Roma Tre News 2/2011

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P Periodico eriodico di Ateneo

1861-2011

Anno XIII, n. 2 - 2011

ITALIANI SI DIVENTA


Sommario Editoriale Primo piano Donne e rivoluzione Cristina Trivulzio di Belgiojoso e la rivoluzione italiana di Francesca Cantù Le madri della patria di Gaia Bottino

Augusto Ferrero Costa. Garibaldi, il Perù e l’Unità d’Italia di Giuliana Calcani

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Italiani da centocinquanta anni 7 Le vicende di un Paese che coltiva un’identità problematica di Mario Belardinelli «Pensiero e azione» 9 Giuseppe Mazzini: una vita per un ideale (1805-1872) di Antonio Masci Il potere dei limiti 11 Lo Stato di diritto dall’unificazione nazionale a oggi di Marco Ruotolo «Marzo 1821» 14 La vicenda linguistica dell’italiano dopo l’Unità d’Italia di Claudio Giovanardi Un concerto di voci diverse 16 Unità d’Italia: la costruzione radiofonica dell’identità di Enrico Menduni Brand italiano 18 Il futuro è sintesi e coerenza di Carlo Alberto Pratesi La questione meridionale 20 Problema irrisolto dell’Italia unita di Mariano D’Antonio Brigantaggio e ‘ndrangheta 24 Storia di un rapporto immaginario di Enzo Ciconte «Sì bella e perduta» 26 Patria ed esilio: un rapporto letterario conflittuale di Giuseppe Leonelli «Una arme industre e accorta» 28 Scrittori e attori nel tempo del Risorgimento di Stefano Geraci Scienza e Risorgimento 30 Il contributo degli scienziati italiani a cura di Aldo Altamore, Marco Bologna, Settimio Mobilio, Giovanni Polzonetti, Roberto Raimondi, Eugenio Torracca Amor di patria 34 Quelli che con la musica hanno raccontato la storia di Luca Aversano La città eterna come capitale 38 Roma a centocinquanta anni dall’Unità di Vieri Quilici «È nata la Repubblica italiana» 41 Il suffragio femminile: un lungo viaggio fra luci e ombre di Francesca Brezzi Donne e colonie 45 Emancipazionismo femminile e colonialismo in età liberale di Catia Papa Di quei nostri tre colori 47 Come è nata la nostra bandiera di Michela Monferrini Ieri, oggi e domani 49 Le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia viste da un’immigrata e da un italiano all’estero di Gaia Bottino Il Risorgimento sullo schermo 50 Cento anni di cinema sull’Unità d’Italia da La presa di Roma a Noi credevamo di Ugo Attisani C’era una volta la Lira 52 Un “valore aggiunto” nella nostra storia nazionale di Francesca Gisotti Incontri Loredana Sciolla. «L’Italia che non muore» 53 di Federica Martellini Andrea Camilleri. Tra storia, memoria e letteratura, 56 di Valentina Cavalletti

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Giovanna Marini. Un racconto diverso della storia 59 di Michela Monferrini Orientamento Notizia e narrazione 61 Indagine sul giornalismo: intervista a Valentino Parlato, Guido Ruotolo, Philippe Ridet Rubriche Popscene 63 Ultim’ora da Laziodisu 65 Non tutti sanno che… 65 Recensioni 66 «Scusi, lei si sente italiano?» Fra ragione e sentimento: le tante risposte all’eterno interrogativo sull’italianità di Paolo di Paolo «Noi credevamo» 68 Il Risorgimento senza eroi di Mario Martone di Francesca Gisotti Fratelli d’Italia, ieri e oggi 69 Vignette, fumetti e ritratti satirici: centocinquanta anni di storia in una striscia di Yevgen Lysenkov «La Patria, bene o male» 70 Almanacco dell’Italia unita in centocinquanta date di Irene D’Intino Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre Anno XIII, numero 2/2011 Direttore responsabile Anna Lisa Tota (professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi) Caporedattore Alessandra Ciarletti Vicecaporedattore e segreteria di redazione Federica Martellini r3news@uniroma3.it Redazione Ugo Attisani, Gaia Bottino, Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo Di Paolo, Irene D’Intino, Indra Galbo, Francesca Gisotti, Elisabetta Garuccio Norrito, Michela Monferrini, Monica Pepe Hanno collaborato a questo numero Aldo Altamore (ricercatore di Fisica sperimentale), Luca Aversano (ricercatore di Storia della musica), Mario Belardinelli (ordinario di Storia del Risorgimento), Marco Alberto Bologna (direttore del Dipartimento di Biologia ambientale), Francesca Brezzi (ordinario di Filosofia morale e Filosofia della differenza), Giuliana Calcani (ricercatrice di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana), Francesca Cantù (preside della Facoltà di Lettere e Filosofia), Michele Chicco (studente del Laboratorio di Semiotica), Gilda Ciccone (studentessa del Laboratorio di Semiotica), Enzo Ciconte (docente di Storia della criminalità organizzata), Mariano D’Antonio (ordinario di economia dello sviluppo), Gianpiero Gamaleri (ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi), Stefano Geraci (professore associato di Storia del teatro italiano), Claudio Giovanardi (direttore del Dipartimento di Italianistica), Giuseppe Leonelli (ordinario di Letteratura italiana), Chiara Ingrosso (studentessa del Laboratorio di Semiotica), Erica Introna (studentessa del Laboratorio di Semiotica), Yevgen Lysenkov (studente del C.d.L. in Storia e conservazione del patrimonio artistico), Miriam Manfrini (studentessa del Laboratorio di Semiotica), Antonio Masci (Maestro di classe Steiner-Waldorf), Agostino Melillo (studente del Laboratorio di Semiotica), Enrico Menduni, Settimio Mobilio (preside della Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali), Martina Nizi (studentessa del Laboratorio di Semiotica), Catia Papa (assegnista di ricerca in Storia contemporanea presso il Dipartimento di studi storici geografici antropologici), Stefano Perelli (studente Facoltà di Scienze Polilitiche), Francesca Pizzuto (studentessa del Laboratorio di Semiotica), Giovanni Polzonetti (ordinario di Chimica generale e inorganica), Carlo Alberto Pratesi (professore straordinario di marketing e comunicazione d'impresa), Vieri Quilici (ordinario di Progettazione architettonica), Roberto Raimondi (professore associato di Meccanica statistica), Marco Ruotolo (ordinario di Diritto costituzionale), Michele Salvatore (studente del Laboratorio di Semiotica), Solène Tadié (studentessa del Laboratorio di Semiotica), Vanessa Tenti (studentessa del Laboratorio di Semiotica), Eugenio Torracca (professore associato di Chimica) Immagini e foto Enrico Autore, Liliana Di Ruscio, Dante Ferricella - www.studioeffe.it, Franca Renzini http://www.vigata.org/, www.giovannamarini.it, www.scuolamusicatestaccio.it. Si ringrazia Anna Onesti per la gentile concessione delle immagini delle sue opere. Si ringrazia Enrico Luciani, direttore del sito www.comitatogianicolo.it, per la gentile concessione delle immagini alle pp. 36-37 Progetto grafico Magda Paolillo Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma 06 64561102 - www.conmedia.it Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico. Impaginazione e stampa Tipografia Gimax di Medei Massimiliano Via Valdambrini, 22 - 00058 Santa Marinella (RM) - Tel. 0766 511644 Finito di stampare luglio 2011 Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998


L’identità italiana, 150 anni dopo… di Anna Lisa Tota C’è stato un tempo in cui contribuire alla formazione dello Stato nazionale ha rappresentato, per alcuni dei nostri progenitori, un obiettivo di cui essere a tal punto orgogliosi da poter combattere, “cospirare” e rischiare la vita. Come si è declinato questo “orgoglio” durante i 150 anni successivi? Anna Lisa Tota Nell’Italia odierna l’identità nazionale sembra essere riconducibile ad una strana miscela di orgoglio culturale e sfiducia politico-istituzionale. Nel 1996 L. Sciolla e N. Negri pubblicarono un libro, Il paese dei paradossi, in cui documentarono profonde ambivalenze: da una parte, una scarsa fiducia nelle istituzioni, dall’altra l’orgoglio di essere italiani, un orgoglio tuttavia radicato prevalentemente nelle dimensioni culturali, artistiche e creative. L’immagine pubblica dell’Italia che ne deriverebbe è contraddittoria: da una parte una genialità e un’originalità fuori dal comune, dall’altra la criminalità, la corruzione, la gestione mascalzona del potere.

“Per avere fiducia bisogna poter credere di essere governati da uno Stato “giusto” che ripara i torti subiti e che, quando è troppo tardi, si inginocchia come fece Willy Brandt al ghetto di Varsavia” Ma da dove si origina questa sfiducia istituzionale da cui consegue anche una sorta di fragilità identitaria dello Stato? Forse si potrebbe ricondurre al modo in cui memoria pubblica e identità nazionale si intrecciano nel discorso pubblico. La memoria pubblica è, infatti, una risorsa politica importante, che dà forma identitaria allo Stato stesso. La fiducia nelle istituzioni è una risorsa preziosa, scarsa e che ha una forte componente diacronica. La fiducia istituzionale richiede un respiro temporale. Essa si alimenta grazie alle cerimonie nazionali, ai riti ufficiali, alle commemorazioni degli eventi controversi. Le politiche della riconciliazione rappresentano, in tal senso, risorse istituzionali strategiche per consolidare nel tempo un sentimento di fiducia diffuso fra i cittadini. Per avere fiducia, infatti, bisogna poter credere di essere governati da uno Stato “giusto” che ripara i torti subiti e che, quando è troppo tardi, si inginocchia come fece Willy Brandt al ghetto di Varsavia. Ma i processi di memoria nel caso italiano si sono come inceppati. E allora come si fa ad avere fiducia in uno Stato che non paga i suoi debiti morali,

come si fa ad essere orgogliosi di uno Stato che nella migliore delle ipotesi non c’è stato e nella peggiore sarebbe stato addirittura connivente? Penso ad esempio al periodo nerissimo e assai recente delle stragi terroristiche italiane. Questo pesa sui processi di formazione delle appartenenze nazionali, pesa sui processi identitari.

“Essere italiani, 150 anni dopo, diventa in primo luogo un problema identitario: chi penso di essere quando mi definisco italiano? Quale parte del mio valore personale, della mia creatività, del mio ingegno riconosco di condividere con gli altri cittadini di questo paese?” Forse è anche per questo che quando all’improvviso nel quotidiano ci dobbiamo dichiarare “italiani”, ciò evoca in noi un misto di sentimenti contradditori. In quelle brevi lettere scandite “I-t-a-l-i-a-n-o” riaffiora alla nostra memoria un intero mondo simbolico e valoriale, con cui dobbiamo fare i conti. Essere italiani, 150 anni dopo, diventa in primo luogo un problema identitario: chi penso di essere quando mi definisco italiano? Quale parte del mio valore personale, della mia creatività, del mio ingegno riconosco di condividere con gli altri cittadini di questo paese? Quali difetti mi caratterizzano profondamente e penso siano riconducibili alla mia appartenenza nazionale? C’è una parte della mia identità che assume forma, spessore e significato in relazione al mio essere italiano e se c’è, quanto pesa sulla mia identità complessiva? Provo sentimenti di orgoglio o di svilimento, quando mi penso “italiano”? In tutto questo, sullo sfondo c’è l’idea di Stato che abbiamo in mente e lì possiamo scegliere ogni volta, se pensare all’Italia delle mafie oppure a quella di Giovanni Falcone, alla corruzione politica oppure agli statisti che hanno fatto grande questo paese.

“Sullo sfondo c’è l’idea di Stato che abbiamo in mente e lì possiamo scegliere ogni volta, se pensare all’Italia delle mafie oppure a quella di Giovanni Falcone, alla corruzione politica oppure agli statisti che hanno fatto grande questo paese” Essere italiani 150 anni dopo è un tema complesso, difficile ed importante. In questo numero abbiamo dato voce a studiosi e studiose di discipline molto diverse, perché ci raccontassero l’evoluzione e i cambiamenti che abbiamo attraversato durante un secolo e mezzo di vita pubblica. Abbiamo voluto dare un contributo a quell’ampia riflessione, avviata quest’anno nel nostro paese, su “chi siamo veramente, quando ci definiamo italiani”.


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Donne e rivoluzione Cristina Trivulzio di Belgiojoso e la rivoluzione italiana

primo piano

di Francesca Cantù Aveva soltanto ventitré antuali, di esuli e di cospiratori, che sosteneva generosamente ni Cristina Trivulzio di con le sue disponibilità economiche. Il confronto più diaBelgiojoso quando, nel lettico, non privo di reciproci apprezzamenti, ma anche maggio del 1831, giunged’incomprensioni e d’improvvise asprezze avvenne con va a Parigi in fuga dalla Giuseppe Mazzini, di cui Cristina non condivideva la tecsua Milano e dall’Italia, nica insurrezionale. Se la congiunzione tra un certo spirito inseguita dalla polizia au“Sviluppando una concezione molto striaca che, in Lombardia, a causa delle sue idee libemoderna dell’uso della stampa rali e del suo coinvolgid’informazione e d’opinione nella lotta mento politico nelle cospipolitica, Cristina di Belgiojoso inizia a razioni per l’emancipazioParigi un’attività intensa, che diventerà ne della penisola dal domiFrancesca Cantù nio straniero, aveva posto prediletta: quella di giornalista e di sotto sequestro i suoi beni. Da tre anni si era separata dal editrice di giornali a sfondo patriottico, da marito, Emilio di Belgiojoso, giovane, bello e dissoluto, lei stessa ideati e finanziati” come narrano le cronache mondane dell’epoca. La dolorosa vicenda personale, che lasciò un segno permanente nella sua esistenza, aveva ulteriormente alimentato il suo spirito di ribellismo romantico e la prospettiva rivoluzionaria aved’indipendenza mentre le sue attività di cospiratrice per la va alimentato le sue prime scelte, in seguito è soprattutto la libertà d’Italia l’avevano indirizzata verso una vita inquieta prospettiva moderata e riformista a emergere e a consolied errabonda. Dotata di un fascino che divenne leggendadarsi nel suo orientamento politico, che tuttavia resta aperrio, a Parigi fu al centro di amori appassionati e d’invidie to alla ricerca di soluzioni di conciliazione per promuovere incomprimibili, di ammirazione incondizionata e di critie portare al successo la rivoluzione italiana. Febbrili entuche irridenti anche in ragione di eccentricità, in parte alisiasmi, trame complesse, ma anche errori e disinganni, rimentate dalla singolarità del personaggio, ma spesso più piegamenti temporanei eppure sofferti, lucide malinconie favoleggiate che reali. Il salotto da lei aperto nel palazzo affiorano spesso nella fitta corrispondenza intrattenuta con della rue d’Anjou Saint-Honoré raggiunse presto la celebrigli amici francesi e italiani. Ne emerge il sentimento di un tà, affollato com’era da poeti e letterati, storici e filosofi, duro apprendistato, di un’esperienza comprata a caro prezpolitici e teologi, artisti e musicisti, ma anche da esuli itazo e l’espressione suggestiva «noviziato di solitudine» conliani o da viaggiatori che dall’Italia nota il suo intimo sentire di giovane portavano le voci della politica. Atpoco più che ventenne, «amante tetenta allo sviluppo delle idee rifornerissima della patria», eppure comatrici in campo sociale, durante stretta all’esilio. l’esilio parigino entrò in contatto con Sviluppando una concezione molto i circoli saint-simoniani elaborando moderna dell’uso della stampa d’inun proprio pensiero sociale, che l’aformazione e d’opinione nella lotta vrebbe portata, intorno al 1840, a politica, Cristina di Belgiojoso iniconcepire e avviare nuove esperienzia a Parigi un’attività intensa, che ze di educazione e di lavoro per il ridiventerà prediletta: quella di giorscatto civile e sociale dei contadini nalista e di editrice di giornali a lombardi delle sue terre di Locate. sfondo patriottico, da lei stessa Circondata da spie, che inviavano ideati e finanziati. Tuttavia Cristina densi – e spesso fantasiosi – rapporti è anche donna d’azione. Nel 1848, al capo della polizia di Milano, barootto giorni dopo la cacciata degli ne Torresani, Cristina conduceva, Austriaci, raggiunge Milano alla tecon fierezza e autonomia, una vita sta di un gruppo di duecento volonda lei stessa definita «avventurosa, tari, nell’intento ambizioso di poter agitata, non femminile». Tesseva le svolgere una mediazione tra i sostesue trame, con gli esponenti dei monitori della soluzione costituzionale vimenti liberali e con i fautori della monarchica e sabauda, verso cui democrazia, con i moderati e con i Cristina Trivulzio di Belgiojoso in un celebre ritrat- l’inclinava la propria condizione rivoluzionari, in un via vai d’intellet- to di Francesco Hayez (1832) aristocratica non meno di sensate


considerazioni di opportunità politica, e i giovani repubblicani protagonisti dell’insurrezione, che sentiva vicini per temperamento e per passionalità. Dopo l’amaro fallimento dei moti rivoluzionari italiani e la resa catastrofica di Milano agli Austriaci, da Parigi dove si era nuovamente rifugiata, tra la fine del 1848 e i primi mesi del 1849 la Belgiojoso pubblicò sulla Revue des Deux Mondes “L’Italie et la révolution italienne de 1848” con l’intento d’informare l’opinione pubblica internazionale e di mobilitarla a sostegno del movimento nazionale e della ripresa della guerra. Da ogni pagina del suo articolo traspare una critica affilata dell’inefficienza del governo provvisorio di Milano, diviso al suo interno dalle lotte di potere, e un’addolorata ricerca delle responsabilità per il fallimento di una rivoluzione così gloriosamente iniziata e con tanto sacrificio inutilmente pagata.

“Dopo l’amaro fallimento dei moti rivoluzionari italiani e la resa catastrofica di Milano agli Austriaci, da Parigi dove si era nuovamente rifugiata, tra la fine del 1848 e i primi mesi del 1849 la Belgiojoso pubblicò sulla Revue des Deux Mondes «L'Italie et la révolution italienne de 1848» con l’intento d’informare l’opinione pubblica internazionale e di mobilitarla” La presenza della Principessa sul campo di battaglia di Milano testimonia, però, il manifestarsi di una realtà nuova: nella lotta per l’indipendenza, tra il fumo delle barricate, a fianco delle truppe regolari e volontarie sono presenti anche molte donne. «La partecipazione delle donne alla causa nazionale è un fatto quasi nuovo in Italia – scriveva Gioberti – (…) a conferma che siam giunti a maturità civile e a pieno essere di coscienza come nazione». Tuttavia, nonostante il loro coraggio e la loro dedizione, le donne faticavano a vedersi riconosciute e accettate nell’esercizio di responsabilità e funzioni pubbliche. Nelle drammatiche vicende della Repubblica romana (1849), alla stessa Cristina è riconosciuto come unico campo d’azione quello dell’organizzazione del Comitato di soccorso ai feriti, opera che compie mirabilmente con Enrichetta De Lorenzo Pisacane, Giulia Bovio-Silvestri Paulucci, Giulia Calarne Modena e altre ancora, cercando di non far mancare l’assistenza medica a tutti i giovani insorti, che combattevano per l’indipendenza e la libertà italiana fino al sacrificio della vita. Nel periodo successivo al 1860 e alla proclamazione del Regno d’Italia, terminato il suo lungo esilio in Oriente, Cristina di Belgiojoso pone al centro delle sue preoccupazioni il timore che il processo di unificazione sia ancora troppo fragile vedendo crescere intorno a sé concreti segnali di stanchezza e disincanto da parte di vecchi compagni di lotte e d’idee. Iniziava, infatti, nel paese quella ‘tra-

dizione deprecatoria’, che non risparmiava critiche feroci alla nuova Italia, particolarmente accese fra gli intellettuali: dopo aver contribuito ad assegnare al moto risorgimentale un carattere molto idealizzato, essi coglievano con maggiore intensità quanto lo Stato unitario deludesse le aspettative ridimensionando gli obiettivi dei decenni precedenti. Con un nuovo scritto, impegnativo nel tema e suggestivo nel titolo (Osservazioni sullo stato attuale dell’Italia e sul suo avvenire), Cristina di Belgiojoso interviene nel dibattito sostenendo che «l’Italia non è più una semplice astrazione geografica», ma il corpo vivo di una nazione, che aspira giustamente ad occupare il posto dovutole tra «le altre nazioni europee, o per dir meglio le più potenti e incivilite dell’Europa». La sua analisi della realtà fattuale è molto lucida e pragmatica, basata su osservazioni e dati concreti, senza indulgenze verso le penalizzanti lentezze nella modernizzazione del sistema economico-produttivo, l’insufficiente industrializzazione o le degenerazioni che il nuovo corpo sociale dell’Italia unita continua ad albergare, come il brigantaggio e la camorra che affliggono le regioni meridionali. Due sono gli obiettivi che devono essere perseguiti dallo Stato unitario per una più efficace integrazione: le reti interne di comunicazione, con particolare sviluppo delle linee marittime e ferroviarie; l’istruzione a tutti i

“In Osservazioni sullo stato attuale dell’Italia e sul suo avvenire Cristina di Belgiojoso interviene nel dibattito sostenendo che «l’Italia non è più una semplice astrazione geografica», ma il corpo vivo di una nazione, che aspira giustamente ad occupare il posto dovutole tra «le altre nazioni europee, o per dir meglio le più potenti e incivilite dell’Europa»” livelli, ispirata a un sano criterio di laicità, per vincere la piaga dell’analfabetismo statisticamente molto rilevante, per far crescere nei cittadini una coscienza libera e vigile e per formare la nuova classe dirigente. Infine, interrogandosi sul significato del suo tanto vivere e lottare per la rivoluzione italiana (unità, libertà, indipendenza) e riflettendo sull’esperienza vissuta in quanto donna nella società del suo tempo, è alle donne italiane che Cristina di Belgiojoso, nel suo interessante saggio Della presente condizione delle donne e del loro avvenire (1866), rivolge un estremo appello: «Vogliano le donne felici ed onorate dei tempi avvenire rivolgere tratto tratto il pensiero ai dolori ed alle umiliazioni delle donne che le precedettero nella vita, e ricordare con qualche gratitudine i nomi di quelle che loro apersero e prepararono la via alla mai prima goduta, forse appena sognata felicità».

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Le madri della patria di Gaia Bottino «L’amore di una madre per i figli non può nemmeno essere compreso dagli uomini: con donne simili una nazione non può morire» Giuseppe Garibaldi I patrioti che hanno contribuito alla nascita dell’Italia sono noti: le loro gesta Gaia Bottino sono celebrate nei libri di storia e monumenti a loro dedicati si innalzano in tutta la penisola. Ci si dimentica ingiustamente delle madri della Patria: donne che diffusero gli ideali risorgimentali, parteciparono alle battaglie impugnando le armi e sacrificarono la vita per la difesa della libertà. Eleonora Fonseca Pimentel nacque a Roma da genitori portoghesi nel 1752 ma visse a Napoli. Scrittrice di poesie, da donna intellettuale, si trasformò in eroina della Rivoluzione partenopea del 1799: dichiarò decaduta la dinastia borbonica e proclamò la Repubblica Napoletana sotto la protezione della Francia. La Pimentel fondò un giornale portavoce del governo provvisorio in cui gli articoli venivano scritti in dialetto per avvicinare le classi più umili agli ideali della Repubblica. Nel maggio del 1799 l’esercito francese si allontanò da Napoli alla volta dell’Italia settentrionale e le truppe inviate dai Borbone riconquistarono la città. Eleonora venne arrestata e condannata a morte: salì sul patibolo con grande dignità e prima di morire pronunciò un famoso verso di Virgilio: «Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo». Giuditta Bellerio Sidoli nacque a Milano nel 1804. A sedici anni sposò Giovanni Sidoli di cui condivise la fede patriottica; nel 1829, rimasta vedova, decise di consacrare la sua vita alla patria. Nel 1831 partecipò ai moti di Reggio Emilia ma, dopo il fallimento dell’insurrezione, esiliò in Francia e conobbe Giuseppe Mazzini, a cui si legò sentimentalmente. Con Mazzini, Giuditta fondò il giornale politico La Giovine Italia assumendo il ruolo di responsabile e contabile. La Bellerio partecipò ai moti rivoluzionari di Livorno, Firenze, Roma e Bologna fino a quando

nel 1852 si trasferì a Torino dando vita a un salotto politico frequentato dai maggiori esponenti risorgimentali. Si spense a Torino nel 1871 a seguito di una grave malattia. Rosalia Montmasson nata nel 1825, moglie di Francesco Crispi, fu l’unica donna a partecipare alla spedizione dei Mille, occupandosi dei feriti e in molte occasioni imbracciando il fucile. Rosalia venne ripudiata dal marito: il motivo fu la volontà di Crispi di abbandonare i repubblicani e schierarsi con i monarchici, scelta che la patriota visse come un tradimento. Rosalia sopravvisse grazie alla pensione assegnata ai Mille e morì in povertà nel 1904. Gualberta Alaide Beccari nacque nel 1842 da genitori di fede mazziniana. Nell’aprile del 1868 fondò il giornale La Donna, primo periodico femminista di impegno civile e politico. Rivendicò la partecipazione delle donne nella politica e si impegnò a favore della parificazione salariale e per l’abolizione della prostituzione di Stato. Dal 1886 diresse il giornale per ragazzi Mamma dove cercò di avvicinare le giovani generazioni all’impegno civile. Dopo una vita dedicata alle donne, la Beccari morì nel 1906. Anna Maria Mozzoni nacque nel 1837 da una famiglia borghese vicina alle idee risorgimentali. A ventisette anni scrisse La donna e i suoi rapporti sociali, nel quale descriveva lo stato del lavoro femminile e chiedeva il diritto all’istruzione per tutte le donne. La sua più grande azione politica fu la petizione del voto alle donne portata in Parlamento per la prima volta nel 1876. Dal 1881 ai primi del Novecento lottò per i diritti delle donne all’interno del movimento operaio. Non vedrà nel 1945 realizzarsi il suo sogno dell’estensione del voto alle donne: morirà nel 1920.

Il Risorgimento femminile, ignorato dalla storia tradizionalista, ha il volto di queste donne dal temperamento e dalla storia differenti ma unite dal desiderio di consegnare alle donne di oggi una realtà da protagoniste nella scena politica e sociale italiana.


Italiani da centocinquanta anni Le vicende di un Paese che coltiva un’identità problematica di Mario Belardinelli Dal complesso delle manifestazioni che finora si sono tenute in occasione del centocinquantenario dell’Unità italiana non è apparso chiaro se fosse da celebrare l’esito istituzionale del Risorgimento (la nascita di uno Stato-Nazione), o la vicenda tormentata di un Paese che dal 1861 ad oggi coltiva un’identità problematica, affidata a tradizioni Mario Belardinelli letterarie e ad ascendenze mitiche, ad istituzioni centraliste e a convenienze di poteri forti più che alla partecipazione popolare ad uno sviluppo civile ed economico diffuso. Ma ciò che si è verificato dopo la Grande Guerra (che rappresenta il momento in cui la comunità nazionale, resistendo alla prova immane, dimostra che gli italiani sono ormai fatti) dipende da tanti fattori nuovi – interni ed internazionali – e da movimenti e personalità che appartengono a “un’altra storia”. È importante perciò mettere a fuoco le ragioni che ci permettono di esaltare quella proclamazione di un grande Stato nazionale, fatta a Torino da un Parlamento eletto da cittadini (non più sudditi) di sette precedenti formazioni deboli e arretrate, succubi direttamente o indirettamente delle potenze straniere, governate da sovrani “per diritto divino”.

gresso. Come dichiarava Cavour in Parlamento l’11 ottobre 1860, si doveva costruire «uno Stato forte» che disponesse non solo di un potenziale militare, ma del «consenso unanime della popolazione». Una storiografia revisionista ha, da allora fino ad oggi contestato questa tesi come illusoria, alla luce della discutibile significanza dei plebisciti e soprattutto delle insorgenze meridionali del primo periodo postunitario. L’accusa al governo liberale da parte dei sostenitori delle antiche monarchie e dei clericali di aver suscitato una “rivoluzione” (che sconvolgendo gli assetti naturali e consoni agli interessi delle popolazioni sconvolgeva l’“ordine sociale”, garantito dai sovrani legittimi, e ledeva poteri e privilegi della Chiesa nella società civile) è stato da tempo smentita. Il governo piemontese, che si reggeva su un’alleanza parlamentare del centro destra guidato da Cavour con il centro sinistra di Rattazzi sviluppò un piano di guerra all’Austria che era moderato, nel senso che non favoriva l’insurrezione dal basso, ma si basava su alleanze diplomatiche e azione di eserciti regolari; esso guidò poi un piano di unificazione per annessioni degli Stati regionali allo Stato legittimo dei Savoja, che aveva conservato la Costituzione (concessa dal suo sovrano Carlo Alberto), chiedendo consenso con i plebisciti. L’azione “irregolare” di Garibaldi e dei suoi Mille ebbe anch’esso un esito non rivo-

“Dal complesso delle manifestazioni per il 150° anniversario dell’Unità italiana non è apparso chiaro se sia da celebrare l’esito istituzionale del Risorgimento (la nascita di uno Stato-Nazione), o la vicenda tormentata di un Paese che dal 1861 ad oggi coltiva un’identità problematica” Questo avvenimento non è la conclusione del Risorgimento, come molti studiosi italiani e stranieri hanno sostenuto (prolungandolo ai dieci anni successivi, con l’annessione del Veneto e di Roma, ed enfatizzando l’aspetto nazional-territoriale), ma è sicuramente un momento decisivo, che segna la realizzazione dell’ obiettivo cui hanno contribuito intellettuali e cospiratori, patrioti volontari e forze armate regolari, governo sabaudo con Cavour e movimenti democratici con Mazzini e Garibaldi. Come è stato rilevato, è l’opera di una minoranza rispetto alla popolazione complessiva, ma essa non si attua senza consenso più largo, nella prospettiva di uno Stato finalmente “padrone in casa sua”, libero di cercare un migliore assetto della sua società, capace – come avverrà lentamente, faticosamente, non senza contraddizioni – di offrire anche ai ceti popolari di partecipare ai benefici del pro-

Il regio decreto del 17 marzo 1861 che sancisce la nascita dello Stato italiano

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Le fasi della formazione del Regno d'Italia, realizzata con la Seconda Guerra di indipendenza e con la Spedizione dei Mille

luzionario, ma moderato, allorché egli si rese conto dell’irrealizzabilità di un assetto diverso da quello di “Italia e Vittorio Emanuele”, che avrebbe destato l’ostilità dei ceti possidenti e delle potenze europee. E ciò spiega anche come la “rivoluzione mancata”, di gramsciana memoria, fosse mancata perché impossibile nella cornice storica di allora. Ma i limiti di questa Unità possono indurci a ridimensionare quella vicenda e trascurarne l’importanza?

“L’unità della patria nazionale retta da istituzioni e rappresentanze liberali, con un forte centro propulsivo, rappresentò una grande conquista ideale e civile: alla distanza essa si è rivelata una risposta coerente con le esigenze di una società europea in rapida evoluzione” Per riconoscere la positività di quest’esito, è sufficiente considerare la situazione della penisola alla metà dell’Ottocento, depressa e oppressa – in maggior o minor grado – dal punto di vista culturale, economico, politico. L’unità della patria nazionale retta da istituzioni e rappresentanze liberali, con un forte centro propulsivo, rappresentò una grande conquista ideale e civile: non lo sostenevano solo i protagonisti del movimento liberal-nazionale (moderati e democratici che avevano in vario modo contribuito alla nascita del nuovo Stato): alla distanza essa si è rivelata una risposta coerente

con le esigenze di una società europea in rapida evoluzione (sia a livello demografico sia a quello politico). Se l’unità fu il risultato di settant’anni di lotte, studi, aspirazioni a conquistare indipendenza (da potenze che avevano fatto della penisola il campo di battaglia o il serbatoio da cui attingere risorse), e libertà (da governi assoluti e repressivi, sospettosi dei progressi che si stavano realizzando in Occidente), il sessantennio successivo avrebbe assistito – quale conseguenza di leggi moderne, dell’unificazione di moneta, pesi e misure, di un mercato ormai nazionale – a uno sviluppo dell’istruzione pubblica e delle strutture sanitarie, delle vie di comunicazione e del commercio, della produzione e dell’urbanizzazione – che sono generalmente indicati come indici del progresso. Uno sviluppo che le statistiche e gli studi storici indicano come discontinuo e soggetto a forti differenze regionali, modesto rispetto ad altri Stati, condizionato da carenze originarie e da interessi polarizzati, ma comunque innegabile. È questo ingresso in un processo complessivo di crescita che va celebrato: un cammino a cui nei decenni successivi si sarebbero lentamente accordati anche quei settori inizialmente avversi (papato e cattolicesimo intransigente, sostenitori delle piccole patrie e plebi rurali inizialmente deluse dalle promesse di “liberazione”, socialisti riformisti). I cittadini di questo Paese sono chiamati quest’anno a riflettere che, senza ignorare certe ombre, le luci accese allora – unità e libertà politica – sono alla radice di uno sviluppo collettivo che ci ha sottratti a un destino di conflitti e divisioni regionali (di cui l’attuale sponda orientale dell’Adriatico o l’area del Caucaso ci offrono esempi).


«Pensiero e azione» Giuseppe Mazzini: una vita per un ideale (1805 - 1872) di Antonio Masci «Una domenica dell’aprile 1821 io passeggiava, giovanetto, con mia madre e un vecchio amico della famiglia, in Genova, nella Strada Nuova… Un uomo di sembianze severe ed energiche, bruno, barbuto e con un guardo scintillante che non ho mai dimenticato, s’accostò a un tratto fermandoci: pei proscritti d’Italia.. Mia madre e l’amico versarono nel fazzoletto alcune monete... Quel giorno fu il primo in cui s’affacciasse confusamente all’anima mia, non dirò un pensiero di Patria e di Libertà, ma un pensiero che si poteva e quindi si doveva lottare per la libertà della Patria… L’idea che in quella lotta io avrei potuto far la mia parte, non mi balenò che in quel giorno per non lasciarmi mai più...». Con queste parole Mazzini inizia le sue Note autobiografiche, saltando gli anni che vanno dalla sua nascita a quel momento, perché quel momento ha rappresentato per lui il motivo e lo scopo di tutta la sua vita. «Si poteva e quindi si doveva lottare…» e la lotta per la libertà e per l’Unità d’Italia l’ha condotta col sentimento della missione particolare della sua esistenza. Nasce come impulso dell’anima prima ancora che come idea. Dalla disamina del panorama culturale e storico del suo tempo scaturiscono per Mazzini elementi nuovi, fermenti che egli cerca di interpretare e di tradurre in azioni. Un primo elemento lo trae dalla conoscenza dello stato della letteratura e delle arti in Italia e in Europa, e dal clima spirituale del suo tempo. In merito così si esprime nei primi scritti giovanili.

Giuseppe Mazzini

«...Vive in noi tutti nel profondo dell’anima un desiderio, una idea, una eco d’un Sublime, d’un Bello, che gli uomini non possono sperare di comprendere se prima non mutan natura...» (Faust, Tragedia di Goethe, 1829). «...So che i fenomeni della natura morale, e dell’uomo interno devono formare il campo dove s’aggiri la letteratura, campo in cui la natura fisica e l’uomo esterno avranno luogo come simbolo, e rappresentazione dei primi...» (D’una letteratura europea, 1829).

“«Si poteva e quindi si doveva lottare…» e la lotta per la libertà e per l'Unità d'Italia Mazzini l'ha condotta col sentimento della missione particolare della sua esistenza. Nasce come impulso dell'anima prima ancora che come idea” «...Studiate il mondo sensibile per dedurne il morale: traete dal cognito l’occulto; poi rivelate utilmente quello che avete scoperto...» (Del dramma storico, 1830). «...Oggi l’intelletto si sta fra due mondi: nello spazio che separa il passato dall’avvenire: fra una sintesi consunta e un’altra nascente...» (Filosofia della musica, 1836). Altri elementi riguardano le istituzioni ufficiali – monarchia, impero, papato – e le organizzazioni riformiste, costituzionaliste, rivoluzionarie nate per cambiare i rapporti tra cittadini e potere costituito. Ma per Mazzini «…Le grandi rivoluzioni si compiono più coi principi, che colle baionette: dapprima nell’ordine morale, poi nel materiale...» (Manifesto della Giovine Italia, 1831), ed è per questo che «... perché la società creda di poter essere modificata da un principio, è necessario ch’essa cominci per veder modificato da esso gli individui che se ne fanno banditori...» (Associazione degli intelletti, 1836). Lo sguardo di Mazzini è proiettato verso il superamento delle nazioni: «...La storia delle nazioni sta per finire, la storia d’Europa sta per incominciare» (1829), verso orizzonti e organismi cosmopolitici, di cui le nazioni costituiscono le singole individualità: «Noi cerchiamo verificare non una Europa, ma gli Stati Uniti d’Europa» (Organizzazione della democrazia, 1850). È noto che Mazzini prefigurava l’Italia una, libera, indipendente, repubblicana, precorrendo di un secolo la Repubblica sancita dal voto popolare referendario del 1946, e unita dalle Alpi alla Sicilia. Quali erano i connotati di questa Repubblica? «...Noi vogliamo fondare una Repubblica… e per Repubblica intendiamo un grado d’educazione da svolgersi, una istituzione atta a produrre un miglioramento morale... un sistema che deve sviluppare la libertà, l’egua-

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glianza, l’associazione... Noi vogliamo fondare un Governo, e per Governo intendiamo una conquista di armonia fra chi dirige e chi è diretto, nel quale sia un continuo moto d’ispirazione da Governo a Popolo, da Popolo a Governo; nel quale il Governo sia l’interprete, il purificatore del voto popolare che lo ha scelto» (1849). «... La Repubblica è il Governo sotto il quale nessuno può rubare, nel quale il popolo sceglie i più capaci e i più morali per amministrare il negozio di tutti, nel quale se quei che furono scelti cambiano o traviano, il popolo che li ha scelti li manda a spasso» (1870).

