Roma Tre News 3/2009

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Università degli Studi Roma Tre - via Ostiense, 159 - www.uniroma3.it

Periodico di Ateneo

Anno XI, n. 3 - 2009

1989. Scacco matto

Il punto di svolta del XX secolo

Cives e barbari Il gioco infinito dell’inclusione-esclusione

L’impossibile patria Potere, identità e scrittura in Herta Müller

Muri dell’Est Intervista a Roberto Morozzo Della Rocca

PRIMA O POI OGNI MURO CADE INTERVISTA AL FILOSOFO UMBERTO GALIMBERTI

La generazione post ideologica


Sommario

Reddito e merito I due parametri fondamentali per le azioni di diritto allo studio di Gianpiero Gamaleri

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Università e mondo del lavoro Un progetto di Roma Tre in collaborazione con Laziodisu di David Meghnagi

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1989. Scacco matto Il punto di svolta del XX secolo di Leopoldo Nuti

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Vivere e studiare a Mosca Tre studentesse di Roma Tre raccontano la loro esperienza di Elena Mari

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Cives e barbari Il gioco infinito dell’inclusione-esclusione di Paolo Apolito

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Rubriche

Editoriale

Primo piano

La rivoluzione pacifista Intervista a Renato Moro, docente di Storia contemporanea di Fulvia Vitale

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Muri dell’Est Intervista a Roberto Morozzo Della Rocca, docente di Storia dell’Europa orientale di Valentina Cavalletti

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L’impossibile patria Potere, identità e scrittura in Herta Müller di Giacomo Marramao

Ultim’ora da Laziodisu Non tutti sanno che...

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Recensioni Jüdisches Museum Il labirinto della memoria: metafora di un terribile peregrinare di Giacomo Caracciolo

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123 metri sotto il Muro di Berlino L’avventura di due studenti italiani nella Germania del 1961 di Rosa Coscia

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1989-2009 I vent’anni che hanno cambiato l’assetto dell’Europa di Alessandro Cavalli

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Goodbye Lenin! Il passo inarrestabile del tempo di Maria Vittoria Marraffa

Dove inizia lo spazio L’occhio di Wim Wenders ci racconta una Berlino sospesa di Lucilla Albano

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L’esperienza dei sopravvissuti alla Shoah Percorsi di rielaborazione del lutto nel vissuto transgenerazionale di David Meghnagi

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La camera oscura Un quaderno aperto dove scrivono gli uomini o la storia: il muro come immagine del nostro tempo di Michela Monferrini

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Migranti e diritti La politica zoppa dell’Unione Europea di Paolo Benvenuti

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Iran in transito 34 Fra fondamentalismo e innovazione: la storia di un ritorno a Teheran di Camilla Spinelli Oltre i muri del silenzio La Lingua dei segni, la grammatica dell’espressione corporea di Maria Cristina Gaetano

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Hate crimes Il travestimento della violenza di Indra Galbo

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Incontri Umberto Galimberti. La generazione post ideologica di Federica Martellini A Columbine c’era un elefante che nessuno vedeva, quando il disagio diventa violenza di Irene D’Intino Alessandro Portelli. Il giro del mondo: accesso vigilato di Michela Monferrini

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Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre Anno XI, numero 3/2009 Direttore responsabile Anna Lisa Tota (professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi) Coordinamento di redazione Alessandra Ciarletti (Resp. Ufficio orientamento) Federica Martellini (Ufficio orientamento) Divisione politiche per gli studenti r3news@uniroma3.it Redazione Ugo Attisani (Ufficio Job Placement), Valentina Cavalletti (Ufficio orientamento), Gessica Cuscunà (Ufficio orientamento), Rosa Coscia (studentessa del C.d.L. in Informazione, editoria e giornalismo), Indra Galbo (laureato del C.d.L. in Scienze politiche), Elisabetta Garuccio Norrito (Resp. Divisione politiche per gli studenti), Michela Monferrini (laureata del C.d.L. in Lettere), Monica Pepe (Resp. Ufficio stampa), Camilla Spinelli (studentessa del C.d.L. in Comunicazione nella società della globalizzazione), Fulvia Vitale (studentessa del C.d.L. in Giurisprudenza) Hanno collaborato a questo numero Lucilla Albano (docente di Interpretazione e analisi del film), Virna Anzellotti (segreteria Adisu Roma Tre), Paolo Apolito (docente di Antropologia culturale), Giorgio Bellotti (Dipartimento di Scienze dell’ingegneria civile), Paolo Benvenuti (preside della Facoltà di Giurisprudenza e docente di Diritto dell’Unione europea e di Diritto internazionale umanitario), Giacomo Caracciolo (laureato del C.d.L. in Giurisprudenza e giornalista pubblicista), Alessandro Cavalli (docente di Sociologia all'Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia), Emanuela Cecilia (studentessa in Medicina, Università degli Studi dell’Aquila), Claudia Cecioni (Dipartimento di Scienze dell’ingegneria civile), Carmela Covato (docente di Storia della pedagogia e direttore del Museo storico della didattica), Irene D’Intino (studentessa del C.d.L. in Competenze linguistiche e testuali per l’editoria e il giornalismo), Leopoldo Franco (docente di Ingegneria costiera e di Protezione dei litorali), Maria Cristina Gaetano (Divisione politiche per gli studenti), Gianpiero Gamaleri (Presidente Adisu Roma Tre), Elena Mari (studentessa del C.d.L. in Lingue Moderne per la Comunicazione Internazionale), Maria Vittoria Marraffa (studentessa del C.d.L. in Storia e conservazione del patrimonio artistico), Giacomo Marramao (docente di Filosofia politica e di Filosofia teoretica), David Meghnagi (Direttore del Master internazionale in didattica della Shoah di Roma Tre, delegato del Rettore per il Diritto allo studio), Francesca Montagna (Dipartimento di Scienze dell’ingegneria civile), Leopoldo Nuti (docente di Storia delle relazioni internazionali e di Storia dell’integrazione europea) Immagini e foto Gregory Acs, Giacomo Caracciolo, Indra Galbo, Robert Gianni, Elena Mari, Museo storico della didattica Mauro Laeng, Andrea Piacenti, Frederick Ramm ©, Andrea Vanni, www.wikipedia.com

03.32 Reportage dall’Aquila. Un racconto del terremoto in presa diretta di Manuela Cecilia

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Progetto grafico Magda Paolillo Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma 06 64561102 - www.conmedia.it

Il territorio italiano e il rischio tsunami di Giorgio Bellotti, Claudia Cecioni, Leopoldo Franco e Francesca Montagna

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Impaginazione e stampa Tipografia Stilgrafica s.r.l. Via Ignazio Pettinengo 31/33 - 00159 Roma

Reportage

Copertina In copertina: A piece of the Wall is being offered through a hole in the wall. Foto di Frederick Ramm ® Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico

Orientamento A come alfabeto Il Museo storico della didattica Mauro Laeng di Carmela Covato

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Finito di stampare novembre 2009 Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998


La caduta del Muro di Berlino e l’identità europea di Anna Lisa Tota

Ce li ricordiamo ancora quei giorni: era il 9 novembre del 1989. Il Muro - quello con la M maiuscola, quello che aveva diviso e straziato il cuore dell’Europa, eretto a baluardo della pace mondiale, come antidoto e rimedio ad una Germania troppo potente, capace di scatenare guerre e distruzioni - cadeva, si disgregava, veniva scavalcato dai cittadini della Germania dell’Est. I berlinesi e i turisti lo facevano a pezzi e se li portavano a casa, consapevoli che quei mattoni e quel cemento erano frammenti di un passato che finalmente non sarebbe più tornato. Sono passati vent’anni e ricorre il ventennale di uno dei momenti più importanti della storia europea, di uno di quegli eventi recenti che ha mutato definitivamente l’assetto geopolitico del mondo. È come se, cadendo il Muro di Berlino, l’architrave eretto a sostegno della pace mondiale si fosse trasferito altrove. Non passa più in mezzo alla Germania, non divide più l’Europa a metà, ma passa altrove, forse in mezzo al Mediterraneo, forse tra Occidente e Oriente o forse semplicemente ne serve più di uno, per sorreggere l’ordine mondiale. Quei giorni erano pieni di aspettative, carichi di promesse che tuttavia solo in parte sono state mantenute. La politica internazionale ha preso atto e si è riconfigurata, i giochi e le contrapposizioni si sono ri-articolati, ma continuano ad avere luogo. In questo senso, le promesse di questo muro che cadeva, certamente non sono state mantenute. Tuttavia, l’identità europea è profondamente mutata, perché dopo il muro ha dovuto riospitare al suo interno l’idea di una Germania centrale e potente, l’idea di una Germania ormai del tutto affidabile. Quella stessa Germania resa possibile da Willy Brandt che si inginocchia al ghetto di Varsavia e chiede perdono. Quella stessa Germania che prese distanza dalla Shoah, sia nelle istituzioni politiche sia nella società civile tedesca. La caduta del muro di Berlino ha inciso profondamente sull’identità europea, perché ha mutato quell’intero pezzo di questa identità, che era legato anche alla Shoah. Si è sostenuto da più parti che la memoria pubblica dell’Europa sia fondata in modo centrale sull’elaborazione dell’Olocausto, inteso come male assoluto. Alcuni studiosi di memory studies hanno anche segnalato come la centralità di questa memoria nel tessuto identitario dell’Europa ne abbia spodestate altre, come quelle legate al passato dell’Europa coloniale. È un fatto che la Shoah rappresenta,

per la Germania in primis e per l’Europa nel suo complesso, un punto di non ritorno: il cuore dei valori democratici di cui l’Europa postbellica si è fatta portatrice parte dal rifiuto assoluto di ciò che successe nei campi di concentramento tedeschi ed europei durante il Nazismo. David Meghnagi sottolinea come sia assurdo chiedersi perché i sopravvissuti non possano dimenticare, perché le vittime si ostinino a ricordare. Il vero problema – egli dice – è chiedersi come hanno fatto a continuare a vivere. Il Muro e la Shoah sono in qualche modo legati nella memoria europea, perché sono due momenti centrali della storia tedesca e della sua identità nazionale: quando il Muro cade nel 1989, la Germania ha iniziato, attraverso un lavoro pubblico di rielaborazione del passato, a prendere credibilmente e legittimamente le distanze dall’Olocausto. Non che questa sia una condizione necessaria per la caduta del Muro, che è resa possibile piuttosto dal progressivo sgretolamento di quell’ordine mondiale, retto e prodotto dalla guerra fredda. Tuttavia, il modo in cui la nazione tedesca si affaccia in Europa, dopo la caduta del Muro, dipende anche dal modo in cui la Germania ha saputo ricordare la Shoah. «Diese Schande nimmt uns niemand ab»: è questo ciò che salva la nazione tedesca e la restituisce alle relazioni internazionali europee come un paese democratico ed integro. Il Muro di Berlino può essere riconosciuto nel discorso pubblico europeo come portatore di dolore, morte ed ingiustizie. Quante famiglie sono state divise, quanti cittadini e cittadine tedesche sono morti invano a causa di quel Muro? Questo è il nuovo pezzo di memoria, con cui la Germania e l’Europa devono fare i conti dal 1989 in poi. Tuttavia la caduta di questo Muro non ha un significato soltanto europeo, ma acquisisce anche una rilevanza ed un impatto sull’assetto dell’intero sistema-mondo. Per questo, cari studenti e care studentesse, abbiamo scelto di parlarvi e raccontarvi di questo Muro. Forse qualcuno di voi non ne ha colto pienamente la portata, forse vale la pena oggi a vent’anni di distanza tornare a rifletterci insieme, con alcuni studiosi ed alcune studiose del nostro Ateneo e di altri Atenei italiani. Come è cambiato il mondo dopo Berlino? Nel 2006 il film Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck vinse l’Oscar, perché ci narrava della Stasi, la famigerata polizia di stato di Berlino Est, perché ci ricordava che solo pochi anni fa - nel 1984 - nessuno a Berlino, nel cuore dell’Europa, poteva vivere al sicuro. Perché ci ricordava che i muri, dovunque eretti, raramente sono una risposta politica efficace. I muri sono costruiti per dividere, più che per proteggere. E se qualche volta pur riescono a proteggere e a garantire l’incolumità di chi li ha eretti, lo fanno al prezzo delle vite degli altri … Quanti muri serviranno ancora alla politica internazionale?


