa ‘libero’ anche di fatto, oltre che di nome, «lo schiavo tolse il cappello al cinghiale», ci fa rilevare Encolpio, «e se lo mise in testa

Affresco di triclinio, Pompei

lui». In questo caso, poi, il gioco di parole è ulteriormente complicato dalla sua applicazione allo stesso Trimalcione (un liberto, lo si ricordi, e non un ingenuus, cioè un figlio di padre di condizione libera), che infatti non si trattiene dal rivolgersi al suo pubblico con l’ulteriore e ammiccante battuta: «non negherete ora che ho un “padre libero”» (il nome del già ricordato dio Liber compariva infatti di solito accompagnato dalla specificazione rituale di ‘padre’: Liber pater, come ad esempio Ianus pater, e lo stesso Iuppiter, forma derivata, come si sa, da Iovis pater). La terza portata è costituita da uno spettacolare porco “automatico”. Questo, dopo uno studiato sketch fra Trimalcione e un suo cuoco, duramente ripreso per non aver a

“Si dipana un doppio binario di portate e “calembours” la cui sorprendente regolarità corrisponde a una evidente strategia di rappresentazione del reale” quel che sembra sviscerato il grosso animale, rivela, al timido taglio del ventre, di essere ripieno non di visceri, ma di salsicce e sanguinacci. A tale portata tiene dietro organicamente (attraverso la premeditata offerta di una bevuta al cuoco, degna spalla del mattatore Trimalcione) la fredduristica etimologia legata al nome del bronzista Corin-

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thus (Trimalcione è l’unico che possa vantarsi di possedere esemplari autentici dei ricercatissimi bronzi “Corinzii”… perché il suo bronzista si chiama Corinto). Il piatto ancora successivo segue a un esilarante saggio, da parte del padrone di casa, di “mitologia cialtronesca”, concluso da Morte coppiera uno stralunato riferimento a un inedito Aiace impazzito per gelosia. Esso consiste in un intero vitellino lesso, portato in tavola con tanto di elmo. Non ci si stupisce ormai più di tanto che al virtuosistico scalco della bestia venga espressamente chiamato da Trimalcione un servitore in armatura da lui presentato (e designato) come un “Aiace”, ancora una volta di nome e di fatto.

“Viene poi portato in tavola, fra l’irrompere di cani da caccia e in una scenografia venatoria rapidamente allestita, un cinghiale dalle cui zanne pendono cestini di datteri freschi e secchi, contornato da porcellini di pasta biscottata; dalla pancia del cinghiale, a un colpo di coltello, si leva un volo di tordi” Anche quando più oltre viene esibito alla venerazione dei commensali un Priapo di pasticceria, accompagnato da focacce e da pomi intrisi di zafferano, questo piatto di apparenza sacrale è accompagnato, in un contesto purtroppo lacunoso, da una coerente prova del “naming power” di Trimalcione: l’ostensione, affidata a tre servi, delle statuette dei suoi numi tutelari, di cui il padrone di casa ci tiene a svelare ai commensali, come a degli iniziati, i “materialistic names” (ancora una volta, evidentemente, di suo conio) di Affarone, Fortunatone e Guadagnone. Dopo un intermezzo di racconti del terrore a base di lupi mannari e streghe, l’ormai disgustato narratore Encolpio, descrive l’ingresso in tavola degli “stuzzichini”, consistenti in uova d’anatra incappucciate: anche questa portata è ovviamente predisposta per offrire a Trimalcione un’occasione per esibire il suo “potere designativo”, che si esplica questa volta nella forma dell’indovinello (“galline disossate”: cosa sono? le uova!); per tale popolarissima forma di lettura del mondo già la serie dei bigliettini di accompagnamento dei “regalini da asporto”, descritta in una scena precedente, aveva del resto documentato il

plebeo gradimento dei convitati. Dulcis in fundo, infine, proprio l’ultima portata, l’articolatissimo dessert composto da tordi di pasta di pane farciti di uva passa e noci, finti ricci fatti di cotogne infilzate di spini, e… monstrum finale, un’oca da ingrasso accompagnata da Il Trimalcione del Fellini Satyricon pesci e uccelli (1969) d’ogni tipo, tutti fatti con carne di porco artisticamente contraffatta, offre – si può ben dire – su un piatto d’argento a Trimalcione l’occasione per la più esplicitata rivendicazione (anche nell’uso di una terminologia ormai dichiaratamente tecnica, con la quale Petronio e il suo narratore, lo studente Encolpio, strizzano l’occhio al lettore non digiuno della linguistica di Varrone) del proprio geniaccio di onomaturgo: è stato proprio lui – il padrone di casa lo sottolinea gongolante – a “ribattezzare” il cuoco bravissimo manipolatore della realtà col nome del più famoso artista del mito: «e perciò a mio genio gli ho imposto un nome bellissimo (impositum est illi nomen bellissimum): infatti si chiama Dedalo». Proprio la più insistita e lussureggiante rappresentazione del cibo nella letteratura latina (tante altre se ne potrebbero ricordare naturalmente, ma nessuna così massiccia) ne rivela così, in fin dei conti, soprattutto l’insopprimibile valenza di simbolo culturale e di messaggio ideologico.

“Proprio la più insistita e lussureggiante rappresentazione del cibo nella letteratura latina ne rivela l’insopprimibile valenza di simbolo culturale e di messaggio ideologico. Cibo e parola: luoghi entrambi della manipolazione e di conseguenza dell’affermazione di potere” Cibo e parola: luoghi entrambi della manipolazione e di conseguenza dell’affermazione di potere. Riconoscere la strutturante regolarità della parallela autorappresentazione, da parte di Trimalcione, del proprio dominio sul suo cibo, sui suoi uomini e sul suo discorso (almeno finché ci sono pietanze da servire) conferma nel lettore l’impressione che il nihil sine ratione facio («nulla faccio senza un motivo») proclamato dal padrone di casa al termine della sua esegesi dell’inaugurale “piatto zodiacale” dev’essere inteso come un programma e un destino.


L’etichetta a tavola: dai romani al Galateo di Giovanni Della Casa di Maria Vittoria Marraffa

In questo breve excursus sull’evoluzione dei comportamenti a tavola verranno evidenziate non solo le modifiche apportate all’etichetta nel corso dei secoli, ma anche la nascita di tutti quegli utensili che oggi troviamo sulle nostre tavole e che Maria Vittoria Marraffa col tempo sono diventati indispensabili. Il nostro sguardo si poserà su quei meravigliosi banchetti che ancora oggi possiamo ammirare negli affreschi pompeiani o nei quadri del Ghirlandaio, di Paolo Veronese o di Bruegel. Le notizie sui banchetti romani sono numerose: ce ne parlano gli storici latini, scrittori e poeti e ognuno di noi avrà presente quelle scene memorabili di banchetti viste nei film, con i partecipanti sdraiati sul triclinio con il gomito sinistro appoggiato ad un

cuscino, intenti a mangiare davanti ad una tavola imbandita. In effetti la grande differenza che c’è tra il modo di mangiare di oggi e quello dell’antichità consiste proprio nella posizione tenuta durante il banchetto perché non si stava seduti, eccetto le donne, i bambini e gli ospiti “in sovrannumero”. La posizione sdraiata, che a noi sembra molto scomoda, per un romano non lo era affatto ed era segno di eleganza e superiorità. In realtà dovremmo precisare che il banchetto era una serata maschile e non prevedeva un’etichetta particolarmente rigida e rigorosa. Il banchetto si svolgeva nella sala del triclinium, lunga di norma il doppio della sua larghezza, che prendeva il nome dai letti a tre posti (triclinia). Di solito i letti erano tre con al centro una tavola quadrata o circolare. I commensali lasciavano a casa la toga per indossare una veste più comoda di cotone o seta, ci si toglievano i sandali e ci si lavava le mani. Gli ospiti si servivano da soli e anche per questo le pietanze erano tagliate in pezzi di dimensioni adatte a essere portati alla bocca, le posate erano sconosciute e ci si poteva aiutare solo con dei cucchiai per salse e farinate. Curioso è l’uso dei tovaglioli usati non solo per pulirsi le mani ma an-

Pieter Bruegel (detto il Vecchio o dei Contadini), Banchetto nuziale, 1568

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16 che per avvolgerconcavo e ancoci i cibi che si inra lo spenditore, tendeva portare a ovvero l’addetto casa. Servirsi con alle provvigioni. cautela di porzioMomento spetni piccole adopetacolare del banrando solo la punchetto era l’inta delle dita era gresso delle porconsiderato segno tate: una vera e di buone maniere, propria azione soprattutto per scenica ispirata una donna: «Asa soggetti allesumi i cibi con la gorici e mitolopunta delle dita e gici sul tema non sporcarti la della festa. La faccia con le mani caratteristica dei bisunte» consiglia banchetti rinaOvidio nella sua scimentali è il Ars Amandi. La Paolo Veronese, Nozze di Cana, 1562-63 (particolare) lusso con cui espreghiera iniziale si vengono alleera di rigore anche nelle mense più umili e lo stesso stiti allo scopo di sorprendere e divertire i partecidicasi per il Sacrificio ai Lari prima del dessert, col panti. Il Galateo dell’Arcivescovo Giovanni Della quale si offrivano granelli di sale agli dèi della casa. Casa, pubblicato nel 1558, codificava il corretto Il numero di ospiti che prendevano parte a un convicomportamento da rispettare quando si mangia. E vio romano, come ci informa Varrone, erano tre o la lettura del Galateo ci dice molto sui comportanove quanti le Grazie e non più delle Muse. Per i menti a tavola allora diffusi: ad esempio si vieta Greci invece il numero ideale era dieci, perché nudi pulirsi le dita con la tovaglia. Il Galateo consimero rotondo, ma anche sette in onore di Atena, dea dera maleducazione rimettere nel vassoio di portadella saggezza. Numerose testimonianze pittoriche e ta un osso spolpato, che invece deve essere buttato letterarie fanno ritenere che furono proprio i Greci a per terra; è per questo motivo che intorno alla taportare a Roma l’uso di mangiare distesi. vola ci sono spesso gatti e cani che partecipano al L’uso di mangiare seduti si affermò in epoca mepasto e in più “puliscono” il pavimento dai resti di dioevale: su alti scranni i signori e su sgabelli gli cibo. ospiti. Nasce in questi secoli l’idea del “capotavola” Nel Cinquecento vennero elaborati degli esemplari collocato al centro del lato lungo o su uno dei due preziosissimi di stuzzicadenti in oro che venivano lati corti e del posto a tavola, determinato dall’importati al collo come normali pendenti ornamentali. portanza delle persone e dai loro rispettivi rapporti. Nel Seicento si incominciò a mangiare con coltello, Anche la società monastica, che pure non prevede forchetta e cucchiaio, il tovagliolo faceva parte di gerarchie (almeno formali) fra i suoi membri, asseogni tavolata e comparve per la prima volta il bicgna i posti a tavola in base all’autorità dei singoli, chiere individuale. Dal Settecento il tovagliolo ascome sappiamo dalla Regola di Benedetto e da altri sunse la sola funzione di preservare l’abito del analoghi testi normativi. L’abate poi ha la sua mencommensale, collocandosi esclusivamente sulle sue sa distinta da quella dei confratelli. ginocchia. Dal Rinascimento in poi assistiamo a un’evoluzioTra tanti cambiamenti ci sono abitudini che si sono ne dell’etichetta a tavola che si farà sempre più siperpetuate nel tempo come l’uso di accompagnare i mile a quella contemporanea. Questo è il periodo banchetti con la musica che risale ai tempi degli dei grandi apparati e delle messinscena; gli addetti Egizi, per essere ripreso da Greci, Etruschi e Romaal servizio della tavola sono dei professionisti che ni. La tradizione che perdurò nel corso del medioeper gli allestimenti dei banchetti si avvalgono della vo, si rinvigorì a partire dal Quattrocento ed è socollaborazione di artisti e artigiani tra i più noti delprattutto nel Seicento e nel Settecento che la musica l’epoca. Esistevano poi una serie di figure di servida tavola conquistò l’interesse dei compositori. tori. C’era lo scalco, il termine deriva dal gotico La gastronomia, il cibo e le tavole imbandite a festa “skalke” (servo) ed entrò nell’uso intorno al Trehanno ispirato dalle origini ad oggi i più grandi arcento per indicare l’arte dello scalcare, cioè di tatisti e pittori. Le loro opere sono le testimonianze gliare e dividere le carni. Il coppiere che doveva più dirette che abbiamo di un momento fondamenporgere la coppa, coperta da una salvietta, scoprirtale della vita di un uomo, quello del pasto, essenziale per la sopravvivenza, ma sono anche fonte la, versare il vino, allungato con l’acqua, come usaimportante per lo studio della cultura di un popolo. va a quei tempi, e sistemare sotto la coppa un piatto


L’Ara Pacis di Augusto Comunicare attraverso le immagini della natura di Giulia Caneva

Il contesto storico Quando, dopo un periodo di sanguinose guerre civili che seguirono l’assassinio di Cesare e dopo i patti sanciti con le ultime popolazioni ribelli della Gallia e della Spagna, finalmente si prospettava l’avvio di una nuova era di pace, il Senato Romano decretò «che si dovesse consacrare un’Ara alla pace augustea nel Giulia Caneva Campo Marzio e ordinò che in essa i magistrati, i sacerdoti e le vergini vestali celebrassero ogni anno un sacrificio». Era il 4 luglio del 13 a.c. Dopo pochi anni, il 30 gennaio del 9 a.c. (giorno natale della moglie di Augusto, Livia) ci fu l’inaugurazione. L’altare fu collocato a lato della via Flaminia (attuale via del Corso), in una posizione simbolica nella parte settentrionale del Campo Marzio, ovvero del vasto pianoro dove i Romani avevano l’usanza di svolgere le esercitazioni militari. Lì ancora si estendevano aree verdeggianti con portici, circhi e palestre, bordeggiate da boschi sacri e lì Ottaviano Augusto aveva voluto edificare il suo Mausoleo e si apprestava a costruire la più grande meridiana mai esistita, che da lui avrebbe preso il nome di Horologium Augusti. Dopo l’interramento e l’oblio del monumento che si è protratto fino alla fine dell’Ottocento, nonostante dall’area provenissero importanti elementi scultorei che erano confluiti in collezioni archeologiche, grazie alle intuizioni del giovane archeologo tedesco Friedrich von Duhn e alle precise ipotesi ricostruttive di Eugen Petersen, si è dato il via allo scavo e alla ricomposizione del monumento. La sua ricostruzione fu completata sotto la guida del Moretti verso la fine degli anni Trenta (senza che si potesse ottenere peraltro il riassemblaggio di tutti gli originali, alcuni dei quali ormai appartenenti a collezioni straniere) quando per volere di Mussolini ne fu decisa la ricollocazione in prossimità del Mausoleo al margine del Tevere, a completamento del progetto di una nuova piazza dedicata ad Augusto, che aveva comportato ingenti operazioni di demolizioni e scavo. La costruzione del paramento esterno Dando uno sguardo d’insieme al paramento esterno si nota una partizione dello spazio con precise regole di simmetria, ordine e modularità. La struttura generale appare sostanzialmente omologa, con una parte basale organizzata in sei pannelli e costituita da rappresentazioni vegetali assai simili nella struttura, ma non assolutamente identiche e una parte sovrastante, composta anch’essa da sei pannelli, che dà spazio ad episodi mitici o evocativi. Nel lato occidentale di ac-

cesso all’Ara, essi ripercorrono la mitologia delle origini di Roma e nel lato orientale descrivono il potere e la prosperità da essa raggiunta; nei lati meridionale e settentrionale rievocano, dai due punti di osservazione laterale, il corteo processionale che rende omaggio ad Augusto al suo ritorno dopo la pacificazione delle ultime province ribelli. La cesura fra il tema vegetale, che occupa più della metà dello spazio scultoreo costituendo per l’osservatore anche l’elemento di principale impatto visivo, e le scene sovrastanti è costituita da un sistema geometrico di meandri (o svastiche) correnti lungo l’intero perimetro. Lo schema strutturale del “tema” centrale è costituito da una vigorosa pianta d’acanto che assume il ruolo di centro generatore, originando verso l’alto un elemento fitomorfico colonnare e simmetricamente, lungo le bisettrici e le linee laterali, tralci frondosi che si snodano con modularità circolari fino ad occupare l’intero spazio.

“Nelle credenze dell’uomo antico nulla era casuale e la logica associativa veniva costantemente utilizzata per capire il perché profondo dei fenomeni. L’affacciarsi di uno stormo di uccelli da una certa direttrice, il disporsi delle stelle nel cielo nelle varie costellazioni, il fiorire o fruttificare di un albero erano il risultato dell’espressione divina e come tali avevano influenza sulla vita umana” Il linguaggio e la modalità di comunicazione Nella mentalità e nelle credenze dell’uomo antico nulla era casuale e la logica associativa veniva costantemente utilizzata per capire il perché profondo dei fenomeni. L’affacciarsi di uno stormo di uccelli da una certa direttrice, il loro numero, il loro volteggiare nel cielo e posarsi sulla terra, il disporsi delle stelle nel cielo nelle varie costellazioni, il nascere e calare della luna, così come il fiorire o fruttificare di un albero o qualsiasi altro fenomeno della Natura, erano il risultato dell’espressione divina e come tali avevano influenza sulla vita umana. Le modalità con cui il divino si poteva manifestare erano quindi molteplici e tutto era una sorta di messaggio che l’uomo avrebbe dovuto decodificare e rispettare. A questo punto come capire il messaggio divino? Erano le forme, i colori, le posizioni, le geometrie, i movimenti, i ritmi e le somiglianze percepite le regole di base per interpretare il senso delle cose. Credo quindi che, nello schema di comunicazione caro agli antichi, che affidavano

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alle allegorie l’espressione più efficace degli stati d’animo dell’uomo e delle vicende della sua vita, il grande fregio vegetale vada interpretato come una rappresentazione allegorica che trasmette un messaggio simbolico. Per dare corpo scientifico all’ipotesi di un messaggio affidato a queste sculture, mi è sembrato quindi fondamentale ricostruire la modalità di costruzione del “linguaggio”, a partire dal suo “alfabeto”, identificando le singole tessere di questo “mosaico”, ovvero le diverse specie vegetali che ne costituiscono la “flora”.

“Dall’analisi della composizione scultorea emerge un’attenta conoscenza e una straordinaria capacità di osservazione della realtà biologica nella sua diversità e nei suoi meccanismi di funzionamento” Al fine di cogliere il senso della composizione è necessario guardarla a diverse distanze; avvicinandosi alle singole porzioni del pannello è possibile apprezzare la struttura dei singoli elementi che lo compongono, come se fossero le singole “tessere del mosaico”; guardandolo ad una certa distanza è possibile percepire con uno sguardo di insieme la struttura logica del sistema, così come in un “grande affresco”. Composizioni fantastiche di elementi veri Accettata l’idea della necessità di procedere ad una progressiva “scomposizione” dell’immagine, emergono così dal paramento esterno del monumento centinaia e centinaia di singoli elementi sovrapposti l’un l’altro con cesure spesso individuabili sul piano grafico e probabilmente un tempo percepibili anche sul piano cromatico (vd. immagine a p.19). Piante vere da composizioni fantastiche In alcune porzioni del paramento è possibile anche il procedimento opposto e cioè altre immagini si generano guardando invece il monumento da lontano, cioè non più scomponendo, ma “riaggregando” visivamente diversi elementi tipologici. Le tessere del mosaico Dall’attenta analisi della struttura della composizione scultorea emerge un’attenta conoscenza e una straordinaria capacità di osservazione della realtà biologica nella sua diversità e nei suoi meccanismi di funzionamento. L’elencazione delle diverse tessere permette di riconoscere circa novanta specie diverse, la maggior parte delle quali è limitata ad una o poche rappresentazioni e quindi l’aver perso ampie porzioni del paramento suggerisce anche una grande perdita della “biodiversità” inizialmente concepita (vd. immagini a p. 20). Tanta diversità è però riconducibile a “famiglie di tessere omologhe” sulla base di una similitudine nella valenza simbolica. Gli ambienti ispiratori A livello ecologico le specie scelte si ispirano sostanzialmente a quelle di ambienti di prati, pascoli e garighe tipiche di ambienti mediterranei. È infatti netta la dominanza in senso quantitativo di elementi tipici degli ambienti pastorali, ruderali e sinantropici. A questi si sommano una discreta quantità di elementi delle macchie, delle foreste e dei cespuglieti degli ambienti mediterranei e in minor misura anche di ambienti umidi e ripariali dell’area mediterranea e

medio-orientale. Emerge un’incredibile quantità di fiori (soprattutto bulbose quali liliaceae, amarillidacee ed iridacee), che si dipartono dalla struttura dei tralci fondamentali e che emergono dalla terra quando nuova vita è possibile. Il sistema gerarchico di composizione dell’immagine Esiste inoltre nel sistema di composizione dell’immagine uno schema molto ordinato e preciso degli elementi fitomorfici, che appaiono scelti in modo non casuale a seconda della collocazione e del significato che dovevano assumere. È infatti possibile raggruppare i diversi elementi dell’insieme in funzione del loro impiego nello spazio visivo, ottenendo così un sistema gerarchico di composizione dell’immagine, ricavato dalla struttura architettonica dell’insieme. È quindi possibile evidenziare un elemento utilizzato come generatore, altri per formare i tralci, altri ancora per gli elementi colonnari, per quelli terminali o per le spirali, o infine per quelli “emergenti”. Il messaggio augusteo La Rinascita di Roma e del mondo intero e l’avvio di una nuova era: il ritorno all’Età dell’Oro Procedendo secondo una gerarchia di importanza sul piano della comunicazione visiva, si deve cercare di dare una risposta al quesito di base di questa scelta progettuale. Perché le piante, nelle loro forme, esternate da tralci, foglie, fiori e in subordine anche da frutti, rappresentano l’elemento dominante, sia in assoluto che nel contesto naturalistico? A ciò si può rispondere osservando che l’elemento vegetale in quanto tale rappresenta quello che, macroscopicamente e secondo le conoscenze degli antichi, meglio esprime il processo primordiale di organizzazione della vita a partire dalla

Paramento esterno dell’Ara Pacis


materia informe. Perché poi così grande rilievo all’acanto? È stato già sottolineato come l’acanto sia il nucleo centrale della rappresentazione e come nel mondo antico il suo uso nelle sculture, nei capitelli e nelle varie forme di rappresentazione artistica non avesse solo una funzione decorativa. Esso va visto non come una semplice pianta ornamentale dal bel fogliame, ma nella sua valenza simbolica di elemento che esprime la rinascita e quindi anche l’immortalità.

“È netta la dominanza in senso quantitativo di elementi tipici degli ambienti pastorali, ruderali e sinantropici” La nuova Roma si ricollega all’antica Troia facendo riemergere i valori del passato La connessione di Roma con Troia è stabilita in più elementi a partire dal riferimento esplicito ad Enea. È qui però interessante osservare come le specie rappresentate derivino da una scelta selettiva molto evidente di specie che, avendo bulbi e tuberi sotterranei (geofite), meglio di tutte si prestano a una idea di “rinascita di ciò che appare sepolto” quando cessa un fattore ecologicamente limitante (ad esempio dopo il passaggio dell’incendio oppure nel periodo di aridità estiva). Ma il “rinascere dalla terra” significa anche “restaurare il preesistente” e in questa ipotesi il messaggio politico sarebbe stato molto forte: non semplicemente una nuova era, ma un’era che non annulla i valori del passato, ma li fa riemergere.

Composizioni fantastiche di elementi veri

La rinascita si propagherà nel mondo Tale risveglio non è collegato esclusivamente all’elemento generatore, ma appare diffuso in ogni parte delle volute acantiformi. Il risveglio della natura e la sua propagazione in tutto lo spazio visivo sono chiaramente percepibili e la forza comunicativa di questo processo appare nettamente incisiva.

“Perché le piante, nelle loro forme, esternate da tralci, foglie, fiori e in subordine anche da frutti, rappresentano l’elemento dominante, sia in assoluto che nel contesto naturalistico?” La rinascita sarà il preludio di un’Era felice, ovvero un ritorno all’Età dell’Oro La rinascita, con il suo passaggio da ambienti aridi e inospitali, dove prevalgono cardi e piante spinose, a prati fioriti, si esprime in tutta la sua prospettiva di era felice attraverso “un’esplosione di fiori” e questa enorme fioritura rappresenta chiaramente l’augurio di un’epoca felice, cioè il preludio di un periodo di prosperità, che qui viene preannunciato e che nell’interno dell’Ara, grazie ai festoni augurali ricchi di frutti carnosi e dai molti semi, verrà ulteriormente sottolineato. Analizzando i fregi lunghi dei lati meridionale e settentrionale, sottostanti alla raffigurazione processionale, si deve però osservare che i rami basali dell’acanto sembrano dar vita ad ulteriori elementi generatori che ripetono, in maniera simile ma semplificata, lo schema della pianta di origine, determinando la replicazione modulare del modello fondamentale. Tale elemento generatore sembrerebbe rappresentare Roma e la sua capacità di replicare il suo modello di sviluppo ed ordine nelle colonie del costituendo impero, partecipi tutte con la “città madre”, delle omologhe leggi di organizzazione e struttura. Da osservare che la replica-

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forme sembra quindi zione modulare di se sottolineare il succestesso si osserva fredersi secondo un contiquentemente nel monnuum che presenta infido vegetale, come fornite potenzialità ma ma di riproduzione veprecise regole. getativa. In questo moLa proiezione verso la do le piante conquistavittoria e l’eternità si no lo spazio circostante percepiscono da vari grazie a fusti striscianti elementi. A parte la po(stoloni), che tramite sizione apicale di fogemme producono poi glie di palma che alluun individuo del tutto dono alla vittoria, ma simile a quello che l’ha che sono anche rappregenerato. Piante stolosentative della vita che nifere e coloniali, quali risorge da se stessa (si la felce aquilina che pensi al nome stesso di emerge come “superPhoenix, ovvero fenimodello” riaggregando L’elencazione delle diverse tessere permette di riconoscere circa novanta specie ce), va ricordato che invece le immagini, biologiche diverse gli elementi terminali non potevano passare in realtà non sono mai tali, in quanto producono sempre nuoinosservate all’osservazione naturalistica dell’uomo antico vi elementi. Ciò appare indicare l’assenza della fine, cioè la e tale specie è stata probabilmente un modello ispiratore negazione di un termine ultimo. Il fiore che al suo centro pronon solo per affinità formali, ma anche per strategia di soduce una nuova gemma o un nuovo elemento generativo alpravvivenza e modalità di conquista dello spazio. lude alla vita che contiene in sé altra vita in fase embrionale o un preludio ad una nuova vita e ciò genera contestualmente “L’elemento vegetale in quanto tale l’idea della negazione di una fine, cioè di una potenziale eterrappresenta quello che, nità. Naturalmente tutto ciò va interpretato come la celebramacroscopicamente e secondo le zione del messaggio politico augusteo di avvio della nuova Età dell’Oro che coincide con un nuovo processo di espanconoscenze degli antichi, meglio sione di Roma nel mondo, che avviene con ordine ed armoesprime il processo primordiale di nia e che si proietta verso l’eternità. organizzazione della vita a partire Ritengo che il linguaggio utilizzato dovesse risultare per dalla materia informe” certi aspetti molto semplice ed immediato e per altri assai più complesso, potendo così raggiungere i diversi strati sociali della popolazione; in funzione del proprio livello culOrdine ed armonia e proiezione verso l’eternità turale, il messaggio sarebbe infatti stato percepito in maniePerché poi tanta ricerca di ordine e di regole numeriche precira più o meno globale e profonda. Il popolo, seppure incolse? È bene infatti ricordare che lo schema mostra un ben preto, avrebbe saputo cogliere alcuni aspetti fondamentali, leciso ordine che si basa su una simmetria bilaterale, ma non rigati ad un rapporto atavico e quotidiano con la natura: cologidamente riprodotta. Tale simmetria è fra le regole fondari, forme, analogie, avrebbero guidato l’interpretazione di mentali di organizzazione armonica nel mondo naturale e seuno schema la cui forza sarebbe stata percettibile anche a condo gli antichi (vedasi in particolare Pitagora e Platone) persone totalmente analfabete, ma ben abituate a leggere i l’armonia sarebbe strettamente legata alla simmetria, alla prosegni del cielo, della terra e del mare; il Senato e gli strati porzione e per questo rappresenta uno dei canoni fondamenpiù istruiti della popolazione sarebbero stati in grado di legtali della bellezza. Non ci deve troppo stupire la presenza qui gere le allegorie più nascoste, percependo in ogni passagdi rapporti aurei e di una struttura frattale dell’immagine. Il gio, ulteriori messaggi solo apparentemente criptici. processo dinamico del fluire della natura nelle sue molteplici

La ricchezza degli elementi vegetali scelti in un monumento di così grande rilievo storico e la loro ben precisa disposizione evidenziano non solo come essi abbiano un effetto decorativo, ma come siano lo strumento di un ben preciso intento simbolico-allegorico, collegato al manifesto politico del costituendo impero. Nel volume vengono illustrati gli elementi costitutivi di questo alfabeto botanico, le regole di organizzazione del linguaggio iconografico e infine si propone la lettura del messaggio augusteo di nuova prosperità, in un processo di rinascita possibile grazie alla pace, attraverso una continua trasformazione, che si proietta verso l’eternità. Giulia Caneva, Il codice botanico di Augusto. Ara Pacis: parlare al popolo attraverso le immagini della natura, Roma, Gangemi, 2010.