“Lo sguardo di Mazzini è proiettato verso il superamento delle nazioni: «...la storia delle nazioni sta per finire, la storia d'Europa sta per incominciare» (1829), verso orizzonti e organismi cosmopolitici, di cui le nazioni costituiscono le singole individualità: «Noi cerchiamo verificare non una Europa, ma gli Stati Uniti d'Europa» (Organizzazione della democrazia, 1850)”

un potere – guida sui sudditi, come se la storia e gli uomini non avessero compiuto i loro passi verso una graduale conquista dei nuovi beni che la democrazia offre, e della libertà di coscienza. Queste due istituzioni costituivano

“Il suo motto preferito era «Pensiero e Azione», che egli riuscì ad incarnare con la sua vita, perché «L'uomo è pensiero e azione, e ciò che suscita a tradurre il pensiero in azione, l'amore»”

un ostacolo, in modo particolare per l’Italia: la prima nei riguardi di una più larga partecipazione del popolo alla vita politica e sociale della nazione, la seconda nei riguardi del superamento dottrinale di un magistero che si riteneva ancora interprete unico, o pressoché unico, della religiosità e del sentimento religioso dell’uomo. In quanto ostacoli da superare da parte di chi anelava un cambiamento non restava che auspicare per esse due possibilità: trasformarsi, o perire nel tempo. Perciò più volte Mazzini ha scritto al re a al papa, sollecitando la trasformazione delle due istituzioni per accogliere i fermenti e lo spirito nuovo che il secolo XIX voleva manifestare. La prima istituzione ha dovuto soccombere, e tragicamente, a diNon si tratta di puri enunciati ma di idee che rappresenstanza di un secolo; alla seconda Mazzini rivolge un aptano per Mazzini convinzioni profonde che si accompapello accorato, perché; «...non dimentico l’immenso pasgnano a sentimenti di forte partecipazione dell’anima, so che la fede… fece muovere, sulla via del suo sviluppo, che sfociano nell’azione incessante per la loro realizzaverso il fine assegnato all’Umanità… Ricordo l’amore ai zione. Il suo motto preferito era “Pensiero e Azione”, poveri, agli afflitti, ai diseredati della società... i lavori che egli riuscì ad incarnare eruditi dei vostri Benedetticon la sua vita, perché «L’uoni, l’insegnamento gratuito mo è pensiero e azione, e ciò iniziato, gli istituti di beneche suscita a tradurre il penficenza, le vostre suore delsiero in azione, l’amore» la Misericordia, io ricordo (1850). Con ciò Mazzini ci tutto di voi, e mi prostro dapresenta la sua visione delvanti al vostro passato. Ma l’essere umano, unitario e trivoi, perché in un mondo no, l’uomo che si manifesta dove, per decreto di Dio, nella sua totalità attraverso la tutto muore e si trasforma, vita di pensiero, di sentimenvolete vivere eterni? Perché to, di volontà. pretendete che un passato, Al servizio dell’Unità d’Italia spento ormai da cinquecenegli mette il suo pensiero che to anni d’inerzia e impoteninterpreta il cambiamento dei za, riviva futuro?» (dal tempi; compulsa il sentire del Concilio a Dio, 1870). momento storico e vi aderisce «L’Umanità ebbe la Relicon tutta l’anima; lotta attivagione del Padre e quella del mente e incessantemente perFiglio: date il varco alla reché venga realizzato ciò che i ligione dello Spirito» (Lettempi richiedono. Contro lo tera a Pio IX, 1865). spirito del tempo due massiIl progetto dell’unità d’Itamamente erano le istituzioni lia e della costituzione di che residuavano dal passato, e altre libere nazionalità, riche non avevano più forza di entrava per Mazzini nel disviluppo e valore di rappresegno storico dello spirito sentanza: la monarchia e il padel tempo, perciò a questo pato; due istituzioni storica- Fra il 1831 e il 1834 uscirono a Marsiglia sei fascicoli di La Gio- progetto e a questo spirito mente superate dai tempi che vine Italia, il periodico dell’omonima associazione segreta fonda- ha voluto dedicare la sua tuttavia intendevano esercitare ta da Mazzini vita.


Il potere dei limiti Lo Stato di diritto dall’unificazione nazionale a oggi di Marco Ruotolo Perché scrivere sullo «Stato di diritto» in occasione dei centocinquanta anni dell’Unità d’Italia? Perché l’idea sottesa a quella formula – sottoporre il potere a limiti – è stata sì presente sin dall’unificazione, ma non sempre è stata ed è rispettata. Non lo è stata pienamente nell’Ottocento, allorché la titolarità dei diMarco Ruotolo ritti politici era circoscritta in ragione del censo o del grado di educazione e la stessa eguaglianza nei diritti civili era spesso garantita solo sulla carta. Non lo è stata nel ventennio fascista, che ha determinato una progressiva ibernazione di tutti i postulati dello Stato di diritto. Lo è stata, sia pure con alterne fortune, nell’età repubblicana, grazie ai vincoli posti da una Costituzione rigida, che ha stabilito una serie di garanzie rivolte ad assicurare la separazione e la indipendenza tra i poteri. Ma proprio quei vincoli sono oggi messi in discussione, quando ci si duole del fatto che le istituzioni di garanzia (Presidente della Repubblica, Magistratura, Corte costituzionale) intralcerebbero l’operato di coloro che sarebbero stati “direttamente investiti” dal

La firma della Costituzione italiana

popolo dell’onere di governare. La critica si attesta sull’uso, evidentemente ritenuto distorto, delle prerogative delle predette istituzioni, attaccando l’indipendenza della Magistratura, denunciando la severità della Corte costituzionale nel valutare gli atti normativi voluti dalla maggioranza parlamentare che sorregge il Governo, qualificando come “puntiglioso” l’atteggiamento del Capo dello Stato nell’esercizio del potere di promulgazione delle leggi e di emanazione dei decreti. Sembra emergere, insomma, una crescente insofferenza a quei limiti che, in palese opposizione allo Stato autoritario e di polizia, hanno progressivamente connotato le carte costituzionali con l’obiettivo primario di garantire i diritti di tutti.

“Il potere non deve godere di privilegi, deve sottostare alla legge: tutti sono eguali davanti alla legge, la legge è uguale per tutti. E la legge dovrebbe essere generale ed astratta, senza tener conto delle situazioni individuali” Eppure si legge spesso che il timore è quello di un ritorno allo “Stato di polizia” per effetto dell’operato di una magistratura che sarebbe in larga parte politicizzata. Ma, storicamente, se si è contro lo “Stato di polizia” si è a favore dello “Stato di diritto”, si rivendicano, con forza, li-

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Aula udienza della Corte costituzionale

miti al potere. Non sembra questa, però, la direzione verso cui si vuole andare, essendo la formula “Stato di polizia” usata impropriamente. Per “Stato di polizia” (da polis, politeia) si intende, infatti, quella forma razionalizzata dello Stato assoluto che attribuisce al sovrano il compito di assicurare la felicità e il benessere dei suoi gover-

“Lo Stato di diritto postula la divisione dei poteri, che non possono essere più concentrati e confusi in una sola persona ma debbono essere ripartiti tra diversi organi (Parlamento, Governo, Magistratura), la sottoposizione degli stessi organi esecutivi di vertice alla legge, non potendo questi derogarvi e dovendo l’attività amministrativa trovare fondamento e limite nella previa legge, nonché la garanzia dei diritti, essendo riconosciuto al cittadino il diritto di ricorrere al giudice ogni qual volta il potere minacci le sue libertà” nati, senza però che questi ultimi possano partecipare al governo dello Stato. Lo “Stato di polizia”, insomma, altro non è che una forma di assolutismo illuminato, nel quale non vi è spazio per un pieno riconoscimento dei diritti del cittadino nei confronti del potere pubblico, se non per alcuni aspetti che riguardano il campo patrimoniale. In contrapposizione ad esso, in quanto pur sempre

forma di espressione dello Stato assoluto, si afferma lo «Stato di diritto», postulando la divisione dei poteri, che non possono essere più concentrati e confusi in una sola persona ma debbono essere ripartiti tra diversi organi (Parlamento, Governo, Magistratura), la sottoposizione degli stessi organi esecutivi di vertice alla legge, non potendo questi derogarvi e dovendo l’attività amministrativa trovare fondamento e limite nella previa legge, nonché la garanzia dei diritti, essendo riconosciuto al cittadino il diritto di ricorrere al giudice ogni qual volta il potere minacci le sue libertà. Concrete declinazioni di quei principi si trovano già nella Dichiarazione dei diritti della Virginia del 1776, nonché nella Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto del 1789, la quale solennemente afferma che «Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione» (art. 16). La Costituzione, intesa come l’insieme delle regole fondamentali relative all’organizzazione di una società politica, è dunque tale soltanto se afferma i diritti degli individui verso le autorità e stabilisce regole per l’esercizio del potere, di un potere, dunque, regolato e diviso tra più autorità. Così la storia dello Stato di diritto si intreccia indissolubilmente con quella del costituzionalismo moderno, la cui idea base è appunto quella di sottoporre il potere a regole. Il potere non deve godere di privilegi, deve sottostare alla legge: tutti sono eguali davanti alla legge, la legge è uguale per tutti. E la legge dovrebbe essere generale ed astratta, senza tener conto delle situazioni individuali. Semmai, secondo un postulato proprio dello Stato sociale, la legge può introdurre deroghe, tenendo conto delle situazioni individuali, pur sempre tipizzate, per rimuove-


re gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (secondo la formula dell’art. 3, comma 2, della Costituzione italiana). Quest’ultima possibilità, che in realtà dovrebbe essere riguardata come un dovere della nostra Repubblica, induce ad un’altra considerazione che attiene alla compatibilità dei principi dello Stato di diritto con diverse forme di Stato. Come dimostra la storia, quei principi si sono infatti rivelati compatibili dapprima con lo Stato liberale, nel quale hanno trovato affermazione, poi con lo Stato sociale che, preoccupandosi di rendere effettivi i diritti di libertà, pretende, attraverso la rimozione delle diseguaglianze di fatto, di assicurare a tutti un minimo di beni materiali per consentire il pieno sviluppo della personalità di ciascuno.

“I principi dello Stato di diritto (divisione dei poteri, legalità dell’amministrazione, riconoscimento e garanzia dei diritti fondamentali) ruotano, dunque, attorno ad un minimo comun denominatore: il principio dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge” I principi dello Stato di diritto (divisione dei poteri, legalità dell’amministrazione, riconoscimento e garanzia dei diritti fondamentali) ruotano, dunque, attorno ad un minimo comun denominatore: il principio dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Quest’ultimo si esprime anche nella parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, non a caso considerato dalla Corte costituzionale come principio che sta «alle origini della formazione dello Stato di diritto» (sent. n. 24 del 2004). Ecco che il discorso sullo Stato di diritto si incontra, intrecciandosi, con i temi della legalità e della democrazia. E si fa complesso, coinvolgendo, tra l’altro, anche la questione relativa alla modalità di composizione delle Assemblee elettive, che dovrebbe essere tale da garantire la rappresentanza delle diverse forze sociali e politiche. In assenza di un sistema effettivamente rappresentativo può, infatti, crescere la capacità di resistenza del potere alle regole o comunque può risultare più facile modificare le regole conformandole alle esigenze del potere. Paradossalmente, il potere si potrebbe muovere nel rispetto della legalità formale, pre-conformata in ragione delle sue esigenze, e del principio democratico, ove declinato in termini di mera democrazia d’investitura, la quale presuppone che

la sovranità emani dal (e non appartenga al) popolo. In più semplici parole, l’“eletto” tende ad affermare la sua onnipotenza proprio in base al voto accordatogli, in nome di una presunta “democrazia immediata”, che gli dovrebbe consentire di cambiare le leggi (possibilmente anche quelli costituzionali) a proprio piacimento e comunque di svincolarsi agevolmente dal rispetto dei limiti che il sistema normativo prevede per l’esercizio del potere. La maggioranza degli elettori ha dato ai titolari del potere fiducia mediante il voto, ergo essi possono esercitare il potere di governo senza limiti.

“Non tutto ciò che è consentito dalla legge può ritenersi «legittimo» potendo configurarsi come non compatibile con i precetti costituzionali” È qui che l’aggettivo «costituzionale» assume un peso determinante per presidiare l’idea stessa di Stato di diritto. La legalità, infatti, è anche (o meglio sopratutto) legalità costituzionale, la democrazia è anche (o meglio soprattutto) democrazia costituzionale. Non tutto ciò che è consentito dalla legge può ritenersi “legittimo” potendo configurarsi come non compatibile con i precetti costituzionali. Come ha scritto Fromont, accanto alla legittimità democratica che si esprime attraverso il Parlamento, il Governo e gli altri organi dello Stato, si impone la necessità di tenere conto di una legittimità democratica, ancora più profonda, che si esprime attraverso il testo della Costituzione e la giurisprudenza che si sviluppa a partire da essa. D’altra parte non è forse ambizione democratica il “sottoporre il potere a regole”? E, poi, la democrazia costituzionale non si traduce forse, soprattutto, in possibilità di controllo dei cittadini sull’esercizio del potere? La sovranità – recita l’art. 1, comma 2, Cost. – appartiene al (non emana dal) popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. La democrazia costituzionale impone il rispetto delle minoranze e dei diritti fondamentali dell’individuo, e postula l’esigenza di un eterocontrollo rispetto all’operato delle forze di governo, di un sindacato ad opera di autorità indipendenti da queste ultime (Magistratura, Presidente della Repubblica e Corte costituzionale). È qui che il concetto di limite si coniuga nuovamente con quello di garanzia, segnando, come ha scritto Lorenza Carlassare, «il punto di congiunzione fra costituzionalismo e democrazia». L’esigenza di «portare limiti all’assolutezza del potere, evitarne gli arbitri e gli abusi», che connota l’idea di Stato di diritto, caratterizza, insomma, la stessa democrazia costituzionale. La matrice comune è quella del limite al potere posto a garanzia dei diritti. È la propaggine ultima dello Stato di diritto: lo Stato democratico di diritto.

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«Marzo 1821» La vicenda linguistica dell’italiano dopo l’Unità d’Italia di Claudio Giovanardi no di età occorrerà aspettare il 1962. I grandi movimenti Nell’ode Marzo 1821 Alessandro Manzoni scrimigratori interni insieme alla leva militare obbligatoria ve dei versi rimasti famocrearono ulteriori condizioni favorevoli alla ricerca di si: «Una gente che libera una lingua comune nella comunicazione tra dialettofoni tutta, / o fia serva tra di diversissima origine. I rilevamenti statistici decennali l’Alpe ed il mare; / una ci dicono che l’analfabetismo inizia un’irreversibile curd’arme, di lingua, d’altava discendente che arriverà a percentuali molto basse, re, / di memorie, di sananche se non del tutto irrisorie, dei giorni nostri. gue e di cor». L’auspicio manzoniano si rivelò par“Alla proclamazione del regno d’Italia, nel ticolarmente ostico pro1861, e di Roma capitale, nel 1870, tre prio in fatto di lingua, un quarti della popolazione italiana era elemento fondamentale Claudio Giovanardi della coesione nazionale, analfabeta, con punte che toccavano il al pari della religione e dell’esercito, ma quanto mai im90% nel sud” probabile per il nascente Stato unitario. Alla proclamazione del regno d’Italia, nel 1861, e di Roma capitale, nel 1870, sappiamo che tre quarti della popolazione itaA partire dai primi decenni del Novecento sono entrati liana era analfabeta, con punte che toccavano il 90% nel in campo i grandi mezzi di comunicazione di massa: sud. Il Paese era drammaticamente diviso tra chi sapeva giornali, radio, e successivamente la televisione, per fiesprimersi in italiano (un’infima minoranza non supenire con internet e la rete telematica. I loro meriti nella riore al 10% della popolazione) e chi aveva come unica diffusione della lingua italiana sono stati celebrati a più risorsa il dialetto, anche se possiamo immaginare qualriprese, sia pure considerando numerose contraddizioni. che livello intermedio di compromesso tra lingua e diaLa televisione, ad esempio, è stata da più parti accusata letto nella comunicazione parlata. La grande frammentadi aver tradito la missione per cui era nata: istruire, inzione linguistica ereditata da secoli di divisioni politiche formare, divertire. Dopo aver portato l’italiano nelle cae dalla mancanza di un centro amministrativo in grado se degli italiani dopo aver costituito per alcuni decenni di imporre la propria lingua al resto del Paese pesavano un modello di riferimento importante e autorevole, a ancora come macigni sul neonato Stato italiano. partire dagli anni Ottanta ha progressivamente dato spaA partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento si avvia il zio a un italiano colloquiale, basso, aperto al turpiloquio lento processo di italianizzazione linguistica degli italiae alla banalità espressiva. Da televisione modello, inni che giunge a compimento, nel suo complesso, solo somma, a televisione specchio delle peggiori abitudini negli anni più recenti. Cerchiamo di ricostruire le princilinguistiche. pali tappe del lungo percorso. Di fatto la diffusione dell’italiano come lingua parlata Un ruolo fondamentale nella diffusione della lingua fu dalla stragrande maggioranza degli italiani non risale senza dubbio rappresentato molto indietro nel tempo. dal progressivo innalzaNel 1993 Tullio De Mauro mento dell’età dell’obbligo ed altri pubblicarono il Lesscolastico, che consentì a sico di frequenza dell’itamasse crescenti di indiviliano parlato, un’opera che dui di entrare in contatto sancì la raggiunta unità lincon l’italiano, seppure in guistica della nazione. Ma modo approssimativo e rucome spesso accade, il culdimentale. Si avverava, inmine di un processo è ansomma, la previsione del che la fase d’avvio di quelglottologo Graziadio Isaia lo successivo. Negli ultimi Ascoli, il quale legò la difanni almeno due questioni fusione della lingua all’insi affacciano prepotentenalzamento del livello culmente alla ribalta linguistiturale della popolazione. È ca: la risorgenza dei partibene ricordare che per arri- Il maestro Alberto Manzi che, con la trasmissione televisiva Non è colarismi locali e il fenovare all’obbligo scolastico mai troppo tardi (1959-1968) ha insegnato l’italiano dal piccolo meno sempre più massiccio fino al quattordicesimo an- schermo dell’immigrazione clande-


stina e non. Appena toccato il massimo livello di unità linguistica nazionale, alcuni movimenti politici hanno cominciato una massiccia propaganda contro l’organizzazione unitaria e accentrata dello Stato per rivendicare autonomie finanziarie, amministrative e anche linguistiche. Da più parti la rivendicazione identitaria delle “piccole patrie” si è incarnata anche nella rivalutazione delle parlate locali anche in contesti pubblici. I dialetti, dati per moribondi solo pochi decenni fa, sembrano dunque aver trovato nuova linfa e nuove occasioni, intrecciando una dialettica più articolata con la lingua nazionale. Di non facile soluzione

Una mappa dei dialetti italiani

“Nell’ode Marzo 1821 Alessandro Manzoni scrive dei versi rimasti famosi: «Una gente che libera tutta, / o fia serva tra l’Alpe ed il mare; / una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor»” appare anche il problema dell’impatto linguistico prodotto dal crescente numero di immigrati, per lo più parlanti lingue tipologicamente assai diverse dall’italiano. Soprattutto nella scuola primaria il disagio di classi multilinguistiche non sempre viene affrontato e superato con i dovuti strumenti didattici, con conseguente possibilità di reazioni infastidite e talvolta xenofobe. Va detto che sinora è mancata una vera e propria politica linguistica in favore degli immigrati, quasi non si voglia capire, da chi di dovere, che il senso di benessere sociale passa inevitabilmente attraverso il benessere linguistico. Per di più, un’attenta politica linguistica potrebbe fare dell’italiano la lingua di riferimento di un’ampia parte del bacino del Mediterraneo, dove già oggi la nostra lingua, appresa per lo più spontaneamente grazie ai programmi televisivi, gode di una diffusione spesso insospettabile (chi ha riflettuto sui motivi per cui i migranti magrebini sbarcati sulle nostre coste negli ultimi mesi parlano quasi tutti un

italiano comprensibile anche se rudimentale?). L’italiano, come tutte le lingue vive, è in continua trasformazione, e tale trasformazione è fortemente orientata dai fenomeni socioculturali che ogni fase storica trascina con sé. In tale quadro, ad esempio, è sotto gli occhi di tutti la pressione esercitata dall’inglese d’America sulla nostra lingua. Inutili anglicismi affollano non solo la comunicazione privata (pubblicità, “aziendalese” etc.) ma anche la comunicazione pubblica creando spesso imbarazzi nella comprensione dell’uomo della strada. Cos’è una class action? Cos’è una smart card? E una social card? E il reato di stalking? Purtroppo a questa vana profusione di pseudotecnicismi non corrisponde affatto un incremento della conoscenza delle lingue straniere, un aspetto per il quale siamo drammaticamente ancorati agli ultimi posti della classifica mondiale.

“La grande frammentazione linguistica ereditata da secoli di divisioni politiche e dalla mancanza di un centro amministrativo in grado di imporre la propria lingua al resto del Paese pesavano ancora come macigni sul neonato Stato italiano” Spinte e controspinte endogene ed esogene premono ogni giorno sulla nostra lingua e ne modellano il profilo. Ma il passo lungo dei secoli trascorsi ci ha consegnato un patrimonio che è rimasto a lungo confinato nei testi letterari o scientifici o giuridici, e che oggi, invece, debitamente aggiornato e trasformato, risuona sulla bocca della gran parte degli italiani. Sta a noi apprezzare questa immensa ricchezza e difendere con orgoglio la nostra lingua, senza cadere in tentazioni difensivistiche o xenofobe, ma nella ribadita consapevolezza (che già era del Manzoni citato in apertura) che senza una lingua unitaria non c’è nazione che tenga.

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Un concerto di voci diverse Unità d’Italia: la costruzione radiofonica dell’identità di Enrico Menduni La radio ha dato un forte rumori) da un’emittente a tutti gli apparecchi riceventi contributo all’identità itacontenuti entro un’area di ricezione teoricamente circolaliana essenzialmente per re. Marconi tentò in realtà di entrare nel broadcasting ma tre motivi. In primo luogo non vi riuscì con la stessa preponderante quota di mercato perché è stato insieme al che aveva conquistato nella radiotelegrafia; soprattutto in cinema il primo medium Italia: l’Uri da lui indirettamente controllata lasciò presto non alfabetico, capace di il posto all’Eiar (1926), una società formalmente privata rivolgersi contemporaneama considerata di pubblico interesse e controllata indiretmente ai colti e agli analtamente dal governo, che agiva in un regime di convenziofabeti, alle classi dirigenti ne venticinquennale con lo stato (1927), che al suo termie ai ceti più umili. Inoltre, ne fu rinnovata con l’erede postfascista dell’Eiar, la Rai in questo caso per la pri(1952). Marconi ebbe invece un ruolo importante nella coma volta, permetteva di struzione della Radio Vaticana (1931). Enrico Menduni trasmettere gli eventi simultaneamente al loro svolgimento e non, come per i libri “La radio ha dato un forte contributo e i giornali, ma anche il cinema, commentandoli a posteall’identità italiana. Rispetto alla scuola ha riori. Infine, la radio ha dispiegato una grande capacità di intrecciare intrattenimento e cultura, informazione e spetaccompagnato la vita delle persone per tacolo, così da rappresentare insieme un medium dell’intitutto il suo arco, e non solo durante la mità e del privato, e allo stesso tempo uno strumento di fanciullezza; rispetto al servizio militare confronto fra la sfera pubblica e la vita quotidiana della non si è rivolta solo agli uomini ma anche gente comune. Per queste sue caratteristiche la radio ha contribuito a “faalle donne, anzi particolarmente a loro per re gli italiani” in un modo molto più esteso e inclusivo (dila sua collocazione all’interno della sfera rei “generalista” per attingere al linguaggio gergale dell’adomestica e familiare” nalisi dei media) di altri strumenti. Rispetto alla scuola ha accompagnato la vita delle persone per tutto il suo arco, e non solo durante la fanciullezza; rispetto al servizio miliNegli anni Venti e Trenta la radio non è lo strumento dotare non si è rivolta solo agli mestico degli anni successiuomini ma anche alle donvi; l’alto costo degli appane, anzi particolarmente a recchi ne fa un oggetto altoloro per la sua collocazione borghese; tutti gli altri all’interno della sfera domeascoltano la radio a casa di stica e familiare. un vicino più facoltoso, opNon ha invece inciso partipure – prevalentemente – in colarmente il fatto che – traluoghi pubblici, organizzadizionalmente – si ritiene zioni del regime, circoli ril’italiano Guglielmo Marcocreativi. Il fascismo adotta ni l’inventore della radio. l’impostazione del servizio L’invenzione di Marconi, ripubblico radiofonico prosalente al 1895, è in realtà la pria della Bbc inglese radiotelegrafia, un sistema (“educare, informare, intratdi comunicazione punto a tenere” – in rigoroso ordine punto senza fili, sviluppato di apparizione), naturalmendopo il 1901 per le comunite adattandola all’ideologia cazioni transoceaniche e, e alle esigenze pratiche del dopo il 1906, in grado di regime. Da questo punto di trasmettere la voce umana. vista la radio fascista rapSoltanto negli anni Venti la presenta una “variante autoradiotelegrafia diventa anritaria” del servizio pubbliche broadcasting, ossia traco, che sarà poi cancellata smissione circolare di con- Guglielmo Marconi (Nobel per la fisica 1909) è il padre della tele- dall’esito della seconda tenuti sonori (voce, suoni, grafia senza fili guerra mondiale e dalla


sconfitta del fascismo. Non è vero invece che l’Eiar sarà totalmente asservito al regime: il fascismo controlla l’informazione politica, usa la rete radiofonica come altoparlante per portare i discorsi di Mussolini nelle piazze di tutti i borghi d’Italia, ma lascia ampi spazi per la musica e l’intrattenimento. Nel dopoguerra il numero degli apparecchi e degli abbonamenti privati alla radio cresce notevolmente e la radio diventa l’ospite fissa delle case degli italiani: uno strumento di comunicazione di tipo familiare che avrà un ruolo notevolissimo nella diffusione della lingua nazionale e nella formazione di uno stato democratico fondato sì sul lavoro (e un lavoro assai duro, all’epoca) ma rivolto alla conquista del benessere. Ciò avverrà senza rivali fino alla seconda metà degli anni Cinquanta, quando la radio sarà bruscamente soppiantata, nella sua natura di strumento familiare e di “nuovo focolare” domestico, dalla televisione. Questa eclissi negli anni Sessanta ha fatto dimenticare anche ad alcuni studiosi, a vantaggio della tv e del cinema (soprattutto la commedia all’italiana), le funzioni di unificazione linguistica e culturale della radio; funzioni che sono invece notevolissime.

lutare l’apporto di questo continuo dialogo alla costruzione di un’identità nazionale: la radio diventa il primo mezzo di comunicazione interattivo già negli anni Sessanta, mentre la tv è ancora oggi uno strumento essenzialmente unidirezionale. Alla luce di queste considerazioni, le riflessioni sdegnate dell’intellettualità tradizionale umanistica nei confronti delle “vane chiacchiere radiofoniche” (poi definite con il termine volgare – sdoganato come altri – “cazzeggio”) risultano di particolare miopia. Quel fitto scambio di informazioni e sensazioni costituiva invece un tessuto condiviso di elementi identitari. Ciò diventa più evidente quando, negli anni Settanta, la radio – prima della tv – diventerà plurale: libera, politica, privata, commerciale. Possiamo stabilire, se vogliamo, un paragone con un’identità nazionale che comincia a frammentarsi: regionale, etnica, di appartenenza. Un concerto di voci diverse, anche discordanti, talora stonate, che prevale sulla composizione unitaria che a qualcuno comincia a sembrare artefatta, cerimoniale, forzata rispetto a una prepotente affermazione delle differenze. Anche in queste forme la radio reca il suo contributo alla costruzione e alla rappresentazione della (delle) identità dell’Italia, in forme particolari rispetto ad altri media. Intanto, la radio è contraddistinta oggi da una sostanziale “Nel dopoguerra il numero degli gratuità: gli apparecchi hanno un costo marginale, l’aapparecchi e degli abbonamenti privati scolto è gratuito, ubiquo, generalizzato. Le soglie di acalla radio cresce notevolmente e la radio cesso (il “fare radio”) sono molto più ridotte rispetto agli altri media e, con l’affermazione di internet, ulteriormendiventa l’ospite fissa delle case degli te abbassate. Il rapporto con la propria comunità di italiani: uno strumento di comunicazione ascoltatori è particolarmente vivo, identitario, per niente di tipo familiare che avrà un ruolo “generalista”, e caratterizzato da uno scambio a due vie: notevolissimo nella diffusione della lingua gli ascoltatori grazie al telefono – meglio se cellulare – non solo commentano, ma di fatto “producono” i contenazionale e nella formazione di uno stato nuti radiofonici. democratico fondato sì sul lavoro, ma Internet non è un concorrente della radio, ma un preziorivolto alla conquista del benessere” so strumento che ne esalta e moltiplica le caratteristiche più innovative: quel suo essere, e da tempo, un medium Se la televisione determina un’eclissi della funzione famipersonale, mobile e interattivo. Dal 1995 l’associazione liare della radio, ne accentua invece la dimensione persofra la rete e l’audio è definitivamente stabilita e attranale. La radio diventa un arredo delle camere dei giovani verso Internet è possibile facilmente produrre, diffondee, grazie alla diffusione (dal 1955) degli apparecchi a re e scaricare contenuti audio, sia fra pari (“peer to transistor, il primo medium mobile, che si può portare in peer”), sia da un’emittente: anche in diretta (o quasi, giro o ascoltare in automobile. Presto il telefono sarà insel’intervallo è di pochi secondi) attraverso lo streaming. rito nelle trasmissioni radiofoniche, prima da parte dei È possibile dunque a un’emittente replicare via web corrispondenti che grazie a esso si collegano in diretta con quanto trasmette via etere (simulcasting), ma anche la redazione, ma subito dopo come forma di intervento creare delle web radio, delle emittenti esclusivamente della gente comune all’interno ascoltate sul web. In entrambi i delle trasmissioni, in un rapporto casi internet permette alla radio di di pari dignità che non si risconsuperare i limiti di tempo e spazio tra nelle telefonate televisive (in propri del mezzo: l’area di ricecui esse sono poco più di un gadzione non è più limitata alla poget del programma). Il telefono tenza dell’antenna, ma coincide diventa quindi sia uno strumento con il mondo. Non si è più vincoproduttivo del flusso radiofonico, lati all’ascolto in diretta, ma si che relazionale: la modalità attrapuò riascoltare i contenuti quando verso cui il pubblico interagisce si vuole, anche su un proprio strucon l’emittente e produce a sua mento portatile (podcast). In quevolta un contenuto audio che vieste forme innovative la radio conDagli anni Novanta è possibile non soltanto produrre, ne, con determinati filtri e a de- diffondere e scaricare via internet ma anche creare tinua a compiere il suo dovere per terminate condizioni, mandato in delle web radio, delle emittenti esclusivamente ascol- plasmare e rappresentare le identionda in diretta. Difficile sottova- tate sul web tà del paese.

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Brand italiano Il futuro è sintesi e coerenza di Carlo Alberto Pratesi Mai come in questi ultimi anni la marca ha acquisito importanza. Sorprende pensare che fino all’inizio del secolo scorso il marchio era qualcosa di utile solo a distinguere la proprietà dei capi di bestiame (non è un caso se l’etimo è quello di “marchiatura”), per proteggere gli allevatori dai furti: e che solo a partire dagli anni venti ha iniCarlo Alberto Pratesi ziato ad essere utilizzato come strumento di comunicazione e di marketing. Il passaggio è avvenuto quando ci si è resi conto che, in molti settori merceologici, non era così facile distinguere in modo oggettivo l’offerta di un produttore da quella di un concorrente e quindi, per potersi differenziare soprattutto in termini di prezzo, occorreva un elemento che creasse una preferenza da parte del consumatore: un vantaggio competitivo che nel tempo si è basato sempre di più su aspetti intangibili, come una maggiore affidabilità del prodotto o una garanzia di qualità. Oggi la marca (più spesso chiamata col termine inglese “brand”) è portatrice di attributi di diversa natura - estetici, culturali ed etici - e, in molti mercati, rappresenta il vero capitale su cui si basano i risultati economici delle aziende. Infatti, se ben tutelata, e gestita all’interno di una più ampia politica di branding, è l’unica risorsa non imitabile dai concorrenti. Costruire dal nulla una marca è molto costoso ed è tutt’altro che facile: non è quasi mai sufficiente un cospicuo investimento comunicazionale che crei la giusta notorietà del logo tra il pubblico. Prova ne è che i brand che hanno un valore di mercato realmente elevato, e che consentono all’azienda di capitalizzare gli sforzi fatti, sono pochissimi. E sono quelli che nel tempo - a prescindere dalla oggettiva migliore performance dei prodotti sui quali vengono apposti consentono a chi li utilizza di imporre un prezzo superiore rispetto alla media di mercato (il cosiddetto premium price); di tenere legati a sé i clienti (customer loyalty); di ampliare la gamma anche in categorie merceologiche diverse (brand extension). Non c’è dubbio che anche nel confronto internazionale tra diversi paesi il brand conti, e non poco. Al riguardo basta consultare i molti studi effettuati sul country of origin effect, che di-

mostrano come una “marca paese” di valore offra un vantaggio competitivo alle produzioni e ai prodotti che insistono su quel territorio. Il fenomeno è tradizionalmente molto evidente nel caso dei prodotti alimentari, per esempio nel settore viti-vinicolo (come accade per i vini francesi o il whiskey scozzese), ma vale in misura maggiore o minore in quasi qualunque settore merceologico (auto tedesche, sigari cubani, orologi svizzeri etc.). Finora l’Italia, almeno nei tradizionali settori nel quale è stata presente (che poi sono le tre F: fashion, food e furniture) ha tratto un notevole beneficio dalla sua “marca”. Prova ne sono le azioni di “italian sounding” messe in atto da produttori di diverse parti del mondo, imitando in modo fraudolento (ma evidentemente efficace da un

“Oggi la marca (più spesso chiamata col termine inglese “brand”) è portatrice di attributi di diversa natura - estetici, culturali ed etici - e, in molti mercati, rappresenta il vero capitale su cui si basano i risultati economici delle aziende. Infatti, se ben tutelata, e gestita all’interno di una più ampia politica di branding, è l’unica risorsa non imitabile dai concorrenti” punto di vista commerciale) prodotti, colori e nomi tipicamente italiani: un segnale che in termini strettamente comunicazionali ha una valenza positiva. In fondo chi imita prende come riferimento il leader, non certo un qualunque concorrente. E altrettanto si potrebbe dire per quanto riguarda il mondo del tessile e dell’arredamento, dove a parità di altre condizioni tendenzialmente si preferisce il prodotto italiano. Questo, tuttavia, non implica che l’Italia possa essere considerata a tutti gli effetti una buona “marca”, dato che in molti altri settori merceologici (per esempio quello dell’alta tecnologia) l’origine italiana non sembra aggiungere granché al valore del prodotto. Anzi, in alcuni casi tende a ridurne il valore percepito. Se si escludono i marchi di alta gamma (tipo Ferrari e Armani) che portano lustro all’Italia ma vivono di luce propria, la situazione complessiva non è eccellente. E questo paradossalmente accade anche nel nostro “core business” - l’alimentare - quando un’azienda


Esempi di italian sounding: imitazioni del parmigiano e del Chianti

punta ad un posizionamento competitivo di fascia alta. Emblematico al riguardo il caso del gelato Häagen Dazs, o quello del caffè Starbucks: tutti concept di prodotti tipicamente italiani, per i quali si è comunque preferito scegliere un nome di fantasia che suonasse nordeuropeo, proprio per dare un segnale ai consumatori di maggiore qualità. Più in generale, il valore oggettivo di un marchio “paese” può essere misurato sulla base della sua estensibilità, intesa come: (1) potenzialità di utilizzo dello stesso in diverse categorie merceologiche, acquisendo in ogni ambito un vantaggio competitivo (brand stretching); (2) capacità di essere riconosciuto e apprezzato al di là dei consueti confini geografici, quindi anche in nuovi mercati di sbocco (globalizzazione); (3) mantenimento del proprio appeal nel tempo, superando i limiti generazionali e i mutati scenari (resilienza). Insomma: un brand paese di successo è tale se non rimane ancorato al passato, non vive solo all’interno di una nicchia e non è soggetto alle mode. In questa ottica, dunque, la sfida è quella di rafforzare il marchio Italia affinché possa rafforzare la nostra posizione competitiva su tutti i mercati internazionali. Un risultato di questo tipo lo si ottiene facendo leva su due capacità strategiche: (a) sintesi e (b) coerenza. a - La capacità di sintesi consente a un marchio di focalizzarsi su pochi elementi valoriali. Il presupposto di fondo è che un paese non possa comunicare tutto attraverso il proprio nome, specialmente se vuole essere persuasivo. Invece, in molti casi si assiste a campagne di comunicazione scoordinate che portano a situazioni paradossali, perché veicolano messaggi contraddittori. È frequente che nel momento in cui ci si promuove sul mercato prevalga la tentazione di eccedere nelle promesse, per non perdere alcune opportunità commerciale e non precludersi possibili target di domanda. Ma questo è un rischio che porta facilmente all’indeterminatezza e alla perdita di una chiara identità (che è il presupposto della capacità competitiva nel confronto internazionale). La decisione (difficile) che va presa è dunque quella di selezionare gli attributi che si ritengono credibili (in termini di proprie capacità) e attrattivi per il mercato. La domanda a monte di un qualunque processo di branding dovrebbe quindi essere: quali valori riteniamo che il marchio Italia debba e possa incarnare? E non si tratta di fare una lista (quello sarebbe facile) ma una selezione di tre massimo quattro attributi possibilmente non antagonisti. Tradizione o modernità? Spensieratezza o

impegno? Imprenditorialità o welfare? Natura e cultura o gastronomia e moda? Esclusività o risparmio? Berlusconi o Draghi? Al riguardo, sarebbe per esempio necessario decidere se l’immagine del Made in Italy debba essere presentato come il prodotto del talento di alcuni imprenditori di successo, o invece come il risultato del comportamento di acquisto e di consumo di cittadini colti e quindi esigenti (grazie alla nostra storia) che hanno educato le imprese ad offrire il meglio per vivere bene? b - Coerenza: per mantenere e consolidare nel tempo e nello spazio i risultati raggiunti, nonostante l’avvicendarsi delle diverse mode e il succedersi della generazioni, è indispensabile che i valori fondanti del brand vengano mantenuti e rafforzati nelle diverse attività di comunicazione, siano esse internazionali, nazionali o locali. Inutile negare che oggi il problema di fondo di un qualunque brand di successo è la sua “precarietà”, questo vale per i prodotti, per le aziende ma anche per i paesi e territori. Basta osservare gli scenari di mercato, per accorgersi che la velocità del cambiamento e delle informazioni che circolano non consentono più a una marca di resistere nel tempo, a meno di un costante impegno di chi ne detiene i diritti nel riconquistare giorno dopo giorno i suoi interlocutori, sviluppando comunicazione e offerte coerenti con i suoi valori di fondo. Purtroppo in Italia la tendenza a reinventare messaggi e operazioni sempre nuove, e a fare i distinguo tra regioni, provincie o comuni (in alcuni casi addirittura contrade all’interno della stessa città) non aiuta mantenere la coerenza e riduce fortemente l’identità del paese. Non aiuta neanche il fatto che la promozione del nostro paese all’estero venga portata avanti da diversi attori (Ice, Ambasciate, Camere di commercio, istituti di cultura etc.), raramente in sintonia tra di loro (il più delle volte in concorrenza), per conto di committenti diversi (regioni, provincie, associazioni di categoria) secondo strategie ben poco coordinate. Costruire un brand che offra un vantaggio competitivo al paese richiede in definitiva due doti - sintesi e coerenza - che sono ben poco presenti in Italia. Ma, d’altra parte, senza di queste non c’è possibilità di governare la nostra identità, con il rischio di continuare ad essere percepiti dagli altri secondo gli stereotipi più banali. Imporre sintesi e coerenza richiede scelte a volte impopolari, ma indispensabili per la nostra futura competitività.