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1989. Scacco matto Il punto di svolta del XX secolo

primo piano

di Leopoldo Nuti A vent’anni di distanza dalla caduta del Muro di Berlino, quell’evento straordinario e la radicale trasformazione dell’intero sistema internazionale che ne scaturì appaiono sempre più chiaramente come il momento di svolta della seconda metà del ventesimo secolo, una cesura di straordinaria importanza Leopoldo Nuti storica tanto più sorprendente per essersi verificata in maniera del tutto inaspettata. Chi ha vissuto quelle vicende ricorda tuttora lo stupore nel veder sparire nell’arco di pochi mesi un mondo che sembrava immutabile, nel veder modificarsi dall’oggi al domani e con una facilità quasi irrisoria, la carta geografica dell’Europa, nel veder svanire per sempre uno dopo l’altro i punti di riferimento ideologici di un’intera epoca. Come fu possibile che avvenimenti di una tale portata irrompessero sulla scena internazionale in maniera così inattesa, scardinando dalle fondamenta i rapporti politici consolidatisi durante i decenni del confronto bipolare? Il dibattito relativo alle cause di quegli eventi continua ad affascinare gli studiosi di politica internazionale e ha assunto un’importanza centrale nello studio delle relative discipline, sia storiche sia politologiche, ma nonostante la ricchezza e la profondità dei contributi offerti è ancora molto lontano dall’esaurirsi o dal trovare un punto di sintesi. Negli anni scorsi il confronto su questi temi ha anzi

«Chi ha vissuto quelle vicende ricorda tuttora lo stupore nel veder sparire nell’arco di pochi mesi un mondo che sembrava immutabile» registrato la vivace contrapposizione di interpretazioni spesso profondamente diverse, che di volta in volta hanno individuato le ragioni del repentino tracollo delle posizioni sovietiche, in Germania così come nel resto dell’Europa orientale, ora nella superiorità del modello economico occidentale, dopo il rilancio del capitalismo con il modello neo-liberista, ora nella prova di forza cercata dall’amministrazione Reagan durante i primi anni Ottanta soprattutto con il rilancio della corsa agli armamenti, ora viceversa nella lungimiranza con cui l’Europa avrebbe sgretolato il consenso all’interno del blocco sovietico

attraverso la tutela e la promozione dei diritti umani, dopo la firma dell’Atto di Helsinki nel 1975. Altri ancora hanno individuato poi nella figura del segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica, Michail Gorba˘cëv, la variabile cruciale e indispensabile senza la quale a nul-

«Il dibattito relativo alle cause di quegli eventi continua ad affascinare gli studiosi di politica internazionale» la sarebbero valse le strategie dell’occidente. Contributi importanti al riguardo sono venuti dalle numerose memorie con le quali i protagonisti hanno tramandato la loro versione degli avvenimenti, ma ancor più significative

Poliziotti della Germania Ovest (di fronte al Muro) e della Germania Est (in cima al Muro). Dietro le transenne si accalca la folla di berlinesi. Lo scatto, che risale al 10 novembre 1989, il giorno successivo alla caduta del Muro di Berlino, è dello studente allora diciasettenne Frederik Ramm ©.


sono state le informazioni emerse dal consistente numero di documenti d’archivio, decisamente sorprendente per un avvenimento così recente. Il primo dato sul quale la discussione tra gli studiosi sembra aver trovato un punto di convergenza è che la maggior parte dei leaders politici di quei mesi fu colta completamente di sorpresa dagli eventi e dal ritmo incalzante con cui si susseguirono gli avvenimenti. L’Europa ai tempi della Guerra Fredda Lungi dall’essere state previste, pianificate o programmate in qualche cancelleria europea, al Cremlino, o alla Casa Bianca, la caduta del Muro di Berlino, la riunificazione tedesca e le rivoluzioni più o meno incruente che scossero i governi dell’Europa orientale furono in realtà il risultato soprattutto di una profonda spinta spontanea proveniente dalla società civile di quei

paesi. Certo gli Stati Uniti dell’amministrazione Bush avevano in qualche modo deciso di sollecitare Gorba˘cëv ad intensificare e accelerare il processo di riforma dell’URSS e dell’intero blocco comunista che egli aveva cautamente iniziato. Ma né il presidente americano né i suoi collaboratori si aspettavano di veder messo in discussione l’equilibrio europeo, né tantomeno ambivano a mettere a repentaglio con mosse troppo azzardate la posizione di Gorba ˘c ëv, che anzi ritenevano potesse costituire il loro miglior interlocutore alla guida del Cremlino e la cui leadership si preoccupavano di salvaguardare dalle contestazioni dei suoi agguerriti avversari interni. Dal canto suo, il segretario del PCUS non voleva certo smantellare la sfera di influenza sovietica in Europa orientale, né presiedere alla liquidazione della stessa URSS, ma sperava di pilotare un processo di graduali riforme che consentisse a tutti i paesi del blocco di ridare slancio alle proprie economie e di iniettare nelle loro società una maggiore fiducia nella efficacia del proprio modello di sviluppo. Né la volontà

«Le due chiavi di volta che resero possibile per gli altri stati europei accettare più o meno di buon grado la riunificazione tedesca furono l’appoggio dell’amministrazione Bush e il compromesso franco-tedesco che permise il rilancio dell’integrazione europea» riformistica di Gorba˘cëv né le pressioni americane furono quindi la causa diretta delle spinte per il cambiamento che caratterizzarono la seconda metà del 1989, ma contribuirono tutt’al più a creare la cornice politica che di quelle spinte rese possibile l’emersione. Il cambiamento che a Berlino, Praga, Varsavia o Budapest si chiedeva e si voleva mettere in atto, infatti, era molto più radicale e profondo di quello immaginato a Mosca o a Washington. Governare e gestire le aspettative, le pulsioni e le richieste che provenivano dalle forze politiche e dalla società civile di tutta la parte orientale del continente europeo, evitando al tempo stesso che quelle pressioni degenerassero in una spirale di crisi in-

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controllate, costituì due Germanie di deliperciò per gli statisti di berare liberamente il allora una sfida senza proprio futuro venendo precedenti. Fin dove incontro alle esigenze era lecito spingersi? sovietiche ma anche Quanto ci si poteva imdissipando i timori di maginare di rimodellaquanti immaginavano re la carta d’Europa che la riunificazione senza provocare brusignificasse porre le schi inasprimenti della premesse per un nuovo situazione? La riunificonflitto mondiale cocazione tedesca, che stituì perciò il vero nonel giro di pochi mesi do cruciale intorno a si trasformò da semplicui ruotò il futuro delce ipotesi retorica in l’Europa e dell’intero una solida certezza, sistema internazionale. costituì in un certo Di fronte a una prova senso il banco di prova La storica stretta di mano fra il presidente francese Fronçois Mitterrand e il tanto complessa, alcuni di questa ambizione a cancelliere tedesco Helmut Kohl, il 22 settembre 1984 all’ossario di Fort statisti riuscirono a coridisegnare l’Europa, Douaumont, nei pressi di Verdun, nel corso della giornata di commemorazione niugare la visione del dal momento che la di- di una delle più cruente battaglie della Prima guerra mondiale, costata la vita a proprio interesse nazio700 mila soldati, 130 mila dei quali, non più identificabili, furono sepolti visione della Germania nale con un progetto proprio a Fort Douaumont. costituiva la pietra più ampio che salvad’angolo su cui l’integuardasse anche l’equiro sistema della guerra fredda era basato. Se si poteva librio generale del sistema internazionale, altri sembraropensare l’impensabile e riunificare la Germania, nulla no trincerarsi dietro una sterile, quanto improbabile, difesembrava più impossibile. Decidere il futuro dei due stati sa ad oltranza dello status quo. Sia pure con un appoggio tedeschi fu dunque il problema che più attirò l’attenzione da parte dei suoi partner europei occidentali assai meno dei principali capi di stato e di governo, l’epicentro di un generalizzato ed entusiastico di quanto si sarebbe aspettaprocesso di trasformazione che rapidamente si sarebbe to, il cancelliere tedesco Helmut Kohl fu perciò in grado allargato a tutta l’Europa. Non solo la Germania orientale costituiva il perno del sistema di sicurezza sovietico «La decisione di Kohl e Mitterrand di costruito dopo la seconda guerra mondiale, ma anche al incastonare la riunificazione tedesca in di fuori dell’URSS l’ipotesi di una Germania riunita nel cuore dell’Europa evocava nell’animo di molti spettri inun’Europa più solida e strutturata confessabili, paure di un’epoca che sembrava ormai defisvolse un ruolo cruciale nel far nitivamente chiusa con la seconda guerra mondiale e che accettare anche ai più incerti la invece improvvisamente sembrava tornare prepotenteriunione delle due Germanie» mente alla ribalta. Trovare il modo per permettere alle

Baghdad sotto i bombardamenti nel 1990 e, nella pagina a fianco, pozzi petroliferi in fiamme in Kuwait, durante la prima guerra del Golfo. La crisi del Golfo fu il primo campanello di allarme delle nuove sfide internazionali nel mondo post Guerra fredda

di superare progressivamente gli ostacoli alla riunificazione. Le due chiavi di volta che resero possibile per gli altri stati europei accettare più o meno di buon grado la riunificazione tedesca furono l’appoggio incondizionato con cui l’amministrazione Bush la assecondò, e il compromesso franco-tedesco che permise il rilancio dell’integrazione europea. Il presidente francese e il cancelliere tedesco, in particolare, approfittarono della situazione propizia, in cui tutte le coordinate del sistema internazionale sembravano in procinto di essere scardinate, per raggiungere obiettivi che fino a quel momento si erano rivelati quanto mai elusivi, quali l’unione politica e l’unione economica e finanziaria dell’Europa. La decisione di Kohl e Mitterrand di incastonare la riunificazione tedesca in un’Europa più solida e strutturata, a sua


volta, svolse un ruolo cruciale nel far accettare anche ai più incerti la riunificazione delle due Germanie, dal momento che la nuova Unione che sarebbe nata di lì a poco avrebbe fornito garanzie più che sufficienti per compensare le preoccupazioni scaturite dall’apparizione di un nuovo stato tedesco. L’appoggio deciso degli Stati Uniti e quello più esitante degli europei, con la rilevante eccezione della Francia che dopo alcune incertezze iniziali tornò ad essere il principale interlocutore della Germania, consentirono così al governo tedesco di vincere le resistenze che l’Unione Sovietica avrebbe voluto frapporre. Gorba˘cëv si trovò infatti sempre più isolato nel tentativo di evitare la riunificazione tedesca e la sua posizione politica ed economica divenne pro- Michail Gorba˘cëv gressivamente talmente debole da costringerlo a cedere sempre di più di fronte alle richieste tedesche, fino ad accettarle completamente. La ritirata sovietica dal cuore dell’Europa, implicita nell’accettazione della riunificazione tedesca, rese inevitabili anche gli ulteriori rapidi capovolgimenti nel resto dell’Europa orientale: dopo i primi fermenti in Polonia e in Ungheria, che avevano preceduto la caduta del Muro, l’inizio del processo di riunificazione della Germania aprì nuove prospettive anche per gli altri stati dell’Europa orientale, in cui le medesime aspirazioni al cambiamento produssero effetti analoghi. Ad uno ad uno i governi comunisti dell’Europa orientale cadevano per essere sostituiti da coalizioni di forze democratiche, fino a ridisegnare completamente la mappa politica dell’Europa. Al tempo stesso, la perdita di controllo sulla Germania e sul resto della sua zona di influenza segnarono l’inizio della fine per la stessa Unione Sovietica, il cui trapasso sarebbe stato ufficialmente annunciato nel dicembre del 1991 – un evento che nessuno si sarebbe nemmeno lontanamente immaginato fino a pochi mesi prima. La trasformazione del quadro politico europeo si sarebbe completata di lì a poco con la firma del Trattato di Maastricht nel febbraio del 1992. Nell’arco di poco più di due anni, dunque, l’Europa aveva cambiato completamente il proprio assetto politico: scomparsa l’URSS, dis-

solto il suo blocco, la Germania riunificata, avviata una nuova fase dell’integrazione europea. A livello mondiale, questo terremoto sembrava lasciare gli Stati Uniti unica e sola superpotenza, come testimoniava anche la rapida conclusione della crisi apertasi nell’agosto del 1990 in Medio Oriente con l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq e risoltasi di lì a pochi mesi con la schiacciante vittoria della coalizione guidata proprio dagli Stati Uniti. Gli eventi dell’ottobre 1989 aprirono dunque la strada a una profonda trasformazione del quadro europeo e mondiale, una trasformazione tanto inaspettata e convulsa da costringere spesso i governi a dover rincorrere il susseguirsi degli eventi e a dover immaginare rapidamente quali soluzioni adottare per problemi e crisi molto diversi da quelli dell’era precedente. La rigida contrapposizione della guerra fredda, con il suo carico di paure legate all’immagine dell’olocausto nucleare, cedeva il passo ad un mondo nuovo carico di aspettative e speranze, ma anche di sfide minacciose che ben presto avrebbero posto la comunità internazionale di fronte a nuovi e inquietanti dilemmi. La crisi del Golfo fu un primo campanello d’allarme. Successivamente, tra il 1991 e il 1992, mentre si completava il negoziato che l’anno successivo avrebbe dato vita all’Unione Europea, il progressivo inasprimento della crisi di dissoluzione della Jugoslavia e il deterioramento della situazione in Somalia indicarono chiaramente che l’ordine europeo e mondiale che stava nascendo dalle ceneri della guerra fredda non sarebbe stato esente dal dover affrontare altre prove, anche molto difficili e sanguinose.