L’importanza di chiamarsi zinco L’insospettabile ruolo di un metallo nell’alimentazione di Marco Colasanti e Daniela Vona

Cos’è lo zinco? Lo zinco è un elemento talmente importante nella salute dell’uomo che anche una piccola carenza può provocare enormi danni. Lo zinco è richiesto per l’attività metabolica di oltre 300 proteine presenti nell’organismo, con funzioni strutturali, di regolazione e catalitiche. Partecipa attivamente Marco Colasanti al metabolismo delle proteine, degli acidi nucleici, dei carboidrati, dei grassi e dell’alcool. Tra i sistemi più importanti, vanno ricordate le amminoacil-tRNA sintetasi, la DNA e la RNA polimerasi, la fosfatasi alcalina, la lattico deidrogenasi, la superossido dismutasi, nonché tutti i fattori di trascrizione contenenti il motivo strutturale dello “zinc finger”. Lo zinco è considerato essenziale per la divisione cellulare e la sintesi del DNA per la crescita dei tessuti, la guarigione delle ferite, per il senso del gusto, per la crescita e manutenzione del tessuto connettivo, per la funzione del sistema immunitario e della tiroide, per la produzione delle prostaglandine, per la mineralizzazione delle ossa, per un’adeguata coagulazione del sangue, per le funzioni cognitive, per la crescita fetale e per la produzione dello sperma. L’organismo umano contiene circa 2 gr di zinco, con localizzazione ubiquitaria ma concentrazione particolarmente elevata nella muscolatura striata (60%), nelle ossa (30%) e nella pelle (4-6%). Poiché non esiste una riserva specifica di questo metallo, è necessario assumerlo regolarmente con l’alimentazione, sebbene lo zinco epatico possa essere in parte mobilizzato in caso di deficit limitato nel tempo. Una frazione variabile tra il 10% e il 40% dello zinco introdotto con l’alimentazione viene assorbito a livello dell’intestino prossimale. Vari fattori regolano la quota che viene assorbita; in particolare il fabbisogno dell’elemento (rilevato dalla sua concentrazione ematica), la forma chimica e la presenza nel lume intestinale di microelementi in competizione per il trasporto e/o di agenti chelanti. Di particolare rilevanza è anche la concentrazione nelle cellule mucosali di metallotioneina, una proteina in grado di legare con elevata affinità lo zinco (oltre ad altri metalli come il cadmio). Lo zinco assorbito viene trasportato in circolo dall’albumina e dalla alfa-macroglobulina e la sua omeostasi viene mantenuta principalmente attraverso la regolazione dell’assorbimento e, in parte minore, dell’escrezione che avviene sia con le feci sia con le urine. Lo zinco nell’alimentazione in Italia Nella dieta tipica del nostro Paese, le fonti alimentari prin-

cipali di zinco sono costituite da carni, uova, pesce, latte e derivati, cereali (tabella a p. 22). Alimenti di origine animale sembrano avere una maggiore biodisponibilità di zinco rispetto a quelli di origine vegetale. È probabile che tale differenza sia dovuta alla presenza, nei prodotti di origine vegetale, di molecole interferenti con l’assorbimento dello zinco, Daniela Vona in particolare l’acido fitico e la fibra alimentare. È opportuno ricordare che i fitati (i sali dell’acido fitico) interferiscono negativamente anche con l’assorbimento del ferro, e che il loro effetto è amplificato da alti livelli di calcio. Va tuttavia sottolineato che il contenuto in fitato rilevato in media nella dieta italiana (circa 300 mg/die) non è sufficiente a ridurre in modo significativo la biodisponibilità dello zinco. L’assunzione totale di zinco con la dieta media italiana risulta essere di circa 13 mg/die. Più del 40% dello zinco assunto con la dieta italiana (5 mg/die) deriva dal consumo di carne, interiora e pesce. Altre fonti importanti di zinco sono il latte ed i cereali che, nella dieta media italiana, contribuiscono all’assunzione totale giornaliera entrambi per circa il 20% (3 mg/die); le verdure forniscono invece circa il 12% (1,5 mg/die). Uno studio condotto su tre comunità rurali ha evidenziato un’assunzione media giornaliera di 8 -11 mg.

“Lo zinco è considerato essenziale per la divisione cellulare e la sintesi del DNA, per la crescita dei tessuti, la guarigione delle ferite, per il senso del gusto, per la funzione del sistema immunitario e della tiroide, per la mineralizzazione delle ossa, per le funzioni cognitive, per la crescita fetale” Livelli di assunzione raccomandati La Commission of the European Communities (1993) usa il metodo fattoriale per stimare il fabbisogno di zinco nel bambino. Secondo questa metodica di calcolo, sono sufficienti 2-3 mg di zinco/die per mantenere le normali funzioni metaboliche. È probabile che in presenza di disponibilità più basse intervengano meccanismi

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compensatori che mantengono (entro certi limiti) inalterata l’omeostasi del metallo attraverso la ritenzione dello zinco endogeno. Lo stesso calcolo applicato agli adulti indica il fabbisogno giornaliero di zinco in 7,5 mg nei maschi e in 5,5 mg nelle femmine. Studi effettuati su donne incinte suggeriscono che non sia necessario aumentare l’apporto di zinco in gravidanza. Sebbene ci siano evidenze che in corso di allattamento l’assorbimento dello zinco alimentare aumenti, viene comunque consigliata una maggiorazione dell’assunzione di 5 mg/die, per reintegrare la quota secreta nel latte. In ogni caso, la Commission of the European Communities (1993) raccomanda di non superare 30 mg/die di assunzione di zinco nell’adulto.

“Nella dieta tipica del nostro Paese, le fonti alimentari principali di zinco sono costituite da carni, uova, pesce, latte e derivati, cereali” Carenza o eccesso di zinco Secondo uno studio effettuato nella Tufts University, la carenza di zinco rappresenta uno dei principali deficit nutrizionali nei bambini degli Stati Uniti. Più del 50% dei bambini poveri e il 30% dei bambini più agiati, di età compresa tra 1 e 5 anni, ottengono meno del 70% del fabbisogno alimentare giornaliero raccomandato di zinco. La carenza di zinco può essere causata da malassorbimento e può portare a quadri clinici caratterizzati da diarrea cronica, dimagrimento, alopecia, lesioni cutanee e caduta delle difese immunitarie. Quadri clinici simili possono essere acquisiti da pazienti trattati a lungo con nutrizione parenterale totale mediante soluzioni che non contengono zinco, o in portatori di by-pass intestinale. In tutti questi casi, la sintomatologia regredisce rapidamente con opportuna supplementazione parenterale od orale di zinco. In ogni caso, una carenza di zin-

co è stata implicata come fattore determinante in una serie di patologie, tra cui difetti alla nascita, ritardo della crescita, sviluppo sessuale ritardato, impotenza, mineralizzazione difettosa dell’osso e problemi artritici, difetti della pelle (acne e dermatiti), riduzione della guarigione di ferite, problemi oculari (miopia, separazione retinica, cataratte, neurite ottica), perdita dell’odorato e del gusto, anoressia, depressione, funzione immune alterata. Una carenza di zinco con sintomi meno caratteristici è riscontrabile anche in altre patologie correlate ai processi di assorbimento (morbo di Crohn, celiachia), nonché nelle infezioni ricorrenti, nel trattamento cronico con diuretici o con con D-penicillamina e nell’anemia falciforme. Al contrario, l’assorbimento eccessivo di zinco può interferire con la normale omeostasi di altri elementi, in particolare con il metabolismo del rame. Si è osservata tossicità acuta, ad esempio, in soggetti sottoposti a dialisi, a causa di cessione dello zinco dai contenitori dell’acqua di dialisi. La tossicità acuta si manifesta con nausea, vomito e febbre. L’interferenza dello zinco sul metabolismo del rame porta a riduzione del numero dei leucociti e alla comparsa di anemia microcitica. Anche l’assorbimento di altri elementi viene alterato, in particolare quello del magnesio e del calcio, con conseguen-

“Secondo uno studio effettuato nella Tufts University, la carenza di zinco rappresenta uno dei principali deficit nutrizionali nei bambini degli Stati Uniti” ze importanti sullo stato dell’osso. La ricerca scientifica sullo zinco Negli ultimi anni, la ricerca scientifica ha focalizzato l’attenzione sull’importanza dello zinco per il corretto funzionamento del sistema immunitario e della risposta


for healthy ageing, è stato coordinato dal dr. Eugenio Mocchegiani del Centro di ricerca italiano sull’invecchiamento con sede ad Ancona (INRCA - Italian National Research Centres on Aging) e ha coinvolto diciassette unità operative distribuite in diverse università europee (tra cui l’Università Roma Tre) di otto nazioni differenti (Italia, Spagna, Inghilterra, Francia, Germania, Polonia, Ungheria e Grecia). Da questi studi emerge che la somministrazione di zinco negli anziani sembra migliorare la risposta immunitaria Rappresentazione schematica della metallotioneina, una proteina che lega atomi metallici (sfere cele- e ridurre lo stress ossidativo, anche se esistono differenze sti), come ad esempio lo zinco nelle risposte individuali dovute a molti fattori, quali le abitudini alimentari, il geantiossidante dell’organismo. L’omeostasi dello zinco notipo, il genere, l’uso dei farmaci. Uno di questi fattori aiuta a mantenere l’integrità e la stabilità genomica, inè il diverso profilo genetico dei soggetti arruolati per fluenza lo sviluppo e la funzione delle cellule immuniquesto studio. Infatti, un ruolo fondamentale è giocato tarie oltre che l’attività di molte proteine coinvolte nelda alcune proteine coinvolte nella regolazione dell’ola protezione dell’organismo contro i radicali liberi. meostasi dello zinco che possono presentarsi con poliDurante l’invecchiamento, l’assorbimento dello zinco morfismi genetici. Una classe importante di tali proteine diminuisce a causa o di una dieta insufficiente e/o di è rappresentata dalle metallotioneine che legano lo zinco malassorbimento intestinale, contribuendo alla debolezcon alta affinità (vedi immagine sopra) ma che lo liberaza, all’inabilità generale e ad una aumentata incidenza no, in risposta a stress ossidativo, modulando l’espresdi malattie associate all’età (cancro, infezioni ed aterosione dei geni zinco-dipendenti ed attivando gli enzimi antiossidanti. “Negli ultimi anni, la ricerca scientifica Conclusioni ha focalizzato l’attenzione La carenza di zinco, la disfunzione immunitaria e l’aumentato stress ossidativo sono eventi comuni nei sogsull’importanza dello zinco per il getti anziani ed è chiaro che lo stile di vita e le abitudicorretto funzionamento del sistema ni alimentari, compreso il consumo di zinco, hanno un immunitario e della risposta grande impatto su questi fattori. antiossidante dell’organismo” Nonostante si siano fatti enormi passi avanti riguardo la sensibilità e specificità dei vari metodi per valutare lo stato dello zinco nell’organismo, la ricerca sul ruolo sclerosi). Recentemente, è stato osservato che alcuni dello zinco nell’invecchiamento è ancora in una fase polimorfismi (variazione genetica) di proteine ed enziiniziale. Molto incoraggianti sono i risultati ottenuti mi coinvolti nella regolazione dell’omeostasi dello zinsulla funzione delle metallotioneine e dei trasportatori co sono associati a patologie ricorrenti durante l’invecdello zinco nell’invecchiamento e, in particolare, sulla chiamento. Sebbene siano stati identificati molti fattori che contribuiscono alla carenza dello zinco, la possibilità di migliorare la salute attraverso la supplementazione di questo metallo negli anziani è ancora oggetto di “Zincage, un progetto di ricerca mirato studi intensi. e specifico finanziato dall’Unione Progetto ZINCAGE Europea, ha affrontato il ruolo dello Zincage (www.zincage.org), un progetto di ricerca mirazinco nell’invecchiamento” to e specifico (STREP) finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del sesto programma quadro (FP6), area tematica “Food quality and safety”, ha affrontato negli ulsupplementazione dello zinco nei soggetti anziani, ma timi anni il ruolo dello zinco nell’invecchiamento, foresistono ancora forti limitazioni per quanto riguarda la nendo informazioni dettagliate sugli effetti della suppleriproducibilità e la generalizzazione dei dati scientifici mentazione di zinco negli anziani. Questo progetto dal e la conseguente applicabilità nelle pratiche mediche e titolo Nutritional zinc, oxidative stress and immunosenealimentari. scence: biochemical, genetic and lifestyle implications

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Sei davvero sicura di non volere un’altra fetta di torta? Sulle implicazioni sociali del mettersi a dieta di Laura Terragni

Il numero delle persone in sovrappeso aumenta in modo allarmante. Per far fronte a questa “pandemia” vengono messe in campo un numero crescente di iniziative volte a convincere le persone a prestare più attenzione alla Laura Terragni propria dieta e a cambiare il proprio stile di vita. Ottenere dei risulati duraturi è tuttavia difficile: dopo un po’ di tempo il peso aumenta di nuovo, l’esercizio fisico diminuisce, le vecchie abitudini riprendono il sopravvento. Che cosa è che non funziona? Da più parti si richiede un riesame degli approcci usati fino ad ora ed un cambiamento di prospettiva. Ad essere messi sotto critica sono gli approcci che fanno riferimento al mangiare come una scelta basata su attitudini e motivazioni individuali, come ad esempio i modelli della psicologia comportamentale quali la teoria del comportamento pianificato di Azjer o il modello transteoretico sulla motivazione al cambiamento di Prochaska. Un manifesto di questa critica è l’intervento della sociologa dell’alimentazione Anne Murcott al simposio sulle Psycho-social influences on food choice: implications for dietary change del 1995. Qui, potremmo dire “senza peli sulla lingua”, Anne Murcott contestò il fatto che le abitudini alimentari vengano considerate come “scelte” condizionate da fattori sociali. Scelte alimentari e fattori sociali non sono due entità separabili, sostiene Murcott: il mangiare è un fatto sociale che va compreso nella sua interezza. Solo comprendendo questo nesso si può gettare nuova luce – e un po’ di speranza – sui problemi alimentari che ci circondano.

“Il numero delle persone in sovrappeso aumenta in modo allarmante. Per far fronte a questa pandemia vengono messe in campo un numero crescente di iniziative volte a convincere le persone a prestare più attenzione alla propria dieta e a cambiare il proprio stile di vita” Il considerare le pratiche alimentari come un fatto sociale ha diverse implicazioni. In primo luogo significa conside-

rare le persone che mangiano non come individui astratti, asessuati e senza età che semplicemente “scelgono” quello che hanno nel piatto. Chi mangia è una persona con un genere, un corpo e una storia che dividono il cibo insieme ad altri in contesti specifici: da quello familare, a quello lavorativo, al tempo libero. Chi mangia o chi prepara il cibo è una padrona di casa o un ospite, una madre, una figlia, un marito, un amico o un conoscente. Tra i sociologi del consumo – come Alan Warde e Roberta Sassatelli – si sottolinea inoltre che il mangiare non va visto come una pratica isolata ma come una pratica dentro altre pratiche. Quando siamo invitati ad un compleanno non “scegliamo” di mangiare una torta: la pratica “festeggiare il compleanno” implica che ad un certo punto arriverà una torta con le candeline e che questa ci verrà servita su un piatto (e che è buona educazione mangiarla!). L’essere sociale delle pratiche alimentari appare in modo evidente quando consideriamo il mettersi a dieta. Mettersi a dieta è un’azione che mette in discussione pratiche sociali tacite e condivise. Proviamo a chiederci: che cosa succede attorno ad un tavolo quando uno vuole sostituire la pasta con un’insalata, un bicchiere di vino con dell’acqua naturale?

“Il considerare le pratiche alimentari come un fatto sociale ha diverse implicazioni. In primo luogo significa considerare le persone che mangiano non come individui astratti, asessuati e senza età, ma come persone con un genere, un corpo e una storia” Nella parte che segue cercherò di rispondere a questa domanda basandomi su delle riflessioni compiute studiando donne e uomini che si sono iscritti ad un corso per ridurre il loro peso. Mettersi a tavola Mettersi a tavola e dividere il cibo con altri è un esperienza comune alla stragrande maggioranza di noi. Nonostante ripetutamente si senta dire che i pranzi e le cene siano istituzioni in via di estinzione, numerose ricerche – di volta in volta – ribadiscono che si continua a mangiare con gli altri in forme e in tempi organizzati e che si dà a questo molta importanza. Le persone che sono a dieta non fanno eccezione a questa regola: nessuna, tra quelle intervistate, ha detto di preparare del cibo diverso per sé o di mangiare da solo (se si vive in fami-


glia). Consumare il cibo insieme ha però il suo prezzo: in termini di compromessi, eccezioni o piccoli sotterfugi. Se le cose in genere funzionano quando è chi sta a dieta che fa la spesa e prepara la cena, alcuni problemi emergono quando sono altri a farlo. Mariti, mogli o amici distratti possono “dimenticarsi” che l’altro è a dieta e preparano piatti che poco si addicono alle nuove esigenze alimentari. Tuttavia, piuttosto che venire meno a questo rituale quotidiano si fa comunque buon viso a cattivo gioco: si cerca di mangiare meno e di tirare via le salse, le creme, i condimenti. Le situazioni più difficili sono comunque quelle in cui si è invitati a cena a casa d’altri. Occhi indagatori osservano quello che hai nel piatto. E se è cattiva educazione abbuffarsi, anche mangiare troppo poco o rifiutare il cibo può creare imbarazzi. Allora si cerca di mangiare e di bere piano – senza darlo troppo a notare – perché è più improbabile che ti venga offerta una seconda porzione se hai del mangiare ancora nel piatto o che ti venga versato di nuovo del vino se il bicchiere è ancora mezzo pieno. Il cibo come pratica dentro altre pratiche Uscire con gli amici a mangiare una pizza. Bersi una birra dopo essere stati allo stadio. Comperare i popcorn quando si va al cinema. In molti casi il mangiare è una componente quasi inscindibile di altre attività, specialmente quelle legate al tempo libero. Mettersi a dieta implica una decostruzione di queste attività dove l’elemento del cibo (o del bere) viene scisso dal resto. Se è vero che è del tutto legittimo e possible compiere questa operazione, provate ad immaginarvi un tifoso di calcio che finita la partita se ne va al bar con gli amici ed ordina un bicchiere di acqua minerale o una coca cola light! Mettersi a dieta implica una riconsiderazione dei propri rapporti sociali e delle proprie amicizie. Uscire può divenire una fonte di ansie. Gli amici “veri” divengono quelli che che non ti prendono in giro se bevi l’acqua, che non ti tentano con un piatto di fettuccine alla panna o che non ti mettono davanti al naso un sacchetto di patatine. Ancora meglio se l’acqua gassata e l’insalata la ordinano pure loro. Il posto delle cose «Non puoi farmi questo!» Mettersi a dieta implica anche dei cambiamenti nella disposizione dei cibi. Dove si trovano nella dispensa e nel frigorifero. Aprire la credenza e trovarla piena di cibi “proibiti” non è un’esperienza positi-

va per chi si sforza di stare alla larga dalle tentazioni. Meglio metterli in posti separati, lontani dagli occhi, non sapere neanche che si trovano in casa. Mentre alcuni oggetti escono dai posti più consueti altri divengono parte di un uso quotidiano: pentole per cuocere a vapore o ai ferri, bilance, lava insalata, bollitori per le tisane. Al posto dell’olio, le spezie. Il mettersi a dieta implica una riassegnazione degli spazi della cucina, delle zone accessibili e di quelle che invece è meglio evitare. Implica l’acquisizione di nuove competenze del cucinare, del conoscere i cibi, del saper leggere le etichette.

“Se le cose in genere funzionano quando è chi sta a dieta che fa la spesa e prepara la cena, alcuni problemi emergono quando sono altri a farlo. (…) E se è cattiva educazione abbuffarsi, anche mangiare troppo poco o rifiutare il cibo può creare imbarazzi” Per concludere. Mettersi a dieta, come ho cercato sinteticamente di descrivere, implica ripensare al modo di fare la spesa, di cucinare, di pensare al tempo libero; crea nuove coesioni e alleanze tra i componenti della famiglia e gli amici; implica la messa in atto di strategie e compromessi. Lo studio del mettersi a dieta ci rimanda al nodo essenziale affrontato dai classici della sociologia (da Durkheim a Weber, da Goffmann a Giddens) del rapporto tra individuo e società, tra spazi dell’agire individuale e valenza delle norme sociali. Mettersi a dieta è molto più che un problema di motivazione è soprattutto una questione di conseguenze. Per le persone obese queste conseguenze non sono limitate nel tempo. Non si tratta di perdere i tre chili per mettersi in bichini, ma di perderne trenta, quaranta a volte anche molti di più. Spesso le persone obese hanno intorno a sé un ambiente “ostile” ai cambiamenti, un ambiente al quale si è legati per affetti, consuetudini, mancanza di altre opportunità. Le implicazioni del mettersi a dieta andrebbero tenute maggiormente in conto quando si progettano interventi per arginare l’ondata crescente di obesità.

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Il menù dello studente Come si mangia nelle mense universitarie di Gianpiero Gamaleri Una delle ragioni della popolarità di Michelle Obama sta nella campagna da lei promossa contro l’obesità giovanile drammaticamente diffusa negli Stati Uniti. Una campagna – la sua – fatta non di prediche, ma di performance collettive all’aperto in cui la first lady svolge il ruolo di leader, con esercizi fisici e prestazioni gastronomiGianpiero Gamaleri che ispirate al criterio di un sano equilibrio. Da noi in Italia, fortunatamente, le malattie da cattiva alimentazione non hanno investito i giovani con altrettanta virulenza, anche se tendenze bulimiche e anoressiche, combinate con fattori psicologici diffusi, sono in crescita. Ciò che comunque caratterizza la situazione dei ragazzi, specie nel periodo universitario, è la scarsa consapevolezza delle conseguenze dei comportamenti alimentari. La presenza nelle università di mense e bar non obbedisce quindi soltanto all’esigenza primaria di avere a portata di mano luoghi di ristorazione, ma anche a quella tutt’altro che secondaria di correggere tendenze alimentari poco equilibrate. Se prendiamo le mense gestite dall’Adisu Roma Tre, ad esempio, così come quelle di Laziodisu nelle altre università pubbliche della Regione, la prima cosa che ci colpisce è l’impostazione del menù. L’avvicendarsi settimanale dei diversi piatti, la selezione dei cibi e la loro preparazione è precisa conseguenza di scelte operate da nutrizionisti di livello, gli stessi che sovraintendono e controllano le grandi catene alberghiere. Valga un nome per tutti: quello del prof. Carlo Cannella, professore ordinario di Scienza dell’alimentazione nella Facoltà di Medicina e Chirurgia alla Sapienza, noto anche al pubblico televisivo per le sue numerose partecipazioni a Superquark. Il prof. Cannella ha collaborato con l’Adisu Roma Tre per un lungo periodo, impostando i criteri base su cui fondare il servizio di ristorazione per gli studenti. Attualmente Laziodi-

Immagini della mensa di via della Vasca Navale

su si avvale della collaborazione della sua allieva, dott. Maria Pia Muli, la quale ha l’incarico di sorvegliare sulla sicurezza degli alimenti e sulla corretta prassi di lavorazione degli stessi, nonché di tenere corsi di formazione per il personale addetto alle mense. Ma vediamo più da vicino come funzionano le mense di Roma Tre. Come gli studenti sanno, allo stato attuale abbiamo la struttura di Via della Vasca Navale, 79 e quella, in regime di convenzione, scelta a seguito di indagine di mercato e sentiti i rappresentanti degli studenti, di via Libetta 19. L’accesso è aperto a tutti gli studenti universitari e il costo del pasto è variabile in relazione alla fascia reddituale cui si appartiene. Entrambe operano sulla base di un preciso capitolato di incarico che stabilisce caratteristiche dei menù, modalità di espletamento del servizio nonché i vari oneri a carico del fornitore. Ma ci sono menu particolarmente adatti agli studenti? «L’alimentazione in effetti può aiutare l’apprendimento – sostiene Oliviero Sculati, direttore dell’Unità di nutrizione di una Asl – ma solo nel senso che una situazione generale di equilibrio nutrizionale permette al cervello di lavorare meglio. Senza aspettarsi miracoli. Anche se è vero che i fosfolipidi contenuti nel pesce o nelle uova fanno bene ai neuroni (le cellule cerebrali), non ne occorre una quantità industriale: basta mangiarli due o tre volte alla settimana. Le bevande energetiche a base di tuorli sbattuti e marsala, tanto raccomandate dalle nonne, erano un utile supplemento proteico nel passato, quando l’alimentazione era carente: oggi non servono». A parere di Augusta Albertini, docente di Educazione alimentare all’Università di Pavia. non ha senso creare delle inutili forzature o alterazioni di gusto, soprattutto in un momento stressante come la preparazione dell’esame. La struttura di ristorazione dell’Adisu operano in questo senso. Che cosa manca? Una più incisiva e diffusa azione informativa, che consenta a studenti e studentesse di conoscere meglio le opportunità che vengono offerte nel nostro Ateneo e, più in generale, i canoni di alimentazione cui comunque attenersi.


Corpo e cibo Quell’insostenibile pesantezza dell’Essere di Gessica Cuscunà «colazione: 1 vasetto da 125 g, 63 calorie. pranzo: 200 g di pomodori, 34 calorie e un piccolo pompelmo, 52 calorie. cena: aria, 0 calorie. tot: 149. se riduco le calorie e sto attenta al conteggio potrò essere più magra. non ho ancora raggiunto il mio obiettivo. quella cacchio di bilancia sembra ferma sempre sullo stesso punto. a volte mi Gessica Cuscunà gira la testa, i capelli sono secchi e spenti e ho i brividi ... ho fame ma per fortuna ho il mio braccialetto. lo tendo, tiro ed è fatta». Messaggi come questo se ne possono leggere a decine su specifici blog che prolificano, nonostante l’intensa attività di censura, e che vengono utilizzati da molte ragazze per confrontarsi sui successi raggiunti e per sostenersi a vicenda; in questi spazi è possibile trovare indicazioni per aderire a quella che ormai è considerata una filosofia del vivere che, come una religione, è declinata in 10 regole fondamentali: 1. se non sei magra non sei attraente, 2. essere magri è più importante che essere sani, 3. comprati dei vestiti, taglia i capelli, prendi i lassativi, muori di fame, fai di tutto per sembrare più magra, 4. non puoi mangiare senza sentirti colpevole, 5. non puoi mangiare cibo senza punirti dopo, 6. devi contare le calorie e ridurne l’assunzione di conseguenza, 7. quello che dice la bilancia è la cosa più importante, 8. perdere peso è bene, guadagnare peso è male, 9. non sarai mai troppo magra, 10. essere magri e non mangiare è il simbolo della vera forza di volontà e dell’autocontrollo. A queste regole si aggiungono degli elementi che hanno il potere di rendere la comunità – inizialmente virtuale – unica, coesa e riconoscibile; tra questi, dei braccialetti – in alcuni casi elastici – di colore rosso per definire l’anoressia e blu per definire la bulimia, entrambi composti da una farfallina – non a caso forse – ed entrambi da portare sul braccio sinistro. Basti consultare uno di questi siti, inoltre, per vedere quanto ciò che appare è in netto contrasto con ciò che è. I colori sono vivaci e allegri e le immagini molto grandi; il tutto è reso bello e attraente da brillantini, pu-

pazzetti e foto, come a voler indurre chi guarda a distogliere lo sguardo. Da cosa? Dal fatto che ciò che leggiamo nei comportamenti di queste ragazze si chiama anoressia e bulimia. Due patologie alimentari le cui cause di insorgenza, gli effetti a breve, medio e lungo termine sul corpo, la correlazione con altre patologie, le terapie da adottare sono ben definite nel Manuale diagnostico dei disordini mentali. Sempre più spesso sentiamo parlare di questi disturbi, delle azioni preventive da mettere in atto, di quanto il fenomeno si stia espandendo e diversificando, di quali campagne di sensibilizzazione siano più efficaci, di quale metodologia terapeutica sia quella risolutiva; sentiamo questo o quell’esperto che indica come responsabile dell’insorgenza della malattia, alternativamente, la famiglia, i modelli culturali, la moda, la scuola, la società. In effetti, ognuna di queste potrebbe essere la causa di un rapporto problematico con il cibo ma non è possibile sapere con certezza, vista la singolarità di ogni storia di vita, che cosa renda l’atto del nutrirsi un momento tanto temuto. Quello che fuor di ogni dubbio si può affermare è il rapporto inscindibile che esiste tra il cibo e il corpo.