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La questione meridionale Problema irrisolto dell’Italia unita di Mariano D’Antonio A 150 anni dalla proclamazione dell’unità d’Italia rimane ancora aperta una grande frattura che vede il nostro Paese spaccato in due: da una parte si collocano le regioni del Centro-Nord caratterizzate da livelli di benessere, da condizioni di sviluppo, di lavoro, di civiltà, prossimi e in alcuni casi anche migliori delle aree più ricche Mariano D’Antonio d’Europa; dall’altra parte si colloca il Mezzogiorno, l’insieme dei territori che si estendono a sud di Roma, dove le popolazioni sono afflitte da povertà, disoccupazione, mancanza d’infrastrutture (trasporti, servizi telematici, d’istruzione, servizi sanitari, strutture per il tempo libero), insomma hanno scarse prospettive di migliorare il proprio tenore di vita. La distanza tra chi ha molto e chi ha poco o nulla, è cresciuta nel corso dei decenni e oggi rischia di diventare cronica, insanabile, tanto da prefigurare un nuovo assetto politico costituito da due entità indipendenti, due Stati, collocati in una federazione con deboli legami tra gli uni e gli altri. Se ciò accadesse, svanirebbe il sogno dei patrioti che, dal Risorgimento alla nascita della Repubblica, si sono battuti fino a sacrificare la vita per l’Italia unita, per una nazione degna di occupare un posto di rilievo, di far sentire la propria voce forte e autorevole nel consesso internazionale.

nel resto d’Italia la disoccupazione coinvolge appena 6 su cento persone attive, dunque meno della metà. Nel primo decennio di questo nuovo secolo si assiste ad una ripresa degli spostamenti di popolazione dal Sud al Nord d’Italia. Emigrano ora dal Mezzogiorno soprattutto i giovani dotati di titoli di studio medio-alti (diplomati e laureati) che non trovano nelle proprie terre opportunità di lavoro. Quest’emigrazione, a differenza di quella che agli inizi e a metà del Novecento svuotò le campagne meridionali di braccianti analfabeti, rappresenta ora un’emorragia di capitale umano che compromette il futuro dell’economia meridionale. Sono aumentati, poi, tra i meridionali, quelli che fanno i pendolari su lunga distanza: partono il lunedì di notte da Napoli, da Bari o da Palermo, raggiungono una sede di lavoro (una fabbrica, un ufficio, una scuola per insegnare), in una regione distante a volte centinaia di chilometri, ritornano nelle loro famiglie il venerdì sera per ripartire all’inizio della settimana successiva. Il pendolarismo è in molti casi l’anticamera dell’emigrazione definitiva, del trasferimento di residenza al Nord, se e quando le condizioni lo permetteranno. Com’è potuto accadere tutto ciò? Perché la cosiddetta questione meridionale è rimasta irrisolta e si è anzi aggravata dopo 150 anni d’Unità d’Italia?

“La condizione attuale del Mezzogiorno appare desolante. Se poniamo uguale a 100 l’indicatore della ricchezza prodotta per abitante nel Centro-Nord, lo stesso indicatore si colloca nel Mezzogiorno a livello di 60, cioè 40 punti percentuali più in basso. Tra i cittadini del Mezzogiorno oggi 13 su cento non hanno un lavoro, mentre nel resto d’Italia la disoccupazione coinvolge appena 6 su cento persone attive, dunque meno della metà” La condizione attuale del Mezzogiorno appare desolante. Se poniamo uguale a 100 l’indicatore della ricchezza prodotta per abitante nel Centro-Nord, lo stesso indicatore si colloca nel Mezzogiorno a livello di 60, cioè 40 punti percentuali più in basso. Tra i cittadini del Mezzogiorno, i meridionali, oggi 13 su cento non hanno un lavoro, mentre

Briganti del Sud dopo l'Unità d'Italia


A queste domande si due obiettivi: libertà di possono dare risposte commercio e risanasommarie ed emotive, mento del bilancio che sono assai diffuse pubblico. Fu così dinegli ultimi anni nell’ostrutta la gracile indupinione pubblica tanto stria nascente al Sud e al Nord quanto al Sud. la popolazione meriUna risposta, assai predionale fu gravata sente tra i cittadini del d’imposte odiose come Settentrione, individua la tassa sul macinato, la responsabilità della un’imposta sulla macimiseria dei meridionali nazione del grano e dei nei meridionali stessi: cereali in genere. sono, si dice, un popolo L’ a m m i n i s t r a z i o n e pigro, abituati al dolce pubblica fu trasformata far niente, abbagliati dal Lo sbarco di emigranti meridionali nel porto brasiliano di dos Santos sul modello del Piesole e dal mare, pronti a monte. Fu introdotta la divertirsi piuttosto che a rimboccarsi le maniche, a lavoleva militare obbligatoria privando le famiglie contadirare sodo. La risposta che viene dall’altra parte, dai mene di giovani già impegnati nel lavoro dei campi. Le ridionali, è ugualmente sommaria e superficiale: siamo conseguenze sociali furono devastanti: bande di briganpoveri perché da un secolo e mezzo, dall’unificazione ti funestavano le campagne meridionali, alimentate dalpolitica del Paese in poi, i settentrionali ci hanno sfruttala propaganda dei Borbone in esilio e sostenute dal cleto, hanno distrutto le nostre industrie, ci hanno sottratto ro rurale, intanto spossessato delle terre già in proprietà i nostri risparmi dirottandoli, grazie al sistema bancario, della Chiesa. verso il Nord, dominano politica, economia e amminiI successivi governi della cosiddetta Sinistra storica, dustrazione pubblica piegandole ai loro interessi. rati dal 1876 al 1896, non fecero di meglio per il MezQueste due risposte sono parziali e insufficienti: l’una è zogiorno: abbandonarono il libero scambio e adottarono, venata di razzismo, l’altra è segnata dal vittimismo. Amsotto la pressione dei capitalisti agrari del Nord, una pobedue non portano da nessuna parte perché in un caso e litica di protezione doganale scatenando guerre commerciali specie con la Francia, che compromisero le espornell’altro accettano lo statu quo come se il distacco tra Nord e Sud fosse una fatalità irrimediabile. tazioni agricole meridionali. Agli inizi del Novecento la Nella storia dell’Italia unita ci sono stati invece momenricchezza per abitante risultava nel Sud di 20 punti perti e occasioni per sanare gli squilibri territoriali, per avcentuali inferiore rispetto a quella del Centro-Nord. Coviare a soluzione la questione meridionale. Non hanno minciava così ad approfondirsi la distanza tra le due Itaavuto grande fortuna ma hanno lasciato traccia di propolie: il reddito per abitante dei meridionali si distaccò da siti, di politiche da rilanciare sia pure modificandole. quello dei settentrionali fino a ridursi, nei primi quarant’ All’indomani del 1861, anno di proclamazione del nuoanni del secolo scorso, a quasi il 50 per cento di quello vo Regno, le condizioni economiche del Mezzogiorno guadagnato nel resto d’Italia. erano apparentemente simili a quelle delle altre regioni italiane: la ricchezza prodotta per abitante, misurata a “Sono aumentati, poi, tra i meridionali, prezzi costanti, era all’incirca uguale al Sud e al Centroquelli che fanno i pendolari su lunga Nord. In realtà l’agricoltura, allora attività produttiva dominante, era gravata nel Mezzogiorno di vincoli sodistanza: partono il lunedì di notte da ciali già superati altrove nel corso dei secoli: da un lato Napoli, da Bari o da Palermo, c’erano grandi proprietari terrieri, i latifondisti, nonché raggiungono una sede di lavoro, in una borghesi che entrambi curavano poco la trasformazione regione distante a volte centinaia di delle terre badando solo a percepire dalle proprietà una rendita; dall’altro lato si collocava la grande massa delle chilometri, ritornano nelle loro famiglie il popolazioni meridionali, costituita da contadini poveri, venerdì sera per ripartire all’inizio della al più fittavoli, e da braccianti senza terra che, lavoransettimana successiva” do stagionalmente, riuscivano a guadagnare salari da fame, necessari appena per sopravvivere. Mancava o era Nella prima metà del Novecento due provvedimenti dei minoritaria una classe di borghesi impegnati in una gegoverni in carica si distinsero da quelli frammentari che stione attiva, capitalistica, della proprietà terriera. L’intentavano di alleviare il malessere del Mezzogiorno pundustria manifatturiera era stata avviata in pochi centri, tando esclusivamente su modesti lavori pubblici. I due come Napoli e il Casertano, dove si era sviluppata graprovvedimenti furono la legge speciale per Napoli del zie alla protezione doganale concessa dai Borbone, che 1904 e l’operazione di bonifica integrale avviata nel 1928 la metteva al riparo dalla concorrenza estera. e divenuta più ambiziosa con una legge del 1933. I due inLa politica economica perseguita dai primi governi delterventi furono dovuti il primo a un economista lucano, l’Italia unita, i governi della cosiddetta Destra storica Francesco Saverio Nitti, e il secondo a un economista e (al potere dal 1861 al 1876), fu indirizzata a realizzare tecnico dell’agricoltura, Arrigo Serpieri, d’origine bolo-

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Una contadina dell'area napoletana in costume tipico

gnese ma formatosi a Milano. Nitti fu il primo a intuire che il futuro del Sud era nell’industrializzazione da promuovere con agevolazioni fiscali e con investimenti dello Stato. La legge speciale per Napoli costituì due aree industriali alla periferia della città, dove grazie alle agevolazioni pubbliche s’insediarono alcune grandi imprese siderurgiche e meccaniche. Serpieri a sua volta elaborò un programma di sistemazione del suolo, di regolazione delle acque, di prosciugamento delle paludi, di formazione della piccola impresa contadina. Il programma interessava tutto il territorio italiano ed ebbe effetti notevoli nell’Agro romano, nella pianura campana e in Calabria. Nelle zone paludose a sud di Roma la malaria rendeva l’ambiente malsano, la vita media della popolazione non superava i quarant’anni. La bonifica rese le terre fertili, favorì il trasferimento di contadini poveri da altre regioni italiane, si accompagnò con la nascita di nuovi centri urbani. La vera svolta nella politica per il Mezzogiorno avvenne tuttavia dopo la seconda guerra mondiale, con l’avvento della Repubblica. Nel clima sociale del secondo dopoguerra, la ripresa della vita democratica e la nascita anche al Sud di grandi partiti politici di massa innescarono nella popolazione meridionale nuove aspettative di progresso sociale. Furono anni di aspre lotte dei contadini meridionali per ottenere lo scorporo delle grandi proprietà terriere, i latifondi, e la distribuzione della terra a piccoli coltivatori. Con una legge del 1950 il governo dell’epoca realizzò la riforma agraria spossessando i latifondi (con indennizzi pagati dallo Stato ai proprietari) e assegnando piccoli appezzamenti di terra a famiglie di contadini poveri. Furono espropriati in tutta l’Italia settecentomila ettari, di cui quattrocentomila nel Mezzogiorno. Nacquero piccole imprese contadine che tuttavia stentarono a crescere anche perché la loro dimensione media era molto modesta (non

più di tre ettari). Intanto nel Nord d’Italia si sviluppava l’industria che attirava popolazione dalle campagne. Cominciò in tal modo la grande emigrazione dal Sud al Centro-Nord, che toccò picchi di duecentomila persone all’anno. In quattordici anni, dal 1952 al 1965, più di un milione e mezzo di persone lasciarono il Mezzogiorno per trasferirsi nel Centro-Nord. La riforma agraria fu accompagnata nel Mezzogiorno con

“Com’è potuto accadere tutto ciò? Perché la cosiddetta questione meridionale è rimasta irrisolta e si è anzi aggravata dopo 150 anni d’Unità d’Italia?” una nuova politica di sviluppo del territorio. L’impegno dello Stato si concentrò dapprima su grandi infrastrutture (sistemazione e bonifica del suolo, trasporti, acquedotti, impianti di disinquinamento, scuole), affidate a un nuovo organismo, la Cassa per il Mezzogiorno, dotato di cospicui stanziamenti pubblici, gestiti con un programma pluriennale e in piena autonomia dalle altre amministrazioni pubbliche. In seguito, l’intervento pubblico, chiamato intervento straordinario per il Mezzogiorno, fu indirizzato verso l’industria con agevolazioni (contributi al capitale) per gli investimenti privati e con investimenti delle imprese partecipate dallo Stato. Nacquero così o si svilupparono nel Mezzogiorno grandi complessi industriali nella siderurgia, nella meccanica pesante, nel settore navale, nella petrolchimica, che però rimasero isolati dal resto dell’economia locale, avendo deboli collegamenti con piccole imprese manifatturiere. Perciò queste grandi fabbriche furono definite dai critici della politica governativa “cattedrali nel deserto”.


Dopo oltre quarant’anostacoli, le cosiddette ni d’intervento straordiseconomie esterne dinario, la Cassa per il alle imprese, ai lavoraMezzogiorno nel 1993 tori, ai ceti professiofu sciolta perché ritenali, che impediscono nuta troppo costosa la crescita economica per il bilancio dello e civile delle popolaStato e poco produttizioni meridionali. Le va di risultati soddisfafinalità che una volta centi. La politica di erano poste esplicitasviluppo del Sud cammente ai primi posti biò obiettivi: fu affida(aumentare il reddito, ta ad organismi proridurre la disoccupamossi dalle regioni (le zione), sono ora consinuove istituzioni di derate come effetti degoverno delle popola- La fabbrica siderurgica ILVA di Bagnoli (Napoli) in costruzione, anni Venti rivanti da altri obiettizioni italiane, nate nel vi quali: estendere e 1970) e ai Ministeri statali, chiamati entrambi a promuomigliorare nel Mezzogiorno la qualità dell’istruzione; covere iniziative di sviluppo locale col sostegno dell’Unione struire asili nido per facilitare le donne nell’accesso al laEuropea. voro; fornire agli anziani l’assistenza domiciliare integrata La nuova politica per il Mezzogiorno avviata dalla fine del con i servizi sanitari; tutelare le risorse naturali, specie le Novecento intende promuove lo sviluppo “dal basso” risorse idriche, riducendone l’inquinamento e accrescendone l’offerta ai cittadini. Questi traguardi sono definiti (bottom-up), affidato cioè agli enti territoriali (regioni, comuni) e agli imprenditori di dimensione medio-piccola, obiettivi di servizio ai quali è indirizzata la politica di sviluppo del Mezzogiorno, sostenuta ancora oggi con financome contrapposto allo sviluppo calato “dall’alto” (topziamenti europei da erogare negli anni 2007-2013. Per ciadown) con grandi imprese di Stato e private sostenute da organismi del governo centrale. Lo sviluppo cosiddetto scun obiettivo di servizio è stato misurato il livello di par“dall’alto” era stato l’orientamento dominante fino allo tenza e il risultato da ottenere al termine dei programmi fiscioglimento della Cassa per il Mezzogiorno. nanziati dall’Unione Europea. Le amministrazioni pubbliLo sviluppo “dal basso” è in sintonia con gli orientamenche meridionali che riescono meglio delle altre a soddisfati della politica di sviluppo regionale dell’Unione Eurore gli obiettivi di servizio, ricevono premi sotto forma di pea, che assegna alle aree economicamente deboli d’Eufinanziamenti aggiuntivi. ropa finanziamenti per migliorare l’ambiente economico (le infrastrutture e la formazione dei lavoratori) e per at“Nella storia dell’Italia unita ci sono stati trarre investimenti esteri provenienti dalle aree più sviinvece momenti e occasioni per sanare gli luppate. squilibri territoriali, per avviare a L’Unione Europea segue nella politica regionale il prinsoluzione la questione meridionale. Non cipio di sussidiarietà che si basa su tre pilastri: l’amministrazione pubblica faccia ciò che i soggetti privati non hanno avuto grande fortuna ma hanno sono in grado di fare con le proprie forze; gli interventi lasciato traccia di propositi, di politiche da pubblici di sostegno ai privati, a lavoratori e imprenditorilanciare sia pure modificandole” ri, siano temporanei, tali da porre i beneficiari in grado di operare in seguito in piena autonomia; gli interventi pubblici siano di competenza dapprima di quel livello di Anche la sicurezza delle persone e dei beni e la tutela governo più vicino ai bisogni dei cittadini e poi dei liveldell’ordine pubblico, che una volta erano considerate li più alti, per intenderci in primo luogo interventi dei coconseguenza di un maggiore benessere economico, sono muni e di altri enti territoriali minori, poi delle regioni, oggi percepite dai cittadini e dai più saggi e onesti espoquindi del governo nazionale e infine dell’Unione Euronenti politici del Mezzogiorno come condizioni e presuppea, secondo l’ampiezza dei problemi da risolvere, proposti della crescita economica. Quindi il contrasto della blemi che sono una volta di portata locale, un’altra volta criminalità organizzata, l’impegno di magistrati e forze di portata nazionale, infine di livello europeo. dell’ordine nella repressione di fenomeni di sregolatezza Il principio di sussidiarietà è stato formulato in epoca moe di devianza sociale, servono ad una più sana convivenderna dal pensiero cattolico, il quale pone al centro dei za civile ma pure a promuovere l’economia meridionale. rapporti economici e sociali la persona umana e la famiLa filosofia che oggi ispira le politiche di sviluppo del glia, che si esprimono e si organizzano nei cosiddetti corpi Sud, cerca di combinare la mobilitazione dei cittadini nel intermedi (associazioni, organismi collettivi, assemblee perseguire finalità di progresso civile, l’impegno delle elettive locali). I corpi intermedi sono istituzioni pubbliistituzioni pubbliche territoriali e dello Stato nel soddiche e private che s’interpongono tra i cittadini e lo Stato. sfare i loro bisogni di vita, il controllo della popolazione La politica di sviluppo del Mezzogiorno ai nostri giorni ha sul comportamento virtuoso o meno dei soggetti responper finalità la soddisfazione dei bisogni essenziali dei citsabili (politici e amministratori pubblici) degli obiettivi tadini rimuovendo al tempo stesso dal territorio quegli di servizio.

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Brigantaggio e ‘ndrangheta Storia di un rapporto immaginario di Enzo Ciconte

Enzo Ciconte

Oramai non mi sorprendo più come un tempo. Ma una volta accadeva che fossi davvero sorpreso quando mi trovavo a rispondere alle prime domande sul rapporto esistente tra brigantaggio e ‘ndrangheta. Poi la frequenza di queste richieste ha sollevato un altro problema: perché sono in tanti a chiedermi di questo rapporto, dandolo come

un fatto scontato? La mia sorpresa nasceva dal fatto che tra brigantaggio e ‘ndrangheta non c’è mai stato alcun rapporto essendo due fenomeni del tutto diversi l’uno dall’altro che peraltro si sono sviluppati in contesti temporali e territoriali del tutto differenti. La ‘ndrangheta è l’organizzazione mafiosa che nasce nei primi decenni dell’Ottocento in Calabria ed è talmente forte e radicata da essere riuscita a valicare i secoli e ad arrivare sino ai nostri giorni. Fino a tempi recenti, sostanzialmente fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, era confinata in Calabria. Non in tutta la Calabria, però; solo nella sua parte meridionale, nell’antica Calabria ulteriore, l’odierna provincia di Reggio Calabria anche se in seguito ha avuto l’abilità di risalire l’intera regione e diffondersi nelle province del centro-nord Italia oltre che nei paesi stranieri di tutti i continenti. Nella restante parte della regione, cioè in provincia di Cosenza e nelle attuali province di Catanzaro, Crotone e Vibo Valentia la ‘ndrangheta s’affaccerà in tempi più recenti, quando oramai il brigantaggio era di fatto superato o era un ricordo del passato, e non già un pericolo reale e immanente. Era un’organizzazione strutturata, composta per lo più da giovani provenienti dalle campagne e dai paesi che fanno da corona all’Aspromonte, la splendida montagna che sovrasta Reggio Calabria e dalle cui vette è possibile ammirare paesaggi d’incantata bellezza che sorvegliano uno dei tratti di mare più belli d’Italia con lo sfondo della Sicilia che va a sigillare l’orizzonte. Erano giovani delle classi sociali più infime e più umili che speravano di trovare nelle ‘ndrine una possibilità di riscatto e di promozione sociale per tentare di uscire dal pantano della loro miserabile condizione sociale ed economica che appariva, ed in effetti era, immutabile. Accanto a loro c’erano, sin dall’inizio, esponenti dei ceti più elevati a livello locale che cercavano di affermarsi e di esercitare un potere impossibile da raggiungere per vie diverse da quelle criminali data l’ossificazione della società

dell’epoca. La presenza di queste componenti era visibile e si manifestava in un’organizzazione che aveva statuto, regole, rituali per la formale affiliazione, linguaggi criptici che conoscevano solo gli affiliati e strutture di comando con un vertice che controllava un territorio che di solito coincideva con quello comunale. Era una società mafiosa molto singolare perché da una parte era segreta, dal momento che non doveva essere conosciuta dalle autorità di polizia, dall’altra era ben nota alle popolazioni locali perché il loro consenso era fondamentale allo sviluppo e alla crescita futura. Con queste caratteristiche la ‘ndrangheta si sviluppò nel corso dei decenni e al compimento dell’Unità d’Italia era già pronta a fare il salto nel nuovo Regno. La sua presenza fu avvertita immediatamente dalle nuove autorità e il prefetto di Reggio Calabria la segnalò sin dal 1862. Qualche anno dopo, nel 1869, la ‘ndrangheta manifesta tutta la sua potenza condizionando le elezioni del Consiglio comunale di Reggio Calabria. Le interferenze criminali erano state tali da spingere le autorità ad arrivare a prendere una decisione davvero estrema: lo scioglimento del Consiglio appena eletto. In quello stesso anno il brigantaggio in Calabria era pressoché debellato. Solo pochi, sparuti gruppi circolavano per le campagne e richiamavano il recente passato; si trattava, però, di episodi isolati che non erano più in grado di costituire un pericolo effettivo e serio.

“La ‘ndrangheta è l’organizzazione mafiosa che nasce nei primi decenni dell’Ottocento in Calabria ed è talmente forte e radicata da essere riuscita a valicare i secoli e ad arrivare sino ai nostri giorni” Il brigantaggio era finito. Sanate le ferite, per come fu possibile sanarle, sotterrati i morti e consumate tutte le lacrime residue, entrava nella storia e nelle controversie delle interpretazioni. I briganti, ancora oggi mentre si stanno scrivendo queste righe, non sono pacificati. Il brigantaggio calabrese fu un fenomeno complesso che balzò all’onore delle cronache nazionali con la riconquista del Regno di Napoli da parte del cardinale Fabrizio Ruffo, calabrese di nascita, che proprio dalla punta estrema della regione iniziò la sua avventura trionfante. Molti furono coloro che risposero all’appello e seguirono Ruffo, e fra essi molti briganti; il cardinale li utilizzò per i suoi fini, anche se ebbe a condannarne gli eccessi che non volle o non riuscì ad impedire. Da allora in poi i briganti fecero la loro comparsa in ogni


Giosafatte Talarico, “il re della Sila”, brigante attivo nei primi decenni dell’Ottocento

momento di turbolenza politica. Un momento di straordinaria ripresa si determinò durante l’occupazione dei francesi tra il 1806 e il 1815. Ritornati nuovamente i Borbone sul trono di Napoli i briganti inizialmente sembravano essere spariti, ma ben presto ritorneranno e faranno parlare delle loro imprese. Con Giosafatte Talarico il brigantaggio calabrese ebbe il suo momento di massima gloria in periodo borbonico. Per anni rimase rinserrato in Sila – l’altra grande, splendida montagna calabrese – facendosi beffe di chi lo cercava per catturarlo o ucciderlo. Alla fine i Borbone scesero a patti con lui. Talarico si impegnava a lasciare definitivamente la Sila e i Borbone in cambio gli offrirono una pensione e un esilio dorato nell’isola d’Ischia.

Il brigantaggio riprese alla caduta dei Borbone e con l’arrivo dei piemontesi; durò un decennio, anni aspri, duri, con tremendi eccidi, violenze e crudeltà da entrambe le parti. Poi si spense. Tutti gli episodi di brigantaggio ebbero come teatro principale il grande latifondo tipico calabrese che si estendeva dalla Sila – sia quella cosentina che quella catanzarese – al Marchesato di Crotone. Su quelle terre c’erano aspre lotte sociali e l’urto di classi contrapposte. I contadini periodicamente occupavano le terre chiedendone la divisione; nei comuni galantuomini e baroni erano diventati usurpatori perché s’erano appropriati di terre comuni, che appartenevano alla collettività. Ragioni politiche – c’era chi voleva il ritorno dei Borbone, chi invece voleva un cambio politico radicale – e ragioni sociali legati all’iniqua distribuzione della proprietà della terra stavano alla base della protesta delle popolazioni contadine che si traducevano o in rivolte collettive che arrivavano all’occupazione delle terre o in rivolte di singoli che si davano alla macchia e radunavano attorno alla loro figura uomini e donne in gran numero. Come si vede il rapporto tra ‘ndrangheta e brigantaggio era inesistente, e allora perché ci fu l’accostamento? La ragione, credo, stia nel tentativo di presentare gli ‘ndranghetisti come gli eredi legittimi dei briganti perché in questo modo era possibile nobilitare ed ingentilire le loro origini. Man mano che il tempo passava i briganti andavano acquisendo un alone romantico, la fisionomia di ribelli, di combattenti contro le ingiustizie, di giovani che avevano osato rompere le catene e contrapporsi frontalmente al potere. Il brigante era presentato come un eroe coraggioso che aveva un alto senso della giustizia – la sua giustizia – e che sapeva difendere il suo re e la sua donna. Quale migliore credenziale per la ‘ndrangheta che partecipare a questa saga? Perché non approfittarne? La ‘ndrangheta aveva tutto l’interesse a presentarsi come l’erede legittima, la filiazione dei briganti. Se ne avvantaggiò. L’idea di questa filiazione è circolata senza che nessuno la contrastasse seriamente, e così è arrivata sino a noi. Oggi è più difficile sradicarla, ma occorre farlo sia per ristabilire la verità storica sia per non dare agli ‘ndranghetisti il vantaggio di un nobile lignaggio che non hanno e che non meritano.

Oggi la ´ndrangheta è la mafia più forte, più flessibile, più dinamica e più affidabile nel traffico internazionale della droga, la più radicata in tutte le regioni del centro e nord d’Italia e nel mondo. Si infiltra nell’economia in tempi di crisi, si riunisce con gli antichi riti in nome dei cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso a Polsi nell’Aspromonte, così come a Paderno Dugnano in provincia di Milano o a Singen in Germania. È la mafia meno studiata e più misteriosa, che ha cercato di muoversi al riparo dei riflettori, anche se negli ultimi anni ha richiamato l’attenzione di tutti con l’omicidio Fortugno e con la strage di Duisburg. Enzo Ciconte racconta la storia degli uomini d’onore calabresi dall’Ottocento ai giorni nostri. Descrive la struttura familiare dell’organizzazione, la cultura, l’importanza dei battesimi, il Protagonismo nella stagione dei sequestri di persona, le relazioni con il mondo dell’economia, i rapporti con la politica, la partecipazione alle logge deviate della massoneria e le relazioni molto fitte con cosa nostra, con la camorra, con la sacra corona unita. (da www.rubbettino.it)

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«Sí bella e perduta» Patria ed esilio: un rapporto letterario conflittuale di Giuseppe Leonelli La prima e più intensa correlazione del concetto di patria con quello di esilio la troviamo nella Divina Commedia: la «nobil patria», cui accenna Farinata nel canto X dell’Inferno, riconoscendo in Dante un concittadino, diventerà, pochi versi dopo, quando Farinata predirà al poeta l’esilio, un bene perduto e non più raggiungibile. La lontaGiuseppe Leonelli nanza dalla patria, che diventerà definitiva, è decretata per ragioni politiche e nulla, neppure la composizione della Divina Commedia e la conseguente fama universale potrà mai riammettere a casa sua Dante, malgrado la speranza espressa all’inizio del Canto XXV del Paradiso. Per secoli, la relazione fra patria e esilio sembrerà disattivarsi nella nostra letteratura, man mano che la sostanza intellettuale e politica di quel rapporto comincerà, già con il Petrarca, ad attenuarsi. La celebrazione della grandezza passata dell’Italia e l’auspicio di un futuro finalmente degno del passato è un luogo comune di quella che De Sanctis, nell’ultimo capitolo della Storia della letteratura italiana, chiama «vecchia letteratura», quella in cui era difficile riscontrare «la fede in un mondo religioso, politico, morale, sociale». De Sanctis avrebbe trovato in Parini e soprattutto in Alfieri «l’uomo nuovo», i cui contenuti non si basano su «temi astratti e fattizzi di religione, di amore e moralità», ma sulla «libertà, l’uguaglianza, la patria, la dignità, cioè la corrispondenza tra il pensiero e l’azione». Ma l’immagine della patria, dei nuovi italiani, che rinviano agli avi latini, ha in questo periodo ancora connotati di sogno. Sono quelli che si colgono nelle poesie dell’Alfieri e soprattutto nel sonetto conclusivo del Misogallo in cui fiorisce la grande visione degli italiani risorti, pronti a dare battaglia: Giorno verrà, tornerà il giorno, in cui redivivi omai gl’Itali staranno in campo audaci e non col ferro altrui in vil difesa… Passano gli anni rotolando verso la conclusione del secolo diciottesimo: il giovanissimo Napoleone scende in Italia, con il suo esercito, prima rivoluzionario e repubblicano, poi imperiale. L’Italia sembra riscuotersi dal suo grave sonno, che dura da secoli. Nella prima pagina delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, edizione 1802, la parola “patria” («Il sacrificio della patria nostra è consumato»), malgrado la delusione amarissima del trattato di Campoformio che consegnava, in realtà temporaneamente, come si vide di lì a poco, Venezia

all’Austria, sembra vibrare di connotazioni nuove. La parola “patria” è pronunciata sullo sfondo di trasformazioni culturali e politiche che già portano gli italiani d’ogni contrada a battersi alla pari contro mezza Europa per difendere prima la Repubblica Cispadana, poi la Cisalpina, infine il Regno d’Italia, stati su cui sventola la bandiera verde, bianca e rossa, quella che è tuttora la nostra. Si diffonde, in quegli anni, un modello di letteratura pervasa da un autentico spirito di engagement, che accompagna, saluta e sviluppa e stimola i fatti di quella che appare, per la prima volta dopo la fine dell’impero romano, una storia nazionale. La punta di diamante di questa letteratura sono alcune fra le più vibranti poesie del Manzoni, il quale, dopo aver salutato la sconfitta dei francesi, rivelatisi chiaramente come oppressori, in Aprile 1814, scriverà nel Proclama di Rimini, l’ode incompiuta dedicata a Gioacchino Murat, un verso non fra i suoi più belli, ma certo fra i più sentiti: «liberi non sarem se non siam uni». Sei anni dopo, ecco Marzo 1821, a salutare l’incendio vorticoso che divamperà in tutta Italia lungo il corso di un decennio. Si comincia con l’insurrezione a Napoli e a Palermo, quindi in Piemonte nel 1820, poi, nel 1831, a Bologna, Modena, Reg-

“Per secoli, la relazione fra patria e esilio sembrerà disattivarsi nella nostra letteratura, man mano che la sostanza intellettuale e politica di quel rapporto comincerà, già con il Petrarca, ad attenuarsi” gio, Parma, Faenza, Ferrara, Rimini, Ancona ed altre città dell’Umbria e delle Marche. Le strofe dell’ode manzoniana esprimono entusiasticamente la coscienza di un movimento nazionale ritenuto inarrestabile, sostenuto dalla coscienza della comune identità costituita, oltreché dai legami di sangue, da quelli culturali, ovvero storici, spirituali, linguistici. L’Italia, in altre parole, si accorge di essere la patria di tutti gli italiani: Soffermati sull’arida sponda, volti i guardi al varcato Ticino, tutti assorti nel novo destino, certi in cor dell’antica virtù, han giurato: Non fia che quest’onda scorra più tra due rive straniere: non fia loco ove sorgan barriere tra l’Italia e l’Italia, mai più… Questo rafforzarsi, tutto sommato nello spazio di pochi decenni, del sentimento nazionale, produce l’effetto di una estensione notevole della pratica dell’esilio. Amor di patria ed esilio tornano a correlarsi, sulla falsariga dell’archetipo dantesco. È il Foscolo ad aprire la strada, dopo aver consta-


tato come quella che aveva chiamato la “rivoluzione d’Italia” doveva considerarsi fallita. Di lì a poco, alcuni dei protagonisti del Risorgimento italiano, già attivi negli anni napoleonici, come Vincenzo Cuoco e Giovanni Berchet, seguono l’esempio di Foscolo. Per altri, come Silvio Pellico, l’esilio sono gli anni di carcere duro allo Spielberg, da cui usciranno Le mie prigioni, un libro su cui mediteranno generazioni di lettori, approfondendo e affinando le ragioni della propri italianità. Altri ancora, come Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo,Vincenzo Gioberti, Giuseppe Garibaldi, Carlo Pisacane faranno dell’esilio non una condizione permanente, come il Foscolo, ma una porta da cui si entra e si esce, con tenacia indomabile. E per Garibaldi, fatta infine l’Italia, l’esilio saranno una casa e un campicello da coltivare nell’isola di Caprera, lontano da ogni ambizione che non sia quella di aver dato il meglio di sé per la causa italiana. Intanto, a partire dagli anni immediatamente postnapoleonici, patria ed esilio diventano temi letterari, musicali e artistici, in opere in cui si elabora, proprio in quella che era stata considerata terra di Arcadia, il mito nazionale italiano. Nascono capolavori come l’Adelchi, con il bellissimo primo coro, Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti… All’incalzare dei doppi senari manzoniani s’affianca, vent’anni dopo, la melodia lenta e struggente del “Va’ pensiero” del Nabucco verdiano, mentre il Giusti, nel 1846, alla vigilia della prima guerra d’indipendenza, affiderà agli endecasillabi beffardi ma anche commossi e pensosi del Sant’Ambrogio il suo spirito patriottico. Intanto, si diffonde per l’Italia sulle ali del successo dei romanzi di Walter Scott e dei Promessi sposi di Manzoni, un modello di romanzo storico basato, come ha osservato il Banti, sul “tema nazione”. È un «oggetto narrativo che ha un mercato potenziale (…). Sta di fatto che numerose tra le

opere di ispirazione patriottica… sono dei veri best seller (a volte nonostante siano proibite dalla censura)». È il caso di Ettore Fieramosca del D’Azeglio: accanto ad esso, anche se con minore, ma comunque cospicua fortuna, il Niccolò de’ Lapi, sempre di D’Azeglio, e L’assedio di Firenze di Francesco Domenico Guerrazzi. Ma il grande capolavoro nell’am-

“Per altri, come Silvio Pellico, l’esilio sono gli anni di carcere duro allo Spielberg, da cui usciranno Le mie prigioni, un libro su cui mediteranno generazioni di lettori, approfondendo e affinando le ragioni della propri italianità” bito della letteratura “nazional-patriottica”, uscirà nel 1867, scritto dieci anni prima e pubblicato a Italia ormai quasi fatta, quando si era in attesa di Roma capitale. Sono Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, un’opera che distende la propria materia narrativa nell’arco di cinquant’anni, dalla discesa di Napoleone in Italia alla soglia della prima guerra d’indipendenza. Con le Confessioni, ancor più che con i Promessi sposi, nasce la “letteratura nazionale moderna” auspicata dal De Sanctis e l’Italia comincia ad assumere una forma compiuta che la letteratura successiva si incaricherà di vagliare e approfondire. La letteratura ha interpretato ed espresso un’immagine di noi stessi che costituisce un bene culturale particolarmente prezioso nel momento in cui siedono sui banchi del nostro Parlamento rappresentanti di formazioni politiche fra le più rozze e dichiaratamente insensibili ai valori elaborati dagli italiani, nel corso degli ultimi secoli, con il sudore della fronte e spesso con il sacrificio della vita.