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Cives e barbari Il gioco infinito dell’inclusione-esclusione di Paolo Apolito L’umanità ha avuto origine in Africa e da là si è mossa in successive ondate a popolare il mondo. Essa è stata preceduta nello stesso continente da altri ominidi, anche questi in viaggio, a popolare il mondo. Prima di essere Paolo Apolito stanziale, l’umanità è stata nomade. O entrambe le cose. E quando si viaggia non c’è ragione di costruire fortificazioni stabili, muri “eterni”. Costruzioni provvisorie sì, magari difensive quanto basta, ma nulla di definitivo. È plausibile pensare che sia andata così. Questa umanità delle origini doveva essere piuttosto incline a fusioni e confusioni. Per ragioni pratiche ci verrebbe da pensare, per convenienze tecno-economiche, riproduttive, difensive. Ma non possiamo escludere anche robuste ragioni simboliche.

«Recentemente gli antropologi inclinano a supporre un continuum profondo e originario tra le culture, piuttosto che separazioni costitutive, discontinuità tra cultura e cultura, tra etnia x e etnia y, come per decenni pensarono e fecero pensare ai propri lettori» Poco sappiamo e poco possiamo accertare. Recentemente gli antropologi inclinano a supporre un continuum profondo e originario tra le culture, piuttosto che separazioni costitutive, discontinuità tra cultura e cultura, tra etnia x e etnia y, come per decenni pensarono e fecero pensare ai propri lettori. Gli antropologi preferirebbero persino non usare più questo termine, “etnia”, insieme ad altri, come “identità”, qualcuno dice anche “cultura”. Che pure hanno creato o contribuito a diffondere. Salvo poi a pentirsene per i risultati scientificamente deboli e per gli effetti politicamente negativi che hanno comportato. Poiché hanno fatto intendere il mondo come un costume di Arlecchino, fatto di tanti colori, ciascuno internamente omogeneo e ben distinto dagli altri, lungo confini netti e rimarcati; ogni colore una singola etnia/cultura/identità. Ignorando così quel continuum profondo, che comprende origini comuni con varianti territoriali, omologie e analogie, invarianti trasversali. E poiché questi termini, da punti di vista operativi degli studiosi sulla realtà, schemi ordinativi della conoscenza, si sono trasformati in sostanze, entità, dati della realtà.

Non è il caso di mitizzare una umanità primordiale troppo lontana e sconosciuta perché ci si possa azzardare a farne valutazioni etico-politiche di qualsiasi sorta. Davvero poco sappiamo del tipo di relazioni tra i diversi gruppi. Però abbiamo qualche elemento di maggiore concretezza documentaria per sostenere che in epoca storica i muri sorgono quando i poteri si concentrano e aprono il gioco infinito dell’inclusione-esclusione. Di qua Noi e quelli come noi, di là, tutti gli Altri. Un muro si eleva per separare. Alcuni da altri. Per ragioni difensive spesso, ma non solo per questo, anche per ragioni amministrative, burocratiche, religiose, di privilegio. Un complesso di motivi, che quasi sempre culmina in ultima analisi nell’atto bellico di difesa-offesa. Intorno al muro, ma più profondamente in nome del muro, la costruzione che aveva separato o sancito la separazione. La separazione è un taglio, una chiamata al Noi e una conseguente identificazione espulsiva degli altri. Il nome etnico è quasi un atto d’accusa, che un Noi vincente, dall’alto della sua potenza esprime contro più che verso gli Altri. È il centro di potere che nomina, per amministrare, escludere, includere, dividere i cives dai barbari. Oppure è il popolo vittorioso che dà nome agli sconfitti. Chi nomina ha il potere di farlo. E chi è nominato deve subire. Slavo, viene da “sclavus”, schiavo. Come gallese, Welsh, che viene da ricchezza, proprietà in quanto schiavo. Forse ebreo viene da “habiru”, fuggiasco, colui/coloro che si sottraevano dal “palazzo”, dalle formazioni politiche del II millennio a.C. Talvolta nominare gli altri equivale ad escluderli dall’umanità: alcuni popoli hanno chiamato se «Irgendwann fällt jede Mauer». Prima o poi ogni muro cade. Muro di Berlino, 1989. Foto di Frederick Ramm ©


stessi “uomini”, negando così tale statuto a tutti gli altri. Coloro che subivano l’etichetta imposta da altri, poi, ad un certo punto la facevano propria, contribuivano a renderla sostanza, un “dato” della realtà, e la sentivano come propria identità. E prima che di roccia e pietra, si alzavano muri di simboli e di stereotipi. E le narrazioni li dichiaravano, i riti li sancivano, le pratiche sociali li confermavano. Nella nostra contemporaneità non ci risparmiamo niente. Riattraversiamo tutte le piste separatorie già percorse dall’umanità. Costruiamo muri reali per separare Noi da Loro, i bianchi dai rossi, i ricchi dai poveri, gli onesti dai delinquenti, i buoni cittadini dagli spacciatori, i democratici dai terroristi.

«Un muro reale, materialmente innalzato e militarmente difeso davvero sarebbe inutile per dividere qualcosa che è già diviso. Evidentemente nasce da altro. Non dalla ratifica del muro simbolico, ma dal suo fallimento» Eppure questi muri si portano dentro una contraddizione irrisolvibile. Per questo sono sempre destinati a cadere, prima o poi a cadere. O a vanificare la propria esistenza. Perché in effetti basterebbero i muri simbolici a separare, includere ed escludere. Le identità, le etnie funzionano benissimo a distinguere, a impedire ogni confusione, ogni rischio di meticciato. Le guerre degli ultimi vent’anni stanno là a dimostrarlo con precisione matematica: Ruanda e Balcani sono nomi che evocano scenari di sangue etnicamente versato (con tutte le complesse motivazioni che sono dietro, ma che senza il furore etnico non sarebbero state sufficienti). Dunque un muro reale, materialmente innalzato e militarmente difeso, davvero sarebbe inutile per dividere qualcosa che è già diviso. Evidentemente nasce da altro. Non dalla ratifica del muro simbolico, ma dal suo fallimento. Proprio Berlino è esempio emblematico. Al-

l’indomani di Yalta, chi si trovava nel territorio atlantico rimase separato da chi si trovava in quello sovietico. Indipendentemente da vincoli di parentela o di amicizia, di fede o di interesse. D’ora in poi noi siamo Noi, gli Altri sono dannati. All’origine non v’era un muro simbolico, al contrario un mondo comune. E allora bisognava crearlo, il muro simbolico, dopo quello reale. Noi siamo democratici, liberi, religiosi; voi senza democrazia, libertà e religione. Ma no, rispondevano gli altri, Noi siamo uomini nuovi, veramente liberi, giudiziosamente atei; voi siete solo formalmente democratici, in realtà oppressivamente borghesi, e annebbiati dall’oppio dei popoli. E i cittadini di qua e di là dovevano abituarsi a pensarla proprio così, ad ergere muri simbolici, laddove prima c’era appartenenza comune. Questo Muro aveva già nella sua origine una contraddizione irrisolvibile. Come tutti i muri. Anche se rimase in piedi quasi trent’anni. Ma quando cade un muro, l’essenziale non è ancora fatto. Come sappiamo dopo la caduta di quello di Berlino, della quale celebriamo il ventennale con una punta di malinconia, perché sentiamo che le enormi speranze nate con quell’evento erano davvero eccessive, se le confrontiamo con le crescenti divisioni di un mondo in frantumi. Perché l’essenziale sono i muri simbolici, e quelli si sono moltiplicati dopo il 1989. Sono nati e prosperano da tutte le parti. Paradossalmente, quell’unico muro fisico di Berlino impediva muri simbolici troppo forti, almeno dentro gli schieramenti. Con la sua caduta nessuna riserva vi fu più a moltiplicare i muri simbolici. Al contrario, spuntarono o si rafforzarono da tutte le parti. Perché poi, quando enormi povertà entrano in contatto fisico, virtuale, visivo e televisivo con enormi ricchezze (il concetto di enormità è reciprocamente relativo), l’unico modo per controllare i rischi e le conseguenze è di affrettarsi ad ergere quanti più muri simbolici possibili. E in questo, i manager della paura, gli imprenditori della politica identitaria sono pronti a venir fuori. Ad additare qua e poi là i pericoli, gli assalitori, i vandali. O gli usurpatori, gli ingordi. Ed una umanità sempre più inevitabilmente connessa e contigua scava dentro di sé linee di confine e di separazione sempre più minute. Ma come sempre, il corso delle cose umane non sta fermo, la storia non è finita. I confini fisici o simbolici non sono mai definitivi. Le frontiere sono sempre permeabili. Perché come per una incompiutezza costitutiva degli esseri umani, al proprio mondo, al proprio vissuto manca sempre qualcosa, che forse è altrove, al di là del confine. Per questo i muri sono destinati a cadere. Perché fissano il mondo, lo chiudono e lo dichiarano compiuto. Ma i simboli viaggiano, le parole attraversano anche i muri e li sgretolano, prima o poi li sgretolano. Il muro di cemento non può nascondere la permeabilità dei confini, delle frontiere. Pur se più resistenti, gli stessi muri simbolici, alla fine si lasciano attraversare. Anche quando è sovrana la violenza: le lingue creole, nate nell’universo degli scontri e conquiste, sono metafore inarrestabili dell’attraversamento dei confini. Ci sono soggetti abili a scavalcarli, i muri, ad attraversarle, le frontiere. A portare da una parte risorse dell’altra e viceversa. Contrabbandieri di parole, simboli, gusti, idee. Forse, inconsapevolmente, i reali “costruttori di pace”.

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La rivoluzione pacifista Intervista a Renato Moro, docente di Storia contemporanea di Fulvia Vitale Come si inserisce la tematica della pace nella realtà attuale? Cosa è cambiato nel tempo e qual è il ruolo del pacifismo negli equilibri politici odierni? La questione guerra-pace è sicuramente una delle grandi questioni del mondo contemporaneo. Quando c’è stato l’intervento americano in Iraq, i paesi Renato Moro del mondo si sono riempiti, nelle piazze e nelle strade, della più grande manifestazione politica di tutti i tempi. Milioni di persone, da Sidney a San Francisco a Berlino, sono scese in piazza in nome della difesa della pace.