“Anoressia e bulimia. Due patologie alimentari le cui cause di insorgenza, gli effetti a breve, medio e lungo termine sul corpo, la correlazione con altre patologie, le terapie da adottare sono ben definite nel Manuale diagnostico dei disordini mentali” Un terapeuta, infatti, quando lavora con una paziente anoressica o bulimica non si domanda perché non mangia ma perché vuole eliminare quel corpo. Ed è proprio questa una delle chiavi di lettura – Essere, corpo, cibo – attraverso cui i disordini alimentari assumono un significato. Franco Basaglia affermava che «non si può parlare di un uomo senza rimandare alla sua corporeità... il nostro ingresso nel mondo si attua infatti nel momento del nostro apparire come corpo... è proprio il corpo che mi dà la possibi-

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Una natura morta di cocomeri è l’ultimo quadro dipinto da Frida Khalo, Viva la vida (1954)

lità di agire, di tendere verso la realizzazione del mio possibile». È evidente quindi che il corpo è l’esposizione al mondo del nostro Io; è attraverso questo nostro corpo che si realizza il sé, che transita il senso dell’autonomia, della forza, della libertà, della volontà ma allo stesso tempo dell’ossessività, della paura, della sensazione di perdere il controllo; sensazioni molto spesso riportate nei racconti di pazienti con disturbi alimentari. Ma se convivere con questo mio Io-corpo è davvero così insopportabile – perché è difficile essere presenti nel mondo concedendosi il lusso di occupare uno spazio adeguato – allora potrebbe essere coerente l’idea di agire su questo corpo un tale controllo da risultare ossessivo e invadente. Se si è in questo mondo per il tramite di un corpo allora un corpo meno evidente potrebbe essere la via per non essere, con tutto ciò che questo comporta. «Siamo ciò che mangiamo», scrive Feuerbach, allora se non mangio... «di fronte allo specchio conto le ossa del torace, vedo spuntare le ossa del bacino e se metto la mano davanti alla lampadina dello specchio vedo in trasparenza ogni vena ....ogni cosa è così sottile che potrebbe sbriciolarsi...». Un aspetto caratterizzante le patologie alimentari è la necessità di controllo su ogni aspetto della vita; comportamento che si esaspera di fronte alle condotte alimentari. Questo controllo però non è sinonimo di tranquillità ma di costante allerta; infatti, nonostante le azioni messe in atto per rendere questo corpo meno accentuato, per limitare il più possibile la propria presenza nel mondo sembra che esso non riesca a liberarsi di quel senso di vuoto, di

angoscia così vicino – secondo quanto espresso da molte pazienti con disturbi alimentari – a un reale senso di morte. Altro elemento che ci può aiutare a comprendere i disordini da condotte alimentari è il significato relazionale che ha il cibo, in tutto l’arco della vita, e la sua valenza simbolica quale strumento attraverso cui viene veicolata la

“Franco Basaglia affermava che «non si può parlare di un uomo senza rimandare alla sua corporeità... il nostro ingresso nel mondo si attua infatti nel momento del nostro apparire come corpo... è proprio il corpo che mi dà la possibilità di agire, di tendere verso la realizzazione del mio possibile»” cura, l’accettazione e la condivisione; elementi che rendono l’atto del mangiare un momento formativo e strutturante della personalità umana. L’atto del nutrimento è un gesto unico in cui corpo e cibo concorrono per determinare quella struttura che fa di ognuno di noi un essere irripetibile; basti pensare che se uno dei due elementi venisse a mancare non esisterebbe la vita. E basti pensare al momento centrale, più significativo e conosciuto del rito biblico – «prendete e mangiatene tut-


ti, questo è il mio corpo» – per cogliere l’indissolubilità e la sacralità – anche in senso laico – di questo binomio. Detto questo, appare evidente lo stretto legame tra il cibo e le emozioni; è piuttosto frequente infatti ricorrere al cibo per alleviare uno stato di frustrazione, per superare un momento di tristezza o per dare rilievo a un evento significativo della vita, pensiamo ai sontuosi banchetti di feste di compleanno, matrimoni etc.

“Se si è in questo mondo per il tramite di un corpo allora un corpo meno evidente potrebbe essere la via per non essere, con tutto ciò che questo comporta. «Siamo ciò che mangiamo», scrive Feuerbach, allora se non mangio...” Nelle pazienti con disturbi alimentari è proprio questo legame che risulta problematico e talmente tanto che è plausibile che si possa venire a creare con il cibo un rapporto ambivalente di attrazione/repulsione; questo, in genere, determina l’instaurarsi di un circolo vizioso per cui alla ricerca affannosa di cibo segue un enorme senso di colpa e di vergogna, il proposito di non ricaderci più e la sensazione che nemmeno l’ennesima pizzetta è riuscita a colmare quell’enorme senso di niente che si sente dentro. «un’altra volta ... penso sempre che la precedente era stata l’ultima... ma poi... quasi in trance esco e faccio il mio tour dei bar, la mia via crucis, non vedo nessuno intorno a me, non riesco a guardare nessuno in faccia, mi vergogno, mi fermo, entro, ordino e... sudo. mi dico che non succederà più e so già che non sarà così... che pena che mi faccio...». Ma è fame questa? No. È l’estremo tentativo di placare l’angoscia, la paura Fernando Botero, Donna nel bagno (2000)

di perdere il controllo pur perdendolo. Assumere cibo in quantità e senza uno schema è la risposta che le pazienti bulimiche hanno trovato al loro bisogno di calore, di rassicurazione e di vicinanza. Ciò che caratterizza l’atto del mangiare compulsivo è la mancanza di concentrazione ossia nel momento in cui la persona è «in preda a un attacco» non è centrata su di sé; la mente è completamente offuscata da un vortice di sensazioni, perlopiù negative, che non permettono alla persona di soffermarsi, di riflettere, di domandarsi «è questo quello che voglio davvero?».

“Perché si vuole eliminare quel corpo? È proprio questa una delle chiavi di lettura – Essere, corpo, cibo – attraverso cui i disordini alimentari assumono un significato” Le conseguenze di questo comportamento sono altrettanto devastanti: un esasperato senso di colpa e un giudizio implacabilmente negativo verso se stesse. È una fame emotiva che gravita intorno al rimuginare di pensieri, sensazioni ed emozioni e che non permette di nutrirsi di esperienze positive che vadano ad alimentare il senso del piacere, dell’autostima, dell’amore verso se stessi. L’ultima considerazione da fare è che, fin qui, abbiamo declinato questi due disturbi al femminile; in effetti, ad oggi, tutti i dati ci dicono che le più colpite sono le ragazze. Provocatoriamente potremmo dire che la correlazione è abbastanza evidente: è come se l’anoressia e la bulimia fossero la manifestazione di quell’eredità atavica che spesso non permette alla donna di essere attraverso il suo corpo e di esprimere le proprie emozioni, tra cui la rabbia. «oggi vorrei uscire e passeggiare, godere del sole. sposto la tenda... e vado...».

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Campi energetici I biocarburanti: un altro frutto della terra di Ylenia Curci Nonostante l’interesse per la produzione di carburanti di natura rinnovabile sia storia recente, non andrebbe dimenticato che i biocarburanti, risalendo a quasi due secoli fa, non delineano affatto un fenomeno postmoderno legato all’ecologismo: nel 1853 gli scienziati E. Duffy e J. Patrick misero a punto il processo di transesterifiYlenia Curci cazione che consente la trasformazione dell’olio vegetale grezzo in una miscela utilizzabile come combustibile. Nel 1900, il motore presentato all’esposizione universale di Parigi da Rudolf Diesel era stato testato per funzionare bruciando semplice olio di arachidi. Durante i primi anni del Novecento, l’uso dei biocarburanti venne accantonato per una chiara questione di economicità: non avrebbe avuto senso, infatti, produrre biocarburante invece di utilizzare le abbondanti riserve di combustibile fossile disponibili all’inizio del secolo scorso. Tale convenienza economica si tradusse nell’edificazione di un intero mondo industriale supportato da energia di origine fossile; e le macchine, nate insieme ai biocarburanti, vennero assemblate intorno a un motore adattato alla viscosità specifica del petrolio (rara eccezione rappresentò il modello T di Henry Ford, progettato per funzionare a etanolo derivato dal grano). L’andamento della domanda di biocarburante nel 1900 è stato principalmente determinato dalla necessità di trovare alternative alle importazioni di carburante fossile, in un’ottica di sicurezza energetica: durante la seconda guerra mondiale, ad esempio, la Germania adottò l’uso di un missile a propulsione ecologica, attivato da una miscela di perossido di idrogeno ed alcool etilico ottenuto dalla fermentazione delle patate. Con il ristabilirsi della pace, il carburante di origine fossile mediorientale tornò a essere la fonte energetica più a buon mercato e frenò la prolifica ricerca tecnologica che la guerra aveva messo in atto. I biocarburanti sono tornati alla ribalta del panorama internazionale grazie alla instabilità geopolitica e agli interessi economici conseguenti alle crisi petrolifere incorse a partire dagli anni Settanta. I continui tagli alla produzione annunciati dall’Opec, il crescente aumento di fabbisogno energetico mondiale e la presa di coscienza dell’impatto ambientale dei costumi energivori delle società moderne, hanno reso i biocarburanti l’oggetto di un intenso dibattito a livello mondiale. I carburanti rinnovabili possiedono caratteristiche merceologicamente interessanti: sono biodegradabili; sono composti in parte da ossigeno, elemento che permette l’abbattimento degli inquinanti gassosi nelle emissioni dei motori

degli autoveicoli; contengono una quantità minima di zolfo, permettendo la riduzione delle emissioni di anidride solforosa; hanno un contenuto energetico paragonabile a quello degli idrocarburi fossili; se prodotti sotto determinate condizioni, presentano un bilancio energetico decisamente positi-

“Nel 1853 gli scienziati E. Duffy e J. Patrick misero a punto il processo di transesterificazione che consente la trasformazione dell’olio vegetale grezzo in una miscela utilizzabile come combustibile” vo; oltre che dalle colture dedicate alla fornitura di materia prima, possono essere prodotti dagli scarti della lavorazione industriale, agricola, forestale e dai rifiuti urbani. I biocarburanti si dividono in tre categorie: quelli di prima

Il biodiesel viene ricavato dalla lavorazione delle piante oleaginose come la colza


generazione sono prevalentemente ricavati dalla lavorazione di materia prima di origine agricola e zootecnica attraverso processi di fermentazione e transesterificazione consolidati. Quando di origine agricola, essi sottraggono acqua, terra e materia prima all’industria alimentare, ma producono sottoprodotti quali i fertilizzanti organici e mangimi per animali da allevamento. I biocarburanti di seconda generazione presentano possibilità di successo ben superiori rispetto ai loro predecessori, in quanto promettono risultati migliori in termini di bilancio energetico e riduzione delle emissioni di CO2 e non entrano in competizione con la filiera alimentare ma non producono sottoprodotti di alcun genere. I biocarburanti di seconda generazione derivano dalla lavorazione della biomassa ligno-cellulosica, principalmente legno e la parte non nutritiva dei cereali: la biomassa, attraverso il processo di fotosintesi, è in grado di convertire i raggi solari in molecole complesse ad alto contenuto energetico. In tal senso, quindi, la biomassa può essere considerata una risorsa rinnovabile inesauribile, così come lo è il sole. Quelli di terza generazione sono quasi totalmente derivati dalla decomposizione delle alghe. Tre sono i principali carburanti prodotti al mondo: il biodiesel viene ricavato principalmente dalla lavorazione di colza, soia, palma e girasole, oltre che dagli scarti dell’industria alimentare; ma può essere estratto in realtà da qualsiasi pianta oleaginosa (ne esistono più di 4000, molte delle quali impiegate per usi industriali e alimentari). Il

biodiesel può essere prodotto in modi a dir poco inaspettati: ad esempio è possibile ottenere biodiesel dagli scarti di polvere di caffè. Da oltre 7 miliardi di tonnellate di caffè consumati nel mondo annualmente potrebbero venire prodotti circa 1,2 miliardi di litri di biodiesel il quale, per via degli agenti antiossidanti contenuti nel caffè, risulta una miscela particolarmente stabile. Un ulteriore esempio proviene dalla Scozia: dal 2007, nella contea dell’Ayrshire, sono in circolazione autobus al profumo di patatine: il biglietto del Bio-Bus è scontato per i passeggeri che, dopo aver fritto le patatine, consegnano l’olio usato all’autista. Il secondo, il bioetanolo, è ottenuto mediante la fermentazione di prodotti agricoli ricchi di amido e zuccheri, quali i cereali (mais, sorgo, frumento, orzo) e le colture zuccherine (barbabietola, canna da zucchero). Il bioetanolo da mais è principalmente prodotto negli Stati Uniti mentre quello derivato dallo zucchero è prodotto quasi interamente in Brasile. In questo paese il bioetanolo è talmente diffuso che i cittadini brasiliani hanno trovato conveniente adottare (dalla Fiat) veicoli flex-fuel, i quali possiedono un motore in grado di adattarsi completamente alla viscosità del petrolio di origine fossile e del bioetanolo derivato dallo zucchero. Infine il biometano è un gas che possiede le stesse caratteristiche del metano presente in natura, ma viene prodotto attraverso la fermentazione anaerobica di rifiuti organici di origine anche animale.

“Durante i primi anni del Novecento, l’uso dei biocarburanti venne accantonato per una chiara questione di economicità: non avrebbe avuto senso, infatti, produrre biocarburante invece di utilizzare le abbondanti riserve di combustibile fossile disponibili” I biocarburanti sono stati protagonisti negli ultimi anni di un acceso dibattito: ad essi è stato attribuito un ruolo chiave nello straordinario aumento dei prezzi agricoli avvenuto a partire dai primi mesi del 2007. Negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, la quantità di materia prima di origine agricola utilizzata nella produzione dei biocarburanti rappresentava una porzione infinitesimale del totale prodotto: dal 1980 al 2002, ancora prima dell’esplosione della produzione dei biocarburanti, la domanda statunitense di mais per bioetanolo è aumentata di 24 milioni di tonnellate, mentre, dal 2002 al 2007, è cresciuta di ulteriori 53 milioni. Queste quantità appaiono però fortemente ridimensionate se si considera la questione da un altro punto di vista: la superficie di terra dedicata alla coltivazione di commodity per la produzione dei biocarburanti rappresenta oggi meno del 3% del totale della terra coltivata. Le valutazioni econometriche effettuate per stabilire in quale proporzione i biocarburanti siano stati responsabili dell’aumento dei prezzi agricoli, sono giunte a conclusioni opposte, a seconda dell’istituto di ricerca che le ha realizzate. Sintetizzando all’estremo le posizioni dei diversi istituti, si possono

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citare due teorie contrapposte. La prima origina dalla pittoresca dichiarazione del commissario europeo Fischer Boel: « (…) quelli che vedono i biocarburanti come la forza che ha guidato il recente aumento dei prezzi agricoli, non hanno visto non uno, ma due elefanti che erano proprio davanti ai loro occhi. Il primo elefante è l’incredibile aumento della domanda dei paesi emergenti (…) Il secondo elefante sono le cattive condizioni atmosferiche e i relativi effetti sulla produzione». In contrapposizione a questa tesi, in certo qual modo assolutoria, si trova l’opinione di alcuni istituti quali la FAO e la Banca Mondiale, ben riassunta da Jean Ziegler, responsabile degli aiuti alimentari ONU, in una dichiarazione rilasciata all’emittente radio tedesca Bayerischer Runfunk nel 2008: «Produrre biocarburanti oggi è un crimine contro l’umanità».

“I biocarburanti sono tornati alla ribalta del panorama internazionale grazie alla instabilità geopolitica e agli interessi economici conseguenti alle crisi petrolifere incorse a partire dagli anni Settanta” Il fatto che sia stato possibile assumere atteggiamenti così lontani nell’affrontare lo stesso problema chiarisce quanto poco si conoscano in realtà i legami tra prezzi

degli alimenti e produzione di carburanti di origine agricola. Nell’attesa che luce venga fatta su tale questione, non bisogna dimenticare che i carburanti possono essere prodotti anche da ciò che normalmente consideriamo “rifiuti”, dagli scarti dell’industria alimentare e non, dalla spazzatura che produciamo ogni giorno nelle nostre case. Produzione che in nessun modo insidia il mercato dei prodotti agricoli. «L’uso dell’olio di origine vegetale come carburante può sembrare insignificante oggi, ma, quest’olio forse diventerà, nel corso del tempo, importante come il petrolio e il carbone dei giorni d’oggi.» Rudolf Diesel, 1912 «Possiamo ottenere carburante dalla frutta, dagli arbusti che crescono sul ciglio delle strade, dalle mele, dall’erbaccia, dalla segatura. Praticamente possiamo ottenere carburante da tutto! C’è carburante in ogni pezzetto di materia vegetale che può essere fermentata. C’è abbastanza carburante nelle patate raccolte da un campo di un ettaro in un anno per guidare i macchinari necessari a coltivare lo stesso campo per cento anni. Stiamo solo aspettando che qualcuno scopra come produrre questo carburante a livello commerciale, un carburante migliore di quello che conosciamo oggi e ad un prezzo più conveniente.» Henry Ford, 1925

Sono considerati biocarburanti di seconda generazione quelli derivanti dalla lavorazione della biomassa ligno-cellulosica, principalmente legno e la parte non nutritiva dei cereali


La logica del biologico Alla ricerca (disperata) della qualità di Valentina Cavalletti Ricordate John Lemon? O Tutanpanem? O Rapanello Sanzio? Sono i fantastici personaggi della nota campagna pubblicitaria Esselunga Famosi per la qualità. Cosa significa oggi puntare sulla qualità per i consumatori? Cosa significa soprattutto per i produttori e per i venditori? Nessun commerciante dirà Valentina Cavalletti che sta vendendo una mela lubrificata, passata sotto svariati trattamenti chimico-fisici per consentirle di vivere più a lungo sul suo bancone. Ma la perfetta forma e consistenza di una mela non coincidono evidentemente con la sua qualità. L’obiettivo di quella campagna pubblicitaria (2001-2004), creata dal gruppo Armando Testa, è quello di trasformare «il messaggio in qualcosa di più: un’esperienza globale che avvolge il consumatore» (dal Manuale anticrisi, Armando Testa Group). Direi di più: che rassicura il consumatore. D’altronde Esselunga è anche il primo grande distributore italiano, seguito da Coop, che ha creato una linea biologica. Se i suoi prodotti possono fregiarsi di essere Famosi per la qualità a che scopo creare – anche – una linea biologica? Dove sta la differenza? Come consumatore potrei ragionevolmente pensare che a fronte di prezzi più alti (quelli dei prodotti biologici) mi convenga comprare tutto il resto. È pur vero che a dar retta alle pubblicità, in tema di cibo, è

produttiva. «L’agricoltura biologica in Europa è una tecnica di coltivazione a carattere volontario normata. La certificazione biologica» ci spiega Nicolò Passeri, tecnico ispettore per il controllo dei prodotti biologici e responsabile del settore apistico del Lazio per Bioagricert «è l’unica certificazione di processo che rende tracciabile il prodotto, nel senso che qualsiasi azione che interviene nel processo di produzione o sul prodotto deve essere documentata». Lo sa bene Giulia che ha aperto un’azienda biologica 5 anni fa sulle rive del lago di Bolsena: «devo compilare tutta una serie di registri in cui scrivo quello che ho venduto, quello che ho prodotto, quello che ho raccolto, giorno per giorno. Tuttavia è necessaria una grande etica personale, nonostante ci sia un sistema di controllo». In Italia l’attività di controllo delle aziende è stata subappaltata ad alcuni organi privati di certificazione (17 in totale) che, per conto del Ministero, effettuano almeno una visita all’anno, ispezionando la documentazione cartacea ma anche prelevando dei campioni e analizzando in laboratorio i prodotti. Il punto debole del sistema sta nel fatto che a pagare gli enti di certificazione siano le aziende. Giulia ci dice: «Quello che io contesto è che si paga per aderire al biologico, gli agricoltori dovrebbero essere incentivati con aiuti economici maggiori. I contributi, che pure esistono, sono molto esigui e non permettono di risanare lo scarto che esiste tra la produzione tradizionale e quella biologica». Ma l’ispettore ci rassicura dicendo che «l’ente che fa la certificazione

“L’agricoltura biologica in Europa è una tecnica di coltivazione a carattere volontario normata” genuino dare ai nostri figli le merendine tutti i giorni oppure è garantito che si possono prevenire le carie lavandosi i denti con una gomma da masticare. Il concetto di qualità pertanto è qualcosa di estremamente relativo, soprattutto se non è possibile certificarlo in alcun modo. Sarebbe ovviamente auspicabile che a nostra tutela, oltre a delle bellissime pubblicità che possono rendere più allegri i nostri acquisti, potessimo verificare – sempre – la provenienza di quello che mangiamo in modo sicuro e trasparente. Questo non avviene anche perché, come si legge nel sito del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, nelle etichette non è obbligatorio inserire i luoghi di provenienza della materia prima. Nella produzione biologica, sulla base del Regolamento (CE) 834/07, è previsto un rigido controllo di tutta la filiera

Una cesta di prodotti biologici

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è un ente accreditato che vive della reputazione che si fa sul mercato. Inoltre gli stessi enti subiscono dei controlli campionari dal Ministero, dalle Regioni, dai Nas». Per il consumatore, la garanzia del prodotto è data dall’eti-

“Il punto debole del sistema sta nel fatto che a pagare gli enti di certificazione siano le aziende” chetta, in cui può comparire il nome dell’organismo di controllo autorizzato e il suo codice; il codice dell’azienda controllata; il numero di autorizzazione; il logo del biologico europeo (facoltativo). «Agricoltura biologica significa ritrovare un’agricoltura di tipo tradizionale, senza input chimici e diserbanti – ci spiega il nostro agronomo – mantenendo l’equilibrio naturale che esiste tra sistema pianta, sistema suolo e sistema animale». Come cambia il metodo di coltivazione? «La differenza è la semplicità di approccio. Mentre per l’agricoltura tradizionale generalmente si utilizzano input chimici di sintesi, per l’agricoltura biologica si utilizzano per la maggior parte tecniche agronomiche basate sul monitoraggio costante dei parametri che condizionano il prodotto (clima, ambiente di coltivazione, esigenze specifiche) e dalla tempestività di azione basata su tecniche a basso impatto ambientale. Ad esempio al posto dei fertilizzanti si possono coltivare alcune specie di piante che, se interrate, fanno da concime alle altre. Ritrovare l’equilibrio non significa necessariamente perdere la produttività del terreno». Ma può significare probabilmente acquistare in salute. Nel rapporto annuale 2008-2009 del President’s Cancer Panel, il gruppo di esperti che consiglia il Presidente Obama riguardo ai temi oncologici, dal titolo Redusing environmental cancer risk. What we can do now, si esplicita che mangiare cibo biologico è un modo efficace per ridurre l’esposizione alle sostanze chimiche pericolose per la salute: «con 80.000 sostanze chimiche presenti sul mercato Usa, molte delle quali utilizzate da milioni di cittadini quotidianamente, (…) l’esposizione ambientale a potenziali agenti cancerogeni è molto diffusa». Per abbattere i costi del biologico ma anche per aderire a un modello di consumo alternativo, i consumatori scelgono sempre di più la vendita diretta. Come si legge nel rapporto Bio Bank 2010, tutte le forme di filiera corta in Italia sono in crescita. I gruppi di acquisto solidali, ormai più di 600, sono aumentati del 68% in tre anni, gli spacci delle oltre 2.000 aziende agricole sono aumentati del 32%, i 130 siti per la spesa bio on line sono cresciuti del 25%. In Vincent Van Gogh, Il seminatore (1888)

Il nuovo logo, vincitore di un concorso europeo, che viene applicato ai prodotti biologici dell’Unione Europea a partire da luglio 2010

aumento anche la vendita diretta di cassette preparate dai contadini ogni settimana e consegnate direttamente nelle case dei consumatori. Incredibilmente il settore del biologico sembra non aver conosciuto crisi in questi ultimi due anni: «il biologico porta con sé una componente etica e ambientale che ha un fortissimo valore nella percezione del consumatore, tanto da divenire un valore irrinunciabile» spiega l’ispettore Passeri.

“Ma l’ispettore ci rassicura dicendo che «l’ente che fa la certificazione è un ente accreditato che vive della reputazione che si fa sul mercato»” A questo proposito Giulia sottolinea di essersi accorta «che la gente, quando vede la freschezza del prodotto appena colto dalla pianta, capisce che vale la pena pagare di più per la propria salute e per la qualità di quello che si mangia. Raccogliere le verdure la domenica mattina e consegnarle il lunedì, è qualcosa che nel mercato tradizionale non avviene». La vendita diretta permette infatti di bypassare tutti i trattamenti post raccolta, vietati per legge nella produzione biologica. Ecco perché un prodotto bio dura di meno e può essere più brutto esteticamente. È come il vecchio albero della casa in campagna che continua a produrre susine anche se per tutto l’inverno è abbandonato a se stesso. Certo, quei frutti saranno bacati e non saranno tutti perfettamente uguali. Ma saranno i migliori per un’ottima marmellata fatta in casa. Peccato che a quell’albero e ai suoi frutti ci abbiamo dovuto attaccare l’etichetta «biologico» per poterli vendere. Una buona pubblicità per il modello di consumo attuale? Famoso per l’assurdità.


Misticanza Le storie, le parole, i riti e i ricordi che fanno da ingredienti ai menù di famiglia di Federica Martellini In tutti gli album di famiglia non manca mai un certo numero di foto a tavola, compleanni, battesimi, pranzi di Natale e Capodanno. Vere e proprie gallerie di ritratti di famiglia con pietanza. A vederle venti o trent’anni dopo, quelle immagini fanno tenerezza per tanti motivi ma fra i dettagli più curiosi da riscoprirvi c’è il moFederica Martellini do in cui erano apparecchiati quei tavoli. I bicchieri viola e le caraffe giallognole degli anni Settanta, le tazzine trasparenti dove si serviva il caffè annacquato ai bambini, le bottiglie dell’acqua in vetro, i dolci con l’Alchermes, tutti tinti di rosa, le cucine piastrellate fino al soffitto. Sono sicura di aver visto, non so quando, una foto di mia cugina, all’età di circa sei anni, che mangia la zampa di gallina nel sugo, seduta a quello che era il suo posto nell’assetto della cena della domenica, all’angolo del tavolo di formica verde della cucina di mia nonna. E se la foto non c’è mi ricordo quest’immagine così bene che è come se ci fosse. Ma l’album di famiglia sul cibo non è solo memoria per immagini. Il cibo è anche legato al lessico famigliare. Ai modi di dire casalinghi che spesso nascono dal cibo e sul cibo raccontano e tramandano storie. A casa di mia madre ad esempio si usava dire, di una fetta di pane o di formaggio, che «ci si vedeva il nonno dalla vigna», per intendere che era così sottile da essere trasparente, così tanto che ci si poteva vedere attraverso il nonno, che stava alla vigna, all’“infideo”. E oggi ancora lo diciamo, quando qualcuno affetta il pane troppo sottile: «ma come lo tagli? Ci si vede

I muli erano necessari compagni di lavoro. Trasporto della legna sugli altipiani di Arcinazzo

il nonno dalla vigna!» e allora, quando capita, a volte si racconta la storia del nonno (che poi sarebbe il bisnonno) che aveva l’“infideo” dove faceva la vigna e le olive. C’era un noce anche. La mattina partiva con la bisaccia e andava lì, a piedi o con l’asina, e portava sempre da mangiare ai gatti: lische di pesce e scorze di formaggio. Scorze sottili ovviamente perché una volta si scartava poco e il bisnonno, classe 1887, magrissimo, era uno che al risparmio ci teneva e l’acqua per lavare i piatti, quando c’era lui, o si scaldava o ci si metteva il sapone, che tutte e due le cose era uno spreco. «Ma che cos’è quest’“infideo”?», immancabilmente qualcuno lo chiedeva, quando si raccontava questa storia. Sembrava una parola strana allora, quando la sentivo dire da piccola, una parola da grandi, anzi da vecchi, ma aveva un non so che di importante, di misterioso e di solenne. E infatti lo era. L’“infideo” era la terra, un pezzo di terra. Nient’altro che il nome deformato nel dialetto locale di un contratto agrario di usufrutto della terra, in italiano: enfiteusi.

“Fra i dettagli più curiosi da riscoprire nelle vecchie foto a tavola degli album di famiglia c’è il modo in cui erano apparecchiati quei tavoli. I bicchieri viola e le caraffe giallognole degli anni Settanta, le tazzine trasparenti dove si serviva il caffè annacquato ai bambini, le bottiglie dell’acqua in vetro, i dolci con l’Alchermes, tutti tinti di rosa, le cucine piastrellate fino al soffitto” È da storie come questa che abbiamo imparato il valore del cibo e la fatica ma anche la dedizione e l’amore necessari per procurarselo. Per usare le parole di Jonathan Safran Foer storie come questa sono «le storie fondanti della mia famiglia», come di molte altre, credo, a queste latitudini. Foer, uno dei più apprezzati autori della narrativa contemporanea statunitense, partendo dalle storie sul cibo della sua famiglia ha scritto un singolare libro (Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?, Guanda, 2010), che sta a metà fra l’inchiesta e il racconto e che è la testimonianza del suo viaggio agli inferi dell’allevamento intensivo di animali negli Stati Uniti. Sua nonna, ebrea in fuga nell’Europa orientale degli anni della guerra è sopravvissuta alla fame mangiando ciò che gli altri non erano disposti a mangiare, nascondendo patate nel fondo legato dei pantaloni, frugando nella spazzatura, barattando un pugno di riso con uno di fagioli («devi avere fortuna e intuizione»). Anni dopo, a Washington, matriarca

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Aratura arcaica a Sperone, nella Marsica

di una famiglia numerosa, figlia di quella fuga, insegna ai nipoti come della mela si mangia tutto e che è sempre sufficiente una bustina di tè, a prescindere dal numero di tazze che si devono servire. E soprattutto racconta una storia, di quando, affamata, rifiutò un pezzo di carne di maiale offertole da un contadino russo, perché non era kosher, perché: «Se niente importa, non c’è niente da salvare». È ripensando a questo insegnamento che Foer parte per il suo viaggio, conducendoci nei capannoni e nei mattatoi, parlando con gli “addetti ai lavori” e anche con i pochi allevatori che si oppongono al sistema imperante della produzione industriale di carne a basso costo, proponendo modelli differenti. Ma c’è da chiedersi: per noi che veniamo dalle nostre proprie storie; per noi che ci ricordiamo di quando i pulcini appena nati si portavano a casa in una scatola di cartone, che faceva da incubatrice; per noi che vogliamo continuare a raccontare la storia del nonno e a parlare con il lessico famigliare che viene dal nostro modo di mangiare il cibo; per noi cosa significa il libro di Foer? Su cosa ci interroga? Quali corde tocca del nostro quotidiano?