Inferno, Canto X, 23-70, Dante con Farinata Degli Uberti, illustrazione di William Blake

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«Una arme industre e accorta» Scrittori e attori nel tempo del Risorgimento di Stefano Geraci Più che di teatro e Risorgimento si dovrebbe parlare di scrittori e attori nel tempo del Risorgimento. Solo così si potrebbe intanto cominciare a scorgere qualche viva fiammella in quel vasto cimitero della letteratura drammatica, oggi quasi del tutto sconosciuto, che veniva definito una volta “una arme industre e accorta”. Cosa c’era Stefano Geraci di risorgimentale in tante storie per noi oggi mute e di cui molte nemmeno finivano per apparire tra le luci dei palcoscenici? Perché tanti scrittori, minori, minimi e tanto diversi tra loro, tornati a chiudersi nelle loro città dopo gli anni napoleonici che avevano ridisegnato la geografia politica dell’Italia, finirono per costituire un imponente battaglione teatrale? È necessario ricordare come dopo la caduta dello stato napoleonico i letterati lavorano, organizzano e «vivono» dentro una dimensione nazionale che sostanzia le loro identità e che contribuisce a nutrire lo spirito d’opposizione e lo stesso mercato delle lettere. La nazione italiana, per buona parte di loro, già esiste nella lingua, nelle tradizioni storiche, nella stirpe, nel genio innato, nei legami etnici e razziali che hanno radici in un tempo immemorabile.

“Anche a teatro le storie s’incaricavano di raccontare non ciò che sarebbe avvenuto, ma quello che già dava vita alla comunità nazionale nonostante le molteplici fratture e differenze a cui era sottoposta” Anche a teatro le storie s’incaricavano di raccontare non ciò che sarebbe avvenuto, ma quello che già dava vita alla comunità nazionale nonostante le molteplici fratture e differenze a cui era sottoposta. Quegli scrittori non erano mossi dal desiderio e dalla volontà di propagandare direttamente una «idea di nazione», né di trasmettere strumenti per educare e creare cittadini e patrioti, ma di raccontare che essa era viva, che stava lì, nel sottosuolo, appena sotto i piedi degli spettatori, sepolta e umiliata. Anche in un angolo riposto di quel suolo c’era una storia, un eroe, casomai una tragica vicenda di famiglia in cui era stata offesa la dignità di una donna, l’onore di una sposa, la speranza di due giovani amanti. È difficile oggi stanare i modi in cui «il sentire» era comune, come una storia di casa avesse potuto trovare un’eco in altre storie, perché tante cadessero nel vuoto o fossero ammirate da scrittori come Tommaseo o Manzoni. Persino l’eterno duello dei «drammi d’arena» aveva un’eco nella

pratica dei giovani aristocratici di sfidare, con motivi pretestuosi, gli ufficiali austriaci: «Ragazzate! Potrà esclamare qualcuno nel leggere questi fatti […] Ma a nostra discolpa ripeterò ancora una volta che a quel tempo noi ci consideravamo già in guerra» (Giovanni Visconti Venosta, Ricordi di gioventù. Cose vedute e sapute, 1847-1860). Anche i pochissimi capolavori più che con allusioni dirette alle inquietudini risorgimentali, parlavano prevalentemente di passioni prigioniere.

“Nell’Ottocento i veri capolavori teatrali non furono opere letterarie ma i personaggi creati dagli attori e dalle attrici” Per i più grandi poeti e compositori dei primi anni dell’Ottocento (Foscolo, Manzoni, Leopardi e Rossini ) l’Italia era un paese che aveva dissipato la sua grandezza. Tombe, monumenti e rovine rendevano particolarmente doloroso e beffardo il presente, la consuetudine al servilismo, la miseria spirituale. Nel 1818, per esempio, dal Mosé in Egitto di Gioacchino


Rossini fuoriuscì un’immagine vigorosa del dramma della liberazione. Musica, parole e messinscena culminavano nell’apparizione di un sentiero che si apre attraverso la forza selvaggia del mare. Giuseppe Mazzini scriveva che Rossini era il «Napoleone della musica», riscattava un mondo che sembrava asservito ai «mercanti delle note» e lo poneva al

“Subito dopo l’Unità d’Italia i temi risorgimentali non suscitarono echi nei repertori degli attori (seppure fu tutt’altro che trascurabile la loro presenza nelle avventure garibaldine) ma entrarono episodicamente nei conflitti politici” servizio della libertà. I protagonisti della tragedia Adelchi di Manzoni erano personaggi remoti: il re dei Longobardi Desiderio, il suo erede Adelchi, Carlo Magno, il Papa (che in prima persona però non compariva). Il coro staccato del terzo atto, veniva letto e recitato nei salotti, nelle aule, nei teatri privati, sui palcoscenici pubblici. Raccontava di un popolo reso servo che solleva la testa ascoltando i tuoni lontani d’una nuova guerra. Sente rinascere in sé l’orgoglio dimenticato fra le umiliazioni e l’«impossibile» fierezza dei suoi antenati perché è un popolo disperso, che affida ancora ad un nuovo straniero la speranza di riscattarsi dal dominio degli occupanti. Se queste opere appaiono come solitarie cime di quell’inabissato territorio teatrale, altre forme animavano i paesaggi dei teatri. Nell’Ottocento i veri capolavori teatrali non furono opere letterarie ma i personaggi creati dagli attori e dalle attrici. Era particolarmente forte, in Italia, la sfasatura fra la letteratura drammatica e le pratiche della rappresentazione da cui prendevano vita la complessa e potente esistenza dei personaggi in scena dei grandi attori su scene povere, lontane dal lusso del melodramma e dal contatto con le élite della cultura nazionale. Ricordiamo la figura esemplare. Gustavo Modena alternò alla carriera teatrale la lotta politica clandestina, la militanza nella Giovine Italia, l’intransigenza repubblicana. Combatté più volte nei moti per l’indipendenza, raccolse sottoscrizioni, fu costretto all’esilio. Visse tra l’umore nero e sarcastico per i compromessi politici degli uomini cedevoli e la testarda passione del suscitatore di energie giovanili. Come tutti gli attori dell’Ottocento, Modena praticava un repertorio ampio e onnicomprensivo, ma amava soprattutto scuotere gli spettatori raccontando la grottesca natura dei tiranni.

I suoi capolavori erano Saul (dalla tragedia di Alfieri), il Wallenstein (dalla tragedia di Schiller), Luigi XI (dal dramma di Delavigne), Maometto (dalla tragedia di Voltaire), Filippo II di Spagna (dalla tragedia di Alfieri). Modena costruiva, accanto al testo recitato, una trama di pensieri e azioni in attrito con l’attualità politica. Per far questo, trasformava l’unità letteraria del personaggio in una pluralità di scorci e visioni. Ora parlava ed agiva come se fosse l’incarnazione del personaggio rappresentato, ora se ne allontanava per mettere in risalto le parole dell’autore; ora sembrava parlare in prima persona, quando dava ad una frase, ad un gesto, un senso imprevisto dall’autore; ed ora visualizzava, in un lampo pantomimico, una metafora o una similitudine, facendola precipitare dal mondo delle parole alla incandescenza della presenza fisica. Gli echi e i legami tra le sue creazioni, come poi quelle dei suoi successori, erano veri e propri romanzi in vita piuttosto che una semplice successione di spettacoli.

“Nel 1862 su trenta copioni dedicati a Garibaldi ne furono proibiti ben 29, interdizione che secondo i censori avrebbe dovuto agire «da ora in poi»” L’esempio di Modena aiuta a capire come il teatro non fosse solo l’occasione pubblica dove saltuariamente affioravano dimostrazioni patriottiche sull’esempio di alcune opere di Verdi, ma il luogo delle emergenze sociali. Gruppi di spettatori allestirono dei veri e propri scioperi antitirannici e la partecipazione degli attori ai moti del 48-49 fu massiccia. Questo minuscolo popolo nomade al servizio dei piaceri festivi delle città italiane credette davvero alla “primavera dei popoli” per riscattare la separazione della condizione teatrale con l’adesione ai fermenti del nuovo tempo sociale. Subito dopo l’Unità d’Italia i temi risorgimentali non suscitarono echi nei repertori degli attori (seppure fu tutt’altro che trascurabile la loro presenza nelle avventure garibaldine) ma entrarono episodicamente nei conflitti politici. Anche in questo caso è vano cercare opere significative e inanellare collane di titoli. Più utile è tener conto delle serie tematiche e della censura. Per esempio, nel 1862 su trenta copioni dedicati a Garibaldi ne furono proibiti ben 29, interdizione che secondo i censori avrebbe dovuto agire “da ora in poi”. Qualche anno dopo i drammi di Felice Cavallotti o di Pietro Cossa accendevano le battaglie dei giovani radicali, del giornalismo scapigliato e repubblicano che aveva scelto i teatri, ancora una volta, come luoghi extraterritoriali per manifestare il dissenso e il risentimento verso un’Italia mancata e la sua storia ferita.

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Scienza e Risorgimento Il contributo degli scienziati italiani a cura di Aldo Altamore, Marco Bologna, Settimio Mobilio, Giovanni Polzonetti, Roberto Raimondi, Eugenio Torracca

Gli autori

Prima del Risorgimento in Italia l’attività di ricerca era svolta in una pluralità di luoghi ed istituzioni come Accademie, Università, osservatori astronomici, scuole militari, circoli privati, che si occupavano, per lo più a livello mediocre, di temi specifici di interesse delle singole istituzioni. Notevole era il ritardo sul piano scientifico e tecnologico nei riguardi di paesi europei più progrediti quali la Francia e l’Inghilterra. Gli aspetti negativi della dispersione e della scarsa interrelazione delle attività scientifiche tra i sette Stati italiani erano percepiti dai contemporanei, in particolare dalle élite intellettuali, e diffusa era la consapevolezza che causa dell’arretratezza fosse non solo il limitato interesse dei governi a sostenere e sviluppare le strutture educative e di ricerca ma anche e soprattutto la frammentazione della struttura politica italiana, che impediva la realizzazione di una politica unitaria di sviluppo; non esisteva una scienza nazionale soprattutto per la man-

“Non esisteva una scienza nazionale soprattutto per la mancanza di sedi o istituzioni unitarie” canza di sedi o istituzioni unitarie. Questa consapevolezza fu alla base di alcune iniziative, tra cui ricordiamo la pubblicazione della rivista Il Politecnico. Repertorio mensile di studi applicati alla prosperità e cultura sociale, fondata da Carlo Cattaneo a Milano nel 1839. La rivista nasce come tentativo della più moderna borghesia di collegarsi con le esperienze delle nazioni europee più avanzate dibattendo e approfondendo temi non esplicitamente politici (anche per il controllo esercitato dagli austriaci) ma occupandosi largamente di questioni implicitamente dotate di peso politico come appunto lo sviluppo dell’economia, dell’agricoltura, della tecnica, dell’industria. Essa difendeva il valore della scienza e della tecnologia e sosteneva la necessità di un sistema integrato di istruzione e di ricerca in grado di sviluppare e di diffondere innovazioni. Ricordiamo ancora la nascita della

Siam, Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri, fondata a Milano nel 1838, che nata per premiare innovazioni tecnologiche sviluppate da artigiani e operai passò poi a organizzare corsi di scienze di base e di meccanica industriale. Un ruolo significativo in tal senso ebbero le “Riunioni degli Scienziati Italiani”, nate dalla coscienza della necessità di una organizzazione unitaria che favorisse lo sviluppo della ricerca e delle sue applicazioni. Fu Carlo Luciano Bonaparte, zoologo nipote di Napoleone, che nel 1838 di ritorno da un convegno tenutosi a Friburgo dove circa settecento naturalisti erano convenuti dai diversi Stati tedeschi, concepì l’idea delle Riunioni per vincere «lo stato di torpore in cui siamo caduti» stabilendo contatti permanenti tra i cultori italiani delle varie discipline scientifiche e favorendo il loro collegamento con i colleghi stranieri. Era il primo passo per dare visibilità e popolarità alla ricerca scientifica coltivata da ristrette élite, chiuse nei recinti delle università e delle accademie dei vari Stati, e per stabilire una rete costante di contatti tra docenti e sperimentatori. L’idea era di organizzare un convegno annuale, aperto non solo a tutti coloro che a vario titolo si occupavano di scienza ma anche al pubblico colto. L’anno successivo, nell’ottobre del 1839 ebbe luogo a Pisa la prima riunione, resa possibile dal Granduca di Toscana Leopoldo II, interessato al rilancio dell’Università di Pisa dove in quegli anni chiamò ad insegnare alcuni dei migliori scienziati italiani dell’epoca. Leopoldo II nel 1846 rifondò anche la Scuola Normale, inizialmente fondata da Napoleone come succursale della École Normale Supérieure de Paris e chiusa alla fine dell’epoca napoleonica. L’iniziativa delle Riunioni fu celebrata dal Giusti nei famosi versi «Di sì nobile congresso/ Si rallegra con sé stesso/ Tutto l’uman genere». Le riunioni si tennero con cadenza annuale nel periodo 1839-1847 a Pisa, Torino, Firenze, Padova, Lucca, Milano, Napoli, Genova e Venezia. Il ripetersi dei congressi, contribuì a formare quella unità spirituale della Nazione, che fu premessa e fondamento della successiva unità politica. Il carattere delle riunioni, infatti, non fu meramente scientifico, ma anche apertamente politico e questo determinò atteggiamenti diversi da parte dei vari Stati: di favore da parte del granduca di Toscana e dei Savoia, di sospettoso interesse da parte dei Borboni, di ostilità da parte del Regno Lombardo Veneto, che comunque sopportò che riunioni si tenessero a Milano e Venezia, e dello Stato Pontificio, che invece non consentì alcuna riunione. A molti governanti non sfuggiva il rilievo politico delle tematiche dibattute nelle Riunioni anche perché i fermenti di indipendenza ed unità non venivano più nascosti dagli scienziati e dagli uomini di cultura. Dopo la riunione di Venezia del 1847, durante la


quale la polizia austriaca prima espulse da Venezia Carlo Luciano Bonaparte e, dopo dieci giorni invece dei quindici programmati, vietò il proseguimento dei lavori, le riunioni non ebbero più luogo fino ad unità avvenuta. I moti del 1848 a cui molti scienziati e universitari parteciparono in prima linea e il modificato equilibrio politico che ne conseguì determinarono un’aperta opposizione dei governanti e in particolare del Regno Lombardo Veneto verso gli ambienti universitari e scientifici; anche il granduca di Toscana Leopoldo II, inizialmente aperto sostenitore dell’iniziativa, tornato dall’esilio, iniziò la sua nuova politica filo-asburgica, osteggiando le riunioni e il mondo universitario in generale, arrivando a ridurre le cattedre universitarie a Pisa.

“Questa consapevolezza fu alla base di alcune iniziative, tra cui ricordiamo la pubblicazione della rivista Il Politecnico. Repertorio mensile di studi applicati alla prosperità e cultura sociale, fondata da Carlo Cattaneo a Milano nel 1839” Le Riunioni degli Scienziati Italiani ripresero dopo l’Unità con minore continuità; nel 1861 si tenne a Firenze una riunione straordinaria; riunioni ordinarie si tennero nel 1862 a Siena, nel 1873 a Roma e l’ultima, la XXII nel 1875 a Palermo: Nel corso di questa riunione fu approvato il regolamento della Società italiana per il progresso delle scienze, che ne raccolse l’eredità portandola fino ai giorni nostri. È da sottolineare come il regolamento iniziale consentisse già allora accesso alle donne. Di queste riunioni restano gli atti, dall’analisi dei quali emerge come le riunioni fossero organizzate nelle sezioni di Agronomia e Tecnologia, di Zoologia, di Anatomia comparata e Fisiologia, di Fisica, Chimica e Matematica, di Mineralogia, di Geologia e Geografia, di Botanica e Fisiologia vegetale e di Medicina con una sotto sezione di Chirurgia. I partecipanti appartenevano principalmente alla borghesia (76%) e all’aristocrazia (22%) con una piccola partecipazione anche del clero (2%); provenivano da università e accademie (49%), dalle professioni (15%), dalle amministrazioni degli Stati (11%), dalla scuola (9%) e dall’esercito (1%); notevole era la partecipazione di privati cittadini (15%). La maggior parte aveva una laurea (90%). Nelle prime riunioni la partecipazione straniera fu limitata ma crebbe significativamente nelle riunioni seguenti segno che l’Italia non era isolata e che i nostri scienziati mantenevano buone relazioni con quelli degli altri Paesi. Per quanto riguarda, invece, la provenienza dagli Stati italiani, la componente più numerosa proveniva dal Nord (circa un terzo dal Regno Lombardo Veneto e un terzo dal Regno di Sardegna), mentre limitata era la provenienza dal Regno delle Due Sicilie. Il livello scientifico delle comunicazioni e degli argomenti dibattuti nelle Riunioni restò comunque mediocre se confrontato a livello internazionale, ma con doverose eccezioni, come ad esempio le comunicazioni di Raffaele Piria sulle analisi elementari di composti (principalmente la salicilina) allo scopo di stabilirne la composizione. Partecipazioni di scienziati stranieri prestigiosi furono quella

di Charles Babbage, ideatore del primo calcolatore programmabile, del botanico inglese Robert Brown, del matematico Carl Gustav Jacobi. Nel periodo del nostro Risorgimento enorme fu lo sviluppo della conoscenza scientifica; negli anni tra il 1820 ed il 1865 si arrivò alla formulazione dei principi della termodinamica, alla piena comprensione dei fenomeni elettromagnetici e della natura della luce, all’affermarsi della teoria atomica della materia, alla sintesi darwiniana sull’origine delle specie. In questo contesto la ricerca italiana, seppure in media arretrata, seppe dare contributi grazie soprattutto al lavoro di singoli, che spesso parteciparono anche a significativi momenti risorgimentali. Tra questi ricordiamo il fisico Ottaviano Fabrizio Mossotti (1791-1863), comandante del battaglione universitario pisano che il 29 maggio del 1848 combatté nella battaglia di Curtatone e Montanara, uno dei momenti più simbolici delle battaglie del Risorgimento, l’unico in cui gli scienziati italiani parteciparono in modo organizzato. Da un lato vi erano le truppe austriache e dall’altro l’esercito del Granducato di Toscana, coadiuvato da volontari toscani e napoletani. E tra i volontari, il battaglione degli studenti e professori pisani, che alla passione per la ricerca scientifica univano la passione politica verso la realizzazione di una patria comune. Mossotti, laureato a Pavia nel 1813, fu costretto ad espatriare a causa delle sue simpatie liberali, trascorrendo periodi in Svizzera, Inghilterra, Argentina, Grecia. Nel 1840 fu chiamato dal governo del Granduca di Toscana presso la cattedra di fisica matematica presso l’Università di Pisa. Fu infine nominato senatore nel 1861 nell’Italia unita. Il suo nome è legato alla relazione di Clausius-Mossotti, che collega la costante dielettrica alla polarizzabilità molecolare.

“Essa difendeva il valore della scienza e della tecnologia e sosteneva la necessità di un sistema integrato di istruzione e di ricerca in grado di sviluppare e di diffondere innovazioni” Più giovane di Mossotti, ma anche lui presente sul campo a Curtatone e Montanara, è Carlo Matteucci (1811-1868) fisico e fisiologo. A lui sono dovuti importanti studi di elettrofisiologia e di magnetismo. Nato a Forlì, studiò a Parigi e a ventinove anni con una solida fama internazionale fu chiamato alla cattedra di fisica sperimentale presso l’Università di Pisa. Fu sempre attivo in campo politico, prima come commissario civile dell’esercito toscano per nomina del granduca, e poi senatore e ministro della pubblica istruzione nella nuova Italia. Non gli mancarono infine i riconoscimenti internazionali. Nel 1844 gli fu assegnata dalla Royal Society la medaglia Copley. Tra gli scienziati del periodo non si può non ricordare Macedonio Melloni (1798-1854), che pur non prendendo parte alla battaglia di Curtatone e Montanara, ebbe modo di fare la sua parte nella prima fase del Risorgimento italiano. Nato a Parma, dopo aver studiato a Parigi, a soli ventinove anni diventa professore di fisica presso l’Uni-

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versità di Parma. Tre anni dopo, nel 1830, schierandosi apertamente per la rivolta di Parigi contro Carlo X, fu destituito dall’insegnamento. La sua fama scientifica però proprio in quel periodo si consolidò tanto che nel 1834 gli fu assegnata la medaglia Rumford della Royal Society, grazie anche all’indicazione del grande fisico inglese Michael Faraday, con cui il Melloni ebbe una lunga corrispondenza. Nel 1838 accettò di recarsi a Napoli a dirigere prima il Conservatorio di arti e mestieri e poi a fondare l’Osservatorio vesuviano, che fu inaugurato nel 1845 pro-

“Un ruolo significativo ebbero le Riunioni degli Scienziati Italiani, nate dalla coscienza della necessità di una organizzazione unitaria che favorisse lo sviluppo della ricerca e delle sue applicazioni” prio in occasione di una delle Riunioni annuali. Fu in prima fila nei moti del 1848 e questo gli costò ancora una volta il posto e fu costretto a trascorrere gli ultimi anni di vita confinato nella sua casa di Portici. I suoi contributi scientifici duraturi vertono soprattutto sul calore radiante, di cui attraverso una serie di raffinati strumenti da lui stesso ideati studiò le proprietà di propagazione, riflessione e polarizzazione, contribuendo a gettare le basi della spettroscopia che avrebbe svolto un ruolo cruciale nello sviluppo della fisica a cavallo tra Otto e Novecento. Personaggio di rilievo nel panorama del mondo scientifico italiano intorno alla metà dell’Ottocento fu padre An-

Manifesto della Prima Riunione degli Scienziati Italiani, tenuta a Pisa nel 1839. Nelle colonne che incorniciano l’effigie di Leopoldo II sono riportati i nomi dei partecipanti

gelo Secchi s.j. (1818-1878) ritenuto uno dei fondatori dell’Astrofisica, che operò a Roma come direttore dell’Osservatorio astronomico del Collegio Romano tra il 1849 ed il 1878. Nel 1853 creò il primo osservatorio geomagnetico d’Italia, annesso all’Osservatorio astronomico. Attento ad una visione della scienza anche come servizio ai concittadini, introdusse, primo in Italia, il servizio meteorologico telegrafico giornaliero tra le principali città dello Stato Pontificio (Roma, Ancona, Bologna e Ferrara). Inoltre eseguì la misura della base geodetica sulla via Appia, gettando i fondamenti della moderna cartografia italiana. Il principale campo di ricerca di Secchi fu comunque l’astrofisica o, secondo la dizione ottocentesca, “astronomia fisica”. Egli applicò i metodi spettroscopici allo studio del Sole e delle stelle sviluppando la prima classificazione spettrale che metteva in evidenza il legame tra la distribuzione energetica dello spettro e la temperatura delle stelle. Con Pietro Tacchini fu fondatore della Società degli spettroscopisti, oggi Società astronomica italiana. Per il suo ruolo e il legame con Pio IX, dal punto di vista politico non poteva essere favorevole all’unità d’Italia così come si andava delineando, tuttavia ebbe comunque un ruolo di mediazione tra la cultura cattolica e quella laico-liberale. Dopo la presa di Roma, per il suo prestigio scientifico a livello internazionale fu mantenuto dal governo italiano alla direzione dell’Osservatorio del Collegio Romano fino a 1878 anno della sua morte. L’amico scienziato e ministro Quintino Sella, alla sua morte volle che egli fosse onorato col busto collocato al Pincio

“Nel periodo del nostro Risorgimento enorme fu lo sviluppo della conoscenza scientifica; tra il 1820 ed il 1865 si arrivò alla formulazione dei principi della termodinamica, alla piena comprensione dei fenomeni elettromagnetici e della natura della luce, all’affermarsi della teoria atomica della materia, alla sintesi darwiniana sull’origine delle specie” presso la Casina Valadier. Chimico di livello europeo fu Raffaele Piria. Nato a Scilla nel 1814, laureato a Napoli e poi professore a Pisa realizzò importanti ricerche sulla salicilina e altri derivati naturali che portarono alla sintesi dell’acido salicilico. La sua adesione al progetto unitario ebbe come conseguenza la sua attiva partecipazione al Battaglione universitario pisano con il grado di capitano; partecipò anche all’assedio di Peschiera contro gli austriaci. Nel 1860 Garibaldi, proclamatosi provvisoriamente a Napoli dittatore del Regno delle Due Sicilie, lo nominò Ministro della Pubblica istruzione. Ebbe un ruolo primario nella chiamata in cattedra a Genova di Stanislao Cannizzaro e a Pisa di Cesare Bertagnini, anch’egli volontario del battaglione pisano; assieme a Matteucci nel 1844 fondò la rivista Il Cimento, divenuta poi Il Nuovo Cimento nel 1855. Stanislao Cannizzaro ha dato un contributo fondamentale allo sviluppo della scienza, enunciando la “regola di Can-


nizzaro” che basata sul principio di Avogadro formulato nel 1811 e rimasto ignorato ed osteggiato, stabilisce come determinare i pesi atomici e molecolari relativi di elementi e composti gassosi o gassificabili; pose in tal modo su salde basi sperimentali tutta la teoria atomica della materia. Presentata al congresso internazionale dei chimici a Karlsrhue organizzato dal famoso chimico tedesco Kekulé nel 1860, la sua proposta ottenne un ampio riconoscimento da tutta la comunità scientifica. Nato a Palermo nel 1826, partecipò all’età di diciannove anni alla VII Riunione degli Scienziati del 1845 a Napoli dove presentò tre comunicazioni, suscitando l’attenzione di Macedonio Melloni, che lo presentò a Piria, di cui divenne assistente. Partecipò ai moti siciliani del 1848 e, con la caduta dell’insurrezione, fu condannato a morte; rifugiatosi a Parigi lavorò con il chimico F. S. Cloz (1817-1883), ottenendo nel 1851 la cianammide. Nell’autunno del 1855 scopre quella che ora è nota come reazione di Cannizzaro: le aldeidi aromatiche, in una soluzione alcolica di idrossido di potassio, dismutano in una miscela di acidi e alcoli. G. Lanza, ministro della Pubblica istruzione, lo chiamò alla cattedra di chimica all’Università di Genova nel 1855; nel 1861 poté tornare a Palermo dove gli era stata offerta la cattedra di chimica organica e inorganica all’università di cui divenne successivamente Rettore. Ricordiamo ancora Francesco Selmi, considerato uno dei fondatori, con l’inglese Graham, della chimica colloidale. Nato a Vignola nel 1817, partecipò ai moti del 1848; in qualità di scrittore sul Giornale di Reggio sostenne l’unione del Ducato di Modena e Reggio al Regno di Sardegna. Dopo la sconfitta di Carlo Alberto a Custoza fu condannato a morte dal Duca di Modena e fu costretto alla fuga in Piemonte. A Torino venne accolto dall’amico Sobrero con cui realizzò importanti ricerche tra cui la scoperta del tetracloruro di piombo. Dopo l’unità fu chiamato in cattedra a Bologna dove lavorò nel campo della chimica tossicologica e divenne il fondatore della moderna tossicologia forense con la scoperta delle ptomaine o alcaloidi cadaverici. Tutto questo gli procurò fama internazionale; il Ministero della Giustizia istituì la commissione nazionale per la prova di veneficio di cui fu nominato presidente. Agli studi di Selmi si deve la salvezza di molti accusati ingiustamente di avvelenamento, in base a prove scientifiche fino ad allora empiriche e inesatte. Un altro dei chimici di primo piano dell’epoca, Ascanio Sobrero, che fu uno stretto collaboratore di Selmi a Torino collaborando anche all’attività rivoluzionaria, va menzionato anche per il suo lavoro scientifico sperimentale sulla azione dell’acido nitrico sui composti organici; infatti egli fu il primo a realizzare la sintesi della nitroglicerina di cui riconobbe le caratteristiche di esplosivo e l’attività vaso-dilatatrice. Come ben noto, fu lo svedese Nobel ad avere la gloria (e non solo), grazie alla messa a punto di un metodo per il controllo per la manipolazione dell’esplosivo; ma Nobel, consapevole della parte avuta da Sobrero nel rendere possibile la sua fortuna, gli assegnò un vitalizio. Da ricordare è la figura di Filippo Pacini, anatomista e patologo nato a Pistoia nel 1812. Formatosi presso la Scuola medico-chirurgica pistoiese, condusse le prime ricerche anatomiche e istologiche utilizzando un microsco-

pio costruito da Giovanni Battista Amici; nel 1835, ancora studente, presentò alla prima riunione degli scienziati italiani un’importante relazione, che però restò del tutto inosservata, nella quale era illustrata la scoperta dei corpuscoli dei nervi digitali che oggi portano il suo nome. Fece studi di istologia e ricerche sulla patologia del colera; vide e disegnò per primo il vibrione che nel 1884 fu descritto da Robert Koch come l’agente patogeno del colera. Fu docente di anatomia all’Università di Pisa dal 1844 al 1846. Dal 1847 fu professore di anatomia e istologia all’Istituto di Studi superiori di Firenze.

“Gli scienziati italiani quindi seppero dare un contributo efficace sia dal punto di vista politico che da quello della formazione della coscienza nazionale. In molti casi misero la loro esperienza al servizio del nuovo stato unitario” La scienza italiana che durante il Risorgimento realizzò i progressi maggiori fu la matematica, sia per la qualità dei risultati delle ricerche sia per la fondazione di scuole che avrebbero dato frutti ancora migliori nel periodo successivo all’ unità, inserendo la matematica italiana ai massimi livelli internazionali. Notevole impulso a questo sviluppo fu dato da Augustin Louis Chauchy, famoso matematico francese che quando dovette lasciare la Francia per motivi politici nel 1831, si trasferì a Torino. Tra i matematici italiani ricordiamo Angelo Genocchi, nato a Piacenza nel 1817, laureato in legge ma appassionato autodidatta in matematica; le cronache del tempo affermano però che non era né un bravo avvocato né un bravo insegnante. Tra i suoi interessi, la politica era predominante: di idee liberali e antiaustriache, fu costretto a trasferirsi a Torino dopo la prima guerra di indipendenza, dove si dedicò alla matematica; suo allievo fu Giuseppe Peano. Altro matematico da ricordare è Francesco Brioschi nato a Milano nel 1824 che ebbe una intensa attività patriottica; fu arrestato durante le Cinque Giornate, ma subito liberato dagli insorti e nominato professore liceale del governo insorto. Fu tra i fondatori della Società Repubblicana, volontario nel battaglione che al comando dei Medici avrebbe dovuto congiungersi con le forze di Garibaldi e fece parte del Comitato centrale mazziniano per la Lombardia; successivamente assunse posizioni cavouriane. Le sue attività politiche rimasero poco note, per cui ottenne la nomina a professore dell’Università di Pavia dove si dedicò allo studio di equazioni differenziali ed algebriche, elaborando la soluzione delle equazioni algebriche di V e VI grado. Dopo l’unità fu anche deputato e senatore. Gli scienziati italiani quindi seppero dare un contributo efficace sia dal punto di vista politico che da quello della formazione della coscienza nazionale. In molti casi misero la loro esperienza al servizio del nuovo stato unitario. Il progresso della scienza italiana nei decenni successivi non sarebbe stato possibile senza la loro opera di formazione delle nuove generazioni dell’Italia unita mediante la creazione di prestigiose scuole accademiche.

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Amor di patria Quelli che con la musica hanno raccontato la storia di Luca Aversano mi parli di musica!! Cosa ti passa in corpo?... Tu credi che Gli amanti della musica io voglia ora occuparmi di note, di suoni?... Non c’è né ci hanno un motivo in più deve essere che una musica grata alle orecchie delli Italiaper guardare con piacere ni del 1848. La musica del cannone!... Io non scriverei una alle celebrazioni del 150° nota per tutto l’oro del mondo: ne avrei un rimorso consuanniversario dell’Unità mare della carta da musica, che è sì buona da far cartucd’Italia: mai, come in quecie». sti mesi, s’è prestata tanta attenzione all’arte di Euterpe, di solito molto poco “Scrivere e pensare la storia attraverso presente nei palinsesti tela musica, tramite la ricostruzione del levisivi e sulle colonne dei sound di un'epoca, la rievocazione del quotidiani nazionali. Cirsuo paesaggio sonoro, è in effetti costanza paradossale, se Luca Aversano pensiamo ai rigori finanun'operazione critica di grande ziari che contemporaneamente congelavano il sistema prointeresse e attualità” duttivo musicale italiano. Di qui il noto corto-circuito meCome in questa lettera, in cui i confini tra musica e storia diatico e politico dell’affaire Muti-Tremonti, e la preghiesi stingono, l’opera di Verdi è l’emblema forse più rapprera del Maestro alle telecamere, perché si comprendesse la sentativo del doppio nodo che stringe il Risorgimento itanecessità di salvaguardare la nostra tradizione musicale. liano al mondo sonoro dell’epoca. Perché si tratta, in sinOltre all’inserimento del Nabucco nel cartellone del Teatesi, di un duplice intreccio: da una parte, la composiziotro dell’Opera di Roma, e alla sua rappresentazione a culne, l’uso e la ricezione della musica teatrale, anche preesimine della giornata festiva del 17 marzo scorso, si contano stente, in senso politico; dall’altra, la nascita di un repertonumerose altre manifestazioni che hanno celebrato, e celerio specifico di carattere espressamente risorgimentale e breranno, il ruolo della musica nel processo di unificazioprettamente popolare. Verdi si espose su entrambi i verne italiana. In par condicio romana citiamo, per tutti, il santi, tanto che lo consideriamo un mito politico-musicale progetto Sulle Note del Risorgimento, un percorso tra musica e storia promosso dall’Accademia Nazionale di Santa della nostra Unità, pur costruito, in parte, ex post. Nello stesso aprile del 1848, Verdi corrispondeva con un altro Cecilia. Scrivere e pensare la storia attraverso la musica, suo librettista, Salvadore Cammarano, sostenitore dell’itramite la ricostruzione del sound di un’epoca, la rievocadea di «tratteggiare l’epoca più gloriosa delle storie italiazione del suo paesaggio sonoro, è in effetti un’operazione ne», in un soggetto che «dovrà scuotere ogn’uomo che ha critica di grande interesse e attualità. Se gli storici hanno a lungo interrogato il mondo delle immagini, al fine di svenel petto anima italiana!». Ne nasce la Battaglia di Legnano, la cui apertura è affidata al coro: «Viva Italia! Un salare la leggibilità (Lesbarkeit) del passato con l’aiuto delle cro patto/ tutti stringe i figli suoi:/ esso alfin di tanti ha fatfonti iconografiche, la più recente storia sensoriale pone to/ un sol popolo di Eroi!». urgente la questione dell’udibilità (HörTra i molti cori verdiani di sapore patriotbarkeit) della storia: come interpretarla, cioè, sull’onda delle tracce sonore, più tico, il più celebrato è sicuramente il Va, sfuggenti ma non per questo meno parpensiero dal III atto del Nabucco. Qui, lanti sul piano semantico e culturale. In come in altri casi, il tema risorgimentale una lettera di Verdi al librettista Francesi esprime però in forma di metafora, casco Maria Piave, Milano 21 aprile 1848, lato cioè in un’ambientazione storica diè la guerra stessa che si fa musica: «Fistante dalla contemporaneità. D’altro gurati s’io voleva restare a Parigi sentencanto, l’interesse primario della musica do una rivoluzione a Milano. Sono di là operistica era quello di rappresentare gli partito immediatamente sentita la notiaffetti e le passioni sub specie aeternitazia, ma non ho potuto vedere che queste tis. L’amor di patria è pertanto un ingrestupende barricate. Onore a questi prodi! diente tradizionale del melodramma Onore a tutta l’Italia che in questo modell’Ottocento, anche al di fuori dello mento è veramente grande! L’ora è suospecifico quadro politico del Risorgimennata, siine pur persuaso, della sua liberato. Suscitare emozioni nello spettatore, in zione. [...] Sì, sì, ancora pochi anni forse un presente assoluto e metastorico, era il pochi mesi e l’Italia sarà libera, una, re- Il compositore Michele Novaro autore principio fondamentale della drammaturpubblicana. Cosa dovrebbe essere? Tu dell’aria del Canto degli italiani gia dell’opera italiana. Quest’idea di rap-


presentare musicalmente i sentimenti nella loro dimensione universale, di là dal senso contingente, rendeva possibile che brani inizialmente “neutri” sul piano politico assurgessero in seguito, in un contesto mutato, a simboli sonori del desiderio italiano d’indipendenza. È quanto accade, per esempio, al coro dei Galli contro gli oppressori Romani dalla Norma di Bellini. Alla prima scaligera del 1831 non ci fu alcuna particolare reazione nel pubblico, tanto che l’opera venne data nel 1838 in presenza dell’Imperatore d’Austria. Ma quando, nel 1859, la Norma fu rappresentata nella stessa Milano, la platea si unì al coro, intonando le parole: «Guerra! Guerra! Le galliche selve/ quante ha querce producon guerrier../ Strage, strage, sterminio, vendetta!». Difficile, dunque, sottovalutare l’importanza della “forma

“Se gli storici hanno a lungo interrogato il mondo delle immagini, al fine di svelare la leggibilità (Lesbarkeit) del passato con l'aiuto delle fonti iconografiche, la più recente storia sensoriale pone la questione dell'udibilità (Hörbarkeit) della storia: come interpretarla, cioè, sull'onda delle tracce sonore, più sfuggenti ma non per questo meno parlanti sul piano semantico e culturale” coro” in questa fase della storia musicale e politica italiana. Metafora sonora dell’unità, della forza, dell’energia bellica delle moltitudini, il coro condensa e stimola la genuina partecipazione del popolo, le sue aspirazioni alla libertà, il suo desiderio d’indipendenza. Al vasto campionario di cori operistici “nazionali”, o reinterpretati come tali, si affianca il nuovo repertorio di canti e inni popolari su temi esplicitamente risorgimentali. A cui, dicevamo, lo stesso Verdi non mancò di contribuire. Nel 1848 pare che Giuseppe Mazzini in persona, tornato a Milano alla notizia delle Cinque giornate, abbia persuaso Verdi a musicare un inno patriottico. Il 6 giugno Mazzini chiede a Goffredo Mameli un testo «che diventi la Marsigliese italiana; e della quale il popolo, per usare la frase di Verdi, scordi l’autore e il poeta». Mameli scrive l’inno Suona la tromba, che Verdi traduce musicalmente in un coro di voci maschili a cappella, inviandolo a Mazzini, da Parigi, accompagnato da una breve lettera in cui si fa nuovo cenno all’indissolubile legame tra suono e rivoluzione: «Possa quest’inno, fra la musica del cannone, essere presto cantato nelle pianure lombarde!». Il brano s’inserisce nel quadro

di un particolare microrepertorio generato dall’insurrezione milanese del 1848: alla fine delle Cinque giornate gli Austriaci furono cacciati dalla città e gli editori locali, tra cui Ricordi, si sentirono finalmente liberi di stampare inni, cori e finanche pezzi strumentali di segno rivoluzionario. Ripresa la città, gli Austriaci ordinarono di distruggere tutte queste edizioni e le relative lastre, per impedirne la ristampa. Molte di esse sono tuttavia conservate nelle nostre biblioteche, principalmente in quella del Conservatorio di Milano, alla quale gli stampatori musicali cittadini, per una legge (illuminata) dello stesso governo austriaco, erano obbligati a inviare copia di tutta la produzione editoriale. Il coro verdiano Suona la tromba, com’è noto, non divenne mai la Marsigliese italiana. Il nostro inno nazionale ha tutt’altra storia, iniziata nel 1847 con la stesura, ad opera di Mameli, del Canto degli italiani. Secondo la leggenda, una sera di settembre di quell’anno, durante una riunione tra patrioti a Torino, il pittore genovese Ulisse Borzino portò al compositore Michele Novaro la bozza del testo di Mameli. Cinque strofe e un ritornello su cui Novaro improvvisò subito una marcia. Nacquero probabilmente in quel momento le celebri battute d’introduzione strumentale nel tipico ritmo anapestico, e i successivi ritmi puntati su cui intoniamo i versi di Mameli. Già, l’inno di Mameli. Perché, poi, non l’inno di Novaro, o almeno di Mameli e di Novaro? Retaggi della nostra cultura logocentrica... ma speriamo che le celebrazioni del Risorgimento siano utili anche a una nuova considerazione della musica, non solo come divertimento e spettacolo. Per trarla – come scriveva Mazzini, tra l’altro musicofilo e buon chitarrista – «dal fango o dall’iso-

“L'opera di Verdi è l'emblema forse più rappresentativo del doppio nodo che stringe il Risorgimento italiano al mondo sonoro dell'epoca. Perché si tratta, in sintesi, di un duplice intreccio: da una parte, la composizione, l'uso e la ricezione della musica teatrale, anche preesistente, in senso politico; dall'altra, la nascita di un repertorio specifico di carattere espressamente risorgimentale e prettamente popolare” lamento in cui giace e ricollocarla dove gli antichi grandi, non di sapienza, ma di sublimi presentimenti l’avevano posta accanto al legislatore e alla religione».