«La storia della pace e dei movimenti pacifisti è una storia giovane, nei confronti della quale vi sono ancora molti pregiudizi» A questa centralità non corrisponde però un’adeguata riflessione storica. La “storia della pace” e dei movimenti pacifisti, è una storia giovane, nei confronti della quale vi sono ancora molti pregiudizi. Molti storici la considerano, ad esempio, come una storia di nicchia e un po’ parrocchiale, scritta da militanti e simpatizzanti che la raccontano come una storia interna. È successo anche in altri casi (il movimento operaio e il femminismo, ad esempio): elementi valoriali, di militanza, moralistici e scientifici si mescolano inevitabilmente. Un secondo pregiudizio nasce dall’idea che occuparsi della storia dei movimenti per la pace equivalga all’occuparsi di un soggetto poco rilevante, perché di scarsa efficacia politica. Ci si chiede in sintesi: se i movimenti per la pace non sono riusciti e non riescono a incidere sugli scenari politici, vale la pena occuparsene? Credo che la domanda sia sbagliata perché relativa esclusivamente al decision making. Ritengo al contrario che la domanda da porsi sia piuttosto: hanno contato o no i movimenti per la pace nella politica contemporanea? La risposta a questa domanda può allora non essere quella di pretendere che il pacifismo abbia cambiato le politiche, ma di chiedersi se ha contribuito a cambiare la politica. Negli ultimi anni è successo che la guerra in Iraq si è fatta. Ma si è fatta con tutte le parti in causa che cercavano di dimostrare che quella non fosse una guerra, ma un’operazione umanitaria. Nei parlamenti del mondo occidentale si è discusso animatamente sulla natura di “missione di pace” di

questo tipo di operazioni militari e questa discussione è stata necessitata da un cambiamento generale di mentalità. Il fatto che oggi sia necessario presentare come operazioni di pace, operazioni che, forse, in realtà non lo sono, è sintomo che gli standard politici, la cultura politica e quindi la politica sono completamente cambiati. Un tempo questo non sarebbe stato necessario. Il solo fatto che la politica sia costretta a scendere sul terreno della pace e accettarne il linguaggio è un cambiamento fondamentale: ciò che è accettabile e ciò che non è accettabile in politica è cambiato. Oggi la guerra come soluzione normale del conflitto non è più accettabile. Volendo affrontare il discorso da un punto di vista storico, può indicarci cosa c’è dietro la realtà di oggi? Come si è dispiegato nella storia dell’umanità il pensiero pacifista? Il senso comune (e spesso anche i media) continuano a considerare il pacifismo come qualcosa di sempre esistito. Questo ci spinge a pensare al pacifismo come una specie di categoria dello spirito, un qualcosa che è sempre stato e sempre sarà. Si scrive del “pacifismo” di Shakespeare o di Erasmo da Rotterdam. Certamente il rifiuto individuale della guerra è antico, se non quanto l’uomo, almeno quanto il cristianesimo. Penso ai primi cristiani che non accettavano di portare le armi nell’esercito imperiale e poi ad alcune sette minoritarie del cristianesimo (catari, valdesi, lollardi, ussiti, anabattisti, mennoniti, quaccheri etc) che si sono rifiutate di partecipare alla guerra. Ma da un punto di vista scientifico gli storici, che hanno come regola aurea quella di evitare il peccato di anacronismo, sono convinti a ragione - che applicare categorie di un mondo posteriore ad un mondo precedente, rischia di falsificare e tradire la storia e gli uomini. Se si guardano le cose in questo modo, Uno slogan popolare sul Muro di Berlino, vicino alla East Side Gallery


La seconda frattura avviene è molto difficile applicare a ai primi del Novecento. Non un passato lontano il modercasualmente è nel 1901 che no termine di “pacifismo”. nasce la parola “pacifismo”. Prendiamo il caso del rifiuto Il termine viene proposto su cristiano della guerra: ha un giornale del movimento qualcosa a che fare con quelinternazionale per la pace da lo che noi oggi intendiamo Émile Arnaud sostenendo come pacifismo? La risposta che, come tanti movimenti è no. Si trattava infatti di un della politica contemporanea rifiuto che i sociologi chiaavevano un nome in “ismo” merebbero “vocazionale”: un (socialismo, nazionalismo, gruppo di seguaci di Cristo, sindacalismo etc.), anche “il del Vangelo, si sentono “giupartito della pace” aveva bisti” in un mondo dominato sogno di un nome, e di un dal peccato; la loro scelta è nome che lo mettesse diretquella di “chiamarsi fuori” Gandhi nel 1948 con Jawaharlal Nehru, suo erede e primo ministro indiano dal 1947 al 1964 tamente in competizione con ma questo chiamarsi fuori gli altri. Per la prima volta, non immagina, non ipotizza dunque, la questione veniva nemmeno, che la guerra sia posta inquadrando il pacifismo come un partito. La pace eliminabile. Non c’è un progetto di trasformazione della non era più solo un problema politico di opinione, ma un società, perché quei cristiani pensano comunque che la problema politico che richiedeva un’organizzazione di guerra sia frutto del peccato dell’uomo e, come il peccato, massa: il pacifismo diventa così una delle grandi ideologie sia ineliminabile. Il pacifismo, dunque, non è sempre esidel Novecento. stito. Ad un certo punto della storia dell’umanità c’è stata una frattura dalla quale esso nasce. Quando si è verificata la frattura che ha determinato «Il pacifismo non è sempre esistito, ad la nascita del pacifismo come lo intendiamo oggi? Si può parlare di due grandi momenti storici di frattura: il un certo punto della storia primo durante il Settecento e il secondo all’alba del XX dell’umanità c’è stata una frattura secolo. dalla quale nasce il pacifismo. Si può Nel Settecento l’Illuminismo ha cambiato i termini del parlare di due grandi momenti storici discorso sulla guerra. Per la prima volta si pensa che la guerra sia una malattia della società, che derivi da istitudi frattura: durante il Settecento e zioni sbagliate: il potere assoluto dei monarchi, il mercanall’alba del XX secolo» tilismo e l’assenza del libero scambio. L’atteggiamento del Settecento considera la guerra come irrazionale, barbara e primitiva, non adeguata a ciò che la ragione umana richieIl cambiamento, a questo punto, è evidente. Durante la pride. E questo porta gli intellettuali di quegli anni a porre la ma guerra mondiale nasceranno i primi obiettori di coquestione della pace perpetua: la guerra si può eliminare e scienza. La loro scelta non è più solo etica: nasce dal fatto al suo posto si possono costruire le strade per un mondo che essi pensano che il rifiuto sia una leva per mettere in pacifico. Gli illuministi sono i primi che fanno della pace crisi il meccanismo della coscrizione obbligatoria, e quinnon un problema etico-individuale, ma un problema politidi il sistema militarista. A differenza dei cristiani il cui rico e collettivo. fiuto di prendere le armi era individuale e intimo, ora gli obiettori di coscienza si propongono anche un’efficacia politica: il loro gesto libertario è finalizzato a mettere in crisi la guerra. La storia del pacifismo è stata una storia lineare o ha incontrato delle difficoltà nel suo formarsi? Il mondo del pacifismo può dirsi variegato o è privo di differenziazioni interne? Il pacifismo da quando è nato ha attraversato tutta una serie di sconfitte. In certi momenti ha avuto un grande rilievo (si pensi all’Inghilterra nel periodo tra le due guerre con il suo peace ballot, il sondaggio per la pace a cui parteciparono milioni di persone), ma ha conosciuto essenzialmente disfatte. Durante la prima guerra mondiale non si è reso conto della forza del nazionalismo, fidando nella capacità dell’opinione pubblica di fermare il pericolo. Molti degli esponenti dei movimenti pacifisti hanno finito per giustificare essi stessi la guerra come una guerra difensiva del proprio paese e si sono arruolati volontari (così Arnaud). Di fronte

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alla seconda guerra monsi con la violenza di stato. Per Gorbaciov sarebbe diale c’è stata un’analoga stato inconcepibile reagisconfitta del pacifismo re come fecero invece i che non è riuscito a capire cinesi a Piazza Tienanla forza del totalitarismo, men. Nonostante questa dello scontro ideologico. grande speranza, il monUno degli slogan più difdo si è poi rivelato comfusi negli anni Trenta era pletamente diverso. Si era “contro il fascismo e consperato che l’ONU, finita tro la guerra”. Ma pensare l’epoca in cui era paralizdi essere contro il fascizata dalle due contrapposmo e insieme contro la ste superpotenze, avrebbe guerra nascondeva una giocato un ruolo positivo. contraddizione di fondo: La prima guerra del Golcome si sarebbe potuto fo aveva visto l’intervencombattere il fascismo to dell’ONU e l’applicasenza ricorrere alla sicu- Il 18 marzo 2006 per il terzo anno consecutivo, nell’anniversario della guerra zione della Carta delle rezza e alla dissuasione in Iraq, oltre 3000 persone si sono riunite a Budapest formando con le torce il Nazioni Unite che prevearmata? Il pacifismo degli simbolo della pace deva sanzioni militari anni Trenta si è infatti comminate dall’ONU alspaccato in due: da una l’aggressore (Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait). parte ha insistito fino alla fine su una politica di mediazioQuesto aveva costituito un motivo ulteriore di speranza. ne e incontro con i regimi totalitari, rischiando addirittura il Invece è successo che è cambiata la guerra. Si pensi alla collaborazionismo e l’appeasement, dall’altra ha scelto la Jugoslavia, al Rwanda, alla Somalia. Sono cominciate ad sicurezza collettiva, la difesa e la guerra. Albert Einstein, apparire le cosiddette “nuove guerre”, non più combattute che fu uno degli esponenti più in vista del pacifismo tra le da eserciti regolari, ma da milizie, conflitti in cui la popodue guerre, all’inizio della seconda guerra mondiale finì lazione è diventata oggetto del contendere, guerre in cui si per scrivere a Roosevelt che il più grande pericolo per l’umescolano tecnologia sofisticata e mezzi tradizionali e manità era che i nazisti avessero la bomba atomica e sugbrutali di guerriglia. Il pacifismo di fronte a queste guerre, gerì di avviare un programma in questo senso. così come di fronte alle operazioni di peace keeping, si è Dopo la seconda guerra mondiale c’è stato un declino del nuovamente diviso. Mary Kaldor, ad esempio, leader del pacifismo. È diventato uno strumento per la guerra fredda, movimento europeo antinucleare negli anni Ottanta, ha è stato egemonizzato dal movimento comunista che ha fatgiustificato anche l’uso della forza militare per imporre la to della pace uno slogan per ragioni politiche. Poi a partire pace e salvare i diritti umani. Lei ed altri hanno iniziato a dagli anni Settanta e soprattutto negli anni Ottanta, nel corconsiderare i militari e i diplomatici come figure chiave so del lungo processo attraverso il quale i grandi partiti per garantire la pace. Un’altra corrente di pensiero ha riteideologici hanno iniziato la loro crisi, hanno cominciato ad nuto l’ingerenza umanitaria una contraddizione in termini, emergere tutta un’altra serie di movimenti e di valori: oltre ha ritenuto che essa fosse solo una nuova forma per maall’ambiente e i diritti umani, proprio la pace. Ai partiti scherare la guerra e che non ci potessero essere violazioni strutturati in modo tradizionale e legati alle classi sociali dei diritti umani che giustificassero l’uso delle armi. Il pasono subentrate nuove forme di rappresentanza, trasversali, cifismo continua ad avere due anime diverse. non più legate a interessi economici e di classe. Di questa Una delle più grandi figure politiche del secolo è senza nuova stagione politica, il pacifismo, assieme all’ambientadubbio rappresentata da Gandhi, ci può parlare del lismo, è stato protagonista. Le nuove forme della politica suo approccio al pacifismo? hanno avuto proprio nei movimenti per la pace una delle Gandhi è il fondatore di una dottrina poi rivelatasi fondamenchiavi di volta. Da tutto questo deriva anche che ora la pace tale per il pacifismo di tutto il seguito del Novecento: quella è un valore primario, universalmente riconosciuto. della non violenza. La non violenza tuttavia non corrisponde Qual è stato il ruolo della pace nell’ultimo ventennio di al pacifismo: è un metodo di lotta, un metodo pacifico, certastoria contemporanea? mente, ma che non rifiuta la lotta. Il pacifismo considera la Nell’ultimo ventennio lo scenario mondiale è completalotta un male, mentre Gandhi considera la lotta un bene. Egli mente cambiato: il 1991 ha visto la fine del sistema sovietiha dichiarato di preferire nettamente chi prende le armi a chi co. La caduta della principale fonte di tensione internaziole rifiuta per codardia. La non violenza non è rifiuto del connale ha generato inizialmente un grande entusiasmo collettitrasto ma una più alta e più umana maniera di combattere. vo: si immaginava un mondo finalmente pacificato, data la Rappresenta una forma di ascesi, di educazione. Arriva anche fine del conflitto tra le due grandi ideologie contrapposte, a forme estreme, quali la disobbedienza civile o il digiuno. Si quella liberale e quella comunista. Il crollo dell’Unione Sotratta di un metodo di lotta più morale e più efficace ma è covietica stesso venne da molti interpretato come una vittoria munque lotta: Gandhi si presenta come un combattente. La del movimento per la pace: Gorbaciov, che aveva fatto parte posizione di Gandhi è diversa da quella del normale pacifista, di quella intelligencija russa che aveva dialogato con i moanche se la non violenza gandhiana è diventata poi, con gli vimenti per la pace e aveva da questi assorbito buona parte anni, il principale strumento di lotta del pacifismo. del valore dei diritti umani, scelse di non rispondere alla cri-