“Ma l’album di famiglia sul cibo non è solo memoria per immagini. Il cibo è anche legato al lessico famigliare. Ai modi di dire casalinghi che spesso nascono dal cibo e sul cibo raccontano e tramandano storie” Ogni giorno alla tavola calda, in pizzeria, al ristorante, al supermercato operiamo delle scelte sul cibo, che non riguardano però, ovviamente, solo il cibo. Il libro su questo terreno ci coinvolge nel suo appello a un vegetarianismo di tipo etico e ci mostra che le opzioni che pensavamo corrette, non sempre lo sono o non lo sono abbastanza, che se eravamo convinti di impegnarci a sufficienza controllando sul cartone delle uova il codice che ci dice se le galline che le hanno prodotte sono allevate a terra o in gabbia, ci siamo sbagliati, perché le galline “allevate a terra” vivono stipate in dei capannoni. Ci mostra come persino il rassicurante termine “biologico” significa troppo spesso molto meno di quello che siamo abituati a credere perché se è vero che il cibo biologico ha di norma un’impronta ecologica minore

e fa meglio alla salute, allo stesso tempo «puoi dire che il tuo tacchino è biologico e torturarlo tutti i giorni». Ci mostra che gli animali di cui si può dire che hanno avuto «una vita felice e una morte facile», come dovrebbe accadere (e a volte accade) nel migliore degli allevamenti non intensivi, sono purtroppo una percentuale infinitesimale di quelli che mangiamo. O almeno, di certo, di quelli che vengono mangiati negli Stati Uniti dove di quasi tutti i quarantacinque milioni di tacchini che arrivano ogni anno sulle tavole del Ringraziamento si può dire che «non sono mai stati sani, non sono stati felici e – per usare un eufemismo assoluto – non sono stati cari a nessuno». Per quanto i più volenterosi di noi cerchino di essere informati e consapevoli, per quanto ci impegniamo ad avere un comportamento sostenibile, c’è sempre qualcos’altro dietro alle parole sulle etichette ed è sempre più arduo rintracciare l’origine del cibo che mettiamo nel piatto. Tutto questo ovviamente importa.

“La nonna di Foer, ebrea in fuga nell’Europa orientale degli anni della guerra è sopravvissuta alla fame mangiando ciò che gli altri non erano disposti a mangiare. Anni dopo, a Washington, matriarca di una famiglia numerosa, insegna ai nipoti come della mela si mangia tutto e che è sempre sufficiente una bustina di tè, a prescindere dal numero di tazze che si devono servire” Ma non si tratta solo di questo. C’è ancora qualcos’altro. Al fruttivendolo del negozio nel vicolo piace raccontare cose sulla verdura che vende. Spesso a primavera porta la misticanza, l’insalata mista di campo composta da tanti tipi diversi di erbe. Se lo trovi nel momento buono, si diverte a sceglierle una alla volta dalla cassetta, ti mostra la forma e il colore della foglia e ti insegna il nome: la valeriana, la cresta di gallo, la rucola selvatica – da non confondere con quella coltivata – il crespino, il dente di leone, il cordone del frate… Ne snocciola tantissimi di questi nomi e sembra una poesia, di sicuro è una sapienza, una forma di sapienza e forse la più bella. Sostiene che per fare un’insalata buona ci vogliono almeno dieci tipi diversi di erbe («possibilmente non in busta e compatibilmente con le esigenze della vita metropolitana!» aggiunge, con un sorriso complice ma anche un po’ amaro, fra il rimprovero e la comprensione). Ecco questa sapienza è un patrimonio, che ha a che fare forse anche con l’etica, ma soprattutto con qualcos’altro: con le radici, con l’identità. E anche questo importa. Foer riesce, alla fine del libro, a trarre una sua sintesi regalandoci la bella suggestione di un Ringraziamento senza il tacchino; rievocando i pranzi del Ringraziamento di quando era bambino e proponendone uno di tipo nuovo, da lasciare in eredità alle future generazioni della sua famiglia. «Che succederebbe se non ci fosse il tacchino? Si romperebbe, o danneggerebbe, la tradizione, se invece lo saltas-


Mungitura in un ovile, sui pascoli della Ciociaria

Mietitura a mano sulle crete senesi

simo e ci limitassimo a stufato di patate dolci, panini fatti in casa, fagiolini con le mandorle, composta di mirtilli rossi, batate, purè al burro, torta di zucca e noci pecan? (…) Non è un pensiero così assurdo. I tuoi cari intorno alla tavola. Ascolta i suoni, annusa gli odori. Non c’è il tacchino. La festa è forse compromessa? Il Ringraziamento non è più il Ringraziamento? O il Ringraziamento ne uscirebbe ancora più forte? (…) Sarebbe fonte di delusione o d’ispirazione? Sarebbero trasmessi più o meno valori? (…) Immagina il Ringraziamento della tua famiglia quando tu non ci sarai più, quando la domanda non sarà più “Perché non mangiamo questo?”, ma la più ovvia, “Perché lo mangiavamo?”. Immaginare lo sguardo delle future generazioni su di noi può farci vergognare, nel senso kafkiano del termine, costringendoci a ricordare?» (…) «Che io sieda alla tavola globale, con la mia famiglia o con la mia co-

scienza, l’allevamento industriale, per quanto mi riguarda, non appare solo irragionevole. Accettarlo mi sembrerebbe inumano. Accettarlo – nutrire la mia famiglia con il cibo che produce, sostenerlo con i miei soldi – mi renderebbe meno me stesso, meno il nipote di mia nonna, meno il figlio di mio padre. Questo voleva dire mia nonna quando disse: “Se niente importa, non c’è niente da salvare”». Ci sarà forse per ciascuno una sintesi, una propria particolare sintesi cui poter arrivare tenendo conto della biologia, dell’etica, della dietologia, della medicina, dell’istinto, dei ricordi, dell’identità. Di tutte queste variabili insieme o di alcune di esse. O forse no, non può esserci sempre una sintesi. A volte è necessario semplicemente scegliere o se non altro cominciare a porsi la domanda. «Essere coerenti non è obbligatorio, ma porsi il problema si». Cosa importa per me?

Jonathan Safran Foer, da piccolo, trascorreva il sabato e la domenica con sua nonna. Quando arrivava, lei lo sollevava per aria stringendolo in un forte abbraccio, e lo stesso faceva quando andava via. Ma non era solo affetto, il suo: dietro c’era la preoccupazione costante di sapere che il nipote avesse mangiato a sufficienza. La preoccupazione di chi è quasi morto di fame durante la guerra, ma è stato capace di rifiutare della carne di maiale che l’avrebbe tenuto in vita, perché non era cibo kosher, perché «se niente importa, non c’è niente da salvare». Il cibo per lei non è solo cibo, è «terrore, dignità, gratitudine, vendetta, gioia, umiliazione, religione, storia e, ovviamente, amore». Una volta diventato padre, Foer ripensa a questo insegnamento e inizia a interrogarsi su cosa sia la carne, perché nutrire suo figlio non è come nutrire se stesso, è più importante. Questo libro è il frutto di un’indagine durata quasi tre anni che l’ha portato negli allevamenti intensivi, visitati anche nel cuore della notte, che l’ha spinto a raccontare le violenze sugli animali e i venefici trattamenti a base di farmaci che devono subire, a descrivere come vengono uccisi per diventare il nostro cibo quotidiano. (dal risvolto di copertina)

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Il cibo è ciò che siamo Dieta mediterranea: croce e delizia di Giacomo Caracciolo Dimmi cosa mangi e ti dirò come stai (e come starai). Parafrasando Ludwig Feurbach, più precisamente il suo Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia, senza addentrarci in riflessioni sulla coincidenza (materialista) tra essere e mangiare va ammesso, come avvalorato da medici Giacomo Caracciolo e nutrizionisiti, che c’è una stretta corrispondenza tra ciò di cui ci nutriamo, il nostro umore e ancor più la nostra salute. Non ci si riferisce, ovviamente, alle diete dimagranti che nella maggior parte dei casi si preoccupano più del quantum che non del modus, e che secondo l’Associazione nazionale dietisti provocherebbero addirittura dipendenza tra gli adolescenti ma alla cosiddetta dieta alimentare bilanciata. Secondo i nutrizionisti, infatti, la nostra salute dipenderebbe in buona parte da un’alimentazione equilibrata, basata sulla corretta proporzione tra elementi nutritivi. A tal proposito la piramide degli alimenti è estremamente esplicativa: divisa in sei sezioni di dimensioni diverse contenenti vari gruppi di alimenti, ciascuno dei quali deve essere presente nella nostra dieta in modo proporzionale alla grandezza della sua sezione. Alla base ci sono gli alimenti che possiamo utilizzare più liberamente mentre al vertice troviamo quelli che è meglio limitare, ovviamente non si tratta di prescrizioni rigide. Ampio spazio viene raccomandato per i cibi ricchi di carboidrati, principale fonte di energia, e cioè cereali e derivati immediatamente seguiti da frutta e verdura (contenenti vitamine, sali minerali e fibre), seguono gli alimenti di origine animale, ricchi di proteine, mentre il vertice (cioè i cibi che servono in minore quantità) è occupato dai cibi grassi e dai dolci. Secondo questa teoria nessun alimento è di per se indispensabile, infatti solo variando l’alimentazione possiamo assumere tutte le sostanze necessarie al nostro organismo. Nonostante sembri semplice seguire poche piccole accortezze per mangiare sano uno studio del maggio scorso di Coldiretti/Censis, sulle abitudini alimentari nel nostro Paese ha rivelato che quattro italiani su dieci vorrebbero mangiare sano ma non ci riescono. La volontà è importante, ma purtroppo non è tutto, infatti il 43% degli italiani è sovrappeso, a causa delle pessime abitudini alimentari e l’11% è addirittura clinicamente obeso. I giovani laureati riescono a mantenere una tendenza salutista, almeno fino ai 40/45 anni, buone notizie anche dai pensionati, infatti ben il 40,3% degli over 65 (spesso per ragioni mediche) adotta una dieta equilibrata. Secondo le statistiche Coldiretti noi italiani ci divideremmo in tre categorie: coloro che mangiano “sano”, coloro che sanno cosa significhi mangiare “sano” ma per ragioni pratiche o stress vi rinunciano e coloro che non sono a conoscenza né hanno la volontà d’informarsi al riguardo e

mangiano ciò di cui hanno più voglia. E ancora: un vero must nelle abitudini di casa nostra sembra essere lo spuntino, il 62,3% degli italiani si concede un break a metà mattinata o a metà pomeriggio. Ma il dato che ci fa meno onore, vista la nostra grande tradizione culinaria, è sicuramente quello che si riferisce all’acquisto di prodotti alimentari surgelati, infatti quasi il 70% degli italiani ammette di farne grande uso. Questo sta portando ad una trasformazione radicale nelle nostre abitudini a tavola basti pensare che solo il 40% del campione acquista prodotti, per così dire, di prima mano. Dall’analisi Coldiretti emerge che dal dopoguerra a oggi è aumentato del 300% il consumo di carne così come sono aumentate frutta e verdura sulle nostre tavole, a dispetto del vino (ridotto di oltre un terzo). Buono l’aumento di frutta e verdura, molto meno quello della carne. Infatti i grassi animali, come sostiene tra gli altri da quasi cinquant’anni il prof. Umberto Veronesi, se assunti in grande quantità favorirebbero l’insorgere di alcuni tipi di tumore perché in grado di veicolare i residui di pesticidi, erbicidi e fungicidi che si usano in agricoltura, il fall-out radioattivo e il benzopirene che emana dalle città inquinate. Non ci sono dubbi, sostiene Veronesi, che un’alimentazione povera di carne e ricca di vegetali sia più adatta a mantenerci in salute. Attraverso gli alimenti che ingeriamo, immettiamo nel nostro organismo una certa quantità delle sostanze tossiche solubili disperse nell’ambiente, che si accumulano più facilmente nel tessuto adiposo, esponendoci più a lungo ai loro effetti tossici. Frutta e verdura, invece, sono alimenti poverissimi di grassi e ricchi di fibre che, agevolando il transito del cibo ingerito, riducono il tempo di contatto con la parete intestinale degli eventuali agenti cancerogeni presenti nella dieta quotidiana. Ma per chi non vuole (o non si sente pronto) a dire addio a bistecche, lombate e arrosticini ci sono comunque buone notizie. Secondo gli Andrologi Italiana, infatti la dieta mediterranea aiuterebbe, qualora equilibrata nel modo giusto, a migliorare le prestazioni sessuali e a prolungare l’attività sessuale fino a tarda età. Esiste, secondo questo studio, una strettissima relazione tra disfunzioni sessuali, problemi cardiovascolari e obesità, perché la molecola che innesca l’erezione viene prodotta dalle cellule che rivestono le arterie dei corpi cavernosi del pene, chiamate cellule endoteliali. Non bisogna però allenare solo mascella e mandibola, dedicandosi alla masticazione, infatti è necessaria anche una moderata attività fisica (90 minuti, due volte a settimana) per migliorare la qualità della vita e rallentare il naturale processo d’invecchiamento. La stessa Organizzazione mondiale della sanità ha presentato, nel 2004, la Strategia globale per la dieta, l’attività fisica e la salute, sollecitando il coinvolgimento di tutti i governi in un’azione coordinata per la salvaguardia del benessere degli abitanti del pianeta. Dal canto nostro non possiamo far altro che tenerci stretti la buona tavola (che ci contraddistingue), rinunciare a un po’ di carne in favore di pesce o verdura e ricordarci di fare un po’ di moto. Buon appetito.


«Il cinema è un pezzo di torta» Un secolo di storie tra la tavola e lo schermo di Ugo Attisani no. In questo senso basta pensare a due film praticamen«Il cinema non è un pezte contemporanei che negli anni Settanta, anni di ripenzo di vita, ma un pezzo di samento generale e di enormi rivolgimenti in tutta la sotorta» affermò Alfred cietà italiana, affrontano la storia del nostro paese in Hitchcock nel celebre liun’ottica di racconto corale in cui il cibo e la tavola svolbro-intervista a lui dedigono un ruolo principe e cioè Amarcord di Federico Felcato da François Truffaut. lini e Novecento di Bernardo Bertolucci. Nel primo il riQuesta citazione ci indica cordo della vita di una famiglia di provincia durante il uno dei legami solo appaventennio fascista trova proprio nelle scene a tavola la rentemente più superfirappresentazione più emblematica della famiglia tradiciali tra cibo e cinema zionale, ancora legata al suo retaggio contadino e ai ruoli (ma potremmo dire in da esso imposti, primo su tutti quello della madre, che senso più largo tra arte e domina la scena della tavola, così come quella dei rapcibo), di certo quello più Ugo Attisani porti familiari, a tal punto che la sua scomparsa viene immediatamente percepirappresentata da una tavola spoglia e deserta. Nel film di bile, ovvero che nel momento in cui ci disponiamo a veBertolucci, invece, tra gli elementi che contribuiscono a dere un film così come a consumare un pasto, la prima tratteggiare il racconto epico della storia italiana attraed elementare aspettativa è quella di ricavarne piacere. verso la storia individuale dei due protagonisti c’è anche Se era nota la volontà dissacratoria del regista inglese nei e soprattutto la contrapposizione tra le scene ambientate confronti di qualsiasi forma di elucubrazione intellettuale sulle tavole delle loro due famiglie. Da una parte infatti sul cinema e la citazione in questione potrebbe quindi esla famiglia borghese del personaggio interpretato da Rosere facilmente liquidata come una semplice boutade, è bert De Niro impone al figlio le proprie rigide abitudini tuttavia altrettanto vero che questa affermazione ci aiuta nonché le proprie aspirazioni di emancipazione da un a capire subito che, in realtà, cinema e cibo operano prapassato provinciale attraverso la proposta di cibi presi ticamente sullo stesso piano. E infatti, ed è la storia stesdalla tradizione francese, come le rane fritte. Dall’altra sa del cinema a raccontarcelo e in particolare quella del invece la famiglia contadina di Gérard Depardieu, nononostro paese, il cibo e tutti gli argomenti che intorno ad stante sia anch’essa dominata da regole arcaiche, riesce esso ruotano sono stati e sono metafora ideale e tra le più ancora a vivere il momento della tavola come momento utilizzate per raccontare i molteplici aspetti della vita conviviale nel senso stretto del termine. Che la conodell’uomo e della società. Basti ricordare che alla prima scenza delle abitudini culinarie e delle modalità sociali proiezione dei fratelli Lumière, il 28 dicembre del 1895, del consumo del cibo sia essenziale per comprendere la tra i vari rulli proiettati ci fu anche Le déjeuner du bébé storia e la cultura del nostro paese è del resto confermato in cui veniva ripreso un quadro di vita familiare dei Ludirettamente anche dalla rappresentazione di un’altra famière stessi mentre imboccavano uno dei loro figli. A miglia italiana, questa volta trapiantata all’estero e quinpartire da questo momento la presenza dell’argomento di, in contrapposizione con una società estranea e ostile, cibo non mancherà più di arricchire le pagine della storia ancor più arroccata in difesa della propria identità, anche cinematografica. In particolare è interessante analizzare a tavola. Parliamo della famiglia Corleone, protagonista come questo rapporto si sia sviluppato nella storia del cidella trilogia del Panema italiano, essendo drino di Francis Ford l’Italia un paese che, per Coppola, che sin dalle la sua storia e le sue oriprime battute del prigini, ha spesso trovato mo film si presenta rinel cibo uno dei pochi unita per il banchetto elementi di coesione a lidi nozze della figlia vello culturale. Ed è stadel patriarca Marlon to proprio il cibo infatti, Brando. Qui al rito fainteso come pratica fonmiliare in senso stretto damentale dell’individuo si sovrappone quello e quindi come rilevatore della famiglia crimidi un’identità culturale, nale che in occasione di classe e di appartedella festa richiede fanenza locale, ad apparire vori al Padrino. in tutti i momenti della Una scena da Amarcord di Federico Fellini (1973) Il rapporto con il cibo storia del cinema italia-

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tuttavia non è stato solo denza continua fino ai strumento di racconto nostri anni dove il rapsociale bensì anche porto con il cibo arriva strumento metaforico ad essere addirittura per descrivere la dispatologico e anche in gregazione dell’indiviquesto caso non manduo nella società concano gli esempi cinesumistica e così si pasmatografici che racconsa dalle tavole imbantano di queste tristedite e dalle immagini mente note malattie, memorabili della comcome per esempio media all’italiana (una Trauma di Dario Arper tutte la celebre cena gento, che è probabildegli spaghetti in Un mente il primo film ad Americano a Roma) alaffrontare in Italia il tele cupe descrizioni di La grande abbuffata, di Marco Ferreri (1979) ma dell’anoressia, o Marco Ferreri, la cui income Primo amore di tera cinematografia può essere letta come una riflessione Matteo Garrone che racconta di un’inquietante vicenda di cronaca nera. Non sono però mancati, sempre negli ultimi anni, film come Il Pranzo di Babette di Gabriel Axel (dal“È stato proprio il cibo, inteso come l’omonimo racconto di Karen Blixen) o Big Night di Stanpratica fondamentale dell’individuo e ley Tucci che hanno contribuito a riaffermare un rapporto quindi come rilevatore di un’identità indissolubile tra il cibo e la cucina, alla riscoperta di una culturale, di classe e di appartenenza cultura e uno stile di vita meno frenetico e consumistico o, con altre parole, più umano. locale, ad apparire in tutti i momenti Sempre in questa direzione poi è interessante ricordare codella storia del cinema italiano” me, seguendo quella che è stata una tendenza di successo negli ultimi anni, inaugurata dai film di Michael Moore, ci sul mangiare come atto di rassegnazione e autodistruzione dell’individuo ormai emarginato da una società che non ri“Il rapporto tra cinema e cibo va ben conosce e che non lo riconosce. Il cibo diventa poi con gli oltre la semplice e comune ricerca del anni Ottanta specchio di una nuova cultura che, attraverso piacere immediato” una diversa consapevolezza delle abitudini alimentari, mette al centro dell’attenzione l’immagine del corpo come ultima frontiera del dominio della società capitalistica, un siano stati esempi di denuncia delle abitudini alimentari cibo sempre più neutralizzato dalle caratteristiche che lo dei paesi del primo mondo, tra documentario e cinema verendono fonte di piacere e di cultura oltre che di nutrimenrità, come Super Size Me, di Morgan Spurlock, dove il reto. Questo mutamento non manca di essere raccontato su gista si sottoponeva volontariamente ad un mese di dieta a pellicola e qui pensiamo, per esempio, allo yuppie serial base di cibo spazzatura di un fast food per osservarne i rikiller di American Psycho, tratto dal libro di Bret Easton sultati sul proprio corpo e Food, inc. di Robert Kenner che Ellis, ossessionato dal getta invece uno sguarcibo salutare necessario do critico ai mutamenti per raggiungere la agodell’industria alimentagnata forma fisica imre americana in mano posta dall’America dealle multinazionali. Il gli anni Ottanta, così rapporto tra cinema e come dalla frequentacibo va quindi ben oltre zione di ristoranti alla la semplice e comune moda che del ristorante ricerca del piacere imormai conservano solmediato, come sembratanto il nome; oppure va suggerirci Hitchalla Julianne Moore cock, ma da quel punto protagonista di Safe di di partenza è sempre Todd Haynes che sulbene iniziare a muoverl’orlo di una crisi psicosi, per non dimenticare logica e fisiologica deriquello che ci sembra esvata da un’allergia al sere il motivo di attralatte trova una poco raczione più grande che comandabile serenità in questi due mondi contiuna sinistra comunità Il pranzo di Babette di Gabriel Axel (1985) è tratto dall’omonimo racconto nuano ad esercitare new age. Questa ten- di Karen Blixen sull’uomo.


Il cibo nei film di animazione... ...una questione di catena alimentare di Michela Monferrini

Di cosa ci hanno parlato, di cosa ancora ci parlano, nella loro evoluzione, cartoni animati e film d’animazione? A considerare “dall’alto” la loro storia, presa e idealmente rimontata per sequenze di inseguimenti, piume svolazzanti, tane e rifugi, orme da seguire, travestimenti e «mi è semblato di vedele un gatto», sembra quasi Michela Monferrini che negli anni non ci abbiano parlato di nulla che non fosse qualcosa che ci vede direttamente coinvolti: la catena alimentare, con le sue leggi crudeli. E poco importa se il dovuto happy end cancella gli istinti di natura, la fame dei predatori e la paura delle prede, rappacificando le parti con una consolatoria virata finale verso un mondo dove non ci si ciba o si diventa vegetariani: a dare avvio alle storie è quasi sempre la più realistica situazione in cui la signora Tweedy di turno, scontenta del profitto delle uova, decide di fare del suo allevamento di galline (allevamento-lager che ricorda a ragione il modello dei campi di concentramento) una serie di nutrienti pasticci di pollo all’inglese. Ecco, ci hanno sempre parlato di cibo, i cartoni animati, ben al di là degli spaghetti con polpettine di carne che Lilli e Biagio (più noto come il “vagabondo”) consumano insieme durante una cenetta romantica: ci hanno parlato del cibo

che siamo, oltre che del cibo di cui ci nutriamo. Il patto a cui anche un adulto è invitato a sottostare di fronte a un cartone animato, per non perdere il senso della morale finale, è il patto dell’immedesimazione con i più deboli, e ciò ha significato quasi sempre partecipare con apprensione alla fuga dei personaggi dalle pentole e dalle padelle a cui erano destinati: siamo stati Babe che non voleva essere il pranzo di Natale; siamo stati l’oca inglese Reginaldo, l’avvinazzato zio di Adelina e Guendalina Blabla de Gli Aristogatti, che rischiava di essere cucinato al Petit Cafè di Parigi; abbiamo unito le nostre forze a quelle di Sebastian, il granchio de La Sirenetta, nella sua lotta rocambolesca contro lo chef Louis (quello di «les poissons, les poissons, io gli stacco la testa e gli strappo le spine», per intenderci). Intanto, antropomorficamente quei personaggi vengono

“I cartoni animati ci hanno sempre parlato di cibo, del cibo che siamo oltre che del cibo di cui ci nutriamo” incontro a noi e se, solo in un mondo disegnato, Nonna Papera ha il diritto di allevare pollame, si possono anche avere personaggi animali che passano dall’altra parte dei fornelli. Il Remy di Ratatouille incarna la celebrazione della meraviglia del cibo: finito nella cucina di Auguste Gusteau, noto chef di Parigi (ancora una volta, Parigi), invece di procacciare cibo per sé, decide di coronare il suo sogno più grande facendosi creatore di piatti prelibati per

Rémy, il ratto dotato di olfatto e gusto sopraffini protagonista di Ratatouille (2007)

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dentro lo stesso cartone i clienti del ristorante animato, che con la sua più famoso del mondo. morale realista riporta Di là, in sala, campeggia tutti con i piedi per terla figura (lugubre) del ra. In questo caso è il critico Anton Ego, “il padre di Remy, per il Truce Mangiatore”, penquale la parola d’ordine na e taccuino alla mano, è proprio: tornare al proche alla fine è però coprio posto, eliminare stretto a riconoscere che quell’«istintiva repulsiouna ratatouille buona ne» che è vizio e capriccome quella del novello cio. Solo per un topo? chef Remy, non l’aveva Non saranno, anche gli assaggiata mai. Più soumani, gastronomicamiglianti per forma e mente viziati? Se semcolore, se così si può dipre più, i film d’animare, a Ego, forse anche zione si dirigono verso per ataviche memorie ci La romantica cena di Lilli e Biagio in Lilli e il vagabondo (1955) tematiche ecologiste (basembra però di essere sti pensare al recente Bee Movie), una delle ultimissime più vicini al Remy che sceglie di scegliere, che per quanuscite, Piovono polpette, mette direttamente sotto accusa to possa sembrare un’assurda, illusoria pretesa, tenta di tila società dei consumi, la società dagli eccessivi consumi alimentari, bulimicamente ingorda di fast food, e con una “Il patto implicito cui siamo invitati a parodia dei disaster movie hollywoodiani, fa letteralmensottostare è quello te piovere su una popolazione inizialmente euforica, poldell’immedesimazione: siamo stati pette di carne, spaghetti, cheeseburger, cocomeri e altri Babe che non voleva essere il pranzo di cibi. Sembra davvero, per tutti, un nuovo mondo di possibilità alimentari dove la repulsione non ha più nemmeNatale, siamo stati l’oca inglese

Reginaldo e l’avvinazzato zio di Adelina e Guendalina Blabla de Gli Aristogatti, che rischiava di essere cucinato al Petit Cafè di Parigi” rarsi fuori da quella stessa catena alimentare che dovrebbe vederlo sotto le grinfie di un gatto, che dice «Mi piace mangiare bene, d’accordo?», mentre suo fratello Emile gli si avvicina masticando qualcosa di non riconoscibile, di veramente immangiabile, spiegandogli che «Una volta superata l’istintiva repulsione, si apre tutto un mondo di possibilità alimentari». Ma i cartoni animati sono favole, e se bisogna tornare pur sempre alla realtà, c’è sempre qualche personaggio,

Una scena da Piovono polpette (2009)

“Ma i cartoni animati sono favole, e se bisogna tornare pur sempre alla realtà, c’è sempre qualche personaggio, dentro lo stesso cartone animato, che con la sua morale realista riporta tutti con i piedi per terra” no motivo d’esistere. Sembra, persino, la soluzione al problema della fame nel mondo. Sembra, eppure è solo una rappresentazione della dismisura e dell’eccesso, una gran confusione di ruoli che fa di quella catena che tanto ci è stata narrata, due soli anelli, dove l’unica preda è il mondo stesso.