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Proclamazione della Repubblica Romana, 9 febbraio 1849 (Biblioteca di storia moderna e contemporanea)

Battaglia del 30 aprile 1849, Garibaldi esce da Porta San P co con il tricolore al vento (Museo Centrale del Risorgimen

La Repubblica Romana, che adottò come bandiera il tricolore, si instaurò a seguito di una rivolta liberale che estromise Papa Pio IX dai suoi poteri temporali ma ebbe vita breve: dal 9 febbraio del 1849 si concluse il 4 luglio dello stesso anno. Fu governata da un triumvirato composto da Carlo Armellini, Giuseppe Mazzini ed Aurelio Saffi. In quei pochi mesi Roma passò dalla condizione di stato tra i più arretrati d’Europa a banco di prova di nuove idee democratiche, ispirate principalmente al mazzinianesimo. I luoghi di Roma che ricordano questa esperienza sono molti. Nel 1849 il colle del Gianicolo e le zone vicine furono teatro di sanguinosi scontri tra le truppe della Repubblica Romana, comandate da Garibaldi, e le truppe francesi guidate dal generale Nicolas Charles Victor Oudinot. Sul Gianicolo caddero combattendo giovani provenienti da

Breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870, immagine d’epoca

ogni parte d’Italia e d’Europa. Quando Vittorio Emanuele II di Savoia venne ufficialmente proclamato re d’Italia il 17 marzo 1861, il nuovo Regno ancora non controllava né Venezia, né Roma. Nel 1867 si consumò la battaglia di Mentana che assicurò allo Stato Pontificio tre ultimi anni di vita. Dopo la caduta dell’impero di Napoleone III e la proclamazione della Terza repubblica francese, si aprì infatti per Vittorio Emanuele II la strada per Roma. Il 20 settembre del 1870 il regio esercito italiano aprì una breccia nelle mura aureliane nei pressi di Porta Pia, segnando la fine dello Stato Pontificio e del po-


Pancrazio guidando il contrattacnto)

Attacco del 3 giugno 1849: nella notte i francesi occupano il Casino dei Quattro Venti e gli italiani tentano di riconquistarlo. L’attacco dei francesi si estende fino a Ponte Milvio, cogliendo i romani di sorpresa (Biblioteca storia moderna e contemporanea, Fondazione Marco Besso)

A San Pietro in Montorio venivano portati i feriti e venne stabilito l’ultimo quartier generale di Garibaldi. Tutto il complesso conventuale venne pesantemente bombardato dall’artiglieria francese. Il tempietto del Bramante, situato in un chiostro, rimase miracolosamente indenne (Biblioteca storia moderna e contemporanea)

tere temporale del papato. Pio IX condannò aspramente l’atto, con cui la Curia Romana vide sottrarsi il secolare dominio su Roma. Si ritirò in Vaticano, dichiarandosi prigioniero fino alla morte, e intimò ai cattolici - con il celebre decreto Non expedit - di non partecipare più da quel momento alla vita politica italiana. Alla morte di Vittorio Emanuele II, nel 1878, fu deciso di innalzare un monumento che celebrasse il Padre della Patria e con lui l’intera stagione risorgimentale.


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La città eterna come capitale Roma a centocinquanta anni dall’Unità di Vieri Quilici Nel quadro del generale processo di modernizzazione che investì l’intero paese dopo l’Unità, il capitolo riguardante Roma ha sempre richiesto un particolare, diverso criterio di considerazione. È infatti dal momento stesso in cui la città assurse al ruolo di capitale che si sollevò la questione della sua eccezionalità, in Vieri Quilici quanto città troppo profondamente segnata dal rapporto con la storia per poterne ipotizzare forme di sviluppo che le si ponessero in contrasto. È ben noto quanto forti fossero i dubbi nutriti dagli stessi padri della patria riguardo alla vocazione produttiva di una città rimasta sino ad allora indenne da un’economia di tipo industriale. E quanto invece, come proposto da Quintino Sella, la si dovesse semmai considerare votata alla formazione di «un ambiente di alta scienza, il quale abbia sull’ambiente politico, legislativo ed amministrativo quella parte di azione che gli spetta». Non che con la precedente gestione papalina non si fossero già avviate operazioni di adeguamento della città alle nuove necessità funzionali, specie nel campo delle infrastrutture (nuove linee ferroviarie, ponti e nuove stazioni), dei servizi e delle “attività materiali” (manifattura tabacchi a Trastevere, officina del gas al Circo Massimo, cartiera a Caracalla, siderurgia a Porta Cavalleggeri, tutte attività peraltro distribuite ai margini della città storica). Tanto grande fu lo sforzo di “modernizzazione” di Papa Mastai Ferretti che, per quanto tardivo ed insufficiente, si sarebbe rivelato di fatto come un’anticipazione degli eventi connessi alla rifondazione laica della Terza Roma. E l’organizzazione della città postunitaria, a sua volta, avrebbe poi rivelato segni non indifferenti di continuità con il più vicino passato. Stanti queste premesse il destino urbano di Roma capitale si sarebbe inevitabilmente identificato con quello di una città in continua crescita materiale, solidamente poggiante sulla base archeologico-monumentale della sua struttura antica, ma sostanzialmente priva di un’organizzazione spaziale degna di una moderna città-capitale europea. Una crescita che in un primo tempo sarebbe andata compiendosi all’interno stesso dei tessuti urbani con l’inserimento di attività terziarie e della direzionalità ministeriale e successivamente si sarebbe rafforzata per successive addizioni edilizie, con una continua dilatazione dell’anello periferico esterno e con la

conseguente progressiva occupazione dell’Agro, rimasto integro fino agli inizi del XX secolo nella sua storica conformazione di “Campagna romana”. Crescita, dunque, piuttosto che sviluppo. D’altra parte lo straordinario afflusso di popolazione che seguì la proclamazione della capitale (ed anche in seguito, specie nelle fasi succedute al primo e secondo dopoguerra), obbligava a tener conto della situazione che si era creata nel fabbisogno di alloggi, prima ancora che di servizi e di strutture produttive. Per quanto riguarda la pianificazione si può dire che i piani regolatori, quelli “piemontesi”, prima (schema del 1871 e piano regolatore del 1883), e quello liberale della fase giolittiana, poi (1909), per arrivare fino alle soglie del ventennio fascista, più che orientare lo sviluppo avrebbero cercato, quasi sempre a posteriori, di dar forma ad una crescita già in gran parte prodottasi.

“È infatti dal momento stesso in cui la città assurse al ruolo di capitale che si sollevò la questione della sua eccezionalità, in quanto città troppo profondamente segnata dal rapporto con la storia per poterne ipotizzare forme di sviluppo che le si ponessero in contrasto” Il fenomeno faceva seguito, com’era naturale, all’andamento impetuoso dei flussi di popolazione dal territorio verso la città e dal centro verso la periferia. Ma l’orientamento di tale moto, nelle diverse fasi, ha obbedito a logiche espansive diverse. Fino al primo decennio del Novecento ha seguito una regola precisa, consistente nell’addensamento di servizi e attività nelle parti centrali della città e rimozione dei ceti popolari dai rioni storici verso la periferia sud-occidentale, deputata alla funzione produttiva. La regola però, diversamente da quanto avveniva nelle città industriali del centro-nord, dove le industrie si distribuivano tutto attorno nell’anello periferico, per Roma si sarebbe tradotta nel tentativo, poi comunque interrotto e rimasto incompiuto, della realizzazione di un unico polo produttivo, energetico e annonario, concentrato nell’area dell’Ostiense. Deficitario rimaneva intanto il settore dell’edilizia sociale. Solo con l’applicazione delle leggi Luzzatto (1903) sarebbe cominciata la produzione di alloggi economici, specificamente nel settore periferico sud-orientale, dove si sarebbero realizzati i primi complessi di edilizia cooperativa. Sarà questa tuttavia una breve stagione felice, cui peraltro corrisponderà una modesta ed insignificante espansione urbana dovuta a tale tipo di edilizia.


Tra Prenestina e Casilina, la “città esplosa”

Dagli anni del primo dopoguerra si giungerà così fino alla metà degli anni Trenta sotto il segno di una pesante crisi degli alloggi destinati alle classi popolari. Ed anche la prima consistente crescita economica che cominciava a prodursi nel settore del terziario, diffuso nelle parti più agiate della città, non avrebbe portato ad una nuova significativa trasformazione della città nei termini di una reale complessiva modernizzazione. Gli anni posti al centro della parabola fascista si caratterizzeranno poi per una forma di pianificazione decisamente dirigistica, ma sostanzialmente in obbedienza a una logica più attenta agli assetti formali della città che non alla questione dello sviluppo. Con il piacentiniano piano regolatore del 1931, nell’aderire in primo luogo alle esigenze retoriche del regime e al tema strettamente cittadino dell’“ordine edilizio”, si sarebbe sancito definitivamente il primato delle parti più rappresentative della città, quelle storiche dove si concentrava il patrimonio monumentale e quelle nuove destinate alle classi emergenti. Mentre alle classi popolari e lavoratrici venivano riservate le “Borgate ufficiali”, dove si sarebbe trasferita la popolazione espulsa dalle parti centrali più popolari interessate dagli sventramenti. Le distorsioni e i nodi irrisolti di tale politica, in cui rimaneva assente una logica comprensiva del futuro urbano e territoriale di Roma capitale, sarebbero così inevitabilmente venuti al pettine. Qualcosa in quello stesso lasso di tempo andava maturando. Con la crisi e il quasi immediato superamento del piano del 1931, implicitamente anticipato dal famoso discorso mussoliniano del 1925, poi di fatto prefigurato con la proposta giovannoniana dell’espansione tra Roma e il mare, si sarebbero aperte nuove possibilità. Si stava lavorando a un disegno ambizioso, quello di un’urbanizzazione estesa su tutto il territorio posto a Sud-Ovest della città (la cosiddetta “Coda di Cometa”), in cui si sarebbe distinta l’area destinata a un’Esposi-

zione universale, l’E42, il cui “quartiere” sarebbe poi rimasto, destinato a durare e diventare il futuro centro dell’Urbe mussoliniana. Un disegno che solo con la bozza di piano del 19411942 sarebbe giunto in extremis a formalizzarsi. E la guerra e la disfatta avrebbero cancellato ogni “sogno proibito” del regime. Con la liberazione e il ritorno alla gestione democratica della cosa pubblica, ecco allora subentrare le ansie positive del secondo dopoguerra, il desiderio di una condizione politicamente rinnovata, segnata da elaborazione di idee, nuovo lavoro progettuale e dibattito. Molto attive in questo senso si sarebbero dimostrate le Associazioni degli architetti e degli urbanisti, mentre sarebbero tornati a distinguersi gli stessi rappresentanti della categoria – tra questi soprattutto Luigi Piccinato – che avevano già sostenuto la necessità di una visione “regionale” del piano.

“Il destino urbano di Roma capitale si sarebbe inevitabilmente identificato con quello di una città in continua crescita materiale, solidamente poggiante sulla base archeologico-monumentale della sua struttura antica, ma sostanzialmente priva di un’organizzazione spaziale degna di una moderna città-capitale europea” Nel lungo dopoguerra romano il dibattito attorno ad un nuovo piano regolatore generale avrebbe però richiesto più di un decennio e la sua lenta contrastata maturazione avrebbe fatto sì che si sarebbe giunti alla fine degli anni Cinquanta con un clima politico e culturale che nel frattempo era profondamente cambiato, segnato ormai da un’economia affluente.

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Dalle visioni realistiche del primo dopoguerra si sarebbe passati a suggestioni di piano ben più ambiziose in termini soprattutto di dilatazione delle previsioni. Sulla città erano rientrati quei settori della popolazione che ne erano usciti per sfuggire agli eventi bellici e sarà la stessa crescita demografica, unitamente a quella del boom economico, a stimolare un’ipotesi di crescita spaziale anche eccessiva per una città che doveva ancora trovare la giusta misura per ambire a gestire democraticamente, dal basso, il proprio sviluppo. L’espansione della città prevista dal nuovo piano, approvato solo nel 1962, sarà così calcolata per contenere cinque milioni di abitanti e nelle previsioni insediative una percentuale altissima di territorio agricolo ne sarebbe stata interessata. Il modello di crescita concepita per unità autosufficienti, fatto proprio dal piano – quasi un’inconsapevole anticipazione di quell’”arcipelago”di insediamenti, metafora di un’urbanizzazione a pelle di leopardo cui ultimamente si fa sempre più riferimento – favorirà così, di fatto, un’urbanizzazione espansiva onnivora, a detrimento delle parti più pregiate di Campagna romana.

“D’altra parte lo straordinario afflusso di popolazione che seguì la proclamazione della capitale (ed anche in seguito, specie nelle fasi succedute al primo e secondo dopoguerra), obbligava a tener conto della situazione che si era creata nel fabbisogno di alloggi, prima ancora che di servizi e di strutture produttive” L’occupazione dei suoli da parte di un’edificazione confusa e diffusa in ordine sparso, dovuta da una parte all’edilizia pubblica e dall’altra a quella privata speculativa e/o abusiva, avvenuta in assenza di una visione strategica in termini di coerenza tra il dato quantitativo della crescita e la capacità di supportarlo, è storia dell’urbanistica romana così come è stata gestita lungo gli ultimi trent’anni del secolo passato. Gli anni, questi, in cui si sono consumate le ultime risorse umane e mate-

riali offerte dalle straordinarie potenzialità di un territorio unico al mondo per densità di beni storici e qualità ambientali. Sarà al loro scadere che verrà varato il nuovo piano rutelliano-veltroniano del 2003-2008 con cui verrà definitivamente abbandonato l’ambizioso ma sfortunato programma dualistico della realizzazione del Sistema direzionale orientale – lo SDO – contemporaneamente agli scavi dell’Area archeologica centrale, piano elaborato negli anni Ottanta e Novanta con cui si sarebbe riaperta in termini nuovi, alla scala metropolitana, la storica questione del rapporto tra la città e il territorio.

“Per quanto riguarda la pianificazione si può dire che i piani regolatori, quelli ‘piemontesi’ prima (schema del 1871 e piano regolatore del 1883), e quello liberale della fase giolittiana poi (1909), per arrivare fino alle soglie del ventennio fascista, più che orientare lo sviluppo avrebbero cercato, quasi sempre a posteriori, di dar forma ad una crescita già in gran parte prodottasi” Un rapporto tuttavia che stenterà a ritrovarsi. Le condizioni generali, le istituzioni e gli strumenti di piano – ora anche sufficientemente adeguati alla complessità della situazione – per la verità non mancano. Ma l’organismo urbano, dilatatosi ormai oltre misura nella continua frantumazione della “Città esplosa”, e in assenza di un adeguato telaio infrastrutturale di supporto, appare per assurdo più che mai fragile, esposto a pressioni e interessi poco disposti a promuoverne uno sviluppo nuovamente, finalmente integrato con il territorio. Non ci si può insomma sottrarre all’idea che l’urbanistica romana non continui a costituire una sfida ad alta dose di incertezza e di rischio e ci si può solo augurare che se ne inauguri una nuova stagione, che consenta quanto meno di ipotizzarne un’inversione di tendenza.


«È nata la Repubblica italiana» Il suffragio femminile: un lungo viaggio tra luci e ombre di Francesca Brezzi Un viaggio tortuoso, niente affatto lineare, il lungo viaggio verso la parità: se le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità di Italia hanno consentito la riscoperta di molte figure femminili, qui vorrei brevemente mostrare come il cammino di emancipazione della donna e l’evoluzione democratica del paese e delle istituzioni Francesca Brezzi siano strettamente intrecciate, in una «dialettica che segna la lenta e faticosa espansione della parità fra i sessi nella società civile». Il problema della cultura e della formazione delle donne si collega infatti con il movimento per la conquista del voto. Il mio sguardo si limita ad un arco di tempo ristretto (dagli ultimi anni dell’Ottocento fino al 1919) per segnare le tappe più significative di tale percorso, che può in qualche modo offrire spunti di riflessione all’oggi. Quale controcanto al panorama italiano mi piace ricordare qualche celebre citazione di Virginia Woolf, voce di donna che ne Le tre ghinee, riflette su queste stesse tematiche. Come osserva acutamente Eugenio Garin se ci volgiamo all’era risorgimentale troviamo in Italia, da un lato una povertà di teorizzazioni sulla questione femminile, di contro a quanto avveniva in altri paesi, dall’altro gli eredi italiani dell’Illuminismo e della rivoluzione francese si appiattiscono sulle ragioni dei conservatori moderati per ripetere stanche e stereotipate formule. Per il primo aspetto lo studioso ricorda come nel 1870 sia uscita la traduzione italiana del testo di J. Stuart Mill, La servitù delle donne, grazie all’impegno della più significativa e combattiva “femminista” del tempo, Anna Maria Mozzoni, che vi appose una «appassionata prefazione»; vent’anni dopo, sempre a conferma della scarsa originalità italiana, viene tradotto un saggio significativo, La donna e il socialismo del socialista Auguste Bebel, del quale Anna Kuliscioff apprezza la chiamata alla ri-

scossa per la donna proletaria, tre volte schiava, nell’officina, nella famiglia, nella società, che le nega ogni diritto politico e la pienezza anche dei diritti civili. D’altra parte, ancora Garin sottolinea con rammarico come si sia verificato uno scadimento in Italia dalle avanzate idee settecentesche al Positivismo, complice anche lo spiritualismo italiano dell’Ottocento: in altre parole si verifica un legame nelle affermazioni tradizionali e scontate contro l’uguaglianza dei sessi, tra pensatori conservatori e i nuovi filosofi positivisti, corrente questa che, come è noto, caratterizza il panorama culturale della fine Ottocento. Lo snodo di disaccordo tra queste correnti è una questione tuttora aperta e controversa, come il rapporto natura e cultura: Melchiorre Gioia per esempio rifiuta l’appello ad un presunto ordine naturale a priori per giustificare le disparità fra le due parti dell’umanità e invita ad esaminare invece le situazioni storiche che l’hanno prodotta. A lui rispondeva idealmente Antonio Rosmini nella Filosofia del diritto richiamandosi alla natura per ribadire la soggezione della donna all’uomo: «la natura della donna è sott’ordinata come compimento ed aiuto a quella dell’uomo, perciò sragiona oltre misura colui che consiglia di trasportare... la democrazia nel seno stesso di ciascuna famiglia… compete dunque al marito, secondo la convenienza della natura, esser capo e signore; compete alla moglie, e sta bene, l’esser quasi un accessorio, un compimento del marito, tutta consacrata a lui, e dal suo nome denominata». Dall’Illuminismo al Positivismo si verifica una vera e propria involuzione. La scienza infatti non offrì basi alle rivendicazioni femminili, anzi nel Positivismo si annidano equivoci di ogni sorta, in quanto proprio il Positivismo materialista, meno difendibile sul piano teorico, nella questione specifica che ora ci interessa, è portatore di gravi affermazioni. «[...] Mantegazza e Morselli misurano i crani e pesano i cervelli; Lombroso e Ferrero traggono le conseguenze della microcefalia femminile e di un infantilismo che già si mostra nei volti privi di barba. Lombroso è minuto fino alla pedanteria: la donna è meno delinquente solo perché meno intelligente e più pigra; in lei anche la sensibilità morale è minore».

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Anna Kuliscioff si laurea in medicina nel 1885. È una delle prime donne laureate nell’Italia postunitaria

La naturale e diretta conseguenza di tali concezioni fu la convinzione che l’unica missione della donna consisteva nel crescere i figli, quindi era necessario prepararla alla vita domestica; se «per di lei sventura» rimaneva vedova o zitella avrebbe dovuto forse lavorare e segue, nell’opera di Giuseppe D’Aguanno, per esempio, l’elenco dei lavori consentiti, scientificamente individuati, «maestre, istitutrici, direttrici di scuole e collegi femminili, e magari insegnanti nelle scuole elementari maschili, purché nei primi anni di studio, infine le professioni in cui si tratti di servizi speciali da prestarsi alle donne come quella del medico delle donne».

“Il problema della cultura e della formazione delle donne si collega infatti con il movimento per la conquista del voto. Il mio sguardo si limita ad un arco di tempo ristretto (dagli ultimi anni dell’800 fino al 1919) per segnare le tappe più significative di tale percorso, che può in qualche modo offrire spunti di riflessione all’oggi” «Oh come ardevo dal desiderio di imparare il latino, il francese, le lettere e le arti, qualunque cosa piuttosto che la noia di cucire, far lezione, copiare in bella scrittura, lavare i piatti tutti i giorni… Perché alle ragazze non permettono studiare fisica, teologia, astronomia, ecc. ecc. e le scienze ancelle, la chimica, la botanica, la logica, la matematica?» (Le tre ghinee).

Luci ed ombre di un lungo viaggio verso la parità o incoerenza legislativa, perché, pur non essendo formalmente vietato l’accesso all’università, alle donne era precluso l’esercizio di certe professioni, quali l’avvocatura, la magistratura, così come la docenza nelle scuole superiori. Un importante varco per le donne è rappresentato dalla possibile occupazione come medico, come sottolinea Marino Raicich: se infatti nel 1877 Emestina Paper, prima donna dell’Italia unita, consegue la laurea in medicina a Firenze, un anno dopo a Torino Velleda Maria Famé ottiene il titolo dottorale, infine nel 1885, sempre in medicina si laurea Anna Kuliscioff. Situazione simile anche in Germania e Francia e sono comprensibili le spiegazioni di questo “varco”: una “naturale” disposizione femminile verso la sofferenza dei malati, l’accettazione della presenza femminile nella pediatria e la ginecologia (considerati rami minori, quasi proiezioni della funzione materna). A ciò si deve aggiungere un certo puritanesimo e la ritrosia femminile a farsi visitare da un medico, per cui, pur di fronte a coloro che reputavano il cervello femminile troppo piccolo per argomenti scientifici e troppo alta la loro emotività di fronte al sangue, gli studi di medicina furono agevolati per le donne, anche in un paese libero come l’America dove sorsero cliniche per donne, con personale unicamente femminile. «Nel 1869 Sofia Jex Blake chiese di essere ammessa alla reale Scuola di chirurgia di Edimburgo. Ecco come riportarono i giornali la prima scaramuccia: ieri davanti alla reale scuola si è verificato un episodio molto disdicevole… Poco prima delle quattro circa duecento studentesse si radunarono davanti ai cancelli dell’edificio… mentre gli studenti schiamazzavano i cancelli vennero chiusi in faccia alle ragazze… nulla poté indurre le autorità asserragliate dentro i sacri cancelli a lasciarvi entrare le donne» (Le tre ghinee). Non si può tuttavia dimenticare che dopo queste prime lauree, a Firenze, per esempio, trascorsero ventidue anni perché un’altra donna, Aldina Francolini, si laureasse in medicina, e come lo sviluppo della sua carriera fu difficile e pieno di ostacoli, come lei stessa riferì in una serie di articoli pubblicati su Cordelia nel 1903. Una giovane dottoressa che tentava di entrare negli ospedali pubblici, Anna Kuliscioff incontrò difficoltà ancora maggiori: alla sua richiesta di fare pratica all’Ospedale Maggiore di Milano fu opposta strenua resistenza chiamando in causa ragioni «d’ordine e di responsabilità», dal momento che c’erano stati «ciarlii e attriti». L’opposizione all’uguaglianza dei sessi di fronte all’istruzione – infatti – era sostenuta dall’opinione pubblica in nome di preconcetti conservatori: intangibilità della famiglia minacciata da una donna che abbandoni i lavori domestici e si occupi in altre attività, così come lo stereotipo di una femminilità preziosa in quanto legata al predominio del sentimento sulla ragione, dell’istinto sulla riflessione. Le stesse giovani studentesse non avvertivano alcuna esigenza emancipazionista, come dimostra il tema di un’alunna della scuola normale di Piacenza pubblicato con grande enfasi su un periodico scolastico del tempo: «una donna non può aspirare a quelle collocazioni so-


chieste di eguaglianza ciali che sono proprie economica; talvolta in dell’uomo, il tribunale, polemica con il suo parle tribune, le cattedre, tito socialista, e con Tuil grande commercio. È rati su un suffragio veassurdo pensare una ramente universale, la donna nei parlamenti, Kuliscioff coglie con nelle cattedre universichiarezza come le dontarie, nei fori, perché ne si stiano battendo per c’è tra uomo e donna una società nuova, e una naturale divisione non solo contro il protedel lavoro, perché essa zionismo industriale o è gracile e debole, ed la politica fiscale del ha un’alta missione da governo Giolitti. compiere, la cura della Giustamente Garin, rifamiglia e l’educazione dei figli». Sullo stesso Le donne italiane votano per la prima volta il 2 giugno 1946, in occasione del cordando la conferenza tono, anche le opere di referendum che sancirà la nascita della Repubblica sul Monopolio dell’uomolte pedagogiste dimo tenuta dalla Kuliscioff nell’aprile del 1900 sottolinea che non si tratta di rettrici di riviste o educatrici, che condividevano in tutto generiche aspirazioni teoriche, ma della presa d’atto di o in parte le opinioni correnti. mutamenti avvenuti nella società, che possono abbattere «E se riflettiamo infine che per l’unica professione aperquelle stesse vedute teoriche: «Kuliscioff sviluppa il suo ta alle donne, il matrimonio, la cultura non era considepensiero e rovescia la tesi cara ai positivisti: l’inferiorità rata affatto necessaria, anzi per la natura stessa di quelmentale della donna è conseguenza di un antico servagla professione, rendeva la donna inadatta al suo ruolo, gio, di un costume; non ne è la causa sufficiente né la non ci stupiremo avessero rinunciato a ogni desiderio e a ogni tentativo di istruirsi e si fossero accontentate di ragione giustificante». Nell’appello del 1897 Alle donne mandare all’università i loro fratelli». italiane, diffuso dal gruppo delle donne socialiste milanesi per le elezioni politiche si intravedono chiaramente richieste essenziali e nuove tappe dell’itinerario di “Come osserva acutamente Eugenio emancipazione delle donne: l’eguaglianza economica si Garin se ci volgiamo all’era salda inscindibilmente con quella politica e giuridica, la risorgimentale troviamo in Italia, da stessa lotta politica per la conquista dei pieni diritti si profila come strumento essenziale per la formazione un lato una povertà di teorizzazioni della personalità femminile, da cui deriva – mirabile visulla questione femminile, di contro a cinanza con Virginia Woolf – l’impegno nella condanna quanto avveniva in altri paesi, del militarismo, delle guerre in generale e delle conqui-

dall’altro gli eredi italiani dell’Illuminismo e della rivoluzione francese si appiattiscono sulle ragioni dei conservatori moderati per ripetere stanche e stereotipate formule”

Così la fine ironia di Virginia Woolf che aggiunge: «ma il desiderio di imparare è così connaturato negli esseri umani che... rimase anche tra le donne (Le tre ghinee). Il secolo XIX si chiude con un bilancio carico di luci e di ombre, perché se molto si era ottenuto, specie colpendo pregiudizi teorici e stereotipi culturali, aprendo alla donna una vita spiritualmente ed economicamente indipendente, il lungo viaggio era ancora in fieri, per una serie di discriminazioni persistenti: da un lato nello spazio di un decennio dal 1874, con i regolamenti scolatici Borghi (1874) e Coppino (1876), al 1883 si realizza il riconoscimento del diritto della donna all’istruzione, dall’altro il cammino verso il suffragio universale è più lungo, come è noto. I primi anni del Novecento videro l’azione politica di Anna Kuliscioff, una delle prime donne che si laureò, come si è detto, nella quale la domanda di diritti civili e politici, è in primo piano, e di conseguenza anche le ri-

“Garin sottolinea come si sia verificato uno scadimento in Italia dalle avanzate idee settecentesche al Positivismo, complice anche lo spiritualismo italiano dell’Ottocento: si verifica un legame nelle affermazioni tradizionali e scontate contro l’uguaglianza dei sessi, tra pensatori conservatori e i nuovi filosofi positivisti, corrente questa che, come è noto, caratterizza il panorama culturale della fine Ottocento” ste coloniali, chiedendo con decisione scuole per tutti. Ancora focalizziamo il parallelismo di questo cammino che vede il 1919 quale anno cruciale per entrambe le aspirazioni, emancipazione e diritto di voto. Se in una nota ministeriale del 1902 sulle laureate in Italia il funzionario ministeriale annotava: «una numerosa e forte falange avanza e si prepara a combattere battaglie sul campo economico e sociale», la legge approvata tra il marzo e il luglio1919 con un titolo, quasi incolore, Dis-

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posizioni sulla capacità giuridica della donna, oltre ad abolire l’autorizzazione maritale, con l’art. 7 afferma: «le donne sono ammesse a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato». Giustamente Galoppini afferma che «in una modesta legge di pochi articoli decenni di discussioni erano superati», tuttavia si tratta pur sempre di una vittoria a metà: si riconosce che le donne hanno varcato l’angusta cerchia in cui stavano rinchiuse le passate generazioni, ma non si accetta ancora l’eguaglianza assoluta e quindi il diritto al voto e la partecipazione ai pubblici poteri. Non bisogna dimenticare che nel 1915 un evento tragico e drammatico come la guerra chiamò le donne a sostituire gli uomini nei posti di lavoro, venendo a rappresentare paradossalmente un banco di prova della maturità raggiunta, e significativamente nel discorso di Orlando alla Camera nel 1918 si riconosceva che i tempi erano cambiati, alcuni punti fermi erano stati raggiunti, si intravedeva un periodo di ulteriori vantaggi.

“Dall’Illuminismo al Positivismo si verifica una vera e propria involuzione. La scienza infatti non offrì basi alle rivendicazioni femminili, anzi il Positivismo materialista, meno difendibile sul piano teorico, nella questione specifica che ora ci interessa, è portatore di gravi affermazioni” «Il diritto di voto... si accompagnò misteriosamente a un altro diritto di così enorme valore per le figlie degli uomini colti... il diritto di guadagnarci da vivere conferito nell’anno 1919…» (Le tre ghinee) Significativi allora gli ulteriori “passi” compiuti in questi anni per raggiungere il suffragio universale, ovvero il suffragio femminile, che mostrano ancora un lungo viaggio, segnato da tante sconfitte, pur con l’impegno delle più autorevoli esponenti dei gruppi femminili, come Anna Maria Mozzoni che, con una petizione cui si chiedeva di ammettere al voto le donne alfabete «celebrava, ormai settantenne il suo ultimo intervento nella politica attiva». Petizione respinta anche per l’opposizione dei socialisti (Costa e Salvemini per esempio); la battaglia fu ripresa dalla Kuliscioff che impegnandosi in prima persona tra gli anni 1906 e 1914 riuscì a portare con lacerazioni anche familiari tutto il suo partito a favore del suffragio femminile, ma si era alla vigilia della guerra e solo nel 1919 la Camera dei deputati avrebbe approvato l’ingresso delle italiane nel corpo elettorale. Rimandandone ovviamente l’esercizio. O meglio si precisa che la partecipazione al voto amministrativo è immediata, per quello politico si devono aspettare due legislature (!!); come scrisse la suffragista Laura Casartelli Cabrini, il voto alle donne non è con-

cesso in contanti, ma con una ‘cambialetta’ a parecchi anni di scadenza. Ma la cambiale non verrà mai onorata, infatti la legislatura chiuse in anticipo, prima che il Senato potesse votare la legge. Quando due anni dopo si tornerà a discuterne il clima sarà completamente cambiato». Non solo, ma con l’avvento del fascismo «… venne il diluvio» (Garin) e le donne dovranno attendere il 1945 per ottenere il diritto di voto che esercitarono nel referendum del 1946.

“L’unica missione della donna consisteva nel crescere i figli, quindi era necessario prepararla alla vita domestica; se «per di lei sventura» rimaneva vedova o zitella avrebbe dovuto forse lavorare e segue, in Giuseppe D’Aguanno, l’elenco dei lavori consentiti «maestre, istitutrici, direttrici di scuole e collegi femminili, e magari insegnanti nelle scuole elementari maschili, purché nei primi anni di studio»” Ma questa è un’altra storia, la storia dei nostri giorni. «Ci fu indubbiamente una grande causa politica che le figlie degli uomini colti ebbero a cuore negli ultimi centocinquant’anni quella del suffragio universale. Ma se pensiamo a quanto tempo e a quanta fatica occorsero a quelle donne per vincere la loro causa... l’unico suo grande successo politico è costato alla figlia dell’uomo colto oltre un secolo di fatiche estenuanti e di umili lavori; l’ho veduta trascinasi in cortei; lavorare nel chiuso di un ufficio, tenere comizi agli angoli delle strade; l’ho veduta trascinata in prigione, dove con ogni probabilità ancora si troverebbe...» (Le tre ghinee).