Muri dell’Est Intervista a Roberto Morozzo Della Rocca, docente di Storia dell’Europa orientale di Valentina Cavalletti Quali muri nel corso della storia del Novecento sono stati maggiormente significativi, segnando cesure o svolte epocali? Nel Novecento, i muri di odio tra i popoli sono stati ben evidenti, in particolare in Europa. Penso all’odio secolare tra francesi e tedeschi che ha significato una tensione continua tra il 1870 e gli anni Sessanta Roberto Morozzo della Rocca del Novecento, conclusasi solamente con la riconciliazione voluta da K. Adenauer e C. De Gaulle. Ma penso soprattutto alla contrapposizione ideologica innalzata dalla Guerra Fredda, durata dal 1945 al 1989, che si è concretizzata in un muro reale a Berlino e ha lungamente determinato forti ripercussioni nella politica, nella diplomazia e nelle relazioni internazionali. Un’altra separazione evidente è quella della città kosovara Kosovska Mitrovica, attraversata da un fiume lungo il quale dopo la guerra del 1999 la forza internazionale (KFOR) ha steso un reticolato per dividere i serbi, che sono la maggioranza nei territori a settentrione, dagli albanesi, che hanno ottenuto la sovranità dell’area. Si tratta di una divisione che è tuttora causa di attrito tra i due popoli, con gli albanesi che vorrebbero unificare il Kosovo e i serbi ricostituire il proprio Stato. Ognuno ha il proprio punto di vista, inconciliabile e irriducibile. Meno evidente, ma reale è pure la divisione della città di Mostar, in Bosnia, tra croati e musulmani.

meno interventista militarmente e più rispettosa del pluralismo politico mondiale. L’unilateralismo ha infatti mostrato i suoi limiti nella vicenda irachena e ora Washington sta percorrendo strade nuove, dettate non da buoni sentimenti ma da realismo politico: il mondo va verso i 7 miliardi di individui mentre gli statunitensi sono solamente trecento milioni e la loro forza economica perde costantemente quota rispetto alle potenze emergenti di Asia e Sud America. Goldman Sachs, per fare un esempio, prevede infatti che nel 2050 i 4 paesi del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) avranno un potenziale economico ben superiore a quello degli attuali membri del G8. Il mondo occidentale e il mondo arabo-islamico sembrano essere continuamente a un passo dallo scontro di civiltà. Alla luce della storia, quali sono i possibili sviluppi di questo conflitto? Non credo che lo scontro tra culture sia inevitabile, come sosteneva S. Huntington. L’Islam non è un’unica civiltà e i paesi musulmani hanno politiche differenziate. Per esempio, non parlerei di scontro di civiltà a proposito della bomba atomica dell’Iran, il cui progetto politico è specifico e non rispecchia tutto il mondo islamico, anche se i continui attacchi di Ahmadinejad contro Israele, la cui esistenza è fondamentale per l’Occidente, sono un pericolo per la pace. Peraltro, a fronte di una maggioranza islamica mondiale sunnita, l’ambigua democrazia di un paese sciita con irrisolte pulsioni di violenza al suo interno non legittima certo una leadership iraniana sul mondo islamico nel suo complesso. Credo quindi che vadano fortemente esplorate le vie della diplomazia, usando tutte le sanzioni possibili, in modo che l’Iran rinunci al suo progetto e accetti di convivere pacificamente con gli altri paesi.

«Non credo che lo scontro tra culture sia inevitabile, come sosteneva Huntington» A causa della caduta del Muro di Berlino l’area balcanica ha subito delle ripercussioni drammatiche. La scelta del presidente Obama di cambiare strategia e di rinunciare al progetto dello scudo spaziale in Europa crea i presupposti per un nuovo rapporto tra USA e Russia. Quali ripercussioni si verificheranno nei Balcani? Non credo che la rinuncia allo scudo spaziale in Repubblica Ceca e in Polonia avrà ripercussioni dirette nei Balcani. È tuttavia un segnale importante perché dimostra le intenzioni meno invasive degli Stati Uniti nell’area, insieme con un allentamento degli attriti con la Russia, che era da tempo insoddisfatta per le politiche di allargamento della Nato nei paesi dell’ex Unione Sovietica. Certamente la nuova amministrazione americana si qualifica per essere

L'assetto della regione balcanica alla fine del processo di dissoluzione della ex Jugoslavia

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della religione a cui apIn molte parti del monpartengono. do l’orrore della guerra Caduto il Muro le case continua a fare strage dei paesi dell’est, anche di civili, spesso in nome le più povere, si sono di Dio e della religione. dotate di antenne paraCi sono margini di diaboliche, simbolo della logo con le frange più rinnovata libertà e della estreme del fondamentransizione al consumitalismo? smo televisivo. Come Il fondamentalismo nel sempre accade, le tramondo arabo-musulmano sformazioni sono piene è figlio della rivalsa verso di traumi e di contradlo sfruttamento, la violendizioni. Qual è la situaza, il disconoscimento e il zione oggi? disprezzo che l’Occidente Il passaggio all’Occiha dimostrato nei suoi Il ponte di Kosovska Mitrovica, in Kosovo, che divide la città serba da quella dente dell’ex blocco soconfronti nell’ultimo sevietico, compresa la colo, dall’età della colo- albanese Russia, è stato più traunizzazione a oggi. Come matico per le persone anziane e meno per i giovani, dice Tzvetan Todorov i paesi islamici sono i paesi del risenmaggiormente adattabili. Mi pare che oggi si stia ragtimento, quelli occidentali i paesi della paura. Tra paura e giungendo una stabilizzazione, soprattutto nei paesi ecorisentimento purtroppo il dialogo è difficile. L’Occidente nomicamente più avanzati come la Polonia, la Repubblideve stemperare il risentimento islamico e mi sembra che il ca Ceca e l’Ungheria. Gli anni Novanta sono stati veradiscorso di Obama a Il Cairo andasse in questa direzione. mente molto difficili, a causa della miseria, dei traumi Ma non dimentichiamo che il fondamentalismo è un fenosociali e delle disillusioni capitalistiche. Si pensi all’Almeno di deriva che esiste in tutto il mondo delle religioni e bania durante la crisi delle sue società finanziarie: si che quello islamico è anche figlio della miseria, del sottocredeva che adottando il sistema economico occidentale sviluppo e delle politiche dei regimi autoritari, che facendo si potesse guadagnare senza lavorare. Il 70% delle familauti affari con l’Occidente disprezzano i diritti umani e arglie albanesi ha bruciato in questo modo i propri risparricchiscono le proprie élites a scapito del benessere comune. mi, affidandosi a finanziarie destinate puntualmente al Vorrei sottolineare tuttavia che la maggior parte dei credenti fallimento. rispetta il messaggio di pace che è nei libri sacri o connatuQuesti fenomeni si sono verificati anche a Mosca e a Burato alla propria religione e non è fondamentalista, se per carest perché è stato male interpretato il sistema occidenfondamentalismo intendiamo un estremismo violento che tale, la cui moderna economia di libero mercato presupdegenera nel terrorismo, come nel caso di Al Qaeda. Nel pone comunque delle regole di funzionamento. L’abitudimondo islamico i fondamentalisti sono una netta minoranne a essere sottomessi all’arbitrio del partito unico è sfoza, anche se la stampa occidentale esalta il fenomeno. ciata in molti casi nell’incapacità di gestire la propria liIn che modo la religione condiziona la politica e in che bertà, anche economica, e tutto ciò si è ripercosso nello modo la politica strumentalizza la religione? stile di vita: nei paesi socialisti il lavoro era garantito a Le religioni sono un fattore molto forte di identità dei potutti, seppure con dei redditi minimali, oggi invece la conpoli, facilmente strumentalizzabile dalla politica e non è correnza crea disoccupaun mistero che nel corso zione. La società si è della storia i governanti sgranata, da un lato i ricabbiano sempre auspicachi e i ricchissimi, dalto una benedizione relil’altro i poveri e i povegiosa delle proprie politirissimi, mentre un tempo che, anche e soprattutto nelle strade delle grandi quando aggressive e belcittà dei paesi dell’est liciste. Gli uomini di renon si vedevano barboni. ligione, che vivono nel La storia è andata avanti proprio tempo e si lae queste considerazioni, sciano condizionare dalche possono generare rele mode culturali, politisiduali fenomeni di noche e ideologiche, dostalgia, non devono farci vrebbero cercare di residimenticare che i paesi stere alle sirene della po- «Io sono qui oggi per cercare di dare il via a un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo; l'inizio di un rapporto che si basi ex socialisti si fondavano litica, mantenendo il tisull’interesse reciproco e sul mutuo rispetto. (…) America e Islam non si su sistemi autoritari che mone delle proprie co- escludono a vicenda (…) al contrario si sovrappongono, condividono munità in linea con il medesimi principi e ideali, il senso di giustizia e di progresso, la tolleranza e la non garantivano la libertà alle persone. messaggio originario dignità dell’uomo». Obama all’Università de Il Cairo lo scorso giugno


L’impossibile patria Potere, identità e scrittura in Herta Müller di Giacomo Marramao «Eppure siamo ancora giovani». La nota malinconica risuona nel penultimo racconto della raccolta Niederungen, “Il parco nero”: il solo che – sigillato da una dedica al compagno («Per Richard») – rompa la scabra, rigorosa economia della descrizione del quotidiano, per dar voce a una larvata protesta e aprire una finestra sul Giacomo Marramao mondo. Che fare se, di qualunque cosa si parli, si parla sempre di sconfitta? Che senso ha, se non si trova di meglio che annegare la paura in un bicchiere di vino? «Eppure siamo ancora giovani. E un altro dittatore è caduto, e la mafia ne ha ucciso un altro, e un terrorista sta morendo in Italia. Non puoi bere, ragazza, contro la tua paura. Sorseggi questo bicchiere come tutte le donne che non hanno una vita, che non vanno a genio. Neanche a se stesse. Ti andrà ancora male, ragazza, dicono i tuoi amici. È vuoto nei tuoi occhi. È vuoto e stantio, il tuo sentimento. È un peccato per te, ragazza, è un peccato».