Quando la tecnologia esalta i sapori Dalle piastre di sale ai crudi nordici, dal sottovuoto alla riscoperta dei prodotti selvaggi di Indra Galbo L’ultimo geniaccio a essere stato consacrato nel gotha della gastronomia internazionale è lui, Rene Redzepi, chef del Noma di Copenhagen, vincitore quest’anno del San Pellegrino World’s 50 Best Restaurants, la classifica dei migliori ristoranti della Terra. Questo giovane chef, esponente di punta di quella che viene chiamata New Nordic Cuisine, ha Indra Galbo ridato vita e forma alla cucina nord europea reintroducendo materie prime e cotture che erano state lasciate un po’ da parte: il pesce locale, i muschi, i licheni, la cenere usata come spezia, ad esempio, vengono usati come elementi per riportare la percezione del gusto a un ritorno al contatto con la terra e con i suoi sapori. Questo è stato il frutto di un’esperienza acquisita in grandi ristoranti come El Bulli di Adrià e poi di due mesi in viaggio nella sua regione alla riscoperta di prodotti dimenticati e delle loro cotture. I piatti che ne derivano hanno un ottimo equilibrio di cotti e crudi, di modo che chi li gusta si ritrova a provare una sensazione di intimità come nel contatto con la natura selvaggia, il paesaggio e la stagionalità di quel determinato luogo. Per quanto riguarda la nostra penisola non siamo certo da meno: gli chef innovativi e di primo livello sono tanti, ma quelli che negli ultimi anni si sono distinti per la ricerca su prodotti e cotture sono stati sicuramente Massimo Bottura (Osteria Francescana) e Davide Scabin (Combal.Zero). Il primo ha fatto del connubio fra tradizione e innovazione la sua filosofia di vita, creando così una sorta di avanguardia culinaria del gusto. Famoso è il suo “bollito non bollito” che consiste in una cottura della carne di circa 18 ore a una temperatura di 63 gradi costanti. Il risultato? Carne che alla vista può sembrare cruda ma che invece è cotta e mantiene tutte le sue proprietà e la sua tenerezza. Per realizzare tutto ciò spesso non bastano i fornelli; grazie al roner, una macchina usata anche in ambito farmaceutico, si può cuocere a bagnomaria a temperatura controllata e con l’acqua in movimento affinchè si possa garantire una temperatura identica in tutto il recipiente come nel caso appena menzionato. Per quanto riguarda Scabin, parliamo di uno chef che, nel suo ristorante, non vede la cucina solo

come mangiare, quanto piuttosto come un’esperienza ricreazionale che ci dovrebbe aiutare a tornare bambini e che ci dovrebbe far apprezzare il piacere della sorpresa. Ogni suo singolo piatto prevede uno studio sulle cotture e le consistenze delle materie prime che non può lasciare nulla all’improvvisazione e alla casualità. La sua “ostrica virtuale” ne è un esempio: non c’è ostrica, ma un bocconcino di anguria, bottarga e scaglie di mandorle tostate che insieme ricordano il sapore del mollusco. Altro innovatore in tema di cotture è sicuramente lo sloveno Tomaž Kavcic (Gostisce Pri Lojzetu) con le sue piastre di sale. Queste permettono sostanzialmente una cottura senza alcuna aggiunta di grassi e, soprattutto, mantenengono inalterati sapori (in particolare per quanto riguarda il pesce) e consistenze. La piastra permette che i vapori dovuti all’umidità del sale evaporino, permettendo così la trasmissione al prodotto di sali nobili. Così facendo il tipico sapore di iodio marino, che era stato tolto in fase di lavaggio, torna al pesce. Un importante contributo, anche se è discutibile l’effettiva sostenibilità di questo tipo di gastronomia, è stato dato dalla manifestazione Cook It Raw (cuocilo crudo) dedicata alla cucina nella doppia accezione di “cruda”, ma anche di “selvaggia” , che quest’anno si è svolta nel Collio. L’evento ha visto la presenza di tredici cuochi che si sono riuniti per analizzare i processi di elaborazione di piatti crudi, partendo dalla pesca in laguna alla scelta dei prodotti al mercato. Lo scopo è quello di ottenere una cucina legata alla natura e a tecniche a impatto energetico zero. Altro stile di cottura adottato negli ultimi anni in alcuni ristoranti è quello del sottovuoto. Questo modo di trattare gli alimenti ha sicuramente grandissimi vantaggi: in primis vengono bloccate tutte le attività enzimatiche dell’alimento, prolungando notevolmente la durata dello stesso e impedendo il costituirsi di fattori che ne causano il veloce deterioramento, ma soprattutto si mantengono tutti i nutrienti e l’umidità naturale del cibo che, se pensiamo alla carne, costituiscono gran parte del prodotto. Una volta cotto, l’alimento viene tolto dall’involucro e riscaldato (se si è cotto a bassa temperatura) e conserverà un sapore originale che difficilmente riuscireste a ottenere con altri tipi di cotture. Fino a oggi il sottovuoto è riservato quasi esclusivamente a pochi ristoranti dagli chef estrosi e creativi e all’industria alimentare, ma sicuramente verrà il momento in cui verranno messi sul mercato strumenti per ottenere questo tipo di cottura anche in casa propria.

«Il sale è quel pezzo di mare che non è voluto tornare al cielo – afferma lo chef sloveno Tomaž Kavcic che ha ideato una piastra di sale per cuocere carni e pesce – prima c’è la natura, in questo caso il sale e poi l’uomo, che non può nulla per migliorarne la perfezione».

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Non solo Cina Mappa delle cucine straniere a Roma di Michela Monferrini A parlare di ristoranti etnici, subito viene da pensare ai lampioncini e alle tettoie rosse presenti in tante strade romane: non c’è quartiere che non proponga, non solo un luogo in cui poter mangiare pollo alle mandorle, involtini primavera e gelato fritto, ma addirittura una scelta tra più ristoranti cinesi, una conMichela Monferrini correnza tra piatti di riso alla cantonese e nuvolette, a colpi di prezzi economici (spesso ultraeconomici), impeccabili servizi take-away e cordialità. Il vicino (sulla carta geografica) Giappone, ormai da qualche anno ha conquistato i romani (e non solo) con una vera e propria invasione di sushi bar: regni di pesce crudo accompagnato da verdure, alghe e riso in bianco. Il concetto gastronomico che fa da base a questa cucina, è molto diverso e quasi opposto a quello a cui siamo abituati in Italia, tra piatti ricchi e soffritti: dal Giappone, impariamo che «un buon sapore naturale non ha bisogno di essere ritoccato». Sarà per questo che dal tavolo di un sushi bar ci si alza leggeri, ma anche – bisogna dirlo – quasi sempre ancora affamati. Da Akasaka, nel quartiere Ostiense, due chef del Sol Levante, Jong Tae Jin e Song Kyong Soo, accanto a sushi e sashimi propongono una lunga lista di pietanze e le lasciano scorrere sul caratteristico nastro kaiten (a Roma inaugurato dallo Zen Sushi Restaurant in Prati) posto al centro della tavolata, a portata di piatto. Da F.I.S.H., nel rione Monti, e da Chikutei ai Parioli, la gastronomia nipponica incontra rispettivamente quella thailandese e la malesiana; da Roppongi, in via Quattro Fontane, la cena inizia, inaspettatamente, con la jwilly, la “nostra”, temuta medusa; mentre Ginza Gold, su via Barberini, versione deluxe del Ginza di San Una pietanza di sushi

Giovanni, costituisce una vera e propria azienda: oltre alla cena in sale eleganti e lussuose, qui si organizzano corsi di origami e di cucina, feste private con servizio take-away e gift card prepagate di vario valore per regalare serate gastronomicamente indimenticabili. Anche la cucina indiana ha ormai colonizzato con i suoi forti sapori speziati intere zone romane, come ad esempio il rione Monti, con i locali Guru, Maharajah, Mother India, Sitar. Ma in altre zone, sono ospitati anche il Tiger Tandoori, locale d’atmosfere sandokaniana in un mix pop di poster e musiche da Bollywood e arredamento di modernariato, che accoglie anche sapori del Pakistan e del Bangladesh, o l’incantevole, romantico Surya Mahal, nel cuore di Trastevere, considerato il miglior ristorante indiano di Roma.

“Dal Giappone impariamo che un buon sapore naturale non ha bisogno di essere ritoccato” Per restare in area orientale, la capitale ospita anche i sapori dell’Indonesia, del Vietnam e della Thailandia, al Bali Bar&Restaurant o al Go Thai; quelli coreani (la cui cucina è una delle più povere in grassi essendo i cibi cotti al vapore e tra le cui specialità spicca la pizza ai frutti di mare) al Bi Won (letteralmente, giardino segreto), all’Hana o all’I Gio; infine quelli prettamente thailandesi all’Isola Puket o al Thai Inn, dove la creatività è doppia e i piatti dagli ingredienti fantasiosi vengono serviti come fossero opere d’arte. Per spostarci in area mediorientale, oltre ai tanti locali in cui è possibile mangiare kebab, lo spiedo di carne che ha ormai da qualche anno invaso la capitale (e non solo), troviamo gli Antichi sapori della Turchia; Alfonso, regno del cous cous, (altro piatto fortunato e proposto in più varianti); la cucina libanese al Beirut, con il pastrami di manzo, gli spiedini kafta


tiere Flaminio, degli chef di pollo e i dolci prevaElsa Javier e Luciano Pialentemente al miele, e al centini) che accoglie saCedro del Libano dove si pori – tra loro anche diassiste anche a spettacoli versi – provenienti daldi danza del ventre; i sal’intero paese, dalle Ande pori siriani al Zenobia e fino al sud. allo Sciam, dove anche Più note al nostro palato l’arredamento riporta a europeo, e provenienti da Damasco. In area Portico distanza geografica più d’Ottavia, il medioriente ridotta, la cucina francesi fa kosher e per rapporto se, greca, tirolese, spaqualità-prezzo, è da segnola. Per quest’ultima, gnalare lo Yotvata, dove vale la pena arrivare sul la tradizione gastronomilungomare di Ostia e da ca che rispetta le regole Don Pepe ordinare paella della religione ebraica, si a volontà, vegetariana o coniuga a quella giudaicon frutti di mare, magari co-romanesca. accompagnata da tapas e E forse non tutti sanno prosciutto ovviamente che a Roma vi sono aniberico come il Pata Neche diversi ristoranti di gra. La cucina mitteleucucina africana: l’Africa, ropea, e i suoi pezzi forti lo Zighinì, il Sahara e il (würstel, knoedel, gouMassawa, per esempio, lash, strudel di mele, salocali di cucina eritrea ed cher) si trovano all’antica etiope in cui è d’obbligo Birreria Viennese, da mangiare direttamente Franz, o al Löwehaus, con le mani. Non deve dove anche l’ambiente, invece indurre in errore il con tavoli in legno, conome d’un altro locale: stumi tipici e grossi bocBla Congo. Là è possibicali, talvolta enormi per le provare la cucina scanla birra, ricorda le taverdinava e la sua tipica vane della Foresta Nera. rietà di patate rosse farci- Il nastro kaiten che scorre con le pietanze davanti agli avventori in un Mentre gli indirizzi per la te in decine di maniere ristorante giapponese cucina greca sono davvedifferenti (dal salmone ai funghi) che dà il nome al ristorante, appunto. Per mangiare in luoghi colorati e con sicuro sottofondo “Per mangiare in luoghi colorati musicale, l’ideale è scegliere la cucina del Sudamerica: e con sicuro sottofondo musicale, tequila, paella, empanadas e sangria sono le pietanze tipiche dell’argentino Boca, così come dei messicani l’ideale è scegliere la cucina del Charreada – Café y Grill, Cucara Macara, Hell’s Grill. Sudamerica: tequila, paella, I sapori sono quelli piccanti delle spezie e del peperonempanadas e sangria. I sapori sono cino, i balli la samba, il tango e i latinoamericani in gequelli piccanti delle spezie e del nere (La cucaracha, è il nome di un locale messicano di

“In area Portico d’Ottavia, il medioriente si fa kosher e la tradizione gastronomica che rispetta le regole della religione ebraica, si coniuga a quella giudaico-romanesca” Trionfale ), ragione per cui questi locali sono frequentati soprattutto da comitive di giovani e richiestissimi per feste di addio al nubilato o al celibato. Suonano invece le note del charango andino, la chitarra peruviana a dieci corde, al Los Hijos del Sol, ristorante di cucina appunto peruviana (a Roma portata però da La Limeña al quar-

peperoncino, i balli la samba, il tango e i latinoamericani in genere” ro numerosi (soprattutto nel quartiere di Trastevere, e si ricordano il piccolo e confortevole Akropolis e il recentissimo Ouzerì) e tutti propongono prezzi veramente economici. Per una romantica cena in atmosfera parigina, ci sono due locali di diversa fascia di prezzo: a La Maison de l’Entrecôte non si spende molto, si entra alle spalle del Gazometro di Ostiense e ci si ritrova immersi in un locale della Parigi anni Cinquanta. A L’Escargot, sull’Appia Antica, il prezzo sale un po’, ma la tartare di carne cruda e chateaubriand con salsa bernaise è servita a lume di candela. Per fare colpo, senza andare troppo lontano.

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Le nuove frontiere del pet food Ma ancora una volta la qualità è più importante della quantità di Irene D’Intino Che l’alimentazione incida sulla qualità della vita e sulla nostra salute è ormai un dato appurato. Mangiare bene significa stare bene, o almeno stare meglio rispetto a quando si mangia male. Negli ultimi anni l’attenzione rivolta all’alimentazione umana è di gran lunga aumentata, in considerazione di una magIrene D’Intino giore consapevolezza assunta sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. OGM, rischio di obesità e malattie correlate, cibi che aiutano a prevenire i tumori, come, d’altra parte, attenzione all’alimentazione eco e bio e il fiorire di iniziative di sensibilizzazione: oggi c’è un mondo di opinioni, pensieri e considerazioni intorno all’alimentazione, come probabilmente non è mai accaduto nella storia dell’uomo. Ma cosa dire invece dei nostri amici animali? Se l’alimentazione è tanto importante per noi, se incide in maniera tanto significativa nella nostra vita, cosa accade nella loro? Come dobbiamo nutrirli, quanto e quante volte per garantire loro un’alimentazione sana, genuina e salutare? Ovviamente anche in questo caso le opinioni appaiono le più disparate e ogni veterinario avrà tratto le proprie conclusioni relative a studi ed esperienze. Il primo consiglio per chi possiede un animale domestico sembra dunque quello di ascoltare le indicazioni del medico veterinario, esattamente come si fa con un pediatra quando ci si vuole prendere cura di un bambino. Allo stesso modo, però, è giusto tenersi informati, cercare di carpire le esperienze altrui e trarne considerazioni che possano ampliare le nostre conoscenze e competenze, per non farci trovare impreparati davanti ad emergenze o problematiche. Come quando, nel 2007, negli Stati Uniti sono morti circa

1950 gatti e 2200 cani. I veterinari si sono subito allarmati, segnalando numerosissime “morti insolite” dovute a insufficienza renale. Ma questa appariva solo la causa del decesso. Cosa avesse causato tanti improvvisi problemi ai reni lo scoprì poco dopo la FDA (Food and Drug Administration) che ritirò dal mercato intere partite di cibo per cani e gatti e, analizzandole, scoprì che su 85 campioni di proteine di riso, in 27 era presente la melammina, sostanza tossica di cui abbiamo sentito molto parlare con l’emergenza del “latte cinese contaminato”. Nei primi mesi del 2009 il pericolo era arrivato anche da noi, quando due cani morti in Veneto avevano fatto scattare l’allarme e le indagini su un’azienda di Pavia, una delle tante produttrici del così detto pet food. Il Parlamento europeo decise allora

“Se l’alimentazione è tanto importante per noi, se incide in maniera tanto significativa nella nostra vita, cosa accade in quella dei nostri animali? Come dobbiamo nutrirli?” di adottare un regolamento che, proprio al fine di tutelare la salute degli animali domestici, imponesse l’obbligo di indicare, sulle etichette dei prodotti, l’elenco delle materie prime impiegate. Ma soprattutto il pet food divenne nuovamente, per l’ennesima volta, oggetto di critica e condanna da parte di quella scuola di pensiero che vede nel cibo “fatto in casa” il metodo migliore per alimentare i propri animali domestici. La diatriba va avanti da sempre: c’è infatti chi ritiene che sia consigliabile nutrire il cane (ma discorso simile si potrebbe fare anche per il gatto) con i nostri avanzi, proprio perché garanzia di qualità e genuinità, mentre c’è chi sostiene che il cibo in scatola, i mangimi secchi e quelli umidi debbano costituire l’unico sistema di sostentamento per gli animali domestici. Volendo tentare un’analisi in meri-


to, che possa apparire più oggettiva possibile, dobbiamo partire da un assunto di base: l’apparato digerente degli animali è diverso dal nostro. Quindi non è detto che qualcosa che a noi riesce facilmente assimilabile e digeribile lo sia allo stesso modo per il nostro cane (o gatto). È per esempio il caso di cipolle e cavoli, assolutamente sconsigliati nella dieta animale, così come, ovviamente, ogni tipo di dolce (cioccolato in primis), caffè, bevande alcoliche, cibi grassi o avariati, formaggi fermentati. Esattamente come avviene per gli uomini, infatti, gli animali sono soggetti a malattie legate all’alimentazione e non solo: possono addirittura non tollerare assolutamente cibi che per noi costitui-

“L’apparato digerente degli animali è diverso dal nostro. Quindi non è detto che qualcosa che a noi riesce facilmente assimilabile e digeribile lo sia allo stesso modo per il nostro cane o gatto” scono alimenti di base. Quindi attenzione a quando nutrite i vostri animali con gli scarti delle abbuffate intorno al tavolo: seppure usata molto di frequente, e probabilmente non del tutto deleteria, questa pratica deve però essere condotta con coscienza e con l’ausilio del consiglio veterinario. Sul sito dell’ASPCA (American society for the prevention of cruelty to animal) potrete trovare un elenco completo di sostanze alimentari e non, tossiche e nocive per cani e gatti (www.aspca.org). Allo stesso modo, bisognerebbe assumere maggiore coscienza nel momento in cui si acquistano cibi pronti, scatolette o mangimi. È importante ricordare, infatti, che in Italia vi sono circa 14 milioni di esemplari di animali da compagnia, compresi cani, gatti, pesci, uccelli e roditori. In pratica un animale domestico ogni due famiglie. È facile comprendere perciò l’incidenza economica di un mercato come quello del pet food, che, secondo l’Euromonitor, dovrebbe valere circa 1.232 milioni di euro l’anno. E che aumenta soprattutto quando sono i medici dei nostri amici animali, cioè i veterinari, a consigliarci di nutrirli con cibi preconfezionati. L’importante sembra comunque trovare per l’animale una dieta adatta alla sua attività fisica, alla sua età, alla sua razza, per evitare le problematiche conseguenti di natura estetica ma anche salutare.

Come spesso accade anche con il sistema nutrizionale umano, a volte assistiamo a sperimentazioni, tentativi di cambiamenti in virtù di migliorie salutiste o etiche. Questo av viene anche nel campo animale, e le ultime tendenze vedrebbero l’emergere di un sistema di alimentazione estremamente particolare ma sano, almeno a detta di coloro che lo hanno già adottato per i propri “amici a quattro zampe”. Stiamo parlando del BARF, Bones and raw food, ovvero Ossa e Cibo crudo: alla base della filosofia del BARF, infatti, vi è la convinzione che l’animale vada nutrito esattamente come farebbe da solo se vivesse allo stato brado. E quindi con ossa e carne cruda, ma non solo. Anche muscoli, organi, verdure e frutta crude. Anche perché l’obiettivo è quello di replicare una preda. Se questo potrà far storcere il naso a molti, per altri sembra aver rappresentato la soluzione ottimale ai problemi di salute dei propri cuccioli. Ma attenzione: chi decidesse di mettere in pratica questo tipo di alimentazione, deve attenersi a tabelle molto precise e scrupolose. Il veterinario australiano Ian Billinghurst e il dott. Tom Lonsdale saranno i vostri mentori migliori, al riguardo.

“Primo consiglio per chi possiede un animale domestico sembra dunque quello di ascoltare le indicazioni del medico veterinario” Qualunque dieta decidiate di adottare, comunque scegliate di alimentare il vostro animale, forse lo spunto d’analisi migliore ve lo darà l’etologia: sembra importante infatti, oltre al contenuto della ciotola, il modo in cui la preparate o la porgete al vostro animale. «Oggi spesso si dà da mangiare al cane mentre si sta al telefono, si apre una scatoletta e il problema è risolto» spiega l’etologo. Bisognerebbe invece condividere il cibo con il proprio animale per «farlo sentire parte integrante del nostro branco». O almeno dedicare al momento della sua nutrizione un rito speciale o particolare, magari preparando la ciotola, chiedendogli di fare qualcosa per cui merita una ricompensa e poi invitarlo a mangiare. Perché, vale la pena ricordarlo, molte volte è la qualità e non la quantità che può fare la differenza. Nell’alimentazione così come nelle attenzioni che rivolgiamo ai nostri cuccioli.

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Natura protetta e cibi I parchi custodi della biodiversità alimentare e rurale

reportage

di Filippo Belisario

Chi si occupa oggi di conservazione della natura è consapevole di agire in un quadro dinamico profondamente mutato rispetto agli anni “militanti” dei soli vincoli e divieti. Allora si trattava di interrompere pratiche terribili che, con il livello di coscienza Filippo Belisario attuale, potrebbero quasi unanimemente essere definite barbare: cementificazione di coste e argini, uccisione di lupi e orsi, uso del DDT e dell’eternit etc. Oggi, in Italia e in Europa, diversi obiettivi ambientali e culturali sono ormai acquisiti e socialmente riconosciuti, anche se questo riesce solo a rallentare la continua erosione di biodiversità, ambienti e paesaggi dovuta agli attuali tassi di crescita e di consumo delle risorse. Conservare la natura nel 2010 vuol dire da una parte conoscere e monitorare le dinamiche ambientali realizzando azioni per la salvaguardia di habitat e specie a rischio. Da un’altra essere in grado di lavorare con le comunità locali nei territori, riconoscendone complessità e specificità, per favorire politiche integrate di sviluppo di attività realmente sostenibili che scongiurino le tendenze all’abbandono e allo spopolamento. Da un’altra ancora, infine, vuol dire porsi molte domande ed essere consapevoli che per alcune possono non esservi risposte.

nunciabili dell’esistenza che sono i prodotti della terra. La loro qualità, varietà, genuinità ma anche le tradizioni e i paesaggi legati alla loro storia. I paesaggi sono entità dinamiche la cui evoluzione è scandita da processi naturali ma anche dalla mano dell’uomo. Per secoli gli abitanti delle campagne hanno tratto il massimo dalle terre, anche impervie e disagevoli, che venivano disboscate, dissodate, spietrate e infine coltivate o pascolate. Da pochi decenni invece, con l’abbandono dei campi, questo processo si è invertito e la natura sta lentamente riprendendo possesso del territorio. Ma sono moltissimi i segni del modellamento umano del paesaggio ancora riconoscibili. Si tratta di testimonianze diffuse ma labili, meritevoli di attenzione e conservazione in quanto espressione della nostra memoria storica, delle nostre radici. E insieme ad esse vanno tutelati i costumi, le azioni, i

“Sono moltissimi i segni del modellamento umano del paesaggio. Si tratta di testimonianze diffuse ma labili, meritevoli di attenzione e conservazione in quanto espressione della nostra memoria storica, delle nostre radici. E insieme ad esse vanno tutelati i costumi, le azioni, i gesti quotidiani e le esistenze che a quelle testimonianze hanno dato vita” In questo scenario di incertezza globale le aree protette (parchi e riserve naturali) si candidano sempre più ad assumere un ruolo di laboratori di sperimentazione e innovazione. E la nuova sfida diventa gestire e fare progetti con i territori non tanto per stimolarne la crescita economica, quanto per incrementarne la qualità della vita e la funzione chiave di nodi produttivi e di tutela di beni e servizi d’eccellenza per il sistema-paese. A partire da quei presidi irriSorgente nel Parco regionale dei Monti Simbruini


gesti quotidiani e le esistenze che a quelle testimonianze hanno dato vita. Nei parchi più che altrove questa necessità è sentita come una parte della mission. Non solo la cura degli assetti dei luoghi per il mantenimento degli equilibri idrogeologici e della biodiversità, che esprime proprio nel mosaico di foreste, radure, campi e cespuglieti, il massimo delle sue potenzialità. Ma anche la salvaguardia di saperi, abilità, sapori e tradizioni che compongono l’identità collettiva delle comunità. Immaginiamo il Parco nazionale delle Cinque Terre, sito UNESCO “Patrimonio dell’Umanità”, i suoi paesi, i suoi vini, il suo sistema di piccoli vigneti terrazzati a strapiombo sul mare delimitati da migliaia di muretti a secco. Immaginiamo i paesaggi agricoli montani dell’Italia centrale e meridionale, i campi cintati da siepi, i tratturi della transumanza, le colture promiscue e le “viti maritate”, i pascoli bradi di mucche e cavalli, la vita sempre più difficile di villaggi e frazioni ormai senza servizi in cui d’inverno risiedono poche decine di anime. Siamo disposti ad accettarne la silenziosa scomparsa? Quanti parchi sono necessari per renderne più probabile la sopravvivenza? Il primo e più essenziale tra i “prodotti” della terra, l’alimento principe, è l’acqua. La fornitura di acqua potabile rientra in una rosa di servizi

Mucca al pascolo brado nel Parco regionale dei Monti Simbruini

fondamentali, resi dagli ecosistemi, che raramente figurano o sono quotati nei conti economici delle imprese essendo forniti in permanenza e gratuitamente dalla natura. Eppure l’acqua ha un costo, per tutti, e gli analisti concordano nel ritenere che sarà sempre più alto man mano che le piogge diminuiranno e le grandi falde di pianura verranno inquinate. In questo, i territori delle aree protette, anche in virtù della prevalente collocazione in zone montane, sono delle autentiche miniere d’oro per qualità, quantità e varietà delle acque. E gli enti chiamati a gestirli, anche se spesso privi di fondi e strumenti, sono i custodi di questi tesori. Solo per fare un esempio si pensi che, nel Lazio, il Parco regionale dei Monti Simbruini fornisce, ogni secondo, 8 metri cubi (8.000 litri) di buonissima acqua di montagna all’area metropolitana di Roma. In un anno sono oltre 250 milioni di metri cubi pari a un prezzo “teorico” di mercato di circa 50 milioni di euro. A Fara San Martino (in provincia di Chieti), invece, l’acqua e il grano duro del Parco nazionale della Majella sono gli ingredienti essenziali di due pastifici famosi in tutta Italia.

“L’alimento principe è l’acqua. La fornitura di acqua potabile rientra in una rosa di servizi fondamentali, resi dagli ecosistemi, che raramente figurano o sono quotati nei conti economici delle imprese essendo forniti in permanenza e gratuitamente dalla natura” Processi di captazione e sfruttamento eccessivo delle sorgenti di montagna possono portare al depauperamento irreversibile delle falde, con conseguenze su interi habitat. Qualsiasi attività antropica richiede acqua. Quanto siamo disposti a limitare le nostre tante “seti”? Nel “paniere” dei servizi ecosistemici che non compaiono in alcun conto economico o piano finanziario ve ne sono diversi legati al mondo vivente, alla biosfera. I più importanti e noti sono la fotosintesi, intesa come capacità delle piante di produrre biomassa, e l’impollinazione, che favorisce il mantenimento della diversità floristica e l’evoluzione vegetale.

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urbani a garantire lo svolgersi indisturbato dei processi naturali. A tutto vantaggio della qualità degli alimenti che da essi derivano. Siamo disposti a pagare qualcosa di più per questi prodotti genuini di “filiera corta”?

Piccoli vigneti di Moscato di Terracina a Campo Soriano (LT)

All’impollinazione dobbiamo la grande varietà e diversificazione del mondo vegetale, le forme, i colori e i profumi dei fiori, la bontà dei frutti e delle erbe spontanee, l’esercito instancabile delle moltissime specie di insetti pronubi. Eppure la continua immissione di pesticidi nelle parti di campagna ancora utilizzate sta riducendo le popolazioni di imenotteri e farfalle più sensibili, compresi molti sciami degli apicoltori. Le amiche api, macchine sociali perfette dalla vita scandita nei cui misteri non siamo mai riusciti a penetrare fino in fondo, non ce la fanno a stare al passo col nostro “progresso”. In parchi e riserve non è solo la tutela ma anche la distanza da insediamenti industriali, infrastrutture e grandi centri

Oliveto pascolato nel Monumento naturale Gole del Farfa (RI)

“Immaginiamo i paesaggi agricoli montani dell’Italia centrale e meridionale, i campi cintati da siepi, i tratturi della transumanza, le colture promiscue e le “viti maritate”, i pascoli bradi di mucche e cavalli, la vita sempre più difficile di villaggi e frazioni ormai senza servizi in cui d’inverno risiedono poche decine di anime. Siamo disposti ad accettarne la silenziosa scomparsa?” Nella Riserva regionale di Monte Rufeno (Acquapendente - VT) una ricca diversità floristica, centinaia di ettari di foreste e prati e decine di arnie collocate in posizioni strategiche consentono la produzione di un ottimo miele millefiori di bosco a partire da essenze come il castagno, l’erica, il corbezzolo, l’acacia, il trifoglio: uno dei pochissimi mieli locali riconosciuto come “prodotto agroalimentare tradizionale italiano”. Sul Pian Grande di Castelluccio (Norcia - PG), nel cuore del Parco nazionale dei Monti Si-


billini, le tecniche e i gesti per coltivare le famose lenticchie sono rimasti gli stessi da centinaia di anni. L’avvento del Parco ne tutela l’integrità e ne garantisce la continuità. A Terracina (LT), nell’area protetta Monumento naturale di Campo Soriano, in un lembo isolato di territorio che sa di altri tempi, massi e pinnacoli calcarei derivanti dai processi carsici contendono il suolo a decine di piccolissimi vigneti di Moscato di Terracina, nel cuore più autentico dell’areale di produzione.

“La continua immissione di pesticidi nelle parti di campagna ancora utilizzate sta riducendo le popolazioni di imenotteri e farfalle più sensibili, compresi molti sciami degli apicoltori. Le api non ce la fanno a stare al passo col nostro progresso” E si potrebbe continuare a lungo: sono veramente innumerevoli gli abbinamenti fra aree protette e prodotti agroalimentari di qualità. Solo per restare nel Lazio si va dalle nocciole e dai marroni dei Cimini (Riserva del Lago di Vico) alle ciliegie e al farro del Parco regionale dei Monti Lucretili, dall’olio di oliva Sabino del Monumento naturale Gole del Farfa alla porchetta di Ariccia e ai pani di Genzano e Lariano del Parco regionale dei Castelli Romani. Ed è proprio nei parchi del Lazio, messi “a sistema” grazie

Pian Grande di Castelluccio, Norcia (PG)

A fianco, dall’alto verso il basso: Macaone (Papilio machaon) su pianta fiorita di rosmarino; olive, corbezzoli, castagno

alle iniziative dell’Agenzia regionale parchi, che è nato Natura in Campo, un progetto integrato di promozione agroalimentare di tutti i territori protetti regionali che prevede, tra l’altro, il sostegno alle attività agricole rispettose dell’ambiente e la concessione di un marchio per i prodotti certificati, biologici e tradizionali. Senza dimenticare il coinvolgimento attivo di ragazzi e adulti nella vita dei campi e nei processi di produzione e trasformazione degli alimenti attraverso una rete di Fattorie educative. Perché facendo si conosce e si capisce quello che si fa. E solo conoscendolo lo si può amare.