Donne e colonie Emancipazionismo femminile e colonialismo in età liberale di Catia Papa Secondo le cronache del tempo la prima donna che partì alla volta della nascente Africa italiana fu la contessa Bruce Maggiolini, la moglie inglese di un tenente del corpo di spedizione inviato alla conquista di Massaua nel 1885, a breve capitale della Colonia eritrea. La determinazione della Maggiolini a seguire il marito in Africa, a dispetto della contrarietà dei comandi militari e dei rischi del soggiorno in una terra “selvaggia” venne orgogliosamente segnalata da La Donna, la prima e più importante rivista emancipazionista dell’Italia postunitaria. La direttrice del periodico, la mazziniana Gualberta Alaide Beccari, non faceva mistero della sua avversione al processo di espansione coloniale, che riteneva in contrasto con gli ideali risorgimentali, e tuttavia in questo caso prese le difese di una donna che, per amore, pretendeva di sfidare i pregiudizi sulla natura femminile e partecipare all’avventura coloniale. Intenta a rivendicare per le donne una capacità d’iniziativa e una fermezza di carattere pari a quelle maschili, Beccari non coglieva la propria ambiguità e d’altronde nel riferire della vita della contessa in colonia, in un articolo successivo, evitò qualunque accenno alla realtà circostante, all’occupazione militare o alla missione di civilizzazione, limitandosi a celebrare il connubio tipicamente femminile di intraprendenza e amorevolezza con cui la donna attendeva alla cura del reggimento. In questa prima fase del colonialismo italiano – e sino al fascismo – furono poche le donne del Regno che seguirono l’esempio della giovane britannica. Il carattere prettamente militare dell’espansione italiana scoraggiò la partecipazione femminile all’esperienza coloniale, in generale raccontata e vissuta come ambito esclusivamente maschile, avventura esotica e finanche erotica riservata agli uomini. Odalische orientali e veneri nere africane: queste le figure che alimentarono le fantasie coloniali degli europei dall’età moderna al Novecento. Nei possedimenti delle potenze coloniali già consolidate, in particolare nell’India britannica, la presenza femminile era andata comunque crescendo. Sino a fine Ottocento, ossia fintanto che l’emigrazione delle europee in colonia era apparsa economicamente svantaggiosa e socialmente superflua, i possedimenti d’Oltremare erano rimasti un territorio di conquista ed esplorazione largamente maschili e ovunque i dominatori avevano semmai imposto le pratiche del concubinaggio e della prostituzione. Con tempi in parte differenti nelle diverse realtà coloniali, si era infine verificato un cambiamento di rotta: il fantasma del “meticciato”, che minava frontiere e gerarchie razziali, o l’obiettivo delle colonie di popolamento portarono infatti a una condanna dei contatti sessuali interrazziali e all’incoraggiamento dell’emigrazione femminile nei possedimenti. Assieme alle mogli dei funzionari coloniali, altre figure di donna cominciarono a popolare lo spazio colo-

niale: viaggiatrici, geografe e antropologhe, missionarie e riformatrici sociali. Figure che sconfinavano dai territori ideali della femminilità ottocentesca, dalle stereotipie sul “sesso debole” destinato a ingentilire la vita familiare; uno sconfinamento solidale, implicitamente o esplicitamente, con le aspirazioni dei movimenti di emancipazione femminile e reso possibile proprio dall’espansione coloniale.

“La determinazione di Bruce Maggiolini a seguire il marito in Africa, a dispetto della contrarietà dei comandi militari e dei rischi del soggiorno in una terra “selvaggia” venne orgogliosamente segnalata da La Donna, la prima e più importante rivista emancipazionista dell’Italia postunitaria” Negli ultimi decenni la ricerca storica ha riscoperto la presenza femminile nell’archivio dell’imperialismo, sollevando nuovi interrogativi sull’intreccio tra gerarchie sessuali e razziali nella dominazione coloniale, quindi sulle complicità e resistenze delle donne occidentali al discorso coloniale. Le prime ricerche hanno svelato la funzione svolta dalle politiche statali e dai saperi disciplinari nell’orientare le donne britanniche verso il compito di tutrici della razza anglosassone in colonia; gli studi più recenti tendono invece a valorizzare il contributo attivo, sebbene contraddittorio, delle donne occidentali alla cultura e politica coloniale. Le viaggiatrici, le missionarie e poi anche le suffragiste – ma simili vocazioni potevano sovrapporsi – avrebbero concorso all’elaborazione delle gerarchie culturali e razziali in misura tanto maggiore quanto più sovvertivano le gerarchie di genere dell’ordine patriarcale metropolitano. Emblematico il caso delle suffragiste inglesi, che nello “spazio coloniale” avrebbero cercato legittimazione alla propria domanda di cittadinanza attraverso l’identificazione della missione di “civilizzazione” dei costumi attribuita alle donne con quella imperiale britannica. Una strategia che si sarebbe avvalsa dell’immagine della “donna indiana” oggettivata nella servitù sessuale, utile a evidenziare il contrasto con la superiore moralità delle donne britanniche e a consegnare loro uno speciale “fardello” imperiale rispetto alle “sorelle” d’Oltremare. In questo quadro si inserisce anche il movimento di emancipazione italiano, nato nel solco del mazzinianesimo e cresciuto contestualmente all’espansione africana del paese. Prima ancora che l’Italia si lanciasse nelle conquiste coloniali, le emancipazioniste avevano inizia-

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to a familiarizzare le lettrici dei loro scritti e periodici sui costumi femminili dei popoli d’Oltremare. Discutendo della condizione della donna in Occidente, le collaboratrici de La Donna inserivano motivi di riflessione derivanti da notizie sulla vita delle indiane, arabe e africane. L’Oriente era l’altro da sé che illuminava i progressi intellettuali, sociali e civili delle italiane, ma dall’Oriente veniva anche la conferma di una “schiavitù femminile” universalmente condivisa, sancita da consuetudini familiari diverse ma convergenti nel relegare la donna a supplemento funzionale ai desideri dell’uomo. Intorno al tema della donna ridotta a oggetto sessuale l’emancipazionismo postunitario costruì la sua critica ai modelli di genere, cercando di alterarne la struttura binaria e gerarchizzante e scoprendo le tante affinità con le altre categorie utilizzate per differenziare e dominare (civiltà, razza, classe). Fu lo stesso contesto coloniale ad ampliare lo sguardo femminile, a far emergere le analogie tra le diverse rappresentazioni dell’alterità come manchevolezza, deficienza dei requisiti necessari ad accedere alla cittadinanza o al progresso civile: nessuna presunta inferiorità poteva avallare la vergogna dell’op pressione coloniale, così scriveva Beccari nel 1887, nel difficile clima seguito alla prima disfatta coloniale italiana a Dogali. In assenza di una conoscenza diretta delle società d’Oltremare e colonizzate, per anni il discorso femminile fu astratto e guidato da opzioni di principio, teso ad affermare la piena dignità e autonomia di ogni individuo – senza distinzioni di sesso, religione e razza – e quindi a svelare il contenuto dispotico delle retoriche maschili sulla tutela delle donne e sulla civilizzazione dei “selvaggi”. Ciò non toglie che la critica femminile al colonialismo fosse appesantita da ambiguità e contraddizioni, perché segnata da una visione eurocentrica e autoreferenziale dei diritti, inaccessibile o ancora impensabile per le “sorelle” d’Oltremare. Eppure, per una lunga fase, nel pensiero femminile italiano differenziare non significò legittimare politiche di dominio. Nel suo rifiuto dell’oppressione coloniale il femminismo postunitario fu agevolato dalla natura del colonialismo italiano, deli-

neatosi sin dal principio come sopraffazione militare. La disfatta di Adua, nel 1896, generò la prima autentica invasione femminile dello spazio pubblico nazionale, in nome dell’immediato ritiro dall’Africa e dell’abbandono di ogni velleità coloniale. Una rete di relazioni tra donne animò l’agitazione anticoloniale, che contribuì a dare impulso alla nascita di alcune tra le più attive associazioni femminili d’inizio Novecento.

“La direttrice del periodico, la mazziniana Gualberta Alaide Beccari, non faceva mistero della sua avversione al processo di espansione coloniale, che riteneva in contrasto con gli ideali risorgimentali, e tuttavia in questo caso prese le difese di una donna che, per amore, pretendeva di sfidare i pregiudizi sulla natura femminile e partecipare all’avventura coloniale” Nella storia dell’emancipazionismo italiano fu la guerra di Libia del 1911-12 a costituire una svolta, irrompendo in un mondo femminile faticosamente impegnato, dal 1905, nella campagna per il suffragio alle donne. Il timore di veder svanire l’ultima possibilità di ottenere il diritto al voto, approfittando della riforma elettorale proposta alla vigilia dell’aggressione coloniale, indusse il movimento femminista non tanto a sposarne le ragioni, quanto a scegliere un prudente silenzio, a mostrarsi responsabile di fronte alla nazione. Il patriottismo coloniale finì però per conquistare molte sue anime. Voci e opere femminili sostennero il “fronte interno”, accreditando le donne quali detentrici di una peculiare funzione nazionale e imperiale, secondo una strategia raffinata e dilatata nel corso della Grande Guerra. Nel frattempo l’immaginario delle italiane era stato progressivamente “colonizzato” e la prima stagione del movimento femminista italiano si avviava a conclusione.

L’immagine della “donna orientale”, le esotiche narrazioni di primitivi sensualismi e barbare segregazioni accompagnarono la nascita dei movimenti femminili europei tra Otto e Novecento. L’Oriente era l’altro da sé che illuminava i progressi intellettuali, sociali e civili delle donne occidentali, ma dall’Oriente veniva anche la conferma di una “schiavitù femminile” universalmente condivisa. Intorno al tema della donna ridotta a oggetto sessuale l’emancipazionismo femminile italiano dei primi decenni postunitari costruì la sua critica ai modelli di genere, alla minorità giuridica femminile, all’esclusione delle donne dalla cittadinanza. Una critica alle ambiguità del progresso occidentale che favorì il delinearsi di una posizione fermamente anticoloniale, sorda alla retorica della civilizzazione tanto più se portata con le armi. Questo libro intende fornire un contributo alla conoscenza della cultura femminista italiana ricollocandola nel contesto coloniale in cui nacque e si diffuse, nella convinzione che anche in Italia l’espansione africana abbia influito sulle modalità culturali e associative del movimento delle donne. Le radici dell’anticolonialismo femminista, la campagna per il ritiro dall’Africa all’indomani di Adua, ma anche i cambiamenti di rotta, le diverse strategie di legittimazione culturale e sociale maturate a inizio Novecento, i silenzi e gli entusiasmi di fronte all’impresa di Libia costituiscono i diversi capitoli di questa “storia coloniale” del primo femminismo italiano. (da www.viella.it)


Di quei nostri tre colori Come è nata la nostra bandiera di Michela Monferrini Volgean la testa al feretro le vacche, verde, che al morto su la fronte i fiocchi ponea dei fiori candidi, e le bacche rosse su gli occhi. Il tricolore!… Giovanni Pascoli

re per la sua Giovine Italia: una suggestiva ed emozionante lettura, che è però storicamente smentita proprio dalla storia dell’anarchico Zamboni e di de Rolandis, che nel 1794 unirono al bianco e al rosso delle rispettive città, il color verde della speranza di poter essere seguiti dal popolo intero nel loro precoce tentativo di rivoluzione e di unificazione. Zamboni, sull’onda dell’entusiasmo per la Rivoluzione Francese, era partito per Marsiglia, soldato con il ruolo proprio di portabandiera, dell’ancor neonato drapeau francese bianco, rosso e blu. Tornato in Italia, aveva lavorato a Roma, sotto falso nome, come spia all’interno del governo pontificio. Fu in questo momento che, aiutato da de Rolandis e da altri giovani studenti, chiese a sua madre e a sua zia di preparare, per la sommossa di Bologna, coccarde tricolore alla maniera dei francesi, sostituendo però il verde al blu.

«Quelli nella nebbia hanno una bandiera verde [...], quelli sul confine hanno una bandiera rossa [...], quelli in cima al monte hanno una bandiera bianca»: distante, ma solo temporalmente, da La bandiera dei tre colori – la canzone risorgimentale che la generazione delle nonne era costretta a imparare a memoria in età scolare –, è la canzo“Emiliano era Luigi Zamboni, che con ne che Francesco Tricarico ha presentato in occasione delGiovanni Battista de Rolandis di l’ultimo, patriottico Festival di Sanremo, tutto dedicato al Castell’Alfero di Asti è considerato il 150° anniversario dell’Unità d’Italia e rappresentato dal padre della nostra bandiera” fortunatissimo slogan di Gianni Morandi “Stiamo uniti”. Sembrava proprio in onore a questa formula che Tricarico proseguiva, ammonendo: «Ricorda che la nostra tre colori Nelle settimane seguenti, mentre la vicenda di Zamboni e dei suoi amici si consumava con la cattura e la tragica ha» e intitolava il suo brano Tre colori, come l’album del 2007 di Graziano Romani, un cantautore che ha voluto rimorte, il tricolore iniziava la sua ascesa. cordare il legame tra la sua Reggio Emilia e il tricolore Per qualche tempo, fino alla proclamazione della Repubitaliano. blica Italiana, tornò anche l’azzurro, colore dei Savoia, di Emiliano era Luigi Zamboni, cui resta traccia nelle divise che con Giovanni Battista de delle Forze Armate e nelle Rolandis di Castell’Alfero di maglie degli sportivi, nel proAsti è considerato il padre delclamarsi di tutti “azzurri” in la nostra bandiera. Durante il periodo di Mondiali e di già citato Festival di Sanremo, Olimpiadi, ma sono stati sin Roberto Benigni ha dato da subito il bianco, il rosso e un’affascinante, tutta letteraria il verde scelti da Zamboni i interpretazione della storia del colori dell’unificazione, pritricolore, facendone risalire le ma ancora che questa avvenisse: un documento conserorigini a quei versi del Purgavato all’Archivio Storico di torio di Dante in cui finalmente appare Beatrice, simbolo inCherasco, sanciva al giorno sieme di speranza, di fede e di 13 maggio 1796, giorno carità: «così dentro una nuvola dell’armistizio tra Napoleone di fiori / che da le mani angelie gli austro piemontesi, il che saliva / e ricadeva in giù compleanno della bandiera: dentro e di fori / sovra candido «Si è elevato uno stendardo, vel cinta d’uliva / donna m’apformato con tre tele di diverparve sotto verde manto / veso colore, cioè Rosso, Bianstita di color di fiamma viva». co, Verde». Pochi mesi dopo, Questi versi, secondo Benigni, in ottobre, il Senato provviavrebbero indotto Giuseppe Luigi Zamboni. Con Giovanni Battista de Rolandis, Zamboni è sorio di Bologna confermaMazzini ad adottare il tricolo- considerato il padre della nostra bandiera va: «Richiesto quali siano i Michela Monferrini

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Di tre colori: le lanterne di Anna Onesti formano il tricolore

Anna Onesti al lavoro

colori Nazionali per formarne una bandiera, si è risposto il Verde il Bianco ed il Rosso». L’infanzia del tricolore (poi adottato nei moti del 1820-21, dalla Giovine Italia e infine dalla Repubblica Romana), tutta compresa tra il 1794 e l’inizio del 1797, culmina quindi nel gennaio di quest’ultimo anno, con il Congresso Cispadano di Reggio Emilia, in cui si «fa mozione che lo stemma della Repubblica sia innalzato in tutti quei luoghi nei quali è solito che si tenga lo Stemma della Sovranità. Decretato. Fa pure mozione che si renda Universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori, Verde, Bianco e Rosso e che questi tre colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti. Viene decretato».

“Zamboni e de Rolandis nel 1794 unirono al bianco e al rosso delle rispettive città, il color verde della speranza di poter essere seguiti dal popolo intero nel loro precoce tentativo di rivoluzione e di unificazione” In quest’anno di festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità, una delle iniziative interamente dedicate alla nostra bandiera è l’installazione di Anna Onesti che è stata appunto intitolata Di tre colori e che in agosto, in occasione della Settimana della lingua italiana, porterà il tricolore negli Istituti italiani di cultura di Sidney e Melbourne. Già ospitata in primavera a Roma, presso l’Istituto nazionale per la grafica, l’opera di Anna Onesti –

che ha studiato in Giappone le tecniche di fabbricazione della carta artigianale e le antiche pratiche tintorie, occupandosi poi principalmente di aquiloni artistici – è composta da centocinquanta lanterne realizzate a mano, in carta dipinta di bianco, rosso e verde. Tutte le sostanze utilizzate, compresi i coloranti, sono naturali: carta che viene dalla pianta giapponese di kozo; stecche di bambù; fili di cotone; reseda, guado e indaco per il verde; robbia

“In quest’anno di festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità, una delle iniziative interamente dedicate alla nostra bandiera è l’installazione di Anna Onesti che è stata appunto intitolata Di tre colori e che in agosto, in occasione della Settimana della lingua italiana, porterà il tricolore negli Istituti italiani di cultura di Sidney e Melbourne” e cocciniglia per il rosso; un impasto delle stesse sostanze per il grigio con cui disegnare leggermente le lanterne lasciate bianche. Una grande sala le ospita: sono leggere, leggerissime, viene da pensare che siano propiziatorie per qualcosa; sospese ad altezze diverse, oscillano ad ogni spostamento d’aria, ognuna con il suo disegno unico creato dalla tintura. Le immaginiamo accese in una stanza buia, quasi volanti: voleranno davvero, verso l’Australia, tra poco. Ci chiediamo se per il trasferimento dovranno essere smontate e poi rimontate, data la loro consistenza fragile. Auguriamo buon viaggio ai colori italiani, neanche Zamboni avrebbe mai pensato che sarebbero arrivati tanto lontano.

• Il “compleanno” del tricolore italiano cade il 7 gennaio, giorno del Congresso della Repubblica cispadana. • A Reggio Emilia si trova il Museo del tricolore, la cui prima sezione fu inaugurata il 7 gennaio 2004 da Carlo Azeglio Ciampi. • Nel 1897, i festeggiamenti di Reggio Emilia per il centenario del tricolore culminarono con un discorso divenuto celebre di Giosuè Carducci. • La coccarda indossata da Giovanni Battista de Rolandis durante i moti del 1794, salvata dall’avvocato Aldini, si trova presso il Museo degli studenti dell'Università di Bologna, nella via che porta il nome dell’amico Zamboni. • De Rolandis fu torturato e impiccato; non si riuscì invece a stabilire se Zamboni, trovato morto nella sua cella denominata “Inferno”, si tolse la vita da solo o fu ucciso per conto del Tribunale dell’Inquisizione.


Ieri, oggi e domani Le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità viste da un immigrata e da un italiano all’estero di Gaia Bottino Da dove provenivano i tuoi familiari? Da Cava dei Tirreni, in provincia di Salerno. Quando hanno lasciato l’Italia? Negli anni Sessanta. Perché hanno laLuis Mosca sciato l’Italia? Per un futuro diverso da quello che gli veniva offerto in quel momento. Come ti immaginavi l’Italia prima di vederla? Mio padre mi mostrava le sue foto da bambino, mi parlava degli zii e dei nonni, ascoltavamo musica italiana e in casa eravamo abituati alle tradizioni italiane. Quando l’ho vista per la prima volta era proprio come l’avevo immaginata. È stato difficile per i tuoi parenti integrarsi in Venezuela? All’inizio sì, per la lingua e per la lontananza dalla famiglia, ma mio padre ha amato subito il Venezuela tanto da sposare una venezuelana! Quali contributi porta la comunità italiana in Venezuela? Ha contribuito in maniera determinante allo sviluppo economico e sociale del Paese. Cosa pensi degli stranieri che vivono oggi in Italia? Il Venezuela ha accettato mio padre e per questo ho capito quanto sia importante trovare un paese accogliente. Non posso condividere le idee di chi oggi in Italia rifiuta gli stranieri. Che cosa hanno in comune gli emigrati italiani di ieri con gli immigrati stranieri di oggi? Come i miei parenti, gli stranieri in Italia hanno una realtà difficile alle spalle che li ha costretti a lasciare il loro paese. Che volto avrà l’Italia del futuro? Vorrei che fosse più aperta agli stranieri: è importante tutelare le tradizioni perché così si tramandano alle generazioni future, ma bisogna capire che i confini geografici non sono confini di vita. Come hai vissuto il 150° anniversario dell’Unità d’Italia? Ero in Italia ed è stato bellissimo: il comune di Cava dei Tirreni ha organizzato diverse manifestazioni ed io ho partecipato alla settimana della cultura. Ti consideri italiano anche se sei nato in un altro Paese? Provo affetto per l’Italia, quando sono lontano ho profonda nostalgia di ogni piccola cosa.

Da quale città dell a R o m a n i a p ro vieni? Da Satu Mare, una città della Transilvania. Da quanto vivi in Italia? Da dodici anni. Irina Marita Perché hai lasciato la Romania? Per mettermi in gioco e realizzare, con sacrificio e umiltà, un avvenire migliore per me e la mia famiglia. Prima di vederla come ti immaginavi l’Italia? Un paese dalle grandi opportunità, ma sapevo che una volta lasciata la Romania avrei dovuto sacrificarmi molto. È stato difficile integrarti? All’inizio sì, per la lingua e per la difficoltà di trovare un lavoro, ma ho incontrato persone che mi hanno fatto sentire come a casa. Quali contributi porta la comunità romena in Italia? La comunità rumena è formata da persone giovani che si integrano facilmente: i ragazzi spesso lavorano nell’edilizia, le ragazze come collaboratrici domestiche, ma tanti studiano. Cosa pensi degli stranieri che vivono oggi in Italia? Sono indispensabili, fanno dei lavori che gli italiani rifiutano e danno un contributo al benessere generale. È un dare e avere che porta beneficio non solo agli immigrati ma anche agli italiani. Che cosa hanno in comune gli emigranti italiani di ieri con gli immigrati stranieri di oggi? Gli immigrati di oggi hanno lo stesso sogno degli emigranti italiani di ieri: la ricerca della felicità per loro e per i loro figli. Che volto avrà l’Italia del futuro? Spero che in Italia la qualità della vita migliori e ci sia un lavoro stabile per i giovani di ogni nazionalità. Come hai vissuto il 150° anniversario dell’Unità d’Italia? L’ho sentito parte di me: mi interesso di tutto ciò che avviene in Italia e lo stesso è accaduto per i festeggiamenti dell’Unità. Ti consideri italiana anche se sei nata in un altro Paese? In parte sì, l’Italia mi ha dato l’opportunità di cambiare la mia vita ma la mia terra rimane al primo posto nel mio cuore.

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Il Risorgimento sullo schermo Cento anni di cinema sull’Unità d’Italia da La presa di Roma a Noi credevamo di Ugo Attisani Il ruolo e le vicende del come è stato appunto per il cinema americano. Risorgimento nella storia La strumentalizzazione del periodo risorgimentale da parte della narrazione cinematodel cinema italiano proseguì poi negli anni successivi, in grafica italiana sono quanparticolar modo durante il ventennio fascista, dove 1860 tomeno singolari, visto di Alessandro Blasetti affianca alla fine del suo film le cache all’importanza storica micie rosse dei garibaldini a quelle nere del Fascismo. del periodo non sempre è Nel secondo dopoguerra si impongono per forza di cose corrisposto un eguale podue importanti film di Luchino Visconti, ovvero Senso del sto di rilievo nella produ1954 e Il Gattopardo del 1963. zione cinematografica. Va innanzitutto ricordato “Va ricordato come il Risorgimento sia come il Risorgimento sia stato un processo storico stato un processo storico Ugo Attisani cronologicamente vicino all’invenzione cronologicamente vicino del cinema, tant’è che si passerà in all’invenzione del cinema, tant’è che si passerà in relativamente breve tempo dalle innumerevoli e celebri rapprerelativamente breve tempo dalle sentazioni pittoriche degli eventi risorgimentali al cortoinnumerevoli e celebri rappresentazioni metraggio La presa di Roma di Filoteo Alberini, prima pittoriche degli eventi risorgimentali al messa in scena davanti a una macchina da presa nel 1905 cortometraggio La presa di Roma di di un avvenimento fondamentale per l’unificazione d’Italia. Già però da questo primo incontro tra arte cinematoFiloteo Alberini del 1905” grafica e Risorgimento si evidenziò una delle caratteristiche principali del loro complesso rapporto, caratteristica Il primo, tratto da una novella dello scrittore Camillo Boiche è arrivata sino ai giorni nostri: il cortometraggio fu into, narra e ricostruisce con la solita, maniacale attenzione fatti promosso e sostenuto economicamente dal Ministero ai minimi dettagli del regista, la storia del Risorgimento della Guerra, che fornì addirittura soldati, uniformi e armi dal punto di vista dell’aristocrazia italiana e del rapporto per la messa in scena, evidenziando come il Risorgimento di questa con le aspettative del popolo italiano. Il film, a abbia spesso costituito, se non quasi sempre, per il cinema ennesima riprova di come il Risorgimento al cinema abbia del nostro paese il pretesto per raccontare attraverso metaquasi sempre solo svolto il ruolo di metafora del presente fora le vicende del presente, sia con fini più schiettamente italiano, fu accompagnato da aspre controversie di carattepropagandistici che con intenti di analisi storica. In questo re politico che coinvolsero addirittura la scelta del titolo. specifico caso il fine propagandistico fu ancor più dichiaVisconti voleva infatti intitolarlo non come la novella orirato, dato che la priginale, bensì Customa proiezione avza, a voler identificavenne la sera del 20 re nella sconfitta settembre 1905 in subita dalle truppe occasione dell’aperitaliane contro l’esertura della campagna cito asburgico all’ielettorale che portò nizio della Terza Ernesto Nathan a diguerra d’indipendenventare sindaco di za, il tradimento perRoma. petrato dalle classi Il Risorgimento, quinnobili nei confronti di, non ha quasi mai del popolo. Una tale rappresentato per il interpretazione fu, cinema italiano la come è ovvio, al possibilità di costicentro di polemiche tuire un mito fondatra le forze politiche tivo del paese e condell’epoca e alla fine temporaneamente il film uscì con il nodel suo cinema, un me con cui tutti lo Western italiano e conosciamo e con non all’italiana, così Burt Lancaster in Il Gattopardo (1963) nel ruolo del principe di Salina numerose scene ta-


gliate o modificate. Con Il Gattopardo dopo quasi dieci anni, Visconti volle in parte continuare il racconto del Risorgimento come «rivoluzione senza rivoluzione», per dirla con Antonio Gramsci, ma nella narrazione delle vicende della famiglia del principe di Salina all’alba dell’unificazione d’Italia, sembra prevalere un senso di rimpianto che portò il regista milanese Viva l’Italia di Roberto Rossellini (1961) ad identificarsi (non bisogna dimenticare, in questo senso, le origini aristocratiche di Visconti ) con il principe siciliano. Controversie e fraintendimenti non risparmiarono neanche il film “ufficiale” delle celebrazioni del centenario dell’Unità d’Italia, Viva l’Italia di Rossellini. Rossellini intendeva, in linea con la propria visione artistica dell’epoca, inserire l’opera in un progetto mediatico di più ampio respiro e dai fini didattici, contraddicendo da una parte alla natura dichiaratamente celebrativa di essa e dall’altra recuperando le istanze originarie del neo-realismo. E però, proprio in questo tentativo di riallacciarsi al neorealismo si denunciò ancora una volta la difficoltà di inquadrare cinematograficamente il Risorgimento in maniera autonoma. Il film, infatti, avrebbe dovuto chiamarsi secondo le intenzioni dello sceneggiatore Sergio Amidei Paisà 1860, a ricordare che anche l’Unità d’Italia fu una guerra di liberazione del tutto affine a quella resistenziale.

loro storie con quelle dei personaggi storici del Risorgimento, coglie, non si sa quanto volontariamente e direttamente, l’occasione per esplicitare la linea di tendenza con cui il nostro cinema ha approcciato questo periodo storico, introducendo dei vistosi anacronismi nella ambientazione, che risultano essere quelle dei nostri giorni, quasi a voler chiudere, con i 150 anni d’Italia, un modo di guardare e pensare il Risorgimento.

“Negli ultimi anni il tema sembrava essere stato accantonato dalla produzione cinematografica, se si escludono film come Domani accadrà di Daniele Luchetti e pochi altri, fino all’uscita lo scorso anno di Noi credevamo di Mario Martone, quasi in contemporanea con le celebrazioni dei centocinquanta anni dell’Unità d’Italia” Non possiamo che aspettare i prossimi anni per vedere se ci sarà chi vorrà confrontarsi sul grande schermo con questo momento fondamentale e fondante del nostro Paese e se riuscirà a trovarne una chiave interpretativa originale e diversa da quella finora adottata.

“Il Risorgimento non ha quasi mai rappresentato per il cinema italiano la possibilità di costituire un mito fondativo del paese e contemporaneamente del suo cinema, un Western italiano e non all’italiana, così come è stato appunto per il cinema americano” Non è da dimenticare poi la trilogia di Luigi Magni dedicata al racconto della Roma papalina alle prese con i moti risorgimentali, in particolar modo i due primi episodi Nell’anno del Signore e In nome del papa re. I film, avvalendosi di praticamente tutti i grandi interpreti della commedia all’italiana, rappresentarono un enorme successo commerciale, costituendo quindi la più rilevante apparizione, quantomeno dal punto di vista del pubblico, del Risorgimento sul grande schermo. Negli ultimi anni il tema sembrava essere stato accantonato dalla produzione cinematografica, se si escludono film come Domani accadrà di Daniele Luchetti e pochi altri, fino all’uscita lo scorso anno di Noi credevamo di Mario Martone, quasi in contemporanea con le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Il film di Martone, raccontando le vicende di tre personaggi di fantasia, giovani e meridionali, che incrociano le

Nino Manfredi in Nell’anno del Signore (1968)

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C’era una volta la Lira Un “valore aggiunto” nella nostra storia nazionale di Francesca Gisotti Uscita definitivamente dalla circolazione e dalle nostre tasche a seguito dell’introduzione dell’Euro, la Lira rimane uno dei simboli storici del nostro Paese, elemento d’unificazione non solo del sistema monetario ma anche della nostra cultura popolare. A chi, per esempio, non è mai capitato di canticchiare il ritornello di Mille lire Francesca Gisotti al mese, canzone “tormentone” dell’omonimo film con Alida Valli e la cui celebrità continua fino ai nostri giorni? Allora, per l’italiano medio, mille lire al mese rappresentavano la promessa di una vita «tranquilla» anche se, come recita lo stesso testo del motivetto, senza troppe pretese. Erano anni in cui un «modesto» impiego ed una «casetta in periferia» erano garanzia di un tenore sociale che ancora pochi potevano permettersi e che aveva la parvenza più di un sogno irrealizzabile che di una realtà concreta. Ben più ampie erano invece le aspirazioni di un personaggio come il Signor Bonaventura che, per decenni, ha allietato le giornate dei tantissimi lettori del Corriere dei piccoli, la rivista italiana per bambini più amata e di successo di sempre. Nato dalla mente e dalla mano di Sergio Tofano, in arte Sto, grande umorista e scrittore, oltreché attore, scenografo, regista, costumista e commediografo, tal Bonaventura era un simpatico ometto con la bombetta in testa che in ogni episodio passava dall’essere uno sfortunato pasticcione avventuriero al diventare, attraverso varie peripezie, il possessore di ben un “milione di lire”.

«Qui comincia la sventura del signor Bonaventura»: fumetto nato nel 1917 dalla penna di Sto (Sergio Tofano), il signor Bonaventura è stato protagonista per alcuni decenni di avventure “milionarie” sul Corriere dei piccoli

La ricca vincita gli veniva recapitata alla fine di ogni episodio sotto forma di un enorme biglietto di carta bianca manoscritto. Se anche i più giovani difficilmente possono affermare di non aver mai sentito la celebre formula d’apertura del fumetto «qui comincia la sventura del Signor Bonaventura», sono probabilmente molti meno coloro che conoscono la storia della nostra Lira che, seppur per anni è stata soggetta a continue fluttuazioni, non è mai “caduta in ribasso” nel nostro immaginario di italiani. Il termine lira deriva dal latino libra (bilancia) che nell’antica Roma era sia un’unità di peso che monetaria.

“A chi non è mai capitato di canticchiare il ritornello di Mille lire al mese, canzone “tormentone” dell’omonimo film con Alida Valli e la cui celebrità continua fino ai nostri giorni?” Utilizzata come moneta già da Carlo Magno, l’introduzione della lira italiana, come quella del tricolore, risale al periodo napoleonico quando venne adottata durante la seconda campagna d’Italia con la ricostituzione della Repubblica cisalpina come Repubblica italiana, poi Regno d’Italia. È il 1807 l’anno a cui ufficialmente si fanno risalire le prime emissioni dalla zecca di Milano, Bologna e Venezia con monete da 40, 5 e 2 lire Dopo la fine del Regno d’Italia nel 1814, la lira rimane in circolazione solo nel Ducato di Parma per poi essere rintrodotta ufficialmente nel 1861 con la riunificazione del Paese. A pieno titolo possiamo perciò dire che le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia festeggiano anche la moneta che per tanto tempo ne ha accompagnato le vicende. Proprio in virtù della sua importanza, la Banca d’Italia ha voluto promuovere una mostra a lei dedicata presso il Palazzo delle Esposizioni a Roma, coniugando sia l’aspetto propriamente storico, con l’esposizione delle varie tipologie di banconote e monete che si sono alternate nel corso degli anni, sia l’aspetto tecnico, mostrando attraverso installazioni interattive e filmati, i processi di produzione delle stesse. Vedere le care vecchie mille lire con la faccia di Marco Polo o quelle successive con il volto rassicurante di Maria Montessori e, sul lato opposto, l’immagine di due bambini che scrivono, mette certo un po’ di nostalgia. È la nostalgia per un periodo in cui l’unificazione del Paese era rappresentata anche a pieno titolo dalla moneta nazionale e in cui sentire proverbi come: «È un affare da tre lire» (in Toscana), «Trenta sold a fan pa due lire» (in Piemonte),«A na lire a la volde se fasce u megglione» (Puglia) non suonava ancora come qualcosa di anacronistico. Chissà se con l’Euro emergeranno nuovi modi di dire… “comunitari”?


«L’Italia che non muore» Intervista a Loredana Sciolla sull’identità degli italiani di Federica Martellini

In tempi di polemiche sulla festa dei centocinquanta anni dell’Unità d’Italia, sembra, in base alle indagini più recenti, che gli italiani abbiano riscoperto il valore di eventi e simboli identificati come unitari (il Risorgimento, la Costituzione, l’inno di Mameli, Cavour, Garibaldi, ma anche i “padri” della prima Repubblica: De Gasperi, Moro, Berlinguer). Questo riscoperto orgoglio nazionale tuttavia sembra indirizzarsi più verso un passato, un tempo peraltro molto conteso e non sempre condiviso, che verso il presente. È forse un vizio nazionale quello di appellarsi a un passato che appare sempre e comunque migliore e di non saper riconoscere le potenzialità del presente? Forse è un po’ come se, con Leopardi, continuassimo sempre a dirci: «Piangi, che ben hai donde, Italia mia»… Le polemiche che hanno caratterizzato le celebrazioni dei centocinquanta anni dell’Unità d’Italia mostrano come sia soprattutto sul piano politico che si manifesta l’incapacità di andare oltre una memoria divisa e di rendere alcuni simboli e date (penso ad esempio al 25 aprile), momenti di quella solidarietà politica e sociale che pure la Costituzione prevede come adempimento di “doveri inderogabili” nella stessa misura in cui riconosce “diritti inviolabili” degli individui. Ancora una volta è emersa la peculiarità dell’Italia che in maniera pervicace rende ogni aspetto dell’identità collettiva un campo di lotta tra fazioni avverse. Le strategie della memoria, che costituiscono parte fondamentale della costruzione del comune senso di appartenenza, sono state appannaggio dei partiti che hanno svolto questo compito in maniera conflittuale e senza quel riferimento comune a un interesse superiore, come pure è avvenuto in altri Paesi europei. È stata la tenacia della Presidenza della Repubblica, soprattutto con Carlo Azeglio Ciampi e con Giorgio Napolitano, che si è opposta a questa svalutazione della memoria collettiva, a dare visibilità a quelle ritualità repubblicane senza le quali nessun senso civico può svilupparsi e sopravvivere a lungo.

Queste polemiche spesso faziose che, va ricordato, hanno solo in parte a che fare con l’effettivo difficile percorso di costruzione nazionale che ha storicamente caratterizzato l’Italia, hanno alimentato l’idea che ancora oggi, anzi oggi più che mai, gli italiani abbiano uno scarso senso di orgoglio per il proprio Paese, quel senso di orgoglio che gli studiosi riconoscono come uno degli attributi dell’identità nazionale. Tuttavia questa immagine è fuorviante. Gli italiani, diversamente da quanto comunemente si crede, in grande maggioranza e con un andamento crescente, come mostrano i dati di ricerche longitudinali, dal 1982 ad oggi si definiscono molto o abbastanza orgogliosi, persino più orgogliosi di altri Paesi come la Francia e la Germania. Verso

incontri

Loredana Sciolla è professore ordinario di Sociologia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino, presso cui tiene anche un corso di Sociologia dei processi culturali. Membro del consiglio direttivo dell’Associazione italiana di sociologia (1989-1991), direttore della Rassegna Italiana di Sociologia (1995-1998 e 20072010), è attualmente corrispondente estero di Sociétés contemporaines e membro del Consiglio scientifico dell’Istituto della enciclopedia italiana. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: L’identità a più dimensioni. Il soggetto e la trasformazione dei legami sociali, Ediesse (2010), processi e trasformazioni sociali. La società europea dagli anni sessanta ad oggi (2009) e Sociologia dei processi culturali (2007), La socializzazione flessibile. Identità e trasmissione di valori tra i giovani (con F. Garelli e A. Palmonari - 2006), La sfida dei valori. Rispetto delle regole e rispetto dei diritti in Italia (2005), Italiani. Stereotipi di casa nostra (1997).