«Eppure siamo ancora giovani. E un altro dittatore è caduto, e la mafia ne ha ucciso un altro, e un terrorista sta morendo in Italia. Non puoi bere, ragazza, contro la tua paura. Sorseggi questo bicchiere come tutte le donne che non hanno una vita, che non vanno a genio. Neanche a se stesse» Non era ancora trentenne l’autrice di Niederungen, quando questa sua “opera prima” (1982) apparve nella Romania di Ceausescu con i tagli della censura (per essere ripubblicata due anni dopo in Germania in versione integrale). Chiunque si fosse allora sorpreso della durezza di quel provvedimento per un libro in apparenza “impolitico”, privo di punte critiche esplicite nei confronti del regime e descrittivamente naïf, si era rivelato ingenuo egli stesso e incapace di cogliere la carica di denuncia e la potenza eversiva che può sprigionarsi da una semplice e disincantata descrizione dello stato di cose esistente. Soprattutto quando una tale descrizione proviene da uno sguardo femminile attento ai dettagli della vita quotidiana. L’esistente, diceva Theodor Adorno, è sempre negativo co-

me totalità. E in ogni totalità – grande o piccola – che si imponga tramite la logica dell’identità e dell’autoaffermazione, il potere tende inevitabilmente ad assumere i connotati dell’Orrore. Per questa semplice ma decisiva ragione, la ricostruzione letteraria degli orrori del regime repressivo rumeno non può risparmiare, per Herta Müller, la “piccola patria” di Nitchidorf: il piccolo villaggio del Banato svevo in cui si radicano le riconosciute peculiarità della sua lingua. Alle spalle di un’infanzia che si descrive “muta”, c’è il risentimento illividito di un gruppo sconfitto: tedeschi usciti a pezzi dal disastro nazista (come il padre, arruolato nelle SS) e piccoli e medi contadini espropriati dal regime nazionalcomunista. Fin dentro le famiglie, i sentimenti congiunti della perdita e della paura irrigidiscono l’attaccamento alla radice tedesca nelle sue componenti più tradizionali: disciplina e devozione, obbedienza e ordine. Il villaggio nativo continua a vivere nella testa di Herta anche nel corso dei suoi studi universitari di germanistica e romanistica a Timis, oara: una memoria al tempo stesso urgente e indicibile, come tutti i ricordi infantili che non sono transitati negli scambi di una lingua realmente condivisa. Solo alla scrittura riesce il miracolo di dare finalmente parola all’infanzia muta di Herta. Si tratta, però, di un margine ristretto, pericolosamente minimo, volto a riscattare il teorema d’impossibilità della parola che verrà enunciato a chiare note nel 1994, all’inizio e alla fine del romanzo Herztier: «Se stiamo in silenzio, mettiamo in imbarazzo, […] se parliamo, diventiamo ridicoli». Per sfuggire all’interdetto, i suoi testi prendono la forma di soliloqui in cui la finzione letteraria diviene la dimensione deputata ad ospitare il degrado come unica forma di vita sperimentabile nel tempo della miseria e della derelizione. Solo dalla prospettiva della “bassura”, del “bassopiano”, è possibile visualizzare lo statuto paradossale della normalità: la cifra sinistra e straniante che le relazioni quotidiane assumono nel gretto microcosmo della provincia e nell’orrido macrocosmo della sorveglianza totalitaria. In entrambi i casi, il ritaglio delle parole scaturisce dalle esperienze primarie della paura e dell’estraneazione. In entrambi i casi, occorre dar conto di ciò che “resta” della soggettività individuale e delle relazioni di amicizia e affidamento che soli sono in grado di sostenerla. Risiede qui, in questo registro poetico-finzionale, l’autentico fattore di resistenza al potere che l’opera di Herta Müller pone in essere. Il tentativo di verbalizzare antiche percezioni vibranti di verità soggettiva, rappresenta così il tratto saliente dei suoi testi. Si tratta, tuttavia, sempre di una erfundene Wahrnehmung: di una “percezione inventata”. Cifra di questa percezione è una sensualità affidata per intero alla potenza figurale delle parole: una sorta di collisione tra “percetti” del mondo esterno e “immagini” del mondo interno, attraverso cui

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l’Io non solo si rispecchia nel mondo entrando in conflitto con esso, ma si sdoppia riflettendosi conflittualmente nell’immagine del suo Doppelgänger. Di qui l’atmosfera surreale che promana dalle descrizioni, realistiche fino al dettaglio, dei testi raccolti in Bassure: racconti, secondo il lungimirante giudizio formulato a suo tempo da Claudio Magris, «semplici e difficili come lo scorrere degli anni». L’accostamento dei due termini sta a segnalare la logica paradossale di una quotidianità in cui lo “scorrere” non dà luogo ad alcun cambiamento, ma solo alla monotona ripetizione dell’identico. Discende da qui lo stigma funerario che pervade la scrittura di Niederungen: il cui primo racconto è appunto dedicato a L’orazione funebre. Ma anche il moto di sotterranea ribellione che l’attraversa. La crudezza priva di autoindulgenza con la quale la Müller rappresenta i riti, le abitudini, i codici relazionali della propria comunità di origine ha suggerito a molti un parallelo con il trattamento non meno disincantato che un altro grande scrittore come Thomas Bernhard aveva riservato all’ambiente della provincia di Salisburgo. Il fremder Blick, lo sguardo straniero e straniante con cui Herta si rivolge tanto al regime rumeno quanto alla comunità del Banato potrebbe a questo punto indurre a riportare la sua opera sotto la rubrica della Hei-

«La Müller adotta come suo motto la frase di Jorge Semprún “Patria sono le parole dette”. Ci si può sentire a casa solo là dove si ha la libertà di dire tutto ciò che si vuole dire» matlosigkeit: di un’assenza-di-patria propria di quegli scrittori che, sia pure in una condizione di esilio interno o esterno, ritrovano e custodiscono la loro vera patria nella propria lingua materna. In realtà le cose non sono così semplici. Vero è che la Müller adotta come suo motto la frase di Jorge Semprún «Patria sono le parole dette» (Heimat ist das, was gesprochen wird). Ma l’adozione di questa formula, lungi dall’avallare l’equazione lingua=patria, intende problematizzare radicalmente il luogo comune per cui la patria è la lingua con cui si parla e in cui si scrive. L’affermazione implica al contrario che ci si può sentire a casa solo là dove si ha la libertà di dire tutto ciò che si vuole dire. Il carattere non descrittivo ma performativo della frase spiega pertanto il sentimento di estraneità e di “apolitìa” che la Müller avverte in qualunque situazione si dia un interdetto esplicito o un indiretto condizionamento (politico o socioculturale) all’espressione del proprio pensiero e delle proprie potenzialità creative. Un sentimento che ha continuato ad avvertire anche dopo il 1987, dopo la fuga in Germania: «Straniero – ha scritto nel 2003 – non è per me il contrario di conosciuto, ma il contrario di familiare». A partire da questo momento la funzione testimoniale della scrittura, già presente in Niederungen, viene affidata alla

pratica dell’“autofinzione” (Autofiktion): concetto ripreso (e liberamente adattato) da Georges-Arthur Goldschmidt. L’assegnazione al momento “finzionale” della scrittura di una rilevanza maggiore dell’autenticità delle storie narrate significa per la Müller, ormai approdata in Germania, varcare la soglia di un ulteriore disincanto. Il riprodursi del sentimento di estraneità anche nel nuovo paese in cui si era rifugiata, in quella Germania in cui si parla e si scrive la “sua” lingua, la pone al cospetto di una maturità repentina e precoce: come se anni luce fossero intercorsi dal tempo vissuto in Romania, ma – ad onta del mutato scenario sociopolitico – senza cambiamenti sostanziali del proprio rapporto con l’ordine dell’esistente. All’esclamazione di Bassure «Eppure siamo ancora giovani», fa ora beffardamente riscontro la frase di Cesare Pavese posta in esergo a Reisende auf einem Beim (Rotbuch Verlag, Berlin, 1989, edito in Italia con il titolo In viaggio su una gamba sola, Venezia, Marsilio, 1992) il primo romanzo composto nell’esilio berlinese: «Ma io non ero più giovane». Nel transito da una condizione segnata dall’esperienza della paura, sotto un regime fondato sulla sorveglianza e sulla minaccia, alla nuova situazione di un paese in procinto di unificarsi sotto un ordine liberaldemocratico, Herta vede persistere il proprio sentimento di disappartenenza, sradicamento e spaesamento indotto dall’assenza di patria. Il suo fremder Blick si è ora duplicato. Herta è straniera due volte: straniera nella patria d’origine che si è lasciata alle spalle, straniera nell’esilio. Il Leitmotiv del vuoto identitario, che già percorre i racconti di Bassure, si accentua con la lucida consapevolezza di trovarsi in una perenne condizione di outsider. La tensione tra estraniamento e ricerca dell’identità conferisce a tutte le sue opere successive una tonalità oscillante tra melanconica apatìa e angoscia, ribellione impotente e rassegnazione. La figura dominante di un’identità sempre in transito conferisce alla sua scrittura il carattere di una narrativa di viaggio distopica, che scorge nel potere, nei suoi meccanismi di inclusione/esclusione, la fonte perenne di ogni disappartenenza e disaffiliazione. Nessun cambiamento della vita può aver luogo, se l’esistenza si trova immersa nel potere e irretita dalle sue logiche (terroristiche o flessibili). Lo stato di privazione quasi-metafisico in cui versano gli individui non dipende dalla natura: non ha nulla a che fare con la presunta miseria della condition humaine. Discende piuttosto dalle logiche di spossessamento, dislocamento e destituzione dell’identità indotte dal potere. La costrizione del sorvegliato, al pari della spoliazione del prigioniero, è uno stato prodotto attivamente, reiterato e monitorato da un ordine delle cose, a seconda dei casi, elementare o sofisticato – ma sempre e comunque violento. Sottomessa a una tale logica restrittiva, l’identità dei singoli si proietta in un “fuori” perenne, secondo un teorema d’impossibilità che esclude a priori ogni possibile appaesamento in un “dentro”: in una patria o dimora stabile. L’interno della patria diviene così un esterno interiorizzato, in cui i senzapatria, gli apolidi, appaiono come umani spettrali deprivati di libertà e di peso ontologico. Il carattere


onnipervasivo che viene ad assumere la sorveglianza negli stessi sistemi “democratici” contemporanei, l’idea di essere costantemente osservati e classificati, induce nei soggetti uno sdoppiamento, dando luogo a fenomeni ossessivi (tendenzialmente patologici) di auto-osservazione. Io non sono cresciuta, ha detto una volta Herta Müller, ma “sono stata cresciuta”. Come dire: Herta Müller, Reisende auf noi non viviamo, ma una poeinem Beim, Rotbuch Verlag, tenza estranea ci sta vivendo. Berlin, 1989 è edito in Italia E continua a sorvegliarci anda Marsilio con il titolo In che quando pensiamo di esseviaggio su una gamba sola re fuggiti verso la libertà. La sorveglianza del potere non risparmia neppure le parole. Talvolta si fa in noi acuta la sensazione di essere osservati, o addirittura spiati, dalle stesse parole che pensiamo di adoperare, che riteniamo di aver scelto liberamente. E che

«Se stiamo in silenzio, mettiamo in imbarazzo, […] se parliamo, diventiamo ridicoli» invece ci hanno scelto, improntando e classificando le nostre identità. Vi è un nascondiglio nelle parole, ha dichiarato di recente la Müller: un nascondiglio in cui è sempre in agguato una spia del potere. E, nel dire questo, pensava a un lemma preciso: Lager. Parola-chiave del potere che attraversa l’intera esperienza della sua scrittura e che rivela come la traiettoria del suo viaggio sia in realtà un moto circolare di ritorno a un’immagine rovesciata di Itaca: intesa come distopia dell’anti-patria. Nel suo ultimo romanzo Atemschaukel (Altalena del respiro), ci troviamo al cospet-

to dell’eterno ritorno di un Orrore destinato a segnare in modo indelebile l’esistenza del giovane rumeno-tedesco Leo Auberg, deportato nel 1945 (e internato per cinque anni) in un Lager sovietico. Tale ritorno sta appunto a dimostrare quanto sia ancora influente la Urszene, la scena primaria del Banato svevo, dalle cui “basHerta Müller, Hertzier, Rowohlt, sure” ha avuto inizio il Hamburg, 1994 è edito in Italia da viaggio di Herta Müller. Keller con il titolo Il paese delle Partendo da un non-luogo, prugne verdi la sua scrittura-testimonianza ha finito per parlarci del non-tempo sospeso di una donna che non sa più – come il personaggio di Irene nel finale di Reisende af einem Beim – se la sua condizione sia quella di viaggiatrice con le scarpe sottili o di abitante con la valigia. Ma la cifra della provvisorietà e dell’ambivalenza non segna forse la condizione di universale sradicamento in cui ci troviamo tutti, in questa travagliata fase di passaggio dalla chiusura dello stato di cose presente a un futuro che ancora tarda a profilarsi? In un’Europa che nei movimenti del suo sottosuolo sembra oggi rinverdire la frusta retorica delle radici, la scrittura di una donna mitteleuropea insignita del Premio Nobel sta a segnalarci che l’identità è sempre una formula insatura: un viaggio della libertà e della ricerca incessante. E che la prima differenza da promuovere e salvaguardare – da qualsivoglia forma di potere – è quella della singolarità. Questo testo apparirà come prefazione alla nuova edizione italiana di Niederungen, il primo libro del Premio Nobel per la letteratura Herta Müller (Bassure, Editori Riuniti, Roma, 2009).