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La Faggeta: un nuovo Centro studi e ricerche di Ateneo ad Allumiere di Giacomo Caracciolo

Lo scorso 17 giugno, ad Allumiere (RM), il Rettore Guido Fabiani ha presentato il nuovo Centro studi e ricerche dell’Ateneo, che sorgerà nella ex base Nato di La Faggeta (e già ospita un primo campo sperimentale formato da laureandi in Geologia sotto la guida dei professori Elisa Ghiozzi e Claudio Faccenna). La scelta del sito non è affatto casuale infatti il Comune di Allumiere, che dista poco più di 70 km da Roma, sorge sulle cime più elevate dei Monti della Tolfa, che si affacciano sul litorale che va dalla capitale a Civitavecchia ed è il fulcro non solo di una zona ricca di storia ma anche di notevole interesse naturalistico e archeologico. Potremmo dire che il futuro della ricerca passa attraverso la nostra storia, infatti questo nuovo centro che si candida come polo multifunzionale all’avanguardia nel panorama accademico italiano si svilupperà dove è stata accertata dagli archeologi la presenza di insediamenti urbani fin dall’epoca paleolitica (più precisamente dal paleolitico medio, VII-VI sec. a.c.). Il sindaco Augusto Battilocchio parla di «una scommessa vinta, condivisa dall’Università e dal consiglio comunale» ed aggiunge «è il coronamento di un percorso comune intrapreso con l’Università Roma Tre». Il Rettore Fabiani, dal canto suo, ha dichiarato che «l’Università Roma Tre vuole fare di La Faggeta un centro di attività formative e di ricerca di alto livello e soprattutto multidisciplinare». Ed ha aggiunto: «la scommessa di cui ha parlato il sindaco è in corso. Al Centro non tutto è completo, ma l’essenziale è stato fatto. Ci aspettiamo l’impegno profondo delle istituzioni per proseguire». Nello specifico La Faggeta – che bisogna ricordare essere inserita in un territorio di ampie aree SIC (sito di importanza comunitaria) e ZPS (zona a protezione speciale) che ne certificano l’alta valenza ambientale – ospiterà scuole, scuole di specializzazione, master, workshop e seminari internazionali che non potranno non tener conto del patrimonio artistico e geologico di questa zona dell’alto Lazio. Per quanto riguarda l’istituzione di laboratori, l’Ateneo ha fatto sapere che le scelte saranno adottate in funzione degli spazi, dei finanziamenti che sarà possibile attivare o di linee strategiche prioritarie che si riterrà opportuno sviluppare. Certa, per il momento, la creazione di un laboratorio di didattica avanzata, che coordinerà il Centro studi di ricerca e di monitoraggio in campo ambientale, con laboratori organizzati in diverse aree disciplinari (Centro ECOMET) e il Laboratorio per l’innovazione tecnologica in campo ingegneristico (con particolare attenzione alle energie rinnovabili). Ovviamente soddisfatte anche le referenti del progetto per Roma Tre, le professoresse Marina D’Amato e Giulia Caneva, a quest’ultima abbiamo chiesto se e come è prevista l’accoglienza di studenti stranieri (anche al di fuori del Progetto Erasmus). «Sicuramente saranno ospitati, è tra i nostri obiettivi – ha dichiarato – però ciò dipenderà soprattutto dalla tipologia di progetti didattici che saranno avviati nella sede che avrà una funzione polivalente per scuole estive, master, stage di dottorato o attività curricolari di campo».

Con Marina D’Amato abbiamo analizzato il significato e l’idea romantica che porta con sé l’utilizzo di un ex base militare come luogo di sapere. «Trovo estremamente suggestivo che dalle funzioni militari di controllo di una volta oggi La Faggeta diventi un luogo che offre possibilità di incontri informali tra docenti italiani e stranieri e tra docenti e studenti. È proprio in questi contesti (con la possibilità di fermarsi alcuni giorni) che si costruiscono le premesse migliori per lo studio e la ricerca. Questo nuovo centro residenziale, oltre ad essere un’eccezione nel panorama italiano e continentale, rappresenta in pieno la mentalità dell’Ateneo». Per concludere abbiamo chiesto al sindaco Battilocchio come procede l’ambientamento del primo campo sperimentale e come crede saranno accolti gli eventuali studenti stranieri in futuro. «La comunità è felice di continuare a mettersi alla prova con lo scambio culturale. Per quanto riguarda i futuri biologi già presenti sul territorio, e tutti coloro che ci auguriamo giungano presto – ha sottolineato – la scelta dell’Università di non creare strutture di ristorazione è un gesto importante per l’integrazione con la comunità e far conoscere ai ragazzi anche la nostra tradizione enogastronomica, oltre che storico-culturale». Per ora non ci resta che aspettare che i tempi tecnici facciano il proprio corso per tornare presto a La Faggeta per dedicarci, questa volta, ai progetti di laboratorio e alle sensazioni degli studenti.

Il Rettore Guido Fabiani e Giulia Caneva all’inaugurazione del Centro studi La Faggeta


Tom Waits beve Caffè Quarta! Intervista a Don Pasta di Alessandra Ciarletti

Don Pasta selecter è un dj-economista, appassionato di gastronomia che prova ad unire le sue passioni e conoscenze con il progetto Food sound system, manuale politico di gastronomia musicale. Nato come dj in Salento, dove è dj resident della Mandragola-Otranto nel periodo 1996/1998, si definisce un «salentino esule per scelta». Di passaggio spesso in Francia, è romano d’adozione da più di un decennio. È membro fondatore del Clash city rockers sound system, collettivo aperto di dj e selecter che organizza eventi ed iniziative musicali in diversi centri sociali romani. Ha curato a Roma l’appuntamento settimanale Moods: a selection about coolness and revolutionary sounds. Per due anni ha vissuto a Parigi, dove ha suonato nei maggiori club cittadini (La Guinguette Pirate, la Favela Chic, il Jungle Montmartre) ed è stato resident dj del festival “La Porte Basse” in Corrèze. È inoltre promotore di due importanti eventi che si svolgono a Roma: Sciroccu (festival sulla cultura salentina) e la Roda dei Circhi (festival franco-italiano di circo contemporaneo). (da www.donpasta.com)

Sono nato in un paesino del Salento e la musica per me è stata un vero e proprio vettore: mi ha dato la possibilità di conoscere, confrontarmi e sperimentarmi con culture fisicamente distanti da me; sostanzialmente la musica è stata parte integrante della mia crescita. Il cibo la parte sostan-

Sono nato in un paesino del Salento e la musica per me è stata un vero e proprio vettore: mi ha dato la possibilità di conoscere culture fisicamente distanti da me; sostanzialmente la musica è stata parte integrante della mia crescita, come il cibo del resto. Attraverso la musica viaggiavo e quando poi sono andato altrove, l’ho fatto portandomi dietro il cibo

incontri

Ci racconti come nasce il progetto Soul food, di cui sei l’ideatore? Il progetto Soul food nasce in un certo senso come appendice del mio lavoro artistico sul cibo, anche se ormai cammina con le proprie gambe. Ho iniziato a lavorare così con due mie grandi passioni: la musica e il cibo appunto. Il cibo rappresentava il legame con la mia terra di origine, la Puglia, mentre la musica, rappresenta il viaggio, lo spostamento, la scoperta. Passato e futuro, io il presente che li unisce. Nello spettacolo giochi con una serie di elementi/alimenti che caratterizzano la tua terra di origine, ma anche altri luoghi dell’area mediterranea, come il Maghreb, la Provenza. Li abbini e li metti in viaggio… Quando ho iniziato a raccontare delle melanzane alla parmigiana e di John Coltrane, mi sono reso conto che sia che lo raccontassi in una piazza di paese sia che si trattasse di una città, la gente aveva dimenticato il rapporto con le stagioni, il piacere che deriva dal cibo e soprattutto dalla comunione solidale che quasi naturalmente si manifesta attraverso il cibo. Questo aspetto è ben visibile nella cultura contadina, che in qualche modo mi porto dietro. Non solo. Più vado verso nord più vedo una forte individualizzazione, quindi attraverso lo spettacolo cerco di riproporre e di diffondere quella capacità socializzante che caratterizza la cultura mediterranea.

ziale. Viaggiavo attraverso la musica, mi immaginavo, mi proiettavo altrove e quando poi sono andato in un altrove, l’ho fatto portandomi dietro il cibo, perché niente racconta ciò che siamo quanto il cibo di cui ci nutriamo. E il cibo

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va protetto, tramandato e in fatto di avere olio ti permetSalento tutto questo avviene te anche di scambiare, di respontaneamente. Con questo lativizzare le cose, di essere progetto ho voluto diffondere morbido nell’affrontare l’alquella che secondo me è una tro. Come in un vecchio buona pratica. Tutto questo mercato, chi ha olio è in però riformulato con codici grado di negoziare qualsiasi nuovi che attingono moltissicosa. mo dal mondo dei dj, quindi Dici che la cucina è quella mi sono “limitato” a mescoche ti hanno trasmesso tua lare qualcosa di esistente e nonna e tua madre. Nei l’ho trasformato, senza snatutuoi spettacoli combini in rarlo. un divertente e imprevedi«Se hai un problema, agbile mix tradizione e innogiungi olio». Questo il convazione, cucini, reciti, canFior di vinile. Strana fioritura di primavera su alcuni alberi di Rosiglio che apre il tuo spetta- ma. All’alba di giovedì 8 aprile la capitale ha mostrato “pasta e viti. Una sorta di miscellacolo. Cosa rappresenta per nile” al posto dei più diffusi e comuni fiori. Un assaggio del Cook nea artistica fra poesia, te questo fluido antico? cottura lenta di passata di and Roll Circus (il 15 aprile scorso all’Auditorium), lo spettacolo Innanzitutto va detto che tut- dove le melodie incrociano, letteralmente, verdure e non solo. pomodoro, musica, tenuta to questo progetto lo faccio insieme dalla voce. Qual è da esule, un esule che si porta dietro/dentro gli affetti più il messaggio principale? forti. In fondo penso che alla base di questo mio lavoro ci Il messaggio principale… in realtà ce ne sono tanti. Ti facsia proprio questo sentire. E per me il rapporto con il cicio un esempio: ora mi trovo a Tolosa e da poco mi hanno bo, con la cucina è innanzitutto il rapporto con mia madre finanziato un progetto cui tengo molto, in cui attraverso e con mia nonna: quelle di cui parlo sono le loro vecchie delle interviste a ristoratori che vengono da tutto il mondo ricette. E l’olio rappresenta il fluido che aggrega, che dà e che vivono da tempo a Tolosa, l’identità collettiva è sapore. E poi voglio dire una cosa per me fondamentale: cambiata, si è arricchita di tanti sud. Se osservi bene tante l’olio è olio, la pasta è la pasta, il sugo è il sugo: ovvero città del nord – New York, Parigi, Londra – altro non sono alimenti basilari, autentici; ma partendo da questi si può che ricostruzioni di tanti sud. Il mio messaggio è che attradar vita a tantissimi piatti, si può mettere in evidenza tutta verso la curiosità del cibo, che è un’identità profonda, leuna serie di cose. Questi elementi sono per me radici e gata a un carattere storico e culturale molto forte e attrapiù vado in giro più questo concetto di radice/ tradizione verso un sud a disposizione, si può essere aperti a altri si radica ulteriormente in me. Ed è un sentire che si innesud. Questo se vogliamo è il manifesto del Food sound sta nei primissimi anni di vita, non si acquisisce dopo. Ed system. Non voglio salvaguardare la tradizione per tenerla è ricchezza di scambio: quando ci si confronta con molti chiusa in casa, non è questo il mio obiettivo: in fondo soaltri, con identità altre – io vivo in Francia dove il concetno un esule e in questo esodo, dovuto al fatto che in Italia to di identità è vissuto quotidianamente – ci si rende connon riuscivo a lavorare mentre qui sì, porto la mia storia to che è una grande fortuna avere proprie identità da porche entra in relazione con le storie delle persone che conotare con sé. Ci sono due cose fondamentali: uno è il dirsi sco e da questo confronto nasce una storia nuova e allargando l’obiettivo nasce una società nuova, che a sua volta è frutto di questo con-fondere tante identità, senza annulQuando ho iniziato a raccontare delle lare quella d’origine... il che significa: vivo in Francia e melanzane alla parmigiana e di John quindi sono pronto a mangiare burro tutti i giorni? Assolutamente no, non ci penso proprio. Uso l’olio. D’altro canto Coltrane, mi sono reso conto è così da millenni: il piatto tipico di Milano è il risotto con che la gente aveva dimenticato il lo zafferano, che certo non nasce in Lombardia; un piatto rapporto con le stagioni, il piacere che tipico della cucina romana è il carciofo alla giudia… Tutto deriva dal cibo e soprattutto dalla questo per dire che il concetto stesso di tradizione è di fatto un ibrido e nasce proprio dallo scambio, dal fare propri comunione solidale che quasi usi e costumi che nascono altrove, mescolando al preesinaturalmente si manifesta stente, traendone nuova e forte convinzione, tanto che poi attraverso il cibo la si considera tradizione propria. Il sogno della cucina, una sorta di metafora riuscita perché manifesta è che qualio sono questa storia qui, che è un discorso individuale siasi tradizione serve per costruire comunità, per integrare ma anche culturale, e l’altra è dire e dirsi, questa mia stocomunità. La pasta con le sarde nello spettacolo aveva ria la metto a disposizione, la scambio con altri. In questo questa valenza. processo, la musica costituisce il fluido, l’olio di oliva Se la musica fosse un ingrediente sarebbe… che amalgama la passata di pomodoro e pure il cous-coOlio! La musica è stata per me la prima forma di curiosità us. L’identità è uno strumento di confronto, di relazione. che mi ha permesso di fare passi avanti: non a caso Paul L’olio poi per noi è quasi un fluido magico. Esso è alla McCartney a un certo punto capì che aveva fatto più rivobase dell’alimentazione ma anche elemento curativo; il luzione lui coi Beatles che qualsiasi politico dei suoi tem-


pi. La musica è una delle reali forme di avanzamento culturale e sociale. L’esempio per me più importante lo rappresentano i Clash, gruppo punk degli anni Settanta che se ne fregarono del nichilismo dei Sex Pistols, mescolarono insieme tutte le influenze musicali che caratterizzavano la Londra di quei tempi e mangiavano in un ristorante indiano. Furono i primi a capire che l’elemento interessante degli anni Ottanta era questa sorta di mixaggio delle culture. Avendo ricevuto questo messaggio, attraverso la musica lo traslo in altre forme artistiche e perfetta in questo senso è la metafora del cibo. Perchè Tom Waits e Caffè Quarta, Nick Drake e la mandragola. Cosa si cela dietro questi abbinamenti? E soprattutto gli abbinamenti li fai per convergenza o divergenza? Le associazioni sono un po’ folli e assolutamente personali; non hanno niente di scientifico, e sono legate invece a un approccio emotivo. La Mandragola era il posto in cui ho iniziato a fare il dj, un posto selvaggio perso nella campagna salentina; la mattina mi svegliavo molto presto per organizzare bene il lavoro, avevo di fronte il mare, intorno la campagna e la musica di cui avevo bisogno era una musica dolce, appunto Nick Drake. Ogni passaggio dello spettacolo è legato alla memoria, che viene sì trasformata, adattata, ma quella rimane! Tom Waits e Caffè Quarta… be’ il Caffè Quarta per qualsiasi salentino è più che un rito, è quasi un amuleto della felicità e Tom Waits ha per me la stessa cifra… potrò andare ovunque ma lui non mancherà mai tra i miei dischi. Insomma sono associazioni personali che quasi mai si basano su informazioni relative all’artista. Inoltre, nello specifico questi due artisti rappresentano per me una sorta di viaggio iniziatico, sono i primi musicisti che ho amato, poi c’è Coltrane che associo alla parmigiana di melanzane, i Clash e il polpo in pignata… è un modo tutto mio di mettere insieme le cose più significative della mia adolescenza. Ci spieghi perché un piatto fuori stagione non è poetico? La prima domanda se vogliamo rappresenta la mia poetica: non puoi fare la parmigiana in gennaio perché le melanzane sono piene d’acqua e non hanno gusto, quindi prepareresti un piatto senza armonia, che non trasmette poesia, poesia intesa proprio come armonia fra gli alimenti. Forzare uno o più elementi, nello specifico la mancanza del sole, del caldo che maturano le melanzane, che le rendono dolci, oppure il silenzio delle mattine d’estate in campagna… rinunciare a questi elementi significa togliere a un piatto le sue condizioni esistenziali; significa togliergli tutte quelle cose che lo rendono speciale, unico, trasformandolo, invece, in qualcosa di routinario, sempre pronto e disponibile. In realtà non è così e la buona cucina è strettamente connessa con il ritmo della natura. Inoltre cucinare è preparare e, se vogliamo, prepararsi a mangiare e a far mangiare. Non è un atto meccanico; è un atto magico.

La cucina è più incertezza o improvvisazione? Direi che la cucina è entrambe! Incerta come la vita, da improvvisare talvolta come quando ti arrivano i colpi bassi... bisogna prenderli stando in piedi! Devi essere pronto per vivere l’incertezza, preparato. L’invenzione è spesso frutto di una soluzione trovata in un momento di incertezza, facendo i conti, anche in senso stretto, con quello che in quel momento hai a disposizione. In fondo attraverso la cucina passano validi insegnamenti di vita. Senza considerare poi che l’incertezza è alla base di qualsiasi forma artistica. L’incertezza è la base artistica della cucina. L’improvvisazione è la sua conseguenza. E la lentezza? In cucina la velocità non esiste, anzi è la cucina stessa che decide i tempi, li decide per te. Nella cucina popolare esiste il concetto di lentezza e in questo senso è una buona metafora di vita: se vuoi mangiare bene ti devi fermare.

Non puoi fare la parmigiana in gennaio perché le melanzane sono piene d’acqua e non hanno gusto, quindi prepareresti un piatto senza armonia, che non trasmette poesia Cosa sono le cene carbonare? Le cene carbonare fanno parte del festival Soul food, cibo ambiente solidarietà e arte, organizzato dall’associazione Terreni fertili, sono in un certo senso il nostro fiore all’occhiello. Di fatto sono cene illegali a casa di qualcuno, e la gente si iscrive un po’ alla cieca, non sapendo esattamente dove e con chi andrà a mangiare (massimo una ventina di persone) e durante queste cene si parla di cose serie: l’integrazione, l’ecologia, la filiera corta, la convivialità. Hai due possibilità per parlare di questi temi: o lo fai dal palco col rischio di ergerti a giudice, oppure lo fai stando tra le persone, mangiando con loro. Soul food è un contenitore di nuove forme di comunicazione. Le cene carbonare hanno un po’ questo obiettivo, parlare di queste cose che sono alla base della società. Tutto questo attorno a un tavolo e finendo a tarallucci e vino, nell’accezione positiva del termine. Alla fine dello spettacolo hai detto che la Francia ti ha accolto, lasciando intendere che l’Italia ti ha rifiutato. Eppure il legame con le tue radici è il nucleo fondante la tua stessa arte. Risolvi così il dissenso di un rapporto “conflittuale” con la tua terra? Vivo in Francia da quattro anni. In Francia lavoro e da qui porto in Italia il mio progetto artistico, finanziato dal Comune di Tolosa e dall’ambasciata di Francia. Credo che tutto questo possa far riflettere. A Tolosa nessuno mi conosceva, mentre in Italia avevo già pubblicato due libri... eppure qui il progetto è piaciuto ed è stato finanziato, in Italia non riuscivo a lavorare. Nemo propheta in patria!

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La cucina risveglia le nostre memorie Abitare e mangiare: intervista a Maurizio Ranzi di Irene D’Intino Maurizio Ranzi ha studiato Architettura presso l’Università di Roma La Sapienza dove si è laureato nel 1961 e dove ha insegnato Composizione architettonica fino al 1991. In seguito è entrato a far parte del gruppo fondatore della Facoltà di Architettura dell’Ateneo di Roma Tre, insegnando dal 1992 Progettazione architettonica e urbana. Dal novembre del 2008 è in pensione per raggiunti limiti di età. Durante la carriera universitaria ha soggiornato saltuariamente in Francia e negli Stati Uniti, dove ha svolto cicli di conferenze e attività didattica in qualità di visiting professor. Parallelamente all’attività di docente ha svolto attività professionale, progettando, tra l’altro, edifici per abitazione, edilizia scolastica, complessi direzionali, ospedali ed allestimenti. Infine ha partecipato a molti concorsi nazionali e internazionali, vincendone alcuni e perdendone molti, cosa più che normale, avendo ritenuto da sempre il concorso non un modo per acquisire un incarico, ma un’occasione per riflettere sui significati del mestiere di architetto. ta. La cucina era composta veramente da pochi elementi e da Ciò che mangiamo non è solo ciò che mangiamo. È anche tante credenze. Poi piano piano sono arrivati il frigorifero, il dove lo compriamo, come lo cuciniamo, dove, quando e dofrizer, il frullatore e tutti gli altri elettrodomestici e, per finipo quanto tempo lo consumiamo. Il teatro di tutte queste re, il forno a microonde, che io considero uno strumento inazioni quotidiane, per la maggior parte inconsce, è la cucina, fernale... spazio abitativo che da luogo privato, quasi intimo, si è anPerché considera il microonde infernale? dato via via trasformando in uno degli spazi più moderni, Perché è il simbolo di un modo di vivere il cibo che secondo tecnologici e ricercati della casa. O almeno così è stato fino a poco tempo fa. Sì, perché ora, nonostante l’ancora forte attenzione all’high tech la tendenza sembra essere quella di un “Penso che gli uomini abbiano fatto recupero. Delle tradizioni, della manualità, dei sapori e degli sempre, nelle diverse comunità in cui si odori. Nella vita, così come nella cucina, che per molti trovavano a vivere, cose molto simili, aspetti ci riflette come specchio di una società che cambia. senza saperlo. L’unica cosa che li Per cercare di comprendere meglio il significato storico, architettonico e anche, perché no, sociologico della cucina, ne differenziava era il tipo di abbiamo parlato con Maurizio Ranzi, incontrandolo nel suo approvvigionamento che avevano, se studio di Roma. vivevano in un luogo più marino o più Mi corregga se sbaglio, prof. Ranzi, ma la cucina, per boscoso” molto tempo, è stata considerata un luogo “privato”, che si tendeva a tenere nascosto, in favore di altri spazi abitame è molto pericoloso. Nel momento in cui sono subentrati tivi più presentabili, come la sala o il salotto. Perché, poi, questi elettrodomestici, paradossalmente la cucina è diventail ruolo della cucina è stato sdoganato? ta inutile. Pensiamo al film The Apartment: in una scena Quando studiavo Architettura, ci insegnavano che l’alloggio Jack Lemmon rientra dopo una giornata di stress, si toglie la è fatto di due blocchi: la zona notte e la zona giorno. Quindi giacca, tira fuori dal frigo (che, non a caso, sta in salotto) un qualsiasi casa avessimo dovuto progettare, dovevamo tener tv dinner surgelato, lo scalda nel microonde, che si trova conto di questa divisione. Poi tornavo a casa, osservavo il sempre nello stesso ambiente, si luogo dove vivevo e mi accorgevo siede sul divano e cena, anzi mache questa differenza non era in stica, davanti alla televisione da realtà così netta: c’era una porta solo. A quel punto la cucina poche apriva su un lungo corridoio, trebbe anche non esserci. Basta la da cui partivano le stanze, tutte mano che spinge il bottone. uguali. Le uniche che effettivaQuesto avviene forse perché la mente si “differenziavano” erano cucina cambia in base alle noil bagno e la cucina, o almeno stre esigenze? È corretto dire quel luogo che chiamiamo così che anche le nostre abitudini ma che all’epoca aveva quasi alimentari possono influenzare esclusivamente un grande lavello e cambiare il modo di concepire in cui mettevamo a sciacquare la cucina? l’insalata e a tener fresco il burro sotto la cannella dell’acqua diret- Jack Lemmon nel film The Apartment, di Billy Wilder (1960) Ma certo! Qualsiasi cosa avviene


in uno spazio lo influenza. È logieconomica: deriva piuttosto da co pensare che se il tempo che noi una esigenza di controllo di cosa dedichiamo al cibo è ridotto e conmangiamo. Se vogliamo è una centrato in pochi essenziali paspresa di coscienza del valore dei saggi, la cucina avrà bisogno di cibi; e questo riscoperto approcstrumenti ed elementi adattabili alcio ridona valore alla cucina. È un le nostre abitudini, così come sucpo’ un riscoprire di cosa siamo cederebbe, viceversa, se trascorfatti: recuperare la manualità, a un ressimo molto tempo a preparare livello più sottile, restituisce sengli alimenti dei nostri pasti. so al corpo che abitiamo. Nella Osservando la questione da cucina poi si annida da sempre la questo punto di vista, si potradizione, la memoria di ciò che trebbe anche sostenere che Michelle Obama nell’orto della Casa Bianca, con alcuni ci ha preceduto. Le faccio un studenti delle scuole primarie una maggiore funzionalità in esempio: come si tira una sfoglia? ambito progettuale potrebbe Io lo so perché osservavo mia scaturire da una pratica esperienziale... madre mentre lo faceva. Ecco, vivevo la cucina, vivevo mia Sicuramente conoscere qualcosa aiuta a comprenderne memadre e attraverso il cibo apprendevo molto di più della soglio il funzionamento, anche se gli elementi che poi vanno stanza nutritiva. La cucina è lo specchio di noi e di quello ad incidere sono tanti. Mi viene spesso in mente un paradosche viviamo. so dell’architettura razionalista degli anni Trenta: è con ironia che ho sempre pensato al passavivande, quel simulacro “La riscoperta dell’orto non ha una di tempi lontani, quel buco nel muro attraverso il quale porsola valenza economica: deriva tare i piatti in sala da pranzo; ho sempre immaginato la piuttosto da una esigenza di controllo “donna di casa” che cucina con il grembiule, che quando i piatti sono pronti li poggia nel passavivande senza mostrarsi, di cosa mangiamo. Se vogliamo è una sistema la gonna e i capelli, e poi, finalmente presentabile, si presa di coscienza del valore dei cibi; e unisce a tavola al resto della famiglia: un controsenso che riquesto riscoperto approccio ridona calca antichi rituali familiari perduti, che si ricollega a ciò di valore alla cucina” cui parlavamo all’inizio, all’idea di una cucina da nascondere, quasi come uno spazio intimo, privato. Perché forse, riflettendoci, lo spazio in cui ci si nutre, in È anche lo specchio dei nostri tempi: il recupero dell’orto cui si preparano gli alimenti, in cui si condivide è anche da parte di Michelle Obama forse simboleggia proprio uno spazio molto privato... questo... Sì, è vero, anche se oggi la tendenza è quella di avere delle Certo! Michelle Obama non ha necessità di fare l’orto: basta cucine piuttosto asettiche, in cui sia tutto ordinato, pulito, che schiocchi le dita e le portano la più buona zucchina prodove non ci siano odori che filtrino nelle altre stanze. Insomdotta nell’Arkansas! E invece no, lei preferisce farlo da sola. ma qualcosa di molto freddo, quasi finto, come se fosse più L’insegnamento che ci dà la cucina, letto in filigrana, è proun oggetto da esposizione che da utilizzo. prio questo: la cucina è un luogo in grado di risvegliare le A livello internazionale, c’è un modo diverso di ideare o nostre memorie, per non farci perdere la nostra identità. concepire lo spazio abitativo della cucina? Ci sono paesi Quindi, se dovessi sintetizzare tutto quello che ci siamo detti in cui il ruolo affidatole risulta diverso da quello che le in questa piacevole conversazione, proporrei la lettura delle affidiamo, ad esempio, noi in Italia? due quartine e delle due terzine del sonetto di Gioacchino Penso che gli uomini abbiano fatto sempre, nelle diverse coBelli intitolato La bona famija: munità in cui si trovavano a vivere, cose molto simili, senza saperlo. L’unica cosa che li differenziava era il tipo di apMi’ nonna, a un’or de’ notte che viè ttata, provvigionamento che avevano, se vivevano in un luogo più Se leva de filà, povera vecchia, marino o più boscoso e quindi se andavano a pesca piuttosto attizza un carboncello, ciapparecchia che a caccia e altri fenomeni naturali che distinguono le prie maggnamo du’ fronne d’insalata. ma comunità. Però il modo di vivere era abbastanza simile, schematizzando. Poi però è arrivata la globalità. Tutto questo Quarche vorta se famo una frittata, ha quindi assunto un carattere universale, più o meno consaChe ssi la metti ar lume ce se specchia pevole, che però è diventato consapevole. C’è perciò una Come fussi attraverzo d’un’orecchia: grossa analogia. Pensiamo per esempio alla moglie del PreQuattro noce, e la cena è terminata. sidente degli Stati Uniti Barak Obama: nel suo primo discorso ha parlato di orto. Scoprire l’orto in una società come Poi ner mentre ch’io, tata e Crementina quella statunitense! Se me lo avessero detto negli anni Sesseguitamo un par d’ora de sgoccetto, santa, avrei pensato: «Ma loro non sanno nemmeno che coLei sparecchia e arissetta la cucina. s’è un orto!». Perché per me l’orto è quello che ha la vecchietta in montagna, in Abruzzo, che coltiva le sue cose. La E appena visto er fonno al bucaletto, realtà però ci dimostra il contrario, ovvero che le necessità ci ‘Na pisciatina, ‘na sarvereggina, accomunano. La riscoperta dell’orto non ha una sola valenza E, in zanta pace, ce n’annamo a letto.