“Ancora una volta è emersa la peculiarità dell’Italia che in maniera pervicace rende ogni aspetto dell’identità collettiva un campo di lotta tra fazioni avverse. Le strategie della memoria, che costituiscono parte fondamentale della costruzione del comune senso di appartenenza, sono state appannaggio dei partiti che hanno svolto questo compito in maniera conflittuale e senza quel riferimento comune a un interesse superiore, come pure è avvenuto in altri Paesi europei” cosa, in particolare, si indirizzi questo orgoglio è una domanda molto importante. Nella risposta a questa domanda sta la peculiarità di tale sentimento presso gli italiani. Anche in questo caso tutte le indagini svolte sul tema indicano che le ragioni dell’orgoglio non sono di tipo politico. L’orgoglio per le istituzioni politiche e per il modo in cui funziona la democrazia del nostro Paese è ai minimi termini.

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Le motivazioni dell’orgoglio sono, invece, di tipo culturale (l’arte, la storia, la bellezza delle sue città e del paesaggio), quindi – si potrebbe dire – indirizzate di più verso il suo grande passato che verso la situazione presente. Il fatto che, come dice lei, questo passato sia spesso conflittuale non impedisce alle persone di identificarsi, condividendo gli aspetti di primato che l’Italia della cultura ha sempre avuto. Non si tratta quindi di un “vizio”. Come diceva Norberto Bobbio «L’unica Italia che ha retto nei secoli è quella dei colti». Si può piuttosto dire che questo sentimento è importante, ma non è sufficiente a definire il profilo civile e politico di una nazione.

“Gli italiani, diversamente da quanto comunemente si crede, in grande maggioranza e con un andamento crescente, come mostrano i dati di ricerche longitudinali, dal 1982 ad oggi si definiscono molto o abbastanza orgogliosi, persino più orgogliosi di altri Paesi come la Francia e la Germania” Fra una dimensione europea, che appare talvolta incompiuta, e regionalismi sempre più radicali e radicati, vi è ancora spazio per un’identità nazionale? O siamo piuttosto in una fase di postnazionalismo? Per usare una fortunata espressione di Edmondo Berselli siamo forse ormai “post-italiani”, cittadini di un paese provvisorio? Abbiamo assistito ad un progressivo indebolimento del potere centrale dello Stato nazionale che modifica il moderno sistema degli Stati, sorto in Europa. Mentre lo Stato-nazione continua a decidere su base territoriale, la globalizzazione economica ne scavalca i confini, ridisegna frontiere, rende possibile trasferire capacità di governo e competenze a organismi sovranazionali, dall’Unione Europea alle imprese multinazionali, a organizzazioni internazionali di tipo governativo e non governativo, privi tuttavia di quella legittimazione tipica degli Stati nazionali. Si creano per dirla con Habermas dei «vuoti di legittimità». Nel contempo si indebolisce quella solidarietà civica – formata da fiducia, capitale sociale, spirito civico – anche se in gradi diversi a seconda delle aree geografiche europee e delle diverse componenti considerate, che aveva creato il «cemento» valoriale dell’identità collettiva della vecchia nazione. Dall’altro lato il potere degli Stati nazionali si deve confrontare anche al livello subnazionale, con la nuova forza e dinamicità di vecchi e nuovi attori politici, dalle regioni ai comuni, ad altre entità locali e “lealtà minori” che proprio la globalizzazione rivitalizza. Le nuove tecnologie di rete, che tendono a superare sistematicamente i livelli locali e nazionali, trovano tuttavia in Europa uno sviluppo già predisposto, costituito dalle reti urbane e da sistemi produttivi locali che sviluppano in nuove direzioni quelle funzioni di snodo per la mobilità di merci, persone e conoscenze che avevano acquisito in passato. In definitiva, le tendenze globali agiscono sempre a livello locale, esiste un rapporto reciproco tra il globale e il locale, e questo intreccio spesso genera nuove forme di relazione. La dinamica del locale entra dunque a pieno titolo in quella del globale in tutti i suoi aspetti di scala.

Indebolimento dello Stato nazionale non significa la sua scomparsa, né possiamo dire che siamo già in una situazione “post” nazionale. Mentre l’integrazione europea stenta ad attuarsi sul piano politico e si sente parlare di “deficit democratico”, l’unità nazionale è ancora la premessa indispensabile di ogni attività politica e del nostro vivere insieme in una comunità democratica. Naturalmente, e ciò vale particolarmente per l’Italia, si tratta di un’unità fatta di differenze e di pluralità, di fattori spontanei preesistenti e di costruzione intenzionale. A volte, come già detto, tendono a prevalere egoismi territoriali o interessi di parte. Sono questi a ingenerare quel diffuso senso di sfiducia nelle istituzioni che è il tratto più inquietante dell’Italia di oggi. Che l’identità nazionale abbia ancora uno spazio, anche se declinante, lo mostrano tutte le indagini che sempre più spesso si occupano di questo tema. Meno diffusa tra i giovani, resta comunque un tipo importante di identità territoriale che non si oppone, ma si affianca ad altri tipi di identità locale o sovranazionale. «Qualcuno ha detto che l’Italia non è una nazione ma una federazione di famiglie. Leo Longanesi voleva che sulla bandiera bianca, rossa e verde venisse scritto, come motto nazionale: “tengo famiglia”, la spiegazione e la giustificazione di tutto. (…) L’Italia delle famiglie è indubbiamente l’Italia reale, l’Italia quintessenziale, distillata dalle esperienze di secoli, mentre l’Italia delle leggi e delle istituzioni è in parte una finzione, il paese come gli italiani amerebbero credere che sia o possa essere, pur sapendo che non è». Così Luigi Barzini in Gli italiani (1964), un best seller che per decenni ha raccontato agli altri come eravamo. In molti suoi studi (Italiani. Stereotipi di casa nostra; La sfida dei valori) ha a lungo riflettuto su questo, proponendosi di sconfessare il paradigma del familismo italico (spesso declinato nella versione del familismo amorale). C’è a suo giudizio una carica vitale e positiva nel familismo di casa nostra? Quello del “familismo” italico è uno stereotipo duro a morire e viene ciclicamente ripreso dai mass media e perfino da autorevoli studiosi per spiegare l’origine dei principali

“Le motivazioni dell’orgoglio sono di tipo culturale ( l’arte, la storia, la bellezza delle sue città e del paesaggio), quindi – si potrebbe dire – indirizzate di più verso il suo grande passato che verso la situazione presente” mali dell’Italia (come la corruzione, la diffusione del clientelismo, della criminalità organizzata, l’arretratezza politica e culturale). Il termine familismo indica, in senso generale, la propensione culturale, tipica di un’intera società o di una sua parte, ad attribuire alla famiglia un posto centrale nel suo sistema di valori e a fare affidamento sulla sua benevolenza e solidarietà. Difficilmente si può negare che la famiglia in Italia – ma questa considerazione vale per tutti i paesi occidentali, paesi anglosassoni inclusi – conti ancora molto, per quanto riguarda l’importanza che le viene attribuita come legame affettivo e luogo primario della solidarietà. In Italia (e nei paesi mediterranei) conta molto anche


oggettivamente, se pensiamo che, a differenza di quanto avviene nei paesi nordici, essa sostituisce l’intervento dello Stato, fornendo ai giovani il sostegno economico in mancanza di politiche pubbliche adeguate (questa è una delle ragioni che fa lievitare il numero di giovani oltre i 20 anni che vivono ancora in casa coi genitori, i cosiddetti “bamboccioni”). Tuttavia tra riconoscere l’importanza della famiglia e assumerla come chiave di lettura dell’intera realtà italiana contemporanea c’è un abisso logico e storico. Perché questa importanza si sarebbe tramutata solo in Italia in un vizio inestirpabile, antropologicamente insito nel carattere italico? Perché la solidarietà dei legami famigliari, privati (quando c’è) deve per forza essere foriera di immoralità e incivismo pubblici? Nessuno l’ha mai spiegato e dalle ricerche non emerge affatto una contrapposizione tra legami “forti” e solidarietà più ampie. Anzi, sembra che sia proprio in famiglia che i bambini apprendono ad aver fiducia negli altri. E allora? Allora la tesi familistica ha qualcosa di semplificatorio e insieme suadente. Si passa quasi inconsapevolmente dal familismo (l’“ismo” indica già qualcosa di negativo) al “tengo famiglia”, ossia alla giustificazione di atti incivili, individualistici e perfino codardi, con i legami famigliari. Ma se così fosse per l’Italia non ci sarebbe scampo. Come dice Don Abbondio, se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare. Se gli italiani sono familisti immorali per vizio secolare, non c’è speranza di cambiamento. Meno male che le spiegazioni di questo tipo naufragano non appena qualcosa si mette in moto: una protesta, un moto di orgoglio, o semplicemente l’impegno quotidiano di migliaia di associazioni e organizzazioni della società civile italiana. La carica vitale delle relazioni familiari (quando non è confusa col “tengo famiglia”), per limitarci ad un esempio, si è manifestata in molte situazioni sociali dove ha permesso di creare reti di informazione e di collaborazione che hanno – in certi periodi e zone geografiche – favorito lo sviluppo economico (il caso dei distretti e della Terza Italia ad esempio). Naturalmente non sempre si instaurano questi circoli virtuosi. Nel 1979 Francesco De Gregori con Viva l’Italia scriveva una ballata che ha rappresentato, credo, per molti un modo per identificarsi e riconoscersi come italiani e per amare l’Italia, nelle sue contraddizioni: «l’Italia metà giardino e metà galera», «metà dovere e metà fortuna», «l’Italia assassinata dai giornali e dal cemento», «l’Italia con gli occhi asciutti nella notte scura», «l’Italia che si dispera, l’Italia che si innamora», «l’Italia tutta intera»… Qual è oggi, a suo giudizio, «l’Italia che non muore»? Di quali immagini è fatta? A quali sentimenti e valori si appella? L’Italia, come nella ballata di De Gregori, è un paese con-

traddittorio. Molti anni fa, nel 1996, avevo intitolato un mio libro, scritto con Nicola Negri, Il paese dei paradossi. L’Italia è rimasta ancora oggi il paese dei paradossi. Ne cito alcuni: una classe politica divisa perfino sul significato dell’Unità d’Italia, quando i cittadini italiani mostrano, al Nord come al Sud, di provare senso di appartenenza e perfino orgoglio (L’Unità d’Italia è vista favorevolmente dall’84% dei cittadini). Un paese con una questione meridionale e una settentrionale. Ancora: un paese che ha un’imposizione fiscale elevatissima, pari a quella dei paesi nordici, ma con servizi sociali assai lontani da quanto erogano questi ultimi e tassi di evasione fiscale incomparabilmente superiori, un paese che ha uno stato debole, ma ingombrante e inefficiente, con un complesso di leggi e norme tra i più vasti, severi e dettagliati e nel contempo meno applicati d’Europa, che mostra ancora elevati tassi di partecipazione, ma con livelli altrettanto elevati di sfiducia nelle istituzioni. L’«Italia che non muore» è quella che non si rassegna all’uso spregiudicato del potere, all’annullamento del merito, al predominio delle clientele. È quella che cambia sotto i nostri occhi, ma c’è chi non la vede. Siamo un paese che invecchia rapidamente e dove si ha spesso l’impressione che la memoria abbia messo radici troppo fragili per determinare un’eredità viva. Lei si è occupata a lungo di giovani e cultura giovanile: che italiani sono i ventenni di oggi? I ventenni di oggi vivono una condizione contraddittoria: sono sempre più autonomi sul piano culturale (negli stili di vita, nelle scelte affettive e comportamenti sessuali etc.) e nello stesso tempo sempre più dipendenti socialmente. Permane una forte dipendenza dalla famiglia (i giovani 2529enni che coabitano coi genitori rappresentano circa il 56%), che costituisce il principale ammortizzatore sociale dei giovani. Nello stesso tempo le loro aspettative di ascesa sociale sono sistematicamente deluse. Un ascensore sociale bloccato frustra il merito, l’iniziativa, priva l’Italia di competenze ed energie vitali, aumenta la forbice delle disuguaglianze e premia l’ereditarietà o, ancor peggio, le clientele e le scorciatoie. Non ci si può poi lamentare se la sfiducia è molto più elevata tra i giovani, in particolare la sfiducia nelle istituzioni politiche che resta tra le più elevate d’Europa. Ma i ventenni di oggi non si rassegnano a questa prospettiva, sono meno passivi della generazione precedente. Emerge una domanda di cambiamento che prende sia strade individuali, nella ricerca di lavori innovativi, di giovani determinati a far valere le loro capacità, e collettive, di mobilitazione per un rinnovamento della politica e della società italiana. La richiesta che è risuonata nelle piazze di avere più opportunità e un futuro continuerà, si può pensare, finché non troverà risposte convincenti.

È proprio vero che gli italiani si distinguono per un eccessivo attaccamento alla famiglia? Ed è proprio il “familismo” italico che impedisce il formarsi di solidarietà più ampie e lo sviluppo di un adeguato senso civico? Queste immagini negative sono talmente diffuse da costituire dei veri e propri stereotipi, con l’aspetto paradossale che siamo proprio noi a proiettarli su noi stessi. Non si può non chiedersi perché gli italiani, intellettuali compresi, si detestino tanto, perché, contro ogni evidenza, tendano a valutare bene gli altri e disprezzare se stessi. Loredana Sciolla, Italiani. Stereotipi di casa nostra, Bologna, Il Mulino, 1997

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Tra storia, memoria e letteratura Intervista ad Andrea Camilleri di Valentina Cavalletti

Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle (Agrigento) il 6 settembre 1925. Regista teatrale debutta a Roma nel 1953. Dal 1958 lavora come produttore e regista televisivo e radiofonico in Rai. Ha insegnato Direzione dell’attore all’allora Centro sperimentale di cinematografia, ha tenuto la cattedra di Regia, per quindici anni, all’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio d’Amico. Nel 1978 pubblica il suo primo romanzo: da allora non abbandonerà più la letteratura. Ha pubblicato oltre cinquanta volumi tra romanzi storici e civili, romanzi polizieschi, e diciotto romanzi della serie che ha come protagonista il commissario Montalbano, ambientati nella cittadina di Vigàta che hanno avuto un grande successo televisivo. Ha venduto, in Italia, circa 15 milioni di copie. All’estero si contano più di 8 milioni di copie vendute. È tradotto in più di 35 lingue.

Quali sono i punti fermi della nostra identità dapprima culturale e soltanto in un secondo momento territoriale? Di certo la grande tradizione letteraria. L’idea di identità in letteratura c’è anche in Dante. I punti fermi sono i punti culturali, indirizzati di certo a pochi. Poi questo patrimonio di pochi è stato piano piano passato a molti. L’aspirazione ad essere popolo è continuata in tutta la letteratura preunitaria da Dante a Petrarca. Solo poi l’identità culturale diventa politica ma questo accade con l’Unità. È stata una lingua a fare la Nazione, e poi è importante rilevare che contestualmente si è sviluppata una letteratura dialettale altissima che ha concorso a rinforzare la base dell’albero della lingua italiana.

“È stata una lingua a fare la Nazione, e poi è importante rilevare che contestualmente si è sviluppata una letteratura dialettale altissima che ha concorso a rinforzare la base dell'albero della lingua italiana” Nei suoi romanzi storici dà voce alle persone che hanno partecipato alla nascita di questa nazione e che spesso non compaiono sui libri di storia. Qual è il rapporto tra la storia, la sua memoria e la letteratura? Il rapporto tra storia, memoria e letteratura è alla base del mio lavoro. Per me il momento preunitario è assai importante ed è fondamentale per tutta la mia scrittura. È da là

che nascono la maggior parte degli spunti con cui ho scritto i miei romanzi storici. In Sicilia soprattutto il periodo preunitario e quello immediatamente dopo l’Unità ha rappresentato un momento fondamentale per la crescita e per lo sviluppo del Meridione. Nel bene e nel male. Ma questa è una storia lunga, lunghissima...

“Sono cresciuto in questa mescolanza di lingue, e quando ho deciso di scrivere mi è venuto spontaneo farlo così, come ho sempre pensato” I suoi libri vengono tradotti in più di trenta paesi ma noi che abbiamo la fortuna di leggere i suoi romanzi nella versione originale, possiamo cogliere al meglio i sapori, i colori, gli odori e la mentalità della sua terra. Perché ha scelto di scrivere in dialetto? Perché come ho spiegato molte volte è l’unico modo in cui mi è permesso scrivere. Sono cresciuto in questa mescolanza di lingue, e quando ho deciso di scrivere mi è venuto spontaneo farlo così, come ho sempre pensato. Montalbano indaga all’Università degli studi di Vigata. Cosa scopre? Non credo che a Vigata ci sia un’Università. Casomai ci potrebbe essere una sede distaccata dell’Università di Montelusa. Inoltre è difficile che Montalbano possa indagare sull’andamento dell’Università piuttosto su un omicidio che potrebbe accadere lì. Ma devo dire la verità non ci ho mai pensato...


Garibaldi, il Perù e l’Unità d’Italia Intervista ad Augusto Ferrero Costa di Giuliana Calcani

Nato a Lima da una famiglia di origine italiana, Augusto Ferrero Costa è avvocato, professore emerito nella Facoltà di Diritto e scienze politiche della Universidad Nacional Mayor de San Marcos di Lima, docente di Diritto civile e vicerettore della Universidad de Lima. È membro della Academia Peruana de Derecho, membro corrispondente della Real Academia de Ciencias Morales y Politicas di Spagna e socio onorario della Real Academia de Jurisprudencia y Legislación di Spagna. Ha ricevuto il titolo di professore onorario da numerose Università del Perù. Tra il 2009 e il 2010 è stato ambasciatore del Perù in Italia. È autore, oltre che di importanti studi sul diritto civile, anche di saggi storici tra i quali si ricorda La Musica contexto y pretexto en la historia, tradotto lo scorso anno in lingua italiana grazie alla Fondazione Casa America di Genova, con il patrocinio anche dell’Università degli Studi Roma Tre e che è stato presentato, insieme a una mostra di documenti originali e inediti di proprietà dell’autore al Teatro dell’Opera di Roma, lo scorso gennaio. Con il patrocinio del Comitato dei garanti per le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, del Ministero per i Beni e le attività culturali, di Roma Tre e della Universidad de Lima, è uscita ora l’edizione bilingue (italiano e spagnolo) del saggio La presenza di Garibaldi in Perù.

La presenza di Augusto Ferrero Costa in Italia, durante il mandato come ambasciatore del Perù, è stata una vera e propria iniezione di vitalità negli scambi culturali tra i nostri Paesi che hanno visto anche Roma Tre protagonista di molte attività. Ma è di un’altra presenza che vogliamo parlare in questa intervista: quella di Giuseppe Garibaldi in Perù. È una presenza importante, molto più di quello che si può immaginare in Italia dove oggi Garibaldi sembra ad-

“Garibaldi in Perù. Di pubblicazioni ce ne sono molte su questa parte della vita dell’eroe non a caso definito dei due mondi, conoscevo bene l’esperienza americana di questo italiano illustre, ma mai avrei immaginato l’importanza del suo soggiorno in Perù per il processo di unificazione dell’Italia” dirittura meno popolare di quanto non lo sia in Perù. La storia è incredibile e per questo mi appassiona tanto, non si finisce mai di scoprire i nessi tra personaggi, fatti, luoghi. È come un puzzle dove cerchi per tanto tempo il pezzo che ti manca per rendere leggibile, per completare una porzione dell’insieme che abbia un senso. Quando trovi il tassello mancante hai una felicità quasi infantile ed è quello che è successo a me studiando i documenti dell’epoca sulla presenza di Garibaldi in Perù. Di pubblicazioni ce ne sono molte su questa parte della vita dell’eroe non a caso definito “dei due mondi”, conoscevo bene

l’esperienza “americana” di questo italiano illustre, ma mai avrei immaginato l’importanza del suo soggiorno in Perù per il processo di unificazione dell’Italia. Sono convinta che la stessa sorpresa sarà condivisa anche dai nostri lettori, ma arriviamoci per gradi perchè è interessante anche il riferimento che facevi alla popolarità attuale di Garibaldi in Perù, quanto peso ha la comunità di origine italiana in questo? Si, capisco, ed è vero che c’è un maggiore attaccamento da parte degli italiani all’estero, anche in senso di con-

“Il flusso migratorio più importante verso l’America del sud, compreso il Perù, risale proprio alla seconda metà dell’Ottocento, quando il Risorgimento e le camicie rosse dei garibaldini erano i fatti di attualità” servazione della memoria, verso il passato. Il flusso migratorio più importante verso l’America del sud, compreso il Perù, risale proprio alla seconda metà dell’Ottocento, quando il Risorgimento e le camicie rosse dei garibaldini erano i fatti di attualità. Gli italiani che emigravano portavano via con sé quel momento storico ancora in divenire, insieme alle amarezze certo, ma anche alle speranze di una vita migliore e all’illusione, in molti casi, di un ritorno in Patria. La comunità italiana si è inserita bene in Perù, in generale si può dire che ha raggiunto presto benessere e successo sociale. Basti ricordare che il museo di arte italiana a Lima è un edificio costruito a spese della stessa comunità che l’ha donato allo Sta-

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to peruviano, completo di importanti opere d’arte italiana, in occasione del centenario dell’indipendenza del Perù nel 1921. Ecco, in questo senso abbiamo un’altra figura di riferimento che rappresenta in sintesi il contributo culturale italiano al Perù: Antonio Raimon- Mural, Ambasciata italiana a Lima di. Scienziato naturalista, geografo, antropologo e archeologo, Raimondi, che ha disegnato la prima carta geografica del Perù, è arrivato a Lima quando aveva poco più di vent’anni, dopo aver partecipato con Garibaldi alla battaglia di Mentana e non ha più lasciato il Perù pur mantenendo sempre la cittadinanza italiana. Non è un caso che sul muro di cinta dell’Ambasciata d’Italia a Lima sia stato dipinto un mural che rappresenta Garibaldi e Raimondi, due personaggi molto noti in Perù, ma che sono anche l’espressione sintetica dei valori in cui si riconoscono anche oggi i peruviani di origine italiana: la forza dell’azione e la forza del pensiero e della conoscenza. Resta ancora da chiarire se Garibaldi e Raimondi si conoscessero direttamente, è probabile che il milanese Raimondi fosse a Mentana al seguito di Luciano Manara. Non abbiamo prove, per ora, neppure di un loro incontro in Perù.

“Lima, negli anni a cavallo della metà dell’Ottocento, era una città a vocazione internazionale dove sarebbe stato possibile incontrare anche Paul Gaugin negli stessi anni in cui ci viveva Garibaldi” Però abbiamo le prove di una nuova consapevolezza sull’importanza di essere “italiano” da parte di Garibaldi, maturata proprio grazie ad altri incontri che sicuramente ebbe a Lima… Più che di incontri possiamo parlare dell’importanza di un vero e proprio scontro su cui abbiamo la documentazione già raccolta nell’opera di Ricardo Palma (Tradiciones peruanas, 1863). Garibaldi arrivò da New York a Lima il 5 ottobre 1851. Il più importante quotidiano peruviano dell’epoca El Comercio, diede notizia del suo arrivo descrivendolo come «l’illustre guerriero, sostenitore dell’indipendenza della Repubblica dell’Uruguay e dell’unità e dell’indipendenza dell’Italia». In realtà Garibaldi in quel periodo sembrava aver dimenticato l’importanza della lotta per l’Unità d’Italia e il suo impegno prioritario sembra piuttosto quello di commerciante di guano dalle isole Chincha e di capitano di navi che trasferivano in Perù prodotti di lusso e manodopera dalla

Cina. Nel frattempo Garibaldi aveva avuto la cittadinanza peruviana fatto del quale si vantava anche prima di averla effettivamente ottenuta - che gli era necessaria per gestire in prima persona il commercio di cabotaggio e non per comandare una nave in acque territoriali peruviane come da alcuni scritto. Era in contatto, è vero, con la società massonica peruviana e sarebbe importante indagare sui contatti che Garibaldi poté avere con alcuni suoi esponenti, come Francisco Bolognesi, peruviano di origine italiana che è considerato un eroe nella storia nazionale peruviana avendo sempre combattuto in difesa dell’indipendenza del Paese di adozione. Lima, negli anni a cavallo della metà dell’Ottocento, era una città a vocazione internazionale dove sarebbe stato possibile incontrare anche Paul Gaugin negli stessi anni in cui ci viveva Garibaldi. Ma fu un altro francese, non il famoso pittore, ad essere protagonista di un episodio decisivo nella vita di Garibaldi: Carlos Ledos. Carlos Ledos era un commerciante che collaborava spesso con un quotidiano peruviano, El Correo de Lima, dove il 4 dicembre 1851 pubblicò un articolo dal titolo Eroi di paccottiglia. Nell’articolo il francese Ledos ironizzava pesantemente su Garibaldi, su Mazzini e il re di Sardegna Carlo Alberto. Letto l’articolo, Garibaldi si mise in cerca dell’autore e scovò Ledos in un negozio dove fu ingaggiato un poco nobile duello a suon di bastonate. Dopo l’intervento della polizia dovette intervenire il console di Sardegna, José Canevaro, per evitare la prigione a Garibaldi. L’episodio creò una forte tensione tra la comunità italiana e quella francese e le tensioni politiche che stavano decidendo in Europa le sorti del futuro assetto italiano si trasferirono anche a Lima. Perchè si arrivasse ad un accordo dovette intervenire direttamente Echenique, il presidente del Perù. Solo due anni prima Garibaldi aveva tentato invano di resistere alle truppe francesi che alla fine occuparono Roma e i fatti di Lima rivelavano quanto fosse ancora bruciante la sconfitta a Mentana. Ma in concreto, perchè lo scontro con Ledos ebbe un ruolo decisivo nel persuadere Garibaldi a tornare in Italia a combattere per l’Unità ? Perchè l’intervento del console di Sardegna, che agiva ovviamente per conto della monarchia sabauda, in difesa dell’onore di un italiano che non poteva finire in prigione, dimostrò a Garibaldi che più dell’appartenenza politica quello che contava era essere “italiani”. E così ben prima della famosa stretta di mano del 26 ottobre 1860 a Teano, un convinto repubblicano come Garibaldi aveva già capito a Lima che l’obiettivo superiore di unire l’Italia poteva prevedere anche l’alleanza con il re.


Un racconto diverso della storia Intervista a Giovanna Marini sui canti popolari di Michela Monferrini

Dopo gli studi al Conservatorio di Santa Cecilia, Giovanna Marini si lega negli anni Sessanta agli intellettuali che si occupano di cultura popolare, tra cui Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Gianni Bosio, Alessandro Portelli, appassionandosi alla cultura dei canti di tradizione orale e raccogliendoli su tutto il territorio nazionale. Utilizza quindi questo materiale da lei raccolto e catalogato per spettacoli sulle tradizioni popolari italiane. Nel 1975 fonda assieme a un gruppo di jazzisti già conosciuti in Italia e all’estero (Bruno Tommaso, Martin Joseph, Giancarlo Schiaffini, Eugenio Colombo, Maurizio Giammarco, Giuppi Paone, Michele Iannaccone, Tommaso Vittorini) la Scuola popolare di musica di Testaccio di cui è stata presidente ed è ora presidente onorario. Mette in musica vari testi, si esibisce in concerto, continua la sua attività di ricercatrice di canti, scrive spettacoli. Dal 1991 al 2000 è docente di Etnomusicologia a Parigi, presso l’università di Paris VIII-Saint Denis. Nel 2002 incide l’album Il fischio del vapore insieme a Francesco De Gregori, ottenendo uno straordinario successo. Nel 2004 mette in musica la Ballata del carcere di Reading e il De profundis di Oscar Wilde, nel 2005 musica invece Le ceneri di Gramsci di Pasolini. Professoressa Marini, qual è l’importanza dei canti popolari, oggi? I canti di tradizione orale raccontano e spiegano la storia in modo molto diverso da come la raccontano e la spiegano gli storici accademici. Il punto di vista di questi ultimi dovrebbe essere oggettivo, eppure ciò non esclude che si possano incontrare vere e proprie demistificazioni della realtà: in un testo scolastico si trova scritto che Giordano Bruno è morto in un incendio, ma c’è una differenza sostanziale nel parlare di incendio piuttosto che della pena capitale a cui fu condannato dall’Inquisizione. Sostituire la parola “incendio” alla parola “rogo” significa trascurare la verità. I canti popolari rispecchiano una visione della storia soggettiva, ma curano il dettaglio, il particolare, offrono una ricostruzione più “divertente” e seppur parziale, mai menzognera; nel frattempo diventano documenti essenziali per la memoria collettiva. Faccio un esempio: si possono ripercorrere le vicende della prima guerra mondiale direttamente dai canti di chi era in trincea. Non bisogna poi dimenticare il grande interesse che rivestono anche da un punto di vista melodico, tanto che Giuseppe Verdi e altri compositori si sono ispirati a questi canti e hanno a loro volta ispirato le persone con la loro musica. Si è creato, ad esempio, uno straordinario scambio

tra Verdi e il popolo delle mondine: o lui si ispirava ai loro canti, o loro prendevano le sue arie più belle aggiungendo-

“I canti popolari rispecchiano una visione della storia soggettiva, ma curano il dettaglio, il particolare, offrono una ricostruzione più ‘divertente’ e seppur parziale, mai menzognera; nel frattempo diventano documenti essenziali per la memoria collettiva” vi le parole. Questo genere di commistione e di osmosi avviene spesso tra l’ambiente della musica colta, soprattutto lirica, e quello popolare. L’unificazione d’Italia ha cambiato qualcosa nei canti popolari? I canti raccontano gli avvenimenti storicosociali già molto tempo prima dell’Unità: abbiamo i canti degli anarchici, i canti dei moti del 1820-21, di quelli del 1848, i canti dei moti napoletani e torinesi. Si può dire che gli avvenimenti della storia italiana di Ottocento e Novecento sono sempre registrati dai canti di tradizione orale, che ci restituiscono le gesta degli eroi popolari

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come fossero vere e proprie registrazioni dal vero. La vicenda di Carlo Pisacane e dello sbarco a Sapri, la vicenda di Masaniello sono rimaste vive anche attraverso i canti. Nel periodo dell’Unità, naturalmente nascono moltissimi canti garibaldini. Rispecchiano visioni soggettive, ci danno soltanto una chiave di lettura di quegli eventi, e però proprio per questo sono emozionanti, coinvolgenti.

“I canti raccontano gli avvenimenti storico-sociali già molto tempo prima dell’Unità: abbiamo i canti degli anarchici, i canti dei moti del 1820-21, di quelli del 1848, i canti dei moti napoletani e torinesi. Si può dire che gli avvenimenti della storia italiana di Ottocento e Novecento sono sempre registrati dai canti di tradizione orale” Cosa ha significato quest’anno di celebrazioni per la diffusione della cultura dei canti popolari? Come le è sembrata la partecipazione agli eventi? Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia è stato un’occasione per approfondire la storia attraverso più strumenti e un’ulteriore possibilità di far conoscere i canti popolari anche alle generazioni più giovani: è quello che da sempre facciamo io, Cesare Bermani, Alessandro Portelli tramite l’Istituto Ernesto De Martino, il Circolo Gianni Bosio, la Scuola popolare di musica di Testaccio. Ho notato, come tutti, una partecipazione e un’adesione straordinaria, ma questo è dovuto anche al momento storico con cui le celebrazioni sono venute a coincidere, un momento durante il quale si tenta di rimettere in discussione l’integrità dello Stato unitario e il Sud d’Italia rischia di

essere letteralmente svuotato dal Nord, derubato nella sua bellezza materiale e spirituale. Viene soprattutto da questo l’adesione massiccia ai vari eventi organizzati quest’anno.

“La vicenda di Carlo Pisacane e dello sbarco a Sapri, la vicenda di Masaniello sono rimaste vive anche attraverso i canti che ci restituiscono le gesta degli eroi popolari come fossero vere e proprie registrazioni dal vero” Vi sono nuovi progetti legati ai canti di tradizione orale? Intanto, occorre dire che vi sono vari tipi di archivi di documenti, sparsi in tutto il Paese, che avrebbero bisogno di fondi per andare avanti, ma purtroppo, come si sa, le risorse economiche destinate a questo tipo di strutture sono sempre meno. È poi nata, da pochissimo, l’Associazione “Giornate di Piadena”. La zona di Piadena, in provincia di Cremona, si trova nella pianura padana, e vi passiamo tre giornate nel mese di marzo, tra concerti e convegni (l’ultimo, A che cosa serve il canto popolare – con Sandro Portelli, Giovanna Marini, Cesare Bermani e rappresentanti dei vari cori e gruppi, si è svolto il 26 marzo scorso, NdR). Abbiamo deciso di dar vita a questa nuova associazione anche nella speranza che un giorno possa in quel territorio nascere – ma è un’ipotesi per ora remota – un vero e proprio museo etnomusicologico. Quando abbiamo fondato l’associazione ci trovavamo a Pontirolo, nella cascina del Micio, un amico che ci ospita ogni anno. In realtà, più che una cascina, prima era una vera e propria fattoria, ma con le quote latte anche le mucche sono sparite.

Chi non ha mai canticchiato Bella ciao, Mamma mia dammi cento lire, Bandiera rossa, Fischia il vento, ma anche Contessa di Paolo Pietrangeli o La caccia alle streghe di Alfredo Bandelli? Queste e molte altre canzoni le più belle della musica popolare italiana - sono state selezionate e raccolte in 3 cd da collezionare, ascoltare, ricantare. È un percorso unico e appassionante nella storia d’Italia, dal Risorgimento a oggi, al fianco di mondine, braccianti, contadine, partigiani, operai, carcerati, emigranti; gente del popolo di un’Italia lontana dal potere, colorita, vera e indimenticabile. Ad accompagnare la musica, un volume che racconta la storia nascosta dietro ogni brano: quella custodita nella memoria dei nostri padri e dei nostri nonni. Pane, rose e libertà. Le canzoni che hanno fatto l’Italia: 150 anni di musica popolare, sociale e di protesta, Milano, Rizzoli, 2011


Notizia e narrazione Indagine sul giornalismo: intervista a Valentino Parlato, Guido Ruotolo e Philippe Ridet a cura degli studenti del laboratorio di Semiotica*

Dall’impossibilità di separare nettamente l’espressione e il contenuto di un testo, proprio come in un corpo vivo, nasce questa indagine sul mondo giornalistico ita-

Valentino Parlato, fondatore de Il Manifesto e per molti anni suo direttore. Oltre a essere uno dei nomi storici del giornalismo italiano è considerato una delle figure più acute di intellettuale impegnato, sia sul piano politico che socio-culturale. È curatore di importanti opere, tra cui La ricchezza delle nazioni di Adam Smith (1990), La questione meridionale di Antonio Gramsci (2005), L’origine della famiglia di Friedrich Engels (2006) e altri. La prima pagina de Il Manifesto è una sorta di copertina, in cui sono fondamentali il titolo e l’immagine. Come si giunge a tale presentazione? La prima pagina è importante in tutti i giornali. È importante perché è l’apertura, la vetrina. Noi abbiamo fatto una prima pagina fortemente caratterizzata dal titolo, che deve essere un po’ stravagante, ma efficace. Per esempio, un titolo di grande suc-

liano, sulle testate, sulla progettazione e diffusione della notizia, e soprattutto su quell’insieme complesso di operazioni che mirano alla rappresentazione e al racconto dell’identità nazionale. L’articolo propone tre interviste ad altrettanti esponenti illustri della carta stampata, italiana e francese, condotte da studenti universitari dell’Università degli Studi di Roma Tre, interessati a tematiche riguardanti il giornalismo, filtrate attraverso teorie di natura semiotica.

cesso lo abbiamo fatto in occasione dell’elezione del nuovo papa: Il pastore tedesco. Il titolo si decide verso le 20 con uno scambio di battute al tavolo del redattore capo, sul quale si stendono anche tutte le fotografie possibili per trovare quella che parla di più. Il lettore de Il Manifesto ha una caratterizzazione forte, una precisa identità. Con l’avvento di internet come è cambiato il rapporto con i lettori? Sicuramente la diffusione di internet ha tolto lettori alla carta stampata e dunque anche a Il Manifesto. Specialmente i giovani trovano più facile leggere le notizie sul web che non comprare il giornale, mentre negli anni Settanta Il Manifesto era molto comprato dai ragazzi. Si crea un diverso tipo di lettore, una lettura più superficiale. La domanda, alla quale è difficile rispondere, è come si modifichi la scrittura. Secondo me, internet dovrebbe ribadire l’esigenza della scrittura giornalistica, una scrittura che in breve dice tutto. Crede che stiamo di fronte ad una involuzione culturale, ad una crisi di valori che si traduce in una difficoltà espressiva? La crisi che stiamo attraversando è soprattutto politica e culturale, a partire dal degrado dell’istruzione. Una volta, terminato il liceo, si aveva una cultura di livello universitario. Oggi non è più così. Cercate di pensare a cos’era il ‘68: la gente era affamata di giornali, di informazione. Oggi sembra non succedere niente, si vede soltanto la crisi. Bisogna migliorare il giornale in modo che raggiunga il maggior numero di lettori. Solo se contribuisci alla rinascita della cultura, puoi aumentare la diffusione della stampa.