È andato ad Herta Müller il premio Nobel per la letteratura 2009. Scrittrice romena nata nel Banato Svevo, regione di cultura e lingua tedesca passata dopo il secondo conflitto mondiale sotto il controllo della Romania, Müller si rifugiò in Germania nel 1987 per sfuggire alla persecuzione del famigerato e claustrofobico servizio di sicurezza del regime di Ceausescu, la Securitate che, in quanto legata al gruppo di intellettuali dissidenti Aktionssgruppe Banat, l’aveva classificata come estremamente pericolosa. Il suo primo romanzo Niederungen fu pubblicato a Bucarest, in forma largamente censurata, nel 1982 e poi in Germania in versione integrale nel 1987. Herta Müller Oggi Herta Müller vive e lavora a Berlino. Insegna in diverse università e dal 1995 è membro della Deutsche Akademie für Sprache und Dichtung. L’Accademia di Svezia l’ha premiata «per aver descritto l’universo dei diseredati con la forza della poesia e la nitidezza della prosa». La sua produzione letteraria è incentrata sulle dure condizioni di vita nella Romania di Ceaucescu, sull’oppressione imposta durante gli anni della Guerra Fredda da uno dei regimi più duri dell’Europa orientale e sugli aspetti più crudi di un contesto politico-sociale in cui il prezzo più alto venne pagato dalle donne, vessate in famiglia e sui luoghi di lavoro e costrette a subire oltre al giogo politico anche il sistema patriarcale. Herta Müller ha ricevuto numerosi premi tra cui il prestigioso Konrad-Adenauer Literaturpreis nel 2004. In Italia, l’editore Keller ha pubblicato nel 2008 Il paese delle prugne verdi (uscito per la prima volta nel 1998 con il titolo Hertzier, tradotto in 15 lingue e premiato con l’International Impac Dublin Literary Award), un “romanzo di formazione”, che segue le vicende di quattro studenti universitari in Romania negli anni della dittatura. Presso Marsilio è uscito invece In viaggio su una gamba sola.

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Un’immagine che fece il giro del mondo: a pochi giorni dall’inizio della costruzione del Muro un soldato dell’Est fugge verso l’Ovest in un punto fortificato solo provvisoriamente

Nel 1945, nel corso della conferenza di Yalta, venne decisa la divisione della Germania (e di Berlino) in quattro settori controllati e amministrati da Unione Sovietica, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Il settore sovietico di Berlino era di gran lunga il più esteso e occupava la maggior parte della metà orientale di Berlino. Inizialmente ai cittadini di Berlino era permesso di circolare liberamente tra tutti i settori, ma con il passare del tempo i movimenti vennero limitati: il confine tra Germania Est e Germania Ovest venne chiuso nel 1952. A partire dal 13 agosto 1961, per fermare la fuga dalla dittatura, la Germania Est

Kennedy in visita a Berlino, 15 giugno 1963

Check point Charlie, ieri e oggi

La striscia della morte


A fianco, graffiti alla East Side Gallery. La sezione di muro lunga 1.3 km e interamente coperta da graffiti rappresenta un memoriale internazionale alla libertà ed è considerata la più lunga galleria d’arte all’aria aperta del mondo

Sotto: cronologia del Muro in un graffito

iniziò la costruzione di un muro attorno ai tre settori occidentali della città. La lunghezza generale del confine verso Berlino ovest era di 155 Km. Fuori città la linea di sbarramento venne realizzata anche con recinzioni metalliche. Nel 1962 venne costruito un secondo muro all’interno della frontiera destinato a rendere più difficile la fuga verso la Germania Ovest, fu così creata la cosiddetta “striscia della morte”. A partire dal 1975 il confine era anche protetto nella “striscia della morte” da recinzioni, trincee anticarro e oltre 300 torri di guardia con cecchini armati. Inizialmente, c’era solo un punto di attraversamento per gli stranieri e i turisti: il check point Charlie in Friedrichstrasse. Per i berlinesi erano disponibili 14 punti di attraversamento, 8 tra le due parti della città e 6 tra Berlino ovest e la DDR, in seguito in un atto simbolico l’attraversamento della porta di Brandeburgo fu chiuso. Oltre 100.000 cittadini della DDR cercarono di fuggire oltrepassando il confine fra le due Germanie o il Muro di Berlino. Diverse centinaia di loro furono uccisi dalle truppe di frontiera della Germania Est o morirono nel tentativo di fuga. Il numero delle vittime del Muro non è ancora stato stimato con esattezza. Finora sono stati chiariti i destini di 138 morti al Muro ma oltre 100 altre storie sono in corso di esame.

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1989-2009 I vent’anni che hanno cambiato l’assetto dell’Europa di Alessandro Cavalli «Sono passati solo vent’anni, ma il mondo è nel frattempo così cambiato che sembra che sia passato un secolo», oppure «sono passati già vent’anni, mi sembra ieri quando è caduto il Muro di Berlino»; il significato delle Alessandro Cavalli espressioni dipende dalla percezione soggettiva della distanza dall’evento da parte dell’osservatore, distanza che può apparire breve o lunga. Gli storici del futuro, che potranno analizzare l’evento stesso anche nelle sue conseguenze di più lungo periodo, potranno forse gettare uno sguardo più disincantato sulla svolta del 1989. Perché di una svolta storica, comunque, si è trattato, una svolta che ha posto fine al mondo bipolare che aveva spaccato l’Europa in due sulla scia della guerra più devastante mai combattuta fino ad allora. Non c’è dubbio, però, che il significato del 1989 è stato e resterà profondamente diverso per chi si è trovato al di là o al di qua di quella che Churchill aveva chiamato “cortina di ferro”. Nessuno aveva effettivamente scelto di starne “al di là” o “al di qua”, il confine tra Europa occidentale e orientale era stato tracciato dall’estensione delle aree di influenza delle due superpotenze che si erano spartite l’Europa alla fine del conflitto.

«Gli storici del futuro potranno forse gettare uno sguardo più disincantato sulla svolta del 1989 che ha posto fine al mondo bipolare che aveva spaccato l’Europa in due» Per gli occidentali il 1989 ha avuto un significato di portata sicuramente inferiore al 1945. In quel anno, non solo è finita la guerra e iniziata la ricostruzione materiale e morale, ma si sono instaurati regimi più o meno democratici laddove prima dominavano delle dittature, si sono consolidate le democrazie di più vecchia data, si è dato avvio al processo di unificazione europea ed è iniziata una fase di sviluppo che, sia pure con andamenti non lineari, avrebbe diffuso un discreto benessere in ampi strati della popolazione. Non furono, quelli del dopoguerra, anni privi di tensioni e conflitti, variabili a seconda delle condizioni, da paese a paese, ma, nel complesso, la diffusione dei consumi di massa rappresentò un poderoso meccanismo di inclusione sociale. La contrapposizione Est-Ovest, socialismo-capitalismo, dittatura e libertà si riproduceva poi all’interno di ogni singolo paese, relegando all’opposizione

le forze sociali e politiche che facevano riferimento sul piano ideologico e politico ai regimi orientali. Inoltre, proprio nel 1945, alla guerra era stato posto fine usando per la prima volta l’arma atomica di distruzione di massa, inaugurando l’epoca dell’equilibrio del terrore, generato dalla possibilità di annientamento reciproco che avrebbe esasperato nei decenni successivi la dialettica amico-nemico. Ogni paese ha vissuto il clima sociale, culturale e politico di quel periodo in relazione alle proprie specificità. La Spagna, ad esempio, era appena uscita da un’asprissima guerra civile ed era riuscita a non farsi coinvolgere direttamente nel conflitto mondiale, al prezzo però di dover sopportare un regime fortemente autoritario. Anche la Svizzera era riuscita evitare l’invasione del suo territorio e, addirittura, ad approfittare della sua situazione di isolamento in un’Europa in fiamme. La Francia, invece, era uscita a testa alta ma anche assai provata dalla guerra. La Germania era una cumulo di rovine morali e materiali e dovette praticamente ripartire da zero sotto la tutela delle potenze vincitrici e restando quindi divisa tra i due blocchi contrapposti. L’Italia si lasciava alle spalle il regime fascista La primavera di Praga, 1968. La stagione di riforme inaugurata con il “socialismo dal volto umano” di Alexander Dub˘cek ebbe bruscamente termine fra il 20 e il 21 agosto del 1968 con l’invasione da parte delle truppe sovietiche


nuto magari molta gente del quale si era liberata incollata per qualche da un lato con la lotta tempo allo schermo telepartigiana, attraverso una visivo, un evento però vera e propria guerra ciche non si viveva sulla vile, e dall’altro lato con propria pelle. l’aiuto delle truppe di ocAd est, invece, la storia cupazione. Il 1948 segna aveva preso negli anni la fine della precaria uniimmediatamente succestà che si era creata nel sivi al 1945 un corso asconflitto tra le forze antisai diverso. Salvo brevi e fasciste e l’esclusione del fugaci esperienze demoPartito comunista dalla cratiche, o pseudo-demopossibilità di partecipare cratiche, si era passati dial governo del paese. In rettamente dalla dittatura realtà, la maggioranza Solidarnosc, il sindacato fondato in Polonia nel 1980 in seguito agli e dalla occupazione di degli italiani, sconfiggen- scioperi nei cantieri navali di Danzica e guidato da Lech Walesa, ebbe un ruolo di primo piano nel processo che portò alla caduta Hitler alla dittatura codo alle elezioni del 1948 dei regimi dell’Est europeo munista di stampo stalii partiti del cosiddetto niano sotto la tutela del“fronte popolare” (comul’esercito sovietico. Per i paesi che hanno subito i regimi nisti e socialisti) aveva di fatto scelto lo schieramento occidentale e tuttavia non si può sapere che cosa sarebbe comunisti il 1945 fu solo in parte un anno memorabile; successo se avesse scelto in modo diverso. certo, la guerra era finita, ma l’epoca che si apriva non sarebbe stata né di libertà né di benessere. Ciò non toglie Il 1989 segnò per gran parte dell’occidente la fine di un che i regimi comunisti non abbiano goduto anche di un incubo e la caduta del Muro di Berlino fu salutata come certo grado di consenso. Non erano stati in grado di difuna liberazione, il venir meno di una minaccia che era fondere il benessere, ma avevano eliminato i rischi di disstata proclamata e avvertita da molti come incombente. occupazione, avevano instaurato una forma di welfare che Ma, per quanto riguarda altre dimensioni della vita delle garantiva a tutti il lavoro, la casa, l’istruzione e le cure mepopolazioni occidentali, il 1989 non rappresentò una diche essenziali. Sotto il consenso, in parte apparente e in drastica soluzione di continuità. Le conseguenze del parte reale, covava tuttavia l’opposizione che ebbe modo crollo dei regimi comunisti avrebbero avuto ripercussiodi manifestarsi in varie occasioni (rivolta di Berlino del ni sulla politica e l’economia, aprendo la strada verso la 1953, rivolta e repressione ungherese del 1956, repressioglobalizzazione, senza tuttavia sconvolgere radicalmente ne della “primavera”di Praga del 1969, ascesa di Solidarle strutture della quotidianità. Il 1989 fu più che altro nosc nella Polonia della fine degli anni Settanta, fino alla per gli occidentali un grande evento mediatico che ha tegrande “fuga” nelle settimane che hanno preceduto la caduta del Muro). Il confine che aveva diviso l’Europa era diventato permeabile fino a quando il governo ungherese deciso di aprirlo del tutto lasciando che un grande flusso di esseri umani si incamminasse attraverso l’Austria verso l’occidente.