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«A family affair» Merito e orientamento nel sistema formativo italiano

orientamento

di Massimo Margottini universitaria per gli studenti capaci e meritevoli, ma Il disegno di legge reprivi di mezzi, il Ministero prevede, in armonia con cante norme in materia le competenze delle Regioni, e monitora specifici d i “ O rg a n i z z a z i o n e e interventi per l’effettiva realizzazione del diritto alqualità del sistema unilo studio e la valorizzazione del merito a seguito anversitario, di personale che di un opportuno piano di orientamento degli accademico e di diritto studenti alla scelta del Corso di studi». Questo laallo studio” continua il scerebbe pensare che, molto opportunamente, si stia suo iter parlamentare a pensando alla valorizzazione del merito attraverso fronte degli imponenti l’effettiva realizzazione del diritto allo studio, che tagli finanziari e con il significa in primo luogo rimuovere quegli ostacoli susseguirsi di momendi natura economica, sociale, familiare che limitano ti di confronto, molto o impediscono del tutto ad una parte di giovani di spesso assai duri, alMassimo Margottini accedere, con prospettiva di successo, alla formal’interno del mondo zione superiore. Trascuriamo pure di discutere che universitario e del paese in generale. Certamente i nel DdL non vi siano riferimenti alla copertura fitemi della governance e del personale accademico nanziaria, ma resta il fatto che al di là della enunsono stati immediatamente percepiti, sin dalla prima ciazione di principio in apertura, la valorizzazione versione del DdL nell’ottobre dello scorso anno, codel merito si traduce nella istituzione di un fondo, me “dirompenti” sull’assetto attuale del sistema unial quale gli studenti meritevoli accederebbero attraversitario; molto meno, invece, il dibattito si è acceverso una prova standard, ossia una sorta di “conso sul tema del diritto allo studio. Non c’è dubbio corsone” in ingresso; ed è solo grazie ad uno degli che in ciò si possa riconoscere un principio di realultimi emendamenti, approvati in Commissione, che tà: se quel che viene percepito a rischio è l’intero gli studenti privi di mezzi risultano esonerati dal sistema, è chiaro che il diritto dei meritevoli a pocontributo dovuto per l’iscrizione alla prova. terne fare parte possa pensarsi come subordinato. Tralasciamo di discutere della validità ed attendibiEppure pensare agli studenti anche in termini di rilità della prova standard ai fini del riconoscimento sorse per la qualità del sistema universitario è un tedel merito, tema che come facilmente si intuisce è ma di grande rilevanza, non fosse altro che per la tutt’altro che banale, ma la questione principale è se ragione che ne sono il futuro. Ma nel DdL questo quello che realmente serve al sistema è una seleziotema è probabilmente il più trascurato. La maggiore ne dei meritevoli al termine di un percorso che, conovità per gli studenti è in quell’art. 4, nel quale si me sappiamo bene dagli oristituisce un fondo per il memai dettagliati rapporti statirito. Sebbene il testo licenstici sulla scuola, non è ancoziato dalla Commissione ra in grado di garantire la neistruzione del Senato abbia, cessaria equità. Mi sembra anche sulla specifica questioinvece che la questione prinne del diritto allo studio, incipale sia quella che molto trodotto alcuni miglioramenti opportunamente viene ribadirispetto al testo iniziale, reta anche nell’ultimo Rapporstano irrisolti alcuni nodi sulto sulla Scuola della Fondala concezione stessa del merizione Agnelli, ossia del perto rappresentata nel disegno ché non possiamo più perdi legge. metterci un sistema scolastiIniziamo da quello che poco iniquo e della necessità di trebbe essere un elemento popassare dalle pari opportunità sitivo. Mentre nel testo origid’accesso alle pari opportuninario non compariva alcun rità di apprendimento. A vedeferimento al tema dell’orienre il tema del diritto allo stutamento, tra gli ultimi emendio centrato sulla istituzione damenti approvati dalla Comdi “premi” per il merito viene missione, nell’art. 1 comma 3 da pensare ad un brano tratto si legge: «Al fine di rimuoveda Il matematico indiano, rore gli ostacoli all’istruzione Il matematico indiano Srinivasa Aiyangar Ramanujan


manzo biografico sul poverissimo matematico Ramanujan e alla riflessione del matematico britannico Godfrey Har o l d H a r d y, s u o pigmalione ma anch’egli di origine modesta, sulla natura dei premi: «Perché tanta avversione per i premi? Penso che fosse perché sapevo, anche mentre eccellevo sul prato, che il campo da gioco era truc- La scuola di Barbiana cato. Era truccato per premiare i ricchi, i ben nutriti, i ben curati. E come i miei genitori non si stancavano mai di ricordarmi io non ero tra questi. Ero già fortunato ad essere lì. Il talento non assisteva il figlio del minatore del Galles: lui avrebbe passato la sua vita in miniera, anche se avesse avuto la dimostrazione dell’ipotesi di Reimann stampata nella mente». Non credo ci sia ulteriore necessità di dimostrare con i dati che l’Italia ha una bassa percentuale di diplomati e laureati (Education at a Glance – OCSE) e che è tra i paesi con il più basso tasso di mobilità sociale ascendente. A family affair è il titolo di una recente ricerca OCSE che mostra come, in Italia più che in altri paesi, il destino dei figli, dalla scelta della scuola agli esiti nella scuola stessa sino ai livelli retributivi, sia legato a quello della famiglia di origine, con forti differenze territoriali tra nord e sud. La questione, quindi, di promuovere una impostazione centrata sulla rilevazione del merito come fatto oggettivo misurabile in qualsiasi punto della vita di una persona, dipendente unicamente da quanto quella persona si è voluta impegnare e ne è stata capace, non è soltanto iniqua ma non prende in considerazione un aspetto altrettanto importante della promozione del diritto allo studio ossia quanta intelligenza, capacità, potenzialità meritevole non siamo in grado di rilevare e inevitabilmente finiamo per disperdere. Quindi alcune domande devono essere poste: quando si parla di prove standard a cosa ci si riferisce? Al livello di conoscenze possedute? Il merito è legato solo alle conoscenze? Vogliamo riconoscere e premiare quegli studenti che sapranno ripagare l’investimento che facciamo su di loro? Allora abbiamo bisogno di rilevare qualcosa di più che attiene anche alla storia personale e alle esperienze pregresse, anche ad aspetti volitivi e di natura motivazionale, alla capacità di impegnarsi e perseguire nel raggiungimento dei risultati, fattori di grande rilievo ai fini del successo formativo (Pellerey 2006).

Il problema del merito, se ridotto ad una prova standard per il riconoscimento di premi, diventa solo un problema di selezione, più o meno equa ed accurata; ritengo invece che, tanto per il sistema quanto per il diritto individuale, la questione principale risieda nel modo in cui sia possibile promuovere e incentivare il merito stesso, rimuovendo gli ostacoli allo sviluppo delle potenzialità personali e incentivando politiche attive di orientamento e tutorato. E questo deve necessariamente essere collegato alla esperienza scolastica precedente introducendo tra gli elementi, con i quali il merito viene rilevato e valutato, aspetti relativi alla carriera scolastica, anche in senso evolutivo, registrandone cioè i progressi. Non vi è alcun dubbio che su questo piano scuola e università debbano ancora lavorare molto e insieme. Sul piano normativo, almeno da una quindicina di anni a questa parte, sono state poste le basi per sviluppare un efficace raccordo tra le istituzioni, anche se le condivise enunciazioni non sempre sono state seguite da un corrispondente investimento in termini finanziari. Nonostante ciò molti Atenei promuovono azioni coordinate con le scuole secondarie superiori, nell’ambito di iniziative di orientamento preuniversitario. L’Ateneo Roma Tre, da diversi anni, attraverso il GLOA (Gruppo di lavoro per l’orientamento di Ateneo), è particolarmente attento al raccordo con le scuole del territorio nella convinzione che un processo di orientamento formativo (Domenici 2009, Pombeni 2002) radicato nella prassi didattica, sin dai primi anni di scuola, sia condizione indispensabile per affrontare quelle questioni, a cominciare dal drop out, che richiamano allo stesso tempo l’efficienza del sistema e i temi dell’equità e del diritto allo studio. Tra le più recenti iniziative in questa direzione, a fine aprile di questo anno, il GLOA ha promosso un seminario di studi dal titolo Scuola e Università. Reti per l’orientamento, del quale sono in corso di pubblicazione gli atti, con l’obiettivo di riflettere insieme alla scuola sui processi di orientamento e sulle forme di collaborazione utili a sviluppare negli allievi progetti e scelte consapevoli che rispondano al tempo stesso al legittimo bisogno individuale di realizzare le proprie aspirazioni e sollecitino la scuola e l’università a potenziare le azioni per riconoscere e valorizzare i talenti individuali.

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Progetto UNICA Roma Tre e le università delle capitali europee di Roberto Pujia Roma Tre è nata con una precisa volontà di porsi come un’istituzione aperta alle relazioni internazionali nella convinzione – condivisa dai Rettori che si sono succeduti alla sua guida – che l’istituzione universitaria è, come il sapere e la cultura, internazionale per essenza. Basti ricordaRoberto Pujia re come proprio nell’Europa medievale l’università nasce già pienamente internazionale e caratterizzata dalla mobilità di docenti e studenti. I famosi clerici vagantes sono in un certo senso i precursori del Programma Erasmus. Oggi, dopo le Dichiarazioni della Sorbona e di Bologna, l’istituzione di straordinari programmi dell’Unione Europea come l’Erasmus, una delle forme più interessanti del processo di internazionalizzazione, è rappresentata dalla organizzazione di reti che connettono e armonizzano le istituzioni universitarie. Ve ne sono diverse: tra queste vorrei richiamare l’attenzione su UNICA, la rete delle Università delle città capitali europee che riunisce quarantadue università con una forza combinata di 120.000 docenti e 1.500.000 studenti. La sua missione è il perseguimento dell’eccellenza accademica, l’integrazione, la cooperazione, il rifiuto delle discriminazioni e, in generale, la cooperazione tra i suoi membri in tutta Europa. UNICA si pone anche come un potente propulsore del cosiddetto Processo di Bologna e come un fattore di agevolazione dell’integrazione delle Università dell’Europa centrale e orientale nello spazio europeo dell’istruzione superiore. Il Processo di Bologna, giova ricordarlo – è un processo di riforma che si propone di realizzare, entro il 2010, uno Spazio europeo dell’istruzione superiore. Vi partecipano al momento quarantasei paesi europei, con il sostegno di alcune organizzazioni internazionali. Si tratta di un grande sforzo di convergenza dei sistemi universitari dei paesi partecipanti, che sta coinvolgendo direttamente tutte le istituzioni europee e le loro componenti interne. L’obiettivo perseguito è che nel 2010 i sistemi di istruzione superiore dei paesi partecipanti e le singole istituzioni siano organizzati in maniera tale da garantire la trasparenza e la leggibilità dei percorsi formativi e dei titoli di studio, la possibilità concreta per studenti e laureati di proseguire agevolmente gli studi o trovare un’occupazione in un altro paese europeo, una maggiore capacità di attrazione dell’istruzione superiore europea nei confronti di cittadini di paesi extra-europei, l’offerta di un’ampia base di conoscenze di alta qualità per assicurare lo sviluppo economico e sociale dell’Europa. Negli ultimi tempi la crisi economica mondiale ha inevitabilmente colpito anche questo grande disegno soprattutto rendendo più difficile e onerosa la mobilità di

studenti e docenti. Per realizzare i suoi scopi UNICA promuove un sistematico e continuo scambio e una discussione articolata in seminari, incontri, convegni in cui si confrontano i punti di vista delle università membri della rete in ordine alle complesse strutture dell’educazione superiore di fronte alle sfide del futuro e, ciò che più conta, in un sistematico confronto con le istituzioni europee nazionali, regionali e locali, rendendo disponibili a tutti le informazioni sulle iniziative e i programmi dell’Unione Europea e favorendo e promovendo la collaborazione con progetti congiunti. Essa fornisce, insomma un forum in cui tutte le università possono riflettere sulle richieste di innovazione strategica necessarie allo sviluppo dell’università e della ricerca in un mondo che cambia. A proposito di forum, una delle più importanti iniziative di UNICA è l’organizzazione ogni due anni di un Forum degli studenti europei che vede riunirsi in una capitale nutrite rappresentanze di studenti che dibattono del tutto liberamente sui temi di maggiore interesse. Quest’anno il forum UNICA degli studenti europei si è tenuto a Roma, dal 22 al 25 settembre organizzato dalle tre università membri UNICA (Roma Tre, Tor Vergata e La Sapienza) col prezioso contributo dello IUSM. Le conclusioni elaborate dalle delegazioni di studenti durante la conferenza di Roma, dal significativo titolo di Europe through student’s eyes, confluiranno poi in un documento ufficiale, la Rome declaration, che verrà presentato alle massime autorità locali ed europee. I temi scelti dagli studenti da una lista assai più vasta sono i seguenti: 1. internationalisation at universities: challenges and problems; 2. the European mobility programmes (Erasmus, Erasmus placement, Erasmus Mundus, Leonardo da Vinci, Marie Curie, doctoral programmes etc.): toward the 20% mobility by the year 2020? 3. what is the role of the university in contemporary society? 4. unity and diversity in future of Europe: the challenge of multiculturalism; 5. innovation, formal and informal education: can universities nurture the creativity of students? 6. the Bologna process and the development of the European higher education: quality, employability and social issues; 7. student mobility and the enlargement and consolidation of the European Union; 8. high quality universities with low fees: is it possible? How to choose the best university to study at? 9. sustainable development and greener universities; 10. hard and soft skills: are the European universities helping the students to develop both? Dunque UNICA deve certamente essere considerata come un importante tassello della costruzione dell’Europa di domani.


Innovation Lab Formazione integrata e scambi con le imprese di Carlo Alberto Pratesi L’idea di Innovation Lab a Roma Tre è nata durante un viaggio in Finlandia, grazie ad una interessantissima visita al Design Factory di Espoo dell’Università di Helsinky. Lì, in un vecchio edificio industriale, che un tempo ospitava un laboratorio per l’analisi Carlo Alberto Pratesi della cellulosa, a poche centinaia di metri dal quartier generale di Nokia, da qualche anno lavorano insieme studenti di tre diverse Facoltà (Ingegneria, Economia e Architettura) con l’obiettivo di favorire al massimo l’interdisciplinarietà. Grazie ad aule, sale multimediali, officine con presse e torni verticali, telai high tech e tutta la strumentazione necessaria per fabbricare prototipi funzionanti e straordinariamente innovativi di ascensori, biciclette elettriche, oggetti per arredamento e quant’altro possa essere richiesto dal mercato. Un tipo di progetto che potrebbe sembrare poco adatto alla nostra mentalità accademica, sempre più orientata a dividere che a unire. Eppure, anche da noi qualcosa è successo. Abbiamo iniziato lo scorso mese di marzo, con un ciclo di incontri dedicati a quaranta studenti di Economia e di Ingegneria, organizzati in mini gruppi (anche essi obbligatoriamente interfacoltà) che sono stati invitati a produrre una “business idea” innovativa da presentare ai potenziali investitori. Il tutto si è concluso con un convegno, Innovazione per la sostenibilità delle imprese, organizzato presso la Facoltà di Economia il 22 aprile scorso (giornata mondiale della terra), che ha visto una inaspettata ed entusiastica partecipazione di investitori privati (business angel e venture capital) interessati a conoscere (ed eventualmente finanziare) le idee migliori.

«Solo facendo studiare insieme ingegneri, esperti di marketing e designer è possibile far nascere l’innovazione» conferma Kalevi Ekman, professore di Product development e fondatore del Design Factory di Helsinky. «Quando conoscenze e culture diverse vivono lo stesso spazio possono nascere idee di prodotti realmente breakthrough». Nella Design Factory si cerca di favorire al massimo l’interazione tra ricercatori, vietando addirittura macchinette del caffè nelle stanze, per obbligare tutti ad andare nella “common room”, condividendo esperienze e informazioni. In questa ottica, il passo successivo di Innovation Lab Roma Tre è ancora più inno-

Un momento della giornata svoltasi il 22 aprile scorso presso l’Aula Magna della Facoltà di Economia

vativo: una settimana a tempo pieno nel mese di luglio presso la nostra (nuovissima) sede di Allumiere (RM). Si chiamerà Innovation Camp, una summer school dedicata a una ventina di studenti di tutte le Facoltà. Gli allievi, guidati da docenti, esperti ed imprenditori, potranno mettere alla prova la loro creatività cercando di tradurre conoscenze e intuizioni in progetti di impresa. Per aggiornamenti e informazioni: www.innovationlab.dia.uniroma3.it.

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Popscene «Meat is murder». Musica e vegetarianismo: un rapporto tra consapevolezza e moda

rubriche

di Ugo Attisani

La musica pop è con pochi dubbi, se non il più importante, sicuramente il più influente fenomeno culturale di massa del secolo appena passato. La capacità con cui essa non tanto si è fatta semplice promotrice delle esigenze e delle istanze del mondo giovanile, ma le ha, potremmo dire, create tout court come categoria soUgo Attisani ciale (e spesso e purtroppo anche commerciale) è sotto gli occhi di tutti ed è difficilmente contestabile. È quindi facile comprendere come essa si sia poi spesso trasformata, nel corso della sua storia e della sua evoluzione, in un formidabile mezzo di diffusione nelle masse giovanili di culture, sottoculture, filosofie e, in alcuni casi, addirittura di religioni più o meno alternative a quello che era il modo di pensare consolidato dall’establishment degli adulti. Che sia stato poi il mondo del pop, in modo consapevole, a farsi alfiere di queste nuove culture alternative, o siano stati piuttosto gli esponenti più illuminati di queste ultime, in modo più o meno scaltro, ad intuirne la fenomenale capacità di penetrazione e convincimento, è fenomeno tutto da studiare e che può essere particolarmente interessante analizzare proprio partendo dal singolare, ma ormai innegabile, connubio che da almeno cinquant’anni lega il mondo del rock e i suoi protagonisti alla cultura vegetariana. Il vegetarianismo è in realtà già di per sé un fenomeno di natura estremamente sfuggente, visto che, inteso in un senso estremamente rigoroso come l’astensione dal mangiare cibi ricavati in modo diretto o indiretto dagli animali, trova radici e motivazioni estremamente differenti a seconda del contesto storico e culturale in cui si colloca. Volendo tracciare brevemente le radici storico-filosofiche del vegetarianismo, esse si possono individuare, per quanto riguarda il mondo occidentale, per la prima volta nel pensiero

del filosofo Pitagora e, nel mondo orientale, nel pensiero induista, o almeno in una corrente di esso. Alla base di entrambe queste correnti di pensiero vi sono motivazioni di carattere prettamente etico, ovvero basate sul principio di non esercitare violenza contro nessuna delle altre specie viventi sul pianeta. Scomparso nel mondo occidentale con l’avvento del cristianesimo, il vegetarianismo ricompare in Europa nel XIX secolo come movimento più o meno sotterraneo e collaterale nel pensiero di diversi esponenti della cultura dell’epoca, tra i quali possiamo ricordare Shelley, Tolstoj e Thoreau, per poi culminare con la fondazione della Vegetarian Society nel 1847, la più antica associazione di promozione della cultura vegetariana nel mondo. Con la nascita della Vegetarian Society il movimento vegetariano trova in occidente per la prima volta una forma di supporto organizzato e può anche contare su una nuova e più solida base ideologica nel nascente pensiero antispecista, che proprio in quegli anni, grazie a Jeremy Bentham, trovava le sue origini. È stato quindi naturale che, da questo momento in poi, il movimento vegetariano abbia cercato di utilizzare tutti gli strumenti che la nascente società industriale gli forniva, concependo un modo di agire che è continuato sino ai giorni nostri, e che ha trovato, appunto, nell’incontro col mondo della musica leggera uno degli abbinamenti più fortunati e fruttuosi. Se è difficile individuare le origini dell’incontro tra i due mondi, è sicuramente più facile e breve segnalare quelli che sono stati, in questi sessanta anni, i principali protagonisti e i principali momenti che lo hanno caratterizzato. Nella fase degli albori della musica rock è difficilissimo trovare personaggi dotati di una seppur minima consapevolezza sociale e culturale di sorta, e questo in senso assoluto. Non è quindi possibile ricordare alcuna figura in particolare. Con l’arrivo degli anni Sessanta e con lo svilupparsi per la prima volta di una vera e propria cultura rock che traeva la sua linfa dal ricco mondo controculturale dell’epoca, si possono incontrare i primi musicisti che fanno professione di appartenenza al mondo vegetariano. Un posto sicuramente importante lo meritano i Beatles, probabilmente


il primo e più importante gruppo i cui va il nome al loro secondo album, sia membri sono stati associati all’immaginella sua carriera solista durante la ne di vegetariano. In realtà la vicenda quale sono numerose le sue partecipadel quartetto di Liverpool è più comzioni ad iniziative della PETA. Ad eviplessa di quanto non appaia in un primo denziare invece un utilizzo quanto memomento e merita di essere analizzata no disinvolto e superficiale del termicon attenzione, proprio per poter portane vegetariano possiamo citare la pare in luce quelle dinamiche di coesistenrabola di Madonna, passata dall’adeza e collaborazione tra fenomeni cultusione dei primi anni di carriera, alla rali apparentemente distanti, di cui avepartecipazione a battute di caccia asvamo accennato in principio. I Beatles sieme all’ex marito Guy Ritchie in si avvicinarono al vegetarianismo protempi più recenti. Totalmente opposto babilmente sulla spinta dell’interesse di fu invece l’approccio alla questione, George Harrison verso la cultura e la radicale ed estremo, ed in un certo Meat Is Murder è il secondo album di stuspiritualità indiana, interesse che culmisenso anche controverso, da parte del dio degli Smiths. È stato pubblicato nel febnerà con il celebre, e ampiamente rac- braio del 1985 movimento Straight Edge. Teorizzato contato dai media dell’epoca, soggiorno a Washington ad opera del cantante e in India presso lo yogi Maharishi Mahesh. Dopo l’altretchitarrista del gruppo hardcore Minor Threat Ian McKatanto celebre e precipitosa fuga dal ritiro spirituale indiano ye, lo Straight Edge stava ad indicare un nuovo e diverso però, soltanto George Harrison rimase vegetariano. Sia approccio alla vita e non solo alla musica, basato su un riJohn Lennon che Paul McCartney dovranno infatti aspetfiuto totale di qualsiasi eccesso legato all’assunzione di tare i loro rispettivi incontri con le future mogli Yoko Ono sostanze stupefacenti e di alcool, in netta contrapposizioe Linda Eastman, sicuramente più consapevoli e sensibili ne da una parte con la filosofia da sempre imperante nel all’argomento di quanto non lo fossero i mariti, per ritormondo della musica e sintetizzata dal motto “sesso, droga nare ad abbracciare il vegetarianismo. Nel corso degli anni e rock’n’roll”, e dall’altra con l’affacciarsi proprio in queSettanta e Ottanta poi, durante la sua avventura solista con gli anni in America dell’edonismo capitalista che la farà i Wings, proprio McCartney e la moglie Linda in particoda padrona per l’intero decennio. Intorno a questo movilare, diventeranno tra i più convinti sostenitori della causa mento si consoliderà una seconda generazione di gruppi animalista e vegetariana, animatori di molteplici iniziative che, in alcuni casi aderendo anche alla religione Hare di divulgazione e diffusione della cultura vegetariana, dal Krishna, abbraccerà la filosofia cosiddetta del veganismo, 1980 in poi spesso in collaborazione con l’ormai celebre forma di vegetarianismo estremo, che comporta un totale associazione PETA (People for the Ethical Treatment of rifiuto non solo dei cibi derivati in modo diretto o indiretAnimals). Da ricordare proprio a questo proposito come la to dagli animali, ma anche l’utilizzo di qualsiasi tipo di figura di Linda McCartney sia stata centrale nell’affermaoggetti la cui produzione comporti lo sfruttamento o l’uczione e nella legittimazione a livello popolare dell’immacisione di animali. Questa scena musicale, che si contrasgine del vegetariano, con la pubblicazione di svariati libri segnerà per una deriva estremista che la contrapporrà in di ricette vegetariane ed in particolare segnando un ultemodo anche violento a tutti gli altri gruppi punk ad essa riore momento storico con la sua partecipazione ad una non appartenenti, ha dato luogo ad un altro interessante puntata del cartoon americano The Simpsons, dove il perspin off che è quello dell’abbigliamento vegano, cioè delsonaggio della piccola Lisa Simpson diventava vegetariala produzione di linee di vestiti prodotte senza alcuna forna grazie anche al sostegno della stessa Linda. ma di sfruttamento di animali. Durante gli anni Ottanta il fenomeno dei vegetariani nel Negli ultimi anni, grazie soprattutto alla diffusione della rock segue due vie opposte, sia nei presupposti ideologici rete, è diventato estremamente più facile per associazioni che negli strumenti di diffusione. Da una parte infatti l’afcome PETA o Vegan Society, ma anche per i numerosi fermarsi di una più generale consapevolezza politica e soaderenti alla causa vegetariana e animalista, siano essi perciale nei principali gruppi e musicisti di riferimento del sonaggi del mondo della musica o meno, condurre le properiodo favorisce l’assorbimento del discorso sul vegetaprie battaglie in modo rapido e capillare, e tra le figure più rianismo nel più ampio ambito della causa ambientalista e importanti di questo periodo possiamo citare il musicista di quella umanitaria; dall’altra, invece, emergono in amelettronico Moby che, oltre ad aver pubblicato nel 1996 un bito underground movimenti di militanti vegetariani legaalbum intitolato Animal Rights, ha fondato un locale vegati alla scena punk/hardcore nordamericana. In ambito no a New York, il TeaNy di cui ha diffusamente parlato in mainstream sono infatti molti i musicisti, quasi sempre un libro ad esso dedicato, uscito nel 2005. contemporaneamente impegnati anche in iniziative sociaPossiamo quindi azzardare in conclusione che, anche se li, umanitarie ed ecologiste, che si dichiarano vegetariani, come abbiamo visto l’intreccio tra mondo del rock e vegein alcuni casi quasi addirittura a far pensare che possa tarianismo è stato ed è caratterizzato da contorni non semtrattarsi di una moda più o meno passeggera. Sono copre chiari e da motivazioni non sempre cristalline, un munque da ricordare in senso positivo l’impegno costante grande e decisivo contributo all’affermazione e diffusione di Peter Gabriel, parallelo al suo coinvolgimento in nudella cultura vegetariana, se è vero che gli ultimi dati statimerose iniziative umanitarie e il sostegno dato alla causa stici danno il fenomeno in netta ascesa nei paesi occidenvegetariana da Morrissey, sia durante la sua carriera negli tali, può essere almeno in parte attributo al sodalizio ormai Smiths, culminata con la canzone Meat is Murder che dapluridecennale con la musica rock.

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Ultim’ora da Laziodisu di Salvatore Buccola La casa lontano da casa Nel panorama delle residenze universitarie presenti in Italia, emerge chiaramente l’idea che tali strutture, destinate a studenti universitari fuori sede, debbano essere residenze “speciali”, ovvero non luoghi temporanei e precari, ma luoghi dotati di qualità ambientale, spaziale e culturale, idonei per lo svolgimento di attività di studio e sociali. In quest’ottica, la residenza di Via di Valleranello costituisce un esempio di residenza che coniuga efficacemente lo spazio per lo studio e il tempo libero, la lunga permanenza e l’integrazione all’interno del moderno campus. La residenza è costituita da due edifici, aventi ciascuno 200 posti letto ed al suo interno sono presenti numerosi ed ampi spazi per attività di aggregazione, sia culturali, sia ricreative. Tutte le camere hanno l’accesso con smart card, sono provviste di aria condizionata e angolo cottura completo. Le camere doppie hanno due letti singoli e due scrivanie ben separate. Non manca lo spazio internet ed è prevista a breve una sala per la pratica delle diverse fedi religiose. È a disposizione di tutti gli studenti un servizio navetta, attivo sette giorni su sette, che collega la residenza con i quartieri limitrofi e la stazione della metro B Eur Fermi. I 400 posti letto disponibili sono assegnati a studenti fuori sede iscritti presso le università romane in possesso dei requisiti previsti dal Bando unico dei concorsi (requisiti di merito e di reddito/patrimonio).

L’assegnazione della sede e del posto alloggio ai vincitori, ferma restando la ripartizione tra “matricole” e “anni successivi” come prevista dall’art. 11 del bando, sarà effettuata in considerazione della posizione dello studente nella relativa graduatoria. Tuttavia sarà adottato un criterio di prevalenza in favore degli studenti che abbiano indicato, nella domanda on line, la preferenza per una residenza gestita dall’Adisu territoriale afferente all’Università di riferimento, ciò significa che, relativamente alla residenza di Via di Valleranello, avranno priorità gli studenti di Roma Tre che ne faranno richiesta. Laziodisu sta, inoltre, provvedendo alla redazione di un regolamento che prevederà la possibilità di destinare alcune camere all’ospitalità di visiting professor, studenti stranieri in Italia per programmi di scambio culturale, studenti Erasmus, ed altro ancora. Guida al Diritto allo Studio In occasione della giornata “Orientarsi a Roma Tre” l’Adisu ha presentato agli studenti la nuova Guida al Diritto allo Studio per l’A.A. 2010/2011. Fedele alla veste grafica della versione precedente, la nuova pubblicazione è stata realizzata con nuove soluzioni cromatiche, aggiornata nei contenuti secondo quanto previsto dal nuovo Bando unico dei concorsi ed arricchita da una sezione specifica riguardante la nuova residenza per studenti di Via di Valleranello.