*L’intervista è stata progettata all’interno del Laboratorio di Semiotica associato al corso di Semiotica del testo tenuto dalla prof. Giovanna Zaganelli (laurea magistrale in Informazione, editoria e giornalismo, Università Roma Tre, a.a. 2010-2011), con la collaborazione della prof. Danielle Rouard, docente di Giornalismo all’Università Roma Tre. Il lavoro è stato realizzato da Erica Introna, Michele Salvatore, Vanessa Tenti (per Il Manifesto); Michele Chicco, Chiara Ingrosso, Miriam Manfrini, Francesca Pizzuto (per La Stampa); Gilda Ciccone, Agostino Melillo, Martina Nizi, Solène Tadié (per Le Monde).

orientamento

«La legittimità e la credibilità dell’enunciazione dipende dalla percezione diretta e dalla presenza fisica del giornalista nei luoghi stessi dell’evento documentato» Jacques Fontanille

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62 Guido Ruotolo, affermato giornalista italiano che inizia la sua carriera nella redazione de Il Manifesto. Si occupa principalmente di cronaca giudiziaria. Nel 1993 pubblica La Quarta mafia, storia della mafia in terra di Puglia e nel 2006 vince il Premio Saint Vincent come miglior giornalista d’inchiesta italiano. Oggi è una delle firme più note del quotidiano torinese La Stampa. Nell’inchiesta giornalistica come si controlla la veridicità delle fonti? Le operazioni fondamentali sono la conoscenza delle fonti, il rapporto fiduciario con esse instaurato e l’esperienza. Quello che sta alla base della veridicità delle fonti è la fiducia, ma a questa deve seguire una meticolosa verifica delle notizie.

Che cos’è una notizia e cosa la legittima come tale? La notizia è un evento che deve essere di interesse sociale, ma naturalmente sulla notizia si inseriscono strategie mediatiche e politiche che non la rendono mai neutra. Quale crede sia il rapporto tra la cronaca, intesa come un genere della notizia, e la narrazione che è finzione? La cronaca non può uscire dai confini della realtà, la narrazione può inventare; l’importante è non essere faziosi: ognuno di noi ha una propria storia, ma è importante non omettere nulla che possa offrire una lettura diversa degli eventi. Riguardo ai cambiamenti di linguaggio, come crede cambierà il giornalismo con la diffusione di internet? Diventerà un linguaggio molto secco, asciutto, sintetico. Credo però che con la carta stampata ci sarà sempre la possibilità di realizzare un racconto, di descrivere una trama più estesa che forse tenga dentro anche le emozioni.

Philippe Ridet, corrispondente da Roma di Le Monde. È specializzato in diritto francese ed è autore del libro Le Président et moi, in cui racconta la sua esperienza al seguito delle campagne elettorali di Nicolas Sarkozy. Lei svolge il ruolo di corrispondente estero e comunica in Francia un’immagine dell’Italia. In che modo seleziona le tematiche italiane e che differenza c’è tra il lettore italiano e quello francese? In due anni mi sono reso conto che le storie italiane sono sempre le stesse, almeno stando ai giornali, che sono una delle mie fonti di conoscenza. Però, se raccontando Parigi si racconta la Francia, in Italia questo non è possibile: esiste una diversa realtà per ogni città. Per capire l’Italia ci vuole tempo. Non essendo obbligato a scrivere quotidianamente articoli, allora, mi interesso più volentieri alle evoluzioni di un avvenimento. Oppure cerco di intercettare gli interessi dei lettori cambiando sempre le tematiche. Per spiegare l’impressione che ho dell’I-

talia cito sempre questo aneddoto: il mio predecessore, Jean Jacques Bozonnet, alla scadenza del suo mandato mi ha lasciato sulla scrivania un bigliettino che recitava: «Ti lascio l’Italia nello stato in cui l’ho trovata». È un po’ come essere nel film Ricomincio da capo, qui le notizie non cambiano mai. L’attività di corrispondente impone di seguire più tematiche e di usare diversi generi della notizia. Esiste una differenza rilevante tra di essi, cioè tra il modo di presentare tematiche differenti? La regola generale a Le Monde prevede la separazione all’interno dell’articolo tra fatto e commento. Lo stile del commento è molto più rapportabile all’articolo di analisi, che è impegnativo e richiede una maggiore riflessione. Personalmente non scrivo tutti i giorni articoli di analisi poiché richiederebbe maggiore sforzo e maggiore documentazione. Nel corso degli ultimi anni Le Monde ha cambiato più volte veste grafica. Che valore assumono le scelte estetiche per un giornale e che ripercussione hanno sul modo di presentare la notizia? La grafica cambia solitamente per ragioni economiche. In Le Monde c’era poca fotografia all’inizio degli anni Novanta, era un giornale grigio. Oggi invece con periodici mensili, come Le Mensuel, che contengono i migliori articoli trattati nel mese, c’è una migliore qualità di materiale e di resa fotografica. Personalmente non ho mai cambiato il mio modo di scrivere per attenermi all’impostazione del giornale.


Popscene Il canto degli italiani? Unità e divisioni del nostro Paese nella storia di un inno

Forse in pochi sanno che l’Italia non ha un inno ufficiale. O meglio, ad oggi, non si è mai trovato il tempo, la volontà o la capacità da parte dello Stato, attraverso i suoi rappresentanti democraticamente eletti, di sancire per legge e di insignire quindi del crisma dell’ufficialità Il Canto degli Italiani, musicato da MicheUgo Attisani le Novaro su un testo scritto dal poeta genovese Goffredo Mameli nel 1847. Questo fatto che potrebbe sembrare una semplice e casuale dimenticanza è in realtà una testimonianza lampante di come in Italia esistano diverse anime culturali che non hanno forse ancora trovato modo di coesistere. L’Inno di Mameli, così come è conosciuto a tutti noi, è infatti già da parecchi anni di nuovo al centro di polemiche che da una parte ne investono il carattere prettamente artistico, mettendone in luce lo scarso valore musicale, soprattutto se messo a confronto con gli inni di nazioni a noi vicine, come per esempio quello scritto da Haydn per la Germania, e dall’altra ne hanno fatto uno dei bersagli preferiti di chi vuole mettere in discussione, e sono in molti e non solo tra le file di chi della secessione ha fatto una bandiera politica, l’unità culturale del nostro Paese. Curiosamente a rappresentarne l’antitesi, e anche qui praticamente da sempre, su entrambi i fronti polemici menzionati sopra, è la celebre aria scritta da Giuseppe Verdi

Giuseppe Verdi

per il Nabucco, il Va, Pensiero in cui il musicista parmigiano, su parole del poeta Temistocle Solera, intese, o quanto meno molti intesero per lui, cantare della sottomissione del popolo italiano alla dominazione austriaca paragonandola alla cattività del popolo ebraico in Babilonia. Nella storia di questi due brani musicali e nella loro contrapposizione, anche se involontaria e spesso strumentale, è quindi racchiusa una delle metafore più efficaci delle vicende storiche e del clima culturale che hanno caratterizzato questo paese sin dalle sue origini. Nel 1847 il giovane poeta e patriota genovese Goffredo Mameli scrisse i versi di quello che sarebbe diventato l’inno che prende il suo nome. Aveva soltanto vent’anni e pensò in un primo momento di adattare il suo testo a musiche già esistenti, tentativo che scartò ben presto, decidendo di inviarlo all’amico, e patriota anch’esso, Lorenzo Valerio. Nella casa genovese di quest’ultimo era solita radunarsi una schiera di artisti accomunati da idee liberali e repubblicane e tra questi il musicista Michele Novaro, il quale già più di una volta aveva musicato gli innumerevoli inni che in quegli anni giungevano da ogni parte d’Italia ad accompagnare i moti di rivolta contro la dominazione straniera. Novaro quindi, dopo qualche tentativo al pianoforte di casa Valerio, finì per trovare nelle note a noi tutti conosciute il giusto accompagnamento per i versi di Mameli e il 10 dicembre di quello stesso anno Il Canto degli Italiani debuttò sul piazzale del Santuario di Nostra Signora di Loreto a Oregina, un quartiere di Genova, dove fu eseguito davanti ai patrioti genovesi per celebrare il centenario della cacciata degli Austriaci. Abbiamo già ricordato come all’epoca fiorissero dapper-

Goffredo Mameli in un ritratto di Domenico Induno (1850) è l’autore del testo de Il canto degli italiani

rubriche

di Ugo Attisani

Manoscritto de Il canto degli italiani

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tutto canzoni o inni che, raccontando le gesta di ribellione in quel momento in atto, si facevano strumento di propaganda tra i più efficaci degli ideali rivoluzionari e risorgimentali nelle altre parti d’Italia. Bisogna quindi prendere atto che la scelta del Canto degli Italiani come inno simbolo del Risorgimento avvenne meritatamente sul campo e contro una concorrenza tutt’altro che inconsistente, dato che già poco dopo la sua nascita, durante le Cinque Giornate di Milano esso veniva cantato dagli insorti. L’investitura quindi dell’Inno di Mameli era stata di tipo popolare e proprio per questo e per gli ideali antimonarchici di cui si faceva portatore, fu fortemente osteggiato, così come il Tricolore, dalle autorità. La sua popolarità fu però tale e incondizionata che Giuseppe Verdi nella sua opera Inno delle Nazioni lo affiancò agli altri inni nazionali europei, di fatto sancendone la definitiva vittoria sulla Marcia Reale di Casa Savoia, che fino a quel momento costituiva l’inno ufficiale del Regno d’Italia. È singolare che ad attribuire un ulteriore crisma d’ufficialità oltre a quello popolare al Canto degli Italiani fu proprio colui che, nel corso dei decenni successivi, venne di fatto prescelto come principale contendente al ruolo di simbolo musicale del Risorgimento e dell’unità nazionale, creando una contrapposizione che nella realtà del tempo non esistette mai. Se è innegabile che nelle intenzioni di Solera, autore del

testo della celebre aria verdiana, c’era quello di raccontare attraverso la vicenda del popolo ebraico i sentimenti di sconforto derivanti da un’oppressione straniera (già è più difficile, invece, tirando in ballo più o meno chiare prese di posizione dell’autore all’epoca, voler vedere anche un richiamo alle teorie del federalismo), è anche vero che il Va, Pensiero rappresenta parte di un’opera più grande, complessa e anche musicalmente ben distante da quello che può essere considerato un inno. Attraverso la storia dell’Inno di Mameli possiamo quindi osservare come l’unificazione d’Italia abbia trovato molteplici ostacoli non solo sul terreno politico, ma anche e in particolar modo su quello culturale, dal momento che parte degli ideali che innegabilmente animarono il Risorgimento furono oggetto di critica e contestazione sin dalle origini dello Stato italiano e hanno di conseguenza avuto una storia travagliata lungo tutti questi primi centocinquanta anni. D’altro canto però, non possiamo negare che nelle note e nel testo del Canto degli Italiani, e questo a prescindere da un stretta critica di carattere artistico, risuona e arriva fino a noi un’idea d’Italia che, seppure ancora da veder realizzata in pieno, merita da parte di tutti noi tutta l’attenzione e la difesa possibile dagli attacchi più o meno pretestuosi che ne vogliano mettere in dubbio la rappresentatività della nostra Repubblica.

Il canto degli italiani

Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa. Dov’è la Vittoria? Le porga la chioma, che schiava di Roma Iddio la creò. Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte. Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò. Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte.

Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò, sì! Noi fummo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popoli, perché siam divisi. Raccolgaci un’unica bandiera, una speme: di fonderci insieme già l’ora suonò. Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte. Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò, sì! Uniamoci, uniamoci, l’unione e l’amore rivelano ai popoli le vie del Signore. Giuriamo far libero il suolo natio: uniti, per Dio, chi vincer ci può? Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte. Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò, sì!

Dall’Alpe a Sicilia, Dovunque è Legnano; Ogn’uom di Ferruccio Ha il core e la mano; I bimbi d’Italia Si chiaman Balilla; Il suon d’ogni squilla I Vespri suonò. Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte. Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò, sì! Son giunchi che piegano Le spade vendute; Già l’Aquila d’Austria Le penne ha perdute. Il sangue d’Italia E il sangue Polacco Bevé col Cosacco, Ma il cor le bruciò. Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte. Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò, sì!


Ultim’ora da Laziodisu di Gianpiero Gamaleri Il diritto allo studio dalla Legge Casati ad oggi Alla vigilia della nascita dell’Unità d’Italia, il Regno di Sardegna, destinato a diventare Regno d’Italia, si dava una nuova legge universitaria. Era il 1859 e il proponente era il ministro Casati, da cui il provvedimento legislativo prese il nome di “Legge Casati”. Fonte di ispirazione era l’ordinamento tedesco. Fondato sui due cardini del monopolio pubblico Gianpiero Gamaleri dell’istruzione e della più ampia libertà dell’insegnamento e dell’apprendimento, era una singolare mescolanza tra istituzione statale, sodalizio corporativo e iniziativa privata. Dal punto di vista dell’apparato burocratico-amministrativo esso costituiva, in effetti, un’anomalia, in quanto il corpo insegnante era costituito in parte da “funzionari”, assunti e retribuiti dallo Stato – i professori di ruolo – e, in parte, da docenti che non lo erano, e insegnavano solo a titolo privato – i liberi docenti. Quando erano gli studenti a scegliere i professori Merita di soffermarsi sulla singolarità di quest’ultima figura centrale del sistema tedesco e riprodotta a lungo an-

che in quello italiano perché si collega strettamente ad alcuni diritti degli studenti. I liberi docenti, godevano, in quanto professori a titolo privato, di una notevole libertà nell’esercizio del loro lavoro, e a loro volta gli studenti erano anch’essi liberi di scegliersi i professori e di seguire le lezioni che più apprezzavano. I diritti degli studenti, quindi, si esprimevano ai massimi livelli, potendo anche “ripudiare” i professori, ma in realtà si esercitavano all’interno di una casta di privilegiati: i figli delle famiglie che potevano permettersi gli studi universitari. Poi, come sappiamo, la situazione si è andata evolvendo. Il diritto allo studio è stato inteso sempre più come possibilità di attingere ai massimi livelli di istruzione anche da parte degli studenti non abbienti, purché meritevoli. Per decenni è stato un servizio offerto dai singoli Atenei attraverso le Opere Universitarie. Verso una parità di diritti a livello nazionale In attuazione della Costituzione il diritto allo studio è diventato una competenza delle Regioni, allo scopo di rendere omogenei i benefici (borse di studio, residenze, mense, sostegno a diversamente abili, attività culturali etc.) per tutti gli studenti di una stessa regione. Oggi si sta lavorando, sia al MIUR che nella Conferenza Stato-Regioni per stabilire un regime omogeneo a livello regionale. Purtroppo ciò sta avvenendo nel momento in cui le risorse economiche si contraggono. Tuttavia in linea di principio è uno sforzo che va apprezzato e che si spera che a tempi più lunghi possa dare i suoi frutti.

Non tutti sanno che... Cerimonia di consegna dei diplomi di laurea Mercoledì 28, giovedì 29 e venerdì 30 settembre dalle 9 alle 17, presso la Facoltà di Ingegneria, Aule Polo Ex ACEA, via della Vasca Navale 109, si terrà, con il patrocinio della Regione Lazio, Provincia di Roma e Roma Capitale la nona edizione della Cerimonia di consegna dei diplomi di laurea ai laureati di Roma Tre, indimenticabile occasione di festa, da annoverarsi tra i ricordi di vita universitaria. Anche quest’anno la Facoltà di Ingegneria mette a disposizione una parte delle sue strutture per lo svolgimento dell’evento: le Aule del Polo Ex ACEA in via della Vasca Navale 109, che saranno allestite per ospitare circa 5.500 laureati suddivisi nelle tre giornate. Alla cerimonia sono invitati i laureati che hanno conseguito il diploma di laurea tra il 1° giugno 2009 e il 31 maggio 2010. L’invito viene spedito agli indirizzi di residenza dei laureati e viene data loro la possibilità di comunicare la partecipazione o compilando la scheda di

adesione cartacea allegata all’invito e rispedendola agli uffici preposti per posta ordinaria, oppure collegandosi al link segnalato nell’invito, compilando i campi del form on line e clickando su “invia la richiesta”, con quest’ultima modalità si riceve una conferma di avvenuta adesione via e-mail. La data di scadenza per l’iscrizione alla cerimonia è fissata al 4 settembre 2011. Per il ritiro del diploma è indispensabile esibire il proprio documento d’identità, non sono ammesse deleghe. Chi non potesse partecipare alla manifestazione, potrà ritirare il diploma a partire da lunedì 17 ottobre 2011 presso il front office della Segreteria studenti, piano terra, in via Ostiense 175 nei seguenti orari: dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 14. Per visualizzare la sede della cerimonia: http://host.uniroma3.it/facolta/ingegneria/dove_siamo.html

Per informazioni: consegna.diplomi@uniroma3.it

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«Scusi, lei si sente italiano?» Fra ragione e sentimento: le tante risposte all’eterno interrogativo sull’italianità

recensioni

di Paolo Di Paolo Il momento forse più emozionante di una lunga mattinata in cui studenti di Roma e provincia si sono ritrovati all’Archivio centrale dello Stato (10 maggio 2011) per celebrare i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia è stato la lettura di una poesia. L’autore? Non un poeta da antologie, ma una bambina di nove anni Paolo Di Paolo – nome e provenienza italiani e cinesi: Alessandra Chen. Alessandra ha frequentato la quarta C della scuola “Federico Di Donato”, una classe composta da bambini nati in Italia da genitori romeni, filippini, cinesi. Alessandra scrive: «Mi sento italiana / perché lo posso essere, / perché mi piace esserlo / e lo voglio essere. / Mi sento italiana / quando mi diverto / e quando faccio amicizia / con “i” italiani. / Mi sento italiana / quando sono felice / e quando sento / la canzone d’Italia. / E quando sono triste / e quando sono sola, / i miei amici / mi vengono ad aiutare. / A quel punto mi sento italiana / perché sto con i miei amici».

«Fare cose italiane per sentirsi italiani» ripetono molti di questi bambini. E in effetti hanno sventolato tricolori, cantato in coro l’inno. Hanno ricostruito i giocattoli di epoca risorgimentale. Si sono vestiti da briganti. Sfogliando un recente numero della rivista Nuovi Argomenti (Là dove il sì suona, Mondadori, pp. 248, euro 10), si incontra – sul tema identità italiana – qualunque sfumatura emotiva. C’è il disincanto, c’è il disagio, ci sono l’ironia e la malinconia. La rabbia e la frustrazione. Se uno stato d’animo manca, è l’allegria che invece c’è nelle risposte dei bambini. Quasi cento scrittori e intellettuali rispondono a dieci domande sull’essere italiani: da Dacia Maraini a Erri De Luca, da Tullio De Mauro a Melania Mazzucco, il senso di appartenenza o disappartenenza è declinato in modi molto diversi. Prevale su tutti il legame con la lingua: sono/mi sento italiano perché parlo e scrivo in lingua italiana. Ma spesso circola nelle risposte l’antico imbarazzo culturale e politico nell’occuparsi di “patria”, lo sconforto per un presente che non piace, il fastidio nel dover dismettere gli abiti un po’ vaghi di “cittadini del mondo”. Di fronte alla mole e alla pensosità di alcune risposte, si ritrova lo stupore perplesso di Sciascia: gli italiani, da sempre, «così ossessivamente si interrogano, si ritraggono, si autoritraggono nella consapevolezza che non è colpa dello specchio se i lo-


ro nasi sono storti». Continuiamo imperterriti a farci domande su noi stessi, senza sapere se sia buono o cattivo segno. Le questioni restano aperte e rimbalzano di generazione in generazione: una sorta di staffetta-patata bollente. Non si sottraggono neanche i nati negli anni Novanta, i più giovani di tutti. Hanno gioito per la propria italianità nel luglio 2006 come, sulle pagine di Nuovi Argomenti, riconoscono di aver fatto per la Coppa del Mondo ’82 i loro padri e nonni. Ma non si fermano lì. Proprio nelle aule delle scuole italiane in questi mesi si è molto discusso di lingua, emigrazione-immigrazione, storia e letteratura, pluralismo e diritti. Ci si è chiesti – forse senza esplicitare la domanda – se italiani si nasce o si diventa. «Si diventa» risponderebbe la scrittrice Igiaba Scego, italiana e somala, autrice tra l’altro di La mia casa è dove sono (Rizzoli). «Mi sento italiana – ha scritto una volta Scego – quando faccio una colazione dolce, vado a visitare mostre, musei e monumenti, parlo di sesso e depressione con le amiche, vedo i film di Sordi, Manfredi, Mastroianni, Troisi, Anna Magnani, mangio un gelato da 1,80 euro con stracciatella, pistacchio e cocco, mi ricordo a memoria le parole del 5 Maggio di Manzoni, mi commuovo quando guardo negli occhi l’uomo che amo, lo sento parlare nel suo allegro accento meridionale e so che non ci sarà un futuro per noi, inveisco, gesticolo, piango per i partigiani, canticchio Un anno d’amore di Mina sotto la doccia». Al riparo dalla retorica, parole come queste sono scritte in italiano e tuttavia appartengono a una lingua nuova. Su un piano prima emotivo che intellettuale, senza gerarchie, tutto si mescola e di tutto si ha cura. Ogni cosa è illuminata e

ribattezzata. E se ripartissimo da qui? Da una via istintiva, sentimentale, che consenta di rispondere all’eterna domanda sull’italianità senza troppi cavilli, senza troppo malumore. Come fanno i bambini e gli adolescenti. Messi davanti a un foglio bianco, nel più assoluto anonimato, rispondono: non hanno timori reverenziali né imbarazzi. E spesso sorprendono. Ho davanti un bustone di foglietti accartocciati, li ho raccolti incontrando gli studenti di molte scuole superiori in questi ultimi mesi per presentare il volume Scusi, lei si sente italiano? (Laterza). Ho visto ragazze indaffarate preparare piccole coccarde tricolori, ho visto ragazzi consegnarmi una bandiera con scritta una poesia che avevano composto: «Italia mia / che in mille cuori porti allegria». Finalmente la parola che mancava! Ho visto un video realizzato da una classe, senza l’aiuto di nessuno, con i volti dei grandi italiani, la voce di De Gregori e di Rino Gaetano in sottofondo. Non si possono trascurare i «no, non mi sento italiano». Sono tanti, non vengono pronunciati per sfida ma per disincanto. Citano Gaber, manifestano la loro distanza dalla situazione politica o dal governo in carica. Alcuni vorrebbero andare via. «Non mi sento rappresentato politicamente. Credo che questo sia l’unico problema»; «tutti i valori in cui credo non li vedo rappresentati»; «no, non mi sento italiana e non saprei spiegare perché». Ma poi c’è chi non rinuncia al suo «sì» nonostante tutto, e mette in gioco le radici, con una certa fierezza, e perfino la parola “patria”. «Mi sento italiana? Sì, perché vedo il viso stanco di mio nonno che ha lavorato sempre e non ha perso occasione per ricordarmi quanto sangue sia stato versato per la libertà, per la mia scuola, per la mia vita».

Stando ai sondaggi per il 150° dell’Unità nazionale, due italiani su tre sono orgogliosi di essere tali. Quando però si tratta di spiegare perché, tutto si fa più complicato. «Cosa ci tiene insieme?» è la domanda che meno invecchia, in questo Stato ancora giovane. Per non fermarsi a monumenti (difficili) o stereotipi (troppo facili), due giovani autori, che fanno mezzo secolo insieme, si sono guardati alle spalle. Hanno messo il naso dentro quotidiani e riviste pubblicati tra il 1900 e i primi anni Duemila e hanno raccolto le voci di giornalisti, scrittori e intellettuali, come in un’inchiesta a ritroso. Da Gramsci a Bobbio, da La Capria a Veronesi, passando per Scalfari e Montanelli, si sommano indizi e giudizi, rabbie e speranze. I tic, le eterne maschere italiane, da Arlecchino a don Abbondio; i momenti drammatici o felici della storia unitaria, la memoria e le memorie; la vita quotidiana (che cos’è esattamente “una giornata da italiani”?). Tutto entra in gioco nel rispondere alla domanda «Scusi, lei si sente italiano?». Per approdare a una risposta razionale e sentimentale insieme, però ferma. Cercata lontano, ma proiettata al futuro.

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«Noi credevamo» Il Risorgimento senza eroi di Mario Martone di Francesca Gisotti Noi credevamo, l’opera “colossale” di Mario Martone vincitrice di sette premi ai David di Donatello 2011, racconta una storia senza eroi, senza vincitori e senza vinti, una storia fatta di uomini, di sogni e di passioni in cui le domande sono tante e destinate a rimanere tali, in cui gli eventi storici sono filtrati dall’individualità dei Francesca Gisotti personaggi, in cui l’Italia resta una nazione da farsi e gli italiani un progetto così arduo da doversi ancora realizzare. Costruito intorno alle vite di tre giovani rivoluzionari del Cilento: Domenico (Edoardo Natoli / Luigi Lo Cascio), Angelo (Andrea Bosca / Valerio Binasco) e Salvatore (Luigi Pisani), Noi credevamo narra la storia dell’unificazione d’Italia, evidenziando le molteplici contraddizioni che hanno caratterizzato tale processo storico. Ne emerge l’immagine di un Paese fortemente frammentato, diviso non solo a livello linguistico e culturale ma anche a livello ideologico; un proliferare di voci desiderose di farsi sentire con ogni mezzo, anche a dispetto dei legami di sangue e d’amicizia. La vicenda ha inizio quando, a seguito delle repressioni borboniche dei moti del 1828, i tre ragazzi decidono di affiliarsi al movimento della Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Spinti inizialmente dal medesimo sentimento patriottico, ben presto scoprono quanto diverse siano in realtà le aspettative che li animano. Ognuno insegue o è inseguito da un destino diverso ma quel loro sogno d’unità, tanto fortemente desiderato, non potrà che scontrarsi con le numerose barriere di divisione erette proprio da chi tanto si era battuto per la loro distruzione. Fra i tanti personaggi che compaiono nel film ritroviamo nomi più o meno noti della nostra storia nazionale: Giuseppe Mazzini che nel film ha il volto austero di Toni Servillo, Cristina di Belgiojoso, interpretata da Francesca Inaudi nella versione giovane e da Anna Bonaiuto in quella più matura, Francesco

Crispi e Antonio Gallenga, rispettivamente Luca Zingaretti e Luca Barbareschi. Quasi tre ore di racconto, tanto è la durata del film, servono a ricostruire alcune delle fasi più significative del Risorgimento italiano e alcune pagine rimaste sconosciute ai più. Tra i momenti più intensi, sicuramente quello dell’uccisione sulle montagne dell’Aspromonte dei giovani garibaldini ad opera delle truppe dell’esercito regolare; un tragico evento ricostruito senza la retorica pomposa in cui si rischiava di incappare. La sobrietà di Martone, soprattutto in alcune bellissime immagini corali, sembra frutto di un’etica visiva che richiama alla mente alcuni quadri di Jacques-Louis David. Il primo pensiero va ovviamente allo splendido dipinto Il giuramento degli Orazi. Anche in quel caso tre giovani uomini consacravano le proprie vite ad un ideale di libertà e di patriottismo, anche in quel caso la forza della rappresentazione era tutta nell’equilibrio e nel bilanciamento dei corpi all’interno della composizione, laddove la tensione appare come trattenuta in vista della grande battaglia. Nel film, la battaglia sembra destinata a non vedere mai la sua definitiva conclusione. In questo forse sta la sua attualità rispetto ad altre opere sul Risorgimento. Le didascalie finali informano lo spettatore che l’unificazione alla fine è stata realizzata ma l’unità? Questa è la domanda che sembra leggersi sui volti in primissimo piano di alcuni personaggi. I loro sguardi sembrano interrogarci sulle conseguenze di un passato che per loro era ancora presente. Spettatori come noi, incapaci di determinare le sorti individuali e collettive, trascinati dalla forza dirompente della Storia, di fronte a cui le piccole storie dei singoli non possono far altro che piegarsi. Gente del popolo ma anche borghesi, aristocratici, intellettuali, si alternano come in un rendez vous metafisico, ancora fluttuanti sopra le nostre teste ad osservare cosa ne faremo noi di questa non più “giovane” Italia. È a nome di tutti loro che Domenico, l’unico superstite dei tre ragazzi della storia, pronuncia le ultime battute del film: «Noi, dolce parola. Noi credevamo».


Fratelli d’Italia, ieri e oggi Vignette, fumetti e ritratti satirici: centocinquanta anni di storia in una striscia di Yevgen Lysenkov Per celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, il 5 maggio scorso, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, è stata inaugurata la mostra di satira, grafica e illustrazioni Fratelli d’Italia, realizzata dalla Federazione associazioni sarde in Italia (FASI) e organizzata a cura di Giuliana Calcani, Paolo Mattera (UniYevgen Lysenkov versità degli Studi Roma Tre); Antonio Maria Masia (Associazione dei sardi a Roma “Il Gremio”) e Patrizia Micoli (Ministero per i Beni e le attività culturali). La mostra è stata aperta dal saluto del rettore Guido Fabiani e della preside della Facoltà di Lettere e Filosofia Francesca Cantù, cui va un particolare ringraziamento per aver permesso l’evento. L’intento della mostra è stato quello di raccontare la storia passata e recente dell’Italia unita ripercorrendone le fasi cruciali dal Risorgimento ai giorni nostri: il 150° anniversario dell’Unità d’Italia celebrato attraverso immagini, vignette, fumetti e ritratti caricaturali. Una raccolta di opere non istituzionali e monumentali ma, al contrario, popolari e satiriche che proprio per il loro spirito ironico, critico e persino ludico hanno distinto la mostra Fratelli d’Italia nel panorama delle celebrazioni correnti. Inoltre l’evento, frutto di un concorso a cui hanno partecipato parecchi disegnatori italiani nonché numerosi artisti stranieri, ha anche permesso di confrontare le percezioni che gli italiani hanno dell’Italia di ieri e di oggi con le visioni, non meno importanti, di chi la vede dall’esterno, arricchendo così di un approccio multietnico, in sintonia con la nostra società attuale, il percorso espositivo. Il visitatore si è infatti ritrovato a viaggiare nei mille volti e rappresentazioni che concorrono all’immagine dell’Italia di ieri e di oggi: il Bel Paese baciato dal sole e dal mare e il paese ricco di storia e di

cultura; l’Italia dominata da una classe dirigente che viene rappresentata come un’amara caricatura della sua bellezza e l’Italia tristemente divisa tra il Nord e il Sud; l’Italia del tempo dell’Unità caratterizzata da una forte impronta ecclesiastica e l’Italia di oggi che fa dire a Garibaldi in un’illustrazione di Benedetto Nicolini: «È per quest’Italia che ho lottato?» Lui, l’eroe dei due mondi, l’audace e instancabile Garibaldi, è certamente il protagonista assoluto della mostra, eroe di ieri e persino sopravvissuto eroe di oggi, in un mondo in cui gli eroi sono morti da tempo. E così, in una vignetta di Sergio Staino Garibaldi appare seduto di fronte a una cartomante che nel predirgli il futuro gli dice: «Per la sua Unità d’Italia per 150 anni può stare tranquillo. Dopo il 2010 invece…». E tuttavia dopo aver percorso l’intera esposizione l’impressione dominante è quella di un diffuso desiderio di vedere il paese unito, di favorire e integrare il processo di unificazione culturale e politico ancora in atto sollecitando tanto i cittadini quanto la classe politica. Sicché la mostra è stata un vero e proprio tributo all’unità italiana. Anche il titolo scelto, Fratelli d’Italia, è un vero e proprio monito a scongiurare: «Noi siamo da secoli calpesti e derisi perché non siam popolo, perché siam divisi». La mostra è stata una straordinaria occasione per scoprire un’Italia lontana dai soliti schemi retorici e ritrovare un paese che sa guardarsi con spirito ironico e autocritico ed è persino capace di ridere dei suoi difetti, che è una qualità tipicamente italiana. L’incontro con le visioni degli artisti è sempre una buona occasione per riscoprire il potere dell’arte, un altro bene italiano per eccellenza, e capire quanto questa ci permetta di vedere meglio noi stessi, essere consapevoli di ciò che con le immagini trasmettiamo agli altri e di conseguenza renderci migliori, indicandoci la via non per «viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza»… Per il contributo musicale all’inaugurazione si ringrazia la Dams Jazz Band di Roma Tre, presentata da Luca Aversano. Si ringraziano inoltre Mario Resca, Direttore Generale MiBAC, e Maurizio Fallace (MiBAC) per il loro supporto alla manifestazione.

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«La Patria, bene o male» Almanacco dell’Italia unita in centocinquanta date di Irene D’Intino 150 date per raccontare 150 anni della nostra Italia. È questa l’idea di fondo di una delle tante pubblicazioni uscite in questi mesi, per commemorare uno degli eventi più discussi e partecipati di questo 2011. Non un libro qualsiasi però: l’intento è infatti quello di sintetizzare questi anni della nostra storia attraverso 150 date fondamentali che Irene D’Intino ne hanno scandito passaggi, avvenimenti, accadimenti e cambiamenti. Una sfida non facile, effettivamente. Ma allo stesso tempo, se ci si riflette, una sfida stimolante e a tratti divertente, che implica scelte, inclusioni ed esclusioni tutt’altro che casuali. Così come divertente è il risultato che ne scaturisce: La Patria, bene o male (Mondadori, 2010). A scriverlo, un’accoppiata che è già una garanzia: da una parte Carlo Fruttero, romanziere, traduttore, saggista, scrittore e collaboratore de La Stampa; dall’altra Massimo Gramellini, giornalista, noto al grande pubblico grazie alla sua collaborazione con il programma televisivo di Fabio Fazio Che tempo che fa e vicedirettore del quotidiano torinese. È proprio de La Stampa, infatti, l’idea di ripercorrere la nostra storia a quattro mani. Gli scritti che ne sono scaturiti hanno trovato spazio in un primo momento fra le colonne del quotidiano, prima di essere raccolte in un unico volume. Probabilmente anche per questo, i centocinquanta ritratti sono brevi pennellate di spaccati caratteristici della nostra storia che non lasciano spazio a spiegazioni pedanti, ma che delineano sinteticamente quanto mai efficacemente il

ritratto di un paese che non può che riconoscersi nel suo presente, ma anche nel suo passato. A partire da quel 17 marzo 1861 che ci ha dato i natali, fino al più recente 25 aprile del 2009: una carrellata di volti, nomi, episodi e accadimenti che, proprio negli intenti dei due autori, vogliono essere significative, certo, ma quanto mai arbitrarie. Chi decide, infatti, quali sono le date più o meno importanti che ci hanno condotto fin qui, dove siamo ora? Certo, da alcune non si può prescindere, come la Breccia di Porta Pia, la marcia su Roma, il rapimento di Moro. Ma altre apparentemente meno importanti, in realtà sembrano racchiudere la vera essenza della nostra storia. E stupirà andarci a riconoscere proprio lì dove non credevamo, negli anfratti di una storia contorta, spesso ambigua, ma quasi sempre ironica. O almeno, questo è lo spirito con il quale la vediamo attraverso gli occhi dei due autori, che hanno evidentemente scelto di osservarla così, con occhio disincantato. Insomma, una storia che tutti dovrebbero soffermarsi a leggere: innanzitutto chi non la conosce, perché non si può festeggiare un paese che non si conosce; ma anche chi crede di sapere molto di questa nostra Italia potrebbe scoprirne infatti aspetti meno noti, curiosità affascinanti, trascorsi che difficilmente vengono raccontati sui manuali. Per diventare finalmente consapevoli del fatto che il passato non è sempre integerrimo e esemplare come pensiamo: stupisce infatti scoprire come, tanti difetti che imputiamo oggi al nostro Paese (credendo che dipendano da degenerazioni dell’era moderna) in realtà sono caratteristiche iscritte nel DNA del nostro essere italiani. Cosa che non vuole essere certo una giustificazione, ma piuttosto una spinta alla riflessione lucida e consapevole. Riflessione che è forse il modo migliore per festeggiare degnamente un Paese che, in fondo, in centocinquanta anni, non è cambiato poi molto. Nel bene e nel male.

«Non sembra il caso di suggerire ai nostri lettori di non aspettarsi i grandiosi affreschi di Tucidide o Tacito, di Machiavelli o Gibbon. Tutti sanno che non siamo storici e non avremmo comunque il mestiere e il genio per guardare a tali altezze. Ma da quei maestri una lezione l'abbiamo pur appresa: la Storia obiettiva, la Storia imparziale, la Storia definitivamente veritiera non esiste, può essere soltanto un'aspirazione, una meta intravista e irraggiungibile. Ogni pagina di questo libro è arbitraria e contestabile. Abbiamo scelto 150 giornate a nostro avviso significative, distribuendole equamente fra i quindici decenni dell'Italia Unita. Ma cosa vuol dire significative? Alcune erano obbligatorie, la breccia di Porta Pia, Caporetto, la marcia su Roma, il rapimento Moro, Mani Pulite, eccetera. Ma molte altre, non senza lunghe discussioni tra di noi, sono state incluse o escluse, con intendimenti ragionevoli e tuttavia opinabili. C'è cronaca rosa e c'è cronaca nera, sinistri figuri stanno accanto a purissimi eroi, non manca Pavarotti, ma è assente la Callas. C'è il Vajont, ma non il Polesine. L'assassinio di Casalegno e non quello di Tobagi. Primo Carnera, Enrico Cuccia e Alberto Sordi non sono chiamati sul palco, solo citati di sfuggita. L'impressione finale è che questa Patria sia una difficile Patria, più volte sull'orlo del baratro, più volte nel baratro precipitata, con continue riprese anche stupefacenti, anche ammirevoli. C'è di che inorgoglirsi, ma purtroppo anche di che vergognarsi. Un Paese irritante, fastidioso, quasi sempre dilaniato da emotività contrapposte e che potrebbe fare molto di più, come dicevano gli insegnanti alle nostre mamme. E ovviamente molto di più avremmo potuto fare anche noi, narrando questa Patria nel bene e nel male.» (dalla quarta di copertina)



U niversitĂ d egli St udi Ro ma Tr re - v ia O stiense, 159 - ww w.uniroma3.it UniversitĂ degli Studi Roma Tre via Ostiense, www.uniroma3.it


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