La residenza di via di Valleranello. Nell’ordine: la palestra, la sala giochi, una camera e la sala informatica


Non tutti sanno che... Mille e una vela 2010 di Irene D’Intino Ancora una volta l’Anno Accademico si conclude con un appuntamento speciale: si rinnova infatti, per la quarta edizione consecutiva, Mille e una vela per l’Università, la tre giorni di regate, convegni e mostre promossa dall’Ateneo Roma Tre, che fin dall’inizio ha coinvolto molte altre Università italiane e straniere. Certamente un motivo d’orgoglio per l’Ateneo romano, che ha sviluppato quest’idea, grazie all’intuizione di alcuni suoi docenti. Si tratta di un’iniziativa nata nella Facoltà di Architettura, allargata poi a livello di Ateneo, che ha deciso di promuoverla e portarla avanti nei confronti delle altre università. L’idea di fondo: recuperare la manualità nei giovani, riscoprire cioè l’uso delle mani e la coscienza del costruire. Proprio con questo obiettivo è stato istituito dalla Facoltà di Architettura il programma didattico opzionale Una vela per Roma Tre: un corso annuale a carattere sperimentale diviso in due semestri consecutivi a cui partecipano anche studenti di Ingegneria, suddiviso in una prima fase di progettazione e una seconda dedicata alla costruzione navale. Entrambe mirano a portare a compimento l’ideazione e la realizzazione di una barca da regata che parteciperà poi, ogni anno, alla competizione nazionale gestita da Roma Tre, denominata appunto Mille e una vela per l’Università. «La cosa che contraddistingue questa iniziativa» afferma il prof. Ranzi, ex docente di Architettura a Roma Tre «è che realmente si progetta, si realizza e si utilizza un “oggetto” molto complesso e legato a situazioni ambientali particolarissime. E questo è molto importante per quelle Facoltà in cui il recupero della manualità non può che costituire un punto di forza nella formazione dello studente. Ma se le prime fasi di progettazione e costruzione sono riservate quasi esclusivamente ad Architettura e Ingegneria, per la terza fase, quella della selezione e addestramento degli equipaggi, la partecipazione è aperta agli studenti di tutto l’Ateneo: è così che si comincia a formare il nostro “vivaio”». Se siete appassionati ed esperti di vela e in particolare di barche acrobatiche (è questo il modello specifico proposto dal regolamento dettato da Roma Tre), fatevi avanti: aspettiamo anche voi per provare a portare a casa la vittoria. «Finora ha vinto sempre il Politecnico di Milano» ci spiega ancora il prof. Ranzi «ma è anche normale, grazie ad una tradizio-

ne nel mondo della nautica che noi non abbiamo ancora, ma che comunque possiamo, dobbiamo e vogliamo costruire in tempi brevi». E poi in fondo, e in questo concordiamo con il professore, in certe occasioni non è importante solo vincere: Una vela per Roma Tre e Mille e una vela per l’Università, infatti, costituiscono un’esperienza didattica completa sotto diversi punti di vista, permettendo di entrare realmente e concretamente in relazione con l’oggetto di studio (cosa che raramente avviene nelle università) creando un contesto di socializzazione e aggregazione che permette una maggiore coesione tra gli studenti non soltanto durante il lavoro didattico preparatorio, ma anche durante i tre giorni di regate, dove la condivisione diventa convivenza quotidiana anche con i ragazzi degli altri Atenei. Tutte queste esperienze forniscono competenze reali con un valore aggiunto: proiettano gli studenti con maggiore concretezza e competenza verso il mondo del lavoro che li attende da lì a poco, dove un’esperienza non solo teorica ma anche pratica è spendibile con maggiore possibilità di successo. Insomma, tutti questi aspetti di alto valore didattico fanno passare in secondo piano il risultato agonistico e fanno idealmente sperare che iniziative come queste vengano proposte e promosse anche in molti altri ambiti della formazione universitaria. Intanto, mentre si cominciano a mettere in acqua le nuove imbarcazioni appena terminate, già fervono i preparativi per l’edizione Mille e una vela 2010, che farà tesoro delle esperienza passate. «Le tre edizioni precedenti, infatti, ci hanno permesso di comprendere quali fossero le cose che maggiormente hanno funzionato e che pertanto vanno mantenute all’interno della quarta manifestazione. Prima tra queste il “villaggio”: una grande struttura lungo l’arenile del Tombolo di Giannella dove alloggeranno tutti gli studenti partecipanti, che avranno così la possibilità di conoscersi e stare più tempo insieme. Inoltre quest’anno vorremmo riproporre il “Padiglione incontri” per esporre, alla consueta mostra, non tanto i progetti delle imbarcazioni che sono state costruite, ma piuttosto quelli delle barche che sogniamo di costruire e non siamo ancora riusciti a realizzare, in questo modo vogliamo offrire qualcosa di più per quanto riguarda ricerca e innovazione a chi ci verrà a trovare a Porto Santo Stefano». Tutti a bordo!

Aggiornamento sul progetto Mille e una vela. L’edizione 2010 di Mille e una vela per l’Università quest’anno non avrà luogo. In alternativa è stata organizzata dalle Università partecipanti una manifestazione velica autonoma che si svolgerà a metà ottobre nello stesso luogo.

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La vita della natura morta Da Caravaggio alla Pop Art, un percorso sulle tracce della natura morta di genere alimentare

recensioni

di Michela Monferrini

Caravaggio Bisognerebbe dirlo in inglese, di fronte alle opere di Caravaggio: still life, “ancora in vita”, ché le sue nature sono così poco morte da non far risaltare l’assenza di figure umane. Certo le pere, le foglie d’insalata, i fichi, l’uva, sono malconci, maturi, sporchi, ma proprio per Michela Monferrini questo “figure”, corpi, corpi vivi soggetti a decomposizione. Si potrebbe anche dire, personificandoli, che sono pallidi, magri, vecchi, poveri. Ecco, si

potrebbe dire che sono povero cibo per povera gente: del resto, anche quando Caravaggio intendeva raffigurare una divinità, un Bacco per esempio, o la Vergine Maria, prendeva a modello qualcuno dei suoi amici, o una donna dalla strada, quando non una donna della strada, a lui magari ben nota. Le mosche che nelle tele sorvolano i vassoi vengono dalla locanda frequentata, e poco cambia, se svolazzino sopra un frutto o attorno a un bimbo: è la vita dei corpi ad essere realisticamente descritta. Così, la ferita di Cristo in cui Tommaso per credere deve inserire un dito, non è troppo distante dalla spaccatura rossa sul fianco del fico maturo; così, le ombre si posano ugualmente su frutta e persone, e uguale è il gioco preferito dell’artista, che è il gioco della luce e del buio. Come scriveva Roberto Longhi nel saggio a lui dedicato, Caravaggio andava già in una fase iniziale

Caravaggio, Canestra di frutta, 1594-1597, Pinacoteca Ambrosiana, Milano


della sua opera, ad anmenù di magro, il contenullare la distanza tra nitore in coccio per le uouna natura superiore – va indica la facilità con quella umana – e una cui l’alimento può essere presunta natura di seconconservato. E ancora: neldo grado, delle cose sila Natura morta con briolenti e immote. Verrebbe che, la raffinata zuccheda dire che quando il pitriera in porcellana eurotore si trova di fronte a pea, testimonia come lo quelle opere della natura zucchero non fosse più che sono il cibo, i fiori, considerato nocivo per la le foglie – opere a metà salute e la sua immagine strada tra l’uomo e l’ognon venisse più associagetto – dovendo sceglieta al peccato. Accanto re, decida di nobilitare, una bottiglia, alla base di innalzare, di umanizdella quale sono posate zare. Qui sta la rivolutre ciliegie, sembrerebbe zione, ed è una rivoluzioindicare un contenuto di ne che non perde valore kirsch, liquore dolce, dicon l’andar dei secoli: stillato di quel frutto, alnobilitare il soggetto non l’epoca molto apprezzato. è renderlo perfetto, liscio « [...] per l’edonista / l’ie lucido se è un frutto, dea del paradiso era la florido e roseo se si tratdispensa di una cucina ta d’un uomo, ma renderfrancese, / mele e caraffe lo vero, reale, realmente di creta da Chardin agli Caravaggio, Bacchino malato, 1593-1594, Galleria Borghese, Roma imperfetto. Così il Bacimpressionisti: / l’arte chino malato (che si sa essere un autoritratto dell’arera une tranche de vie, formaggio o pane fatto in catista in un periodo di malattia) finisce per avere un sa», sono alcuni versi di una poesia di Derek Walcott incarnato simile all’uva verde che gli pende dalle tratta dalla raccolta Piena estate (1984), ed è proprio mani, e l’accusa di staticità d’ogni natura morta, accosì, è soprattutto da Chardin, che si arriverà, nelcusa rivolta anche al primo Caravaggio, si risolve l’Ottocento, all’esaltazione – a volte con accenti nell’evidenza di qualcosa che accade insieme all’uoprovocatori – della vitalità degli alimenti. Proprio al mo e al cibo, ed è azione pur non essendo gesto: la cibo, l’Impressionismo francese conferirà il compito caducità, la corruzione, il disfacimento che il tempo di celebrare la quotidianità antiretorica, e persino le provoca semplicemente passando. pieghe d’un prosciutto – “cibo-simbolo” dei costumi Oltre Caravaggio alimentari borghesi nell’Ottocento e gloria nazionale Dopo il Caravaggio e le contemporanee figure natuper il suo passato illustre in epoca romana – potranralistiche del Carracci, o quelle “cibesche” dell’Arno essere indagate dal pennello dell’artista (Gaucimboldi, la natura morta alimentare si svilupperà guin, nel caso specifico) con non meno attenzione e definitivamente nel corso del Seicento in tutta Eurorilievo di quello che si sarebbe dato a un corpo fempa, ma con una più marcata presenza nei pittori dei minile. E così per il quarto di carne e per le albicocPaesi Bassi, dove la composizione si codificherà in che in sciroppo di Monet, per la carpa, le ostriche, le ben precise tipologie. Saranno i vari Aertsen, Flegel, ciliegie, la brioche di Manet, fino al formaggio brie Beert, Heda, a influenzare il francese Chardin, che di Bonvin – soggetto che era stato citato nel Dizioun secolo dopo, secondo l’enciclopedista Diderot, nario di cucina di Alexandre Dumas e che stava lì a diventerà il maestro incontrastato della riproduzione rappresentare l’identità nazionale – fino alle patate realistica e illusionistica di oggetti quotidiani. Dalle di Van Gogh, fino all’esplosione delle potenzialità sue opere, ricche di ampolliere, terrine in coccio per artistiche, estetiche, della natura morta, con Cévari alimenti nazionali (dal paté alla trippa), bicchiez anne. ri e calici di diverse, nuove forme, servizi in argento Non più discriminato come genere minore, nel Noveper un’apparecchiatura sempre più accurata, è possicento il tema della natura morta alimentare seguirà bile ricostruire gli usi alimentari di un paese che anla sorte delle correnti d’avanguardia, divenendo al dava definendo in un clima illuministico la propria contempo simbolo della società dei consumi, e nella identità gastronomica e anche in cucina, desiderava riproduzione seriale ossessiva dei cibi negli scaffali abbattere i pregiudizi e rinvigorire le tradizioni, fadei supermercati così come sulle tele della Pop Art, cendo inoltre attenzione alle nuove prescrizioni diesegno della violenza del capitalismo che s’afferma. tetiche. I cibi della convalescenza è il titolo signifiEd è un cerchio che si chiude, se con il futurismo – cativo di una di queste opere: nell’uovo, cotto alla si pensi all’Anguria di Boccioni – la natura morta ricoque nel pentolino apposito detto coquerelle, è invendica la sua vitalità, diventa movimento e azione, dicato un cibo dietetico ideale. In un’altra opera, Il rivendica il suo stato di still life.

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FOOD, inc. La verità su quello che abbiamo nel piatto di Marzia Pitirra Cosa mangiamo? Siamo davvero al corrente di tutto quello che c’è da sapere sulla nostra alimentazione? Spiedini, hamburger, petti di pollo, braciole di maiale, carne macinata. Nei supermercati si trova ormai qualsiasi tipo di carne si desideri, confezionata in pacchetti dai colori e Marzia Pitirra dagli slogan accattivanti. Questo è ciò che compriamo tutti i giorni fidandoci dell’aspetto, perfetto ed invitante, ma soprattutto affidandoci alle etichette come al Vangelo. Dopo aver visto FOOD, Inc., tuttavia, le nostre certezze crolleranno. Il documentario-inchiesta, girato nel 2008 negli Stati Uniti da Robert Kenner, ha come obiettivo quello di rendere noto il percorso di un alimento dal primo anello della catena di produzione fino al piatto del consumatore, focalizzando l’attenzione soprattutto sull’industria della carne. Scopriamo così che dietro le scintillanti confezioni dei supermarket si nasconde l’incubo della produzione di massa, di allevamenti sproporzionati, di maltrattamenti agli animali. Dopo che avrete visto il film non riuscirete più a guardare la vostra fettina ai ferri nello stesso modo, ma soprattutto avrete forti dubbi sul mangiarla o meno. L’inchiesta comincia con le immagini stampate sulle confezioni di vari tipi di carne in un supermarket. Rassicuranti foto di fattorie, fieri sguardi di allevatori, nomi e simboli che ci riportano alle vaste praterie del Nord America e alla natura, una favola moderna che fa sognare di mangiare sano, ma che si conclude con un brusco ritorno alla realtà. Gli animali non provengono affatto da ridenti pascoli, ma sono stipati in giganteschi allevamenti intensivi, tenuti in condizioni igieniche spaventose e trattati alla stregua di semplici oggetti da cui ricavare profitto. Le telecamere della troupe di Kenner sono riuscite a filmare enormi capannoni dove sono lasciati ad ingrassare migliaia di polli, nutriti con antibiotici che ne stimolano una crescita maggiore in minor tempo e che, ciechi e grandi quasi il doppio del normale, schiacciati tra altre migliaia di esemplari, non riescono nemmeno a tenersi sulle zampe. I bovini sono nutriti non con fieno ed erba ma a base di mais, che negli Stati Uniti ha raggiunto prezzi scandalosamente bassi. Il risultato è che gli animali, non abituati a que-

sto tipo di alimentazione, sviluppano batteri come l’escherichia coli e la salmonella, potenzialmente letali anche per l’uomo. Nel documentario, Kenner ha scelto di seguire la tragica vicenda del piccolo Kevin, morto all’età di 3 anni per aver mangiato un hamburger con carne infetta. La madre del bambino gira gli Stati Uniti per raccontare la sua storia e ottenere giustizia. La donna chiede che venga approvata la cosiddetta “Legge di Kevin”, con la quale si predispongano i criteri per una maggiore sicurezza sulle certificazioni alimentari. Sulle sue tracce lo spettatore inizia così a capire come tutta l’industria alimentare sia in mano a grandi e potenti corporazioni, che puntano su una produzione di massa, che abbatte i prezzi ma anche la qualità del cibo, senza che nessuno riesca a fare nulla per impedirlo. Molti dei grandi imprenditori che hanno interessi in questo campo siedono infatti anche all’interno dei dipartimenti governativi per l’alimentazione. Ed ecco che si inizia a percepire come anche i consumatori siano trattati alla stregua delle bestie e che, come non si curano le condizioni del bestiame destinato al macello, non si cura nemmeno la nostra incolumità, in nome del profitto. Ma passiamo alla produzione del mais. Quel mais che è alla base della dieta di tutti gli animali degli allevamenti industriali e che si trova nella maggior parte dei prodotti alimentari venduti nei supermercati statunitensi. Tutto gira intorno alla Monsanto, produttrice di pesticidi ma anche ideatrice del brevetto di semi di colza, mais e soia transgenici in grado di resistere a questi pesticidi. Due piccioni con una fava. Così l’agricoltura americana è diventata OGM, i coltivatori sottoposti alle regole della corporation o fatti fuori. Il risultato è una produzione massiccia di mais a basso costo che diventa la componente fondamentale di gran parte dei prodotti alimentari made in USA. Non sembra ci sia una via d’uscita dalla grande macchina dell’industria alimentare, ma gli Stati Uniti iniziano a rendersi conto dell’importanza di mangiare sano, e che, nonostante un hamburger al fastfood costi meno di un’insalata, c’è bisogno di iniziare a cambiare abitudini alimentari, per non cadere nella rete delle corporazioni che controllano cosa mangiare e quanto pagare per farlo. Lo ripetono gli studiosi, ma lo sanno anche i contadini: se sulle confezioni di alimenti manca una corretta indicazione della provenienza non è possibile garantirne la sicurezza. Morale della favola, con quello che mangiamo non si scherza, non ci si può affidare alle apparenze, alla pubblicità o al marchio, bisogna imparare a riconoscere la qualità.


Settimana della biodiversità Il cibo incontra la macchina da presa di Martina Micillo Nei giorni tra il 20 e il 23 maggio scorso si è svolta a Roma, presso l’Auditorium Parco della Musica, la Settimana della Biodiversità in occasione di quello che è stato dichiarato dalle Nazioni Unite l’anno internazionale della diversità biologica. L’evento, organizzato da Biodiversity International Martina Micillo con la collaborazione del Comune di Roma, si è posto come obiettivo la «scoperta dei legami tra cultura, cibo e natura» attraverso dibattiti, conferenze, concerti, mostre e laboratori per bambini. Vero e proprio evento nell’evento è stata poi la 7° edizione del Festival internazionale audiovisivo della biodiversità, organizzato dal Centro internazionale Crocevia che dal 1958 si occupa di cooperazione e solidarietà internazionale con l’obiettivo di tutelare la ricchezza culturale legata alla terra e all’agricoltura tradizionale. Tutto quello, cioè, che un sistema di consumo sempre più sfrenato e lontano dal concetto di qualità sta divorando, come argomenta il presidente di Slow Food, Carlo Petrini, che proprio in occasione della Settimana della Biodiversità ha presentato il suo ultimo libro, Terra Madre, come non farci mangiare dal cibo, edito da Giunti. Secondo Petrini, è fondamentale che produttori e consumatori si alleino per combattere le alterazioni dell’agrobusiness internazionale per cui il cibo è solo un prodotto fra gli altri «omologato, seriale, globale e poco naturale»: un cibo che, anziché essere divorato, finisce per divorare noi stessi e i nostri già precari ecosistemi. Come ci ricorda in modo ironico la breve animazione in concorso dal titolo Quiero ser tortilla in cui Panocha, una pannocchia messicana che vive felicemente con un contadino e il suo maiale, viene intrappolata insieme alle sue compagne nel sistema transgenico. Stipate come oggetti seriali e “maltrattate” senza alcuna differenza per diventare olio, le pannocchie si prenderanno la loro rivincita e, al grido di «Antes

comestible que combustibile», scoppietteranno in tanti pop corn. Se frutta, verdura e carne avessero davvero potuto ribellarsi ai trattamenti di questi ultimi anni, che cibo avremmo oggi? Sicuramente non quello alterato e “finto” del breve filmato The story of the food in cui, infatti, ci si chiede: può un pomodoro rosso, bello, perfetto dirsi ancora un pomodoro? Ebbene, no. In cinquant’anni, infatti, sono successe tante cose: il mercato si è ampliato, le distanze si sono allungate e il cibo è diventato un ricco business in cui il contadino è letteralmente divorato dalle grandi compagnie che comprano i suoi prodotti mentre le piantagioni, soffocate dall’uso eccessivo di pesticidi, si avviano verso la totale estinzione. «What can we do?» è l’ultima, essenziale domanda che si pone e ci pone il filmato. La risposta? Un breve vademecum del corretto consumatore: pensare alla provenienza e alle modalità produttive del cibo; cercare cibo locale, organico e “solidale” e supportare i piccoli contadini quando possibile. Perché abbondanza non è sempre sinonimo – quasi mai, anzi – di eguaglianza. Prodotti del sud consumi del nord. Il caffè etiope è il corto che dà voce ai milioni di produttori di caffè africani, asiatici e sud americani che non riescono, nonostante l’aumento dei prezzi del prodotto finale, ad avere delle remunerazioni vantaggiose, come dichiara Francesco Terreri, economista e giornalista. «Da molto tempo, ormai, si è messo in moto un mercato speculativo di titoli, anche sulle materie prime», dice Terreri, per cui ciò che conta è far fruttare al massimo il guadagno. Il commercio equo e solidale, tuttavia, ha dimostrato che è possibile realizzare un altro mercato, «un mercato – continua l’economista – in cui i prezzi si formano in modo trasparente e stabile» al fine di dare ai produttori la possibilità di vivere una vita dignitosa. Perché il rischio, ricordiamocelo, è che il cibo non inghiotta solo noi, ma anche quei milioni di contadini in tutto il mondo la cui vita, come l’impatto di certi trattamenti sull’ambiente, non è decisamente sostenibile. Tutte le informazioni sul Festival audiovisivo della biodiversità, i trailer, le opere premiate, i link ai lungometraggi e ai cortometraggi proiettati su: www.mediatecadelleterre.it/festival-della-biodiversita.

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Roma wine festival Tanti produttori e tante iniziative per l’appuntamento più importante della capitale sul vino di Indra Galbo

Dopo il successo delle due precedenti edizioni, anche quest’anno il Roma wine festival, che si è svolto presso la Città del gusto del Gambero Rosso, si è rivelato come un appuntamento imperdibile per gli appassionati del nettare di Bacco e per gli addetti al settore. Due giorni caratterizzati da scambi enologico-cultuIndra Galbo rali, workshop, degustazioni, ma anche un’occasione per conoscere da vicino produttori di tutta Italia (e non) e i protagonisti di una importante realtà economica oltre che enogastronomica. Rispetto ai due anni passati, sono cresciuti i numeri di questo evento: 190 aziende presenti (il 50% in più) e oltre 700 etichette in degustazione che offrono un panorama completo della realtà vitivinicola regionale italiana. Ospite d’onore, come vuole la tradizione, è stato un grande vino estero: quest’anno i protagonisti sono stati gli ottimi Chateau Guirad e Chateau Climens presentati dal Syndicat Cru Classé Sauternes et Barsac, vini passiti molto particolari in quanto non destinati solo al dessert, ma adatti anche per pasteggiare (soprattutto con formaggi). Molte sono state le degustazioni svolte in questi due giorni: i bianchi dell’Alto Adige, i vari stili di Syrah, i Tre Bicchieri (i vini con il massimo punteggio sulla guida dei vini del Gambero Rosso) e i vini del Collio per

citarne alcuni. Quella che però ha colpito particolarmente è stata la degustazione dedicata ai tre principali vini prodotti con uva nebbiolo (Barolo, Barbaresco, Roero) che anche se un po’ sbilanciata numericamente a favore del Barolo, ha permesso di bere un Barbaresco Sottimano Currà del 2004 che spiccava sui concorrenti per eleganza, perfezione e piacevolezza di beva. Naturalmente questo festival non è stato solo un’occasione per assaggiare vini; eventi di questo tipo rappresentano anche un’opportunità per gli imprenditori vitivinicoli di promuovere il meglio della loro produzione, farsi conoscere e trovare nuovi clienti. Questo è anche quello che auspica per i vini laziali l’assessore alle attività produttive del Comune di Roma, Davide Bordoni, dichiarando che il successo di eventi come questo dimostrano che Roma può essere una vetrina di eccellenza per accendere i riflettori sulla produzione vinicola sia regionale che nazionale. Quello che invece vuole evidenziare il presidente di Gambero Rosso, Paolo Cuccia, oltre al crescente numero di aziende e di pubblico partecipanti, è sicuramente il ruolo della sua azienda nella doppia funzione di talent scout di prodotti di eccellenza per i consumatori e di partner delle aziende nella loro attività di marketing e sviluppo. Una ulteriore nota positiva va attribuita al grande sviluppo dei vini del Lazio, regione che negli ultimi anni, grazie all’importante ruolo trainante di alcuni produttori come Sergio Mottura, Antonello Coletti Conti, Falesco e Casale del Giglio (giusto per citarne alcuni), sta crescendo molto nella produzione di vini di qualità cercando di accorciare il gap con le storiche regioni italiane di produzione.


Menù del giorno Panzanella alla romana Ingredienti (per 4 persone) 4 fette di pane casareccio raffermo; 4 pomodori maturi; olio extravergine d’oliva; 1 goccio di aceto bianco; 1 cipollotto (o una piccola cipolla dolce); basilico; sale; pepe Preparazione Ammorbidire in acqua le fette di pane raffermo di qualche giorno. Tagliare a fettine sottilissime il cipollotto (si consiglia di lasciarlo in acqua salata fredda per qualche ora, in maniera che perda un po’ del suo sapore forte). Insaporire il pomodoro tagliato a pezzi con olio, aceto, basilico tritato, sale e pepe. Strizzare molto bene il pane e in un piatto da portata mescolarlo con tutti gli altri ingredienti.

Bucatini all’amatriciana Ingredienti (4 persone) 200 g di guanciale; q.b. di sale; pepe nero; 80 g di pecorino; 400 g di bucatini; 3 cucchiai di olio extra vergine d’oliva; 350 g di salsa di pomodoro; 1 peperoncino. Preparazione Tagliare il guanciale a dadini e farlo rosolare in olio extravergine d’oliva, quindi aggiungere il peperoncino ed il pomodoro, regolare di sale e lasciar cuocere per circa 20 minuti. Lessare i bucatini e scolarli ben al dente, ripassarli nella salsa. Spolverare di pecorino e pepe nero grattugiato al momento. Per rendere questa salsa ancora più gustosa, far rosolare la cipolla con il guanciale, aggiungere il vino bianco, alzare la fiamma per farlo evaporare, quindi procedere come sopra.

Baccalà fritto alla romana Ingredienti (4 persone) 1 kg di baccalà ammollato; 200 g di farina; olio extra vergine d’oliva; 10 g di lievito di birra; 1 limone, sale. Preparazione Il baccalà va filettato, cioè tagliato in filetti larghi due dita e lunghi 8-10 cm e poi dissalato in acqua corrente per almeno due giorni; oppure va comprato già bagnato e tagliato; molta cura va posta nel fare la pastella e nel friggere. Prima di tutto occorre preparare la pastella, setacciando la farina e mescolandola piano piano in una terrina con acqua tiepida, in cui sia stato sciolto il lievito di birra e il sale. Se il tutto è troppo consistente, aggiungete ancora un po’ di acqua tiepida. L’impasto deve essere come panna liquida densa; appena completato coprite la terrina con un panno e fate riposare il tutto per almeno due ore senza esporlo al freddo. Al termine delle 2 ore prendete i filetti di

baccalà e ripassateli nella pastella; subito dopo immergeteli piano in una padella contenente olio ben caldo. Non appena si saranno dorati, estraeteli dall’olio, sgocciolateli e metteteli in un piatto da portata, mettendo accanto ai filetti i limoni tagliati a spicchi. Serviteli ben caldi.

Cicoria ripassata Ingredienti (4 persone) 1 kg di cicoria piccola; 1 spicchio d’aglio; 1 peperoncino; sale grosso q.b.; olio d’oliva Preparazione Lavare bene e più volte la cicoria. Mettere in una pentola molto grande l’acqua fino a poco più della metà e due prese di sale grosso. Quando avrà raggiunto l’ebollizione mettere tutta la cicoria e lasciarla lessare senza coperchio per una decina di minuti. Il tempo può variare a seconda del tipo di cicoria: se è molto grande farla lessare più a lungo. Preparare una padella con l’olio, lo spicchio d’aglio tagliato a metà e ripulito della parte centrale e il peperoncino spezzettato. Dorare a fuoco moderato e versare la cicoria ben scolata. Lasciarla in padella per 2-3 minuti sempre mescolando con un cucchiaio di legno, in modo che gli ingredienti aderiscano bene. Servirla ancora calda dopo aver rimosso l’aglio.

Crostata di ricotta Ingredienti La scorza grattugiata di 1 arancia; 1/2 cucchiaino di cannella in polvere; la scorza grattugiata di 1 limone; 1 kg di ricotta di mucca; 4 uova; 40 g di uvetta; 1 bustina di vanillina; 300 g di zucchero; 500 g di pasta frolla. Preparazione Versare nella tazza di un robot da cucina la ricotta, le uova, la vanillina, la scorza di arancia e limone, la polvere di cannella e lo zucchero, quindi amalgamare bene il tutto fino a ottenere una crema liscia e omogenea. Preparare la pasta frolla. Stendere la pasta frolla (tenetene da parte circa 100 g da utilizzare per decorare la torta) e ricavare un cerchio che servirà per foderare il fondo e le pareti di una tortiera a cerchio apribile del diametro di 24 cm, precedentemente imburrato e infarinato. Quindi trasferire la crema di ricotta in una casseruola e portarla lentamente a bollore, quindi trascorsi un paio di minuti spegnere il fuoco, aggiungere l’uvetta precedentemente ammollata e strizzata e versare il composto nella tortiera foderata di pasta frolla. Piegare leggermente i bordi di pasta frolla verso l’interno, sulla crema, poi, con la pasta frolla tenuta da parte, ricavare delle strisce piatte o dei cordoncini con le quali formare una graticola intrecciata sulla crostata. Forno a 180°. Cottura per circa 60 minuti.


UniversitĂ U niversitĂ degli degli Studi Studi Roma Roma Tre Tre - via v ia Ostiense, Ostiense, 159 - www.uniroma3.it www.uniroma3.it


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