«La caduta dei regimi filo-sovietici nei paesi dell’Est europeo (compresa l’allora Unione Sovietica) è stata una vera e propria “implosione”, sia pure in forme e con esiti diversi e ha aperto una fase di transizione non priva di gravi difficoltà» L’opposizione aveva trovato alimento da due fonti principali tra loro spesso combinate: la religione e il sentimento nazional-patriottico. I regimi comunisti avevano fatto dell’ateismo il loro “credo”, sottoponendo le chiese a forme, ora velate ora brutali, di oppressione. Avevano inoltre ritenuto che la solidarietà proletaria avrebbe consentito di superare i conflitti nazionali di matrice etnica che pure avevano dilaniato intere regioni dell’Europa centro orientale. La caduta dei regimi filo-sovietici nei paesi dell’Est euro-

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mortalità e una drastica peo (compresa l’allora diminuzione dei tassi di Unione Sovietica) è stata natalità. una vera e propria “imTuttavia, nonostante alcuplosione”, sia pure in forni tratti comuni, i percorsi me e con esiti diversi e della transizione si sono ha aperto una fase di differenziati notevolmente transizione non priva di da paese a paese. In Ungravi difficoltà. Certo, gheria, Polonia e Cecoslosul piano della retorica, il vacchia i rigidi meccani1989 segna la conquista smi della pianificazione di o la ri-conquista delle listampo sovietico erano bertà civili e politiche e già stati parzialmente abapre la strada a un’ecobandonati, un certo pluranomia di mercato, ma segna anche il venir meno Un pezzo del Muro scambiato fra berlinesi dell’Est e dell’Ovest attraverso lismo era stato mantenuto e quindi il passaggio ad delle sicurezze esisten- un’apertura il 9 novembre 1989. Foto di Frederick Ramm © un’economia di mercato e ziali che il socialismo a forme politiche democratiche risultò facilitato. Altrove, inreale era riuscito in qualche modo ad assicurare e segna il vece, in Russia, in Ucraina, in Bielorussia, nelle nuove reritorno di fiamma dei conflitti etnico-religiosi che avevano pubbliche caucasiche, in tutti quei territori che rimasero nelcovato sotto le ceneri. l’orbita di Mosca la trasizione è avvenuta solo in parte e atL’esplosione più virulenta e drammatica degli odii nazionali traverso un percorso più arduo. avvenne in seguito alla dissoluzione della federazione juLa prospettiva di entrare a far parte dell’Unione europea fu goslava. Anche la Jugoslavia era passata attraverso una forper alcuni paesi una molla decisiva per favorire il passaggio ma di dittatura comunista sotto la guida di Josip Broz, detto al mercato e per consolidare le fragili basi delle neonate deTito. Questi era riuscito a sottrarre il suo paese al dominio mocrazie, come era successo in passato per Spagna, Portosovietico e divenne uno dei leader del gruppo dei paesi “non gallo e Grecia. In ondate successive entrarono nel 2004 i allineati” che avevano scelto di restare equidistanti dai due paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), la Polonia, l’Unblocchi e di tentare una “terza via” tra capitalismo e socialigheria, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e la Slovenia, nel smo. Tito morì quasi dieci anni prima del 1989, ma quando 2007 la Romania e la Bulgaria. La Germania est, invece, era si dissolsero i blocchi anche la posizione dei non allineati entrata già nel 1990 essendo il suo territorio incorporato in divenne obsoleta, aprendo senza freni i conflitti interni tra quello della Repubblica federale di Germania. serbi, croati e bosniaci che portarono alla fine della federaAgli occhi delle popolazioni degli ex stati satelliti dell’Uniozione e alle tragedie della guerra balcanica. ne Sovietica, i tedeschi dell’est possono essere considerati dei Ma anche laddove non si sono verificati esiti così dramprivilegiati non solo perché con la riunificazione della Germatici la transizione post 1989 non è stata facile. Tendenmania sono potuti entrare subito nell’UE, ma soprattutto perze centrifughe si sono manifestate in varie regioni e hanno ché la solidarietà dei “fratelli dell’ovest” ha consentito di allecondotto a un grado elevato di frammentazione politica (si viare sensibilmente i costi della transizione. È frequente, tutpensi, ad esempio, alla scissione tra Repubblica Ceca e tavia, sentir dire in Germania che le barriere di filo spinato Slovacchia). Quasi ovunque, inoltre, al crollo dei regimi è che avevano diviso i due stati tedeschi sono rimaste, almeno subentrata una grave crisi economica, ci si rese conto che in parte, nella testa della gente: quasi mezzo secolo di separale strutture industriali erano obsolete, che non si erano fatzione non si cancella nel giro di pochi decenni. Berlino è riti investimenti per migliorare la produttività e che quindi tornata ad essere la capitale della Germania riunificata e, alle imprese non sarebbero state in grado di affrontare la meno fisicamente, le tracce del muro che l’hanno divisa in competizione nei mercati internazionali. La disoccupaziodue sono state quasi tutte cancellate. Le nuove generazioni ne, prima sconosciuta, comparve in tutti i paesi e, se per la nate dopo il 1989 potranno conservare memoria di quello che parte della popolazione che era riuscita a convertirsi più è stato solo dai racconti rapidamente alle nuove dei genitori e dei nonni, condizioni il tenore di vidalle narrazioni del cineta crebbe sensibilmente, ma e dei libri di storia e un’altra parte della popodai reperti conservati nei lazione dovette affrontare musei. È giusto che vivano un netto peggioramento la loro vita senza il peso delle proprie chance di del passato, senza le colpe vita. Quasi ovunque, ma dei loro padri e dei loro soprattutto negli stati delnonni, ma è importante l’ex Unione Sovietica, si che non perdano la memoosservò l’aumento delria, se non altro per evitare l’alcolismo, il peggioradi commettere gli stessi mento della salute puberrori. blica, un aumento della 9 novembre 1989. Il Muro è aperto. Foto di Frederick Ramm ©


Vi proponiamo un estratto dell’intervista che la giornalista Oriana Fallaci realizzò nel 1973 con il cancelliere tedesco Willy Brandt, edita nel volume Intervista con la storia, Milano, Rizzoli, 1974. «A essere sincera non so da che parte incominciare, cancelliere Brandt. Sono troppe le cose da chiederle, compresa la storia del suo nome che non è il nome con cui nacque. Quello era Herbert Frahm e … Willy Brandt. Sì, il nome Willy Brandt presi a usarlo all’inizio del 1933; prima che lasciassi la Germania e dopo che i nazisti furono andati al potere. Lo scelsi come “nom de guerre” per dedicarmi all’attività clandestina contro Hitler. Ma con quel nome andai all’estero, quando avevo diciannove anni. Con quel nome cominciai a scrivere sui giornali e pubblicai i miei libri, con quel nome mi impegnai nella politica e divenni un adulto e tornai in Germania alla fine della guerra. Tutto è legato a quel nome, e non pensai mai di riprendere l’altro con cui ero nato. Del resto come Willy Brandt si sposò, assunse la cittadinanza norvegese, ed ecco: forse dovremmo partire da questo. Cioè dal fatto che per anni lei sia stato cittadino di un altro paese. A parte gli ebrei, non furono molti i tedeschi che lasciarono la Germania di Hitler. Non pochi la lasciarono invece. Se prende ad esempio la mia città, Lubecca, scopre che se ne andarono in molti. E va da sé che quasi tutti erano più vecchi di me. Perché lasciai la Germania? Perché, se fossi rimasto, mi avrebbero arrestato e spedito in un campo di concentramento. Non avevo molte possibilità di cavarmela in quel primo periodo. Anche se non fossi espatriato, avrei dovuto abbandonare Lubecca. Però neanche abbandonando Lubecca avrei potuto frequentare l’università, e questo è un elemento che contribuì alla mia fuga. Finita la scuola, m’ero messo a fare il sensale e per un anno era stato un lavoro interessante. Ma io volevo studiare storia e, nella Germania di Hitler, non era possibile studiare la storia. Così, non appena mi capitò l’occasione…Un uomo che apparteneva al mio gruppo doveva fuggire in Norvegia per aprirvi un ufficio e occuparsi dei problemi connessi al nostro movimento di resistenza. Tutto era pronto perché un pescatore lo portasse via partendo da un luogo non lontano dalla casa in cui abitavo. Io dovevo aiutarlo e lo aiutai: ma l’uomo non ce la fece lo stesso. Fu arrestato e spedito in un campo di concentramento. Allora gli amici di Berlino mi chiesero se volevo andare al suo posto. E io accettai. Non immaginavo che ciò avrebbe significato star via per tanto tempo. Molti pensavano che il nazismo non sarebbe durato a lungo.

Dicevano dodici mesi, al massimo quattro anni. Io non appartenevo alla schiera degli ottimisti però mi illudevo che non sarebbe durato più della prima guerra mondiale. Invece durò dodici anni. Quei dodici anni, appunto, che lei trascorse in Scandinavia: come i suoi avversari le hanno spesso rimproverato. Sicchè le pongo questa domanda: le dispiace di non aver partecipato direttamente, e cioè in Germania, alla lotta contro il nazismo? Dimostrai, allora e dopo, d’esser pronto a rischiare la mia vita ogni volta che fosse necessario. E anche quando non era necessario. Rientrai clandestinamente nella Germania di Hitler. Vi rimasi alcuni mesi prima di fuggire un’altra volta perché stavano per catturarmi. Andai nella Norvegia e nella Svezia occupate da Hitler. Dunque ho corso i miei rischi. E se considero la sua domanda da un punto di vista razionale, rispondo: se fossi rimasto in Germania anziché espatriare, probabilmente non avrei avuto le stesse occasioni per svilupparmi e prepararmi a fare ciò che feci a Berlino o in seguito. Alludo soprattutto alle mie esperienze europee e internazionali. Certo, ogni cosa ha il suo prezzo. E il prezzo che dovetti pagare io fu molto diverso da quello pagato dalla maggioranza dei mie compatrioti. Fu il prezzo di andarmene. Sì, è vero: ad alcuni ciò parve un modo strano di pagare, e così giudicando, fornirono ai miei oppositori l’occasione per scagliare una campagna contro di me. Ma a costoro replico che, allora, è altrettanto strano che tanti tedeschi si identifichino in me e mi diano fiducia. Ho detto strano? Dovrei dire bello. È una gran bella cosa che tanti tedeschi diano fiducia a un uomo che ha avuto una vita diversa dalla loro. Non migliore. Diversa. […] Divertente. Però io non posso credere che lei sia tornato in Germania guidato dal caso anziché dal sentimento. Eppure è così. Non fu una cosa sentimentale. No. Tornai a Berlino per la semplice ragione che Berlino era interessante. Era il centro della controversia tra Est e Ovest. Era il posto dove trovarsi. Che poi questo abbia accelerato il mio processo di identificazione è un’altra faccenda. E non alludo soltanto a un processo di identificazione politica: alludo a un processo di identificazione con la gente che viveva nella miseria, nella sconfitta. Berlino era un cumulo di rovine, ma tra quelle rovine fiorivano le qualità migliori del popolo. Sì, è un fenomeno che si verifica spesso nei periodi avversi: ma ogni volta sorprende. Oh, il morale dei Berlinesi non è mai stato così alto come nei primi anni del dopoguerra. Neanche durante il blocco sarebbe stato così alto. Così il mio processo di identificazione…

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una colpa ma perché voMa cosa intende per levo identificarmi col identificazione? Ciò mio popolo. Cioè col che chiamiamo patria? popolo da cui erano No. Non fu la patria a riusciti coloro che avevaavermi. Fu il caso di un no commesso cose tanto popolo che, dopo esser terribili. Quel gesto non passato attraverso la ditera diretto solo ai polactatura e la guerra e la rochi. Era diretto anche ai vina, tentava di ricotedeschi. Sbaglia chi struirsi una vita basata crede che io mi rivolsulla libertà. Sì, fu quegessi soltanto alle vittisto che mi indusse a torme del nazismo o alle nare tedesco. Fu la fantaloro famiglie. Io mi ristica voglia di lavorare Il cancelliere tedesco Willy Brandt in visita in Polonia nel 1970 si inginocchia di fronte al monumento agli eroi del ghetto di Varsavia volgevo anche e sopratche v’era in ciascuno di tutto alla gente di casa loro, fu quella capacità mia. Perché molti, troppi hanno bisogno di non sentirsi di concludere, quella volontà di aiutarsi l’uno con l’alsoli e sapere che bisogna sopportare insieme quel peso. tro… Una volontà che abbiamo perduto diventando ric[…] E a Yad Vashem, durante il suo ultimo viaggio chi…V’era nell’aria come una sensazione d’essere tutti in Israele? Il gesto di Yad Vashem non può essere incollati insieme per fare: malgrado la miseria economistato deciso all’ultimo momento. ca. Capisce? Una questione di valori umani e morali più Ha ragione. Prima di andare in Israele, meditai a lungo che un fatto nazionalistico. Io, più ci ripenso, più mi su ciò che avrei potuto fare. Avevo sentito dire che convinco che furono quegli anni a Berlino a radicare in chiamano Yad Vashem il posto della verità, della terrime l’idea dell’Europa. Anzi del futuro dell’Europa. bile verità al di là di tutto ciò che mente umana possa […] Capisco. Ma allora… e penso alla sua visita nel immaginare. E volevo dar corpo a questa verità perghetto di Varsavia… io le chiedo: fino a che punto ché… Auschwitz dimostrò che l’inferno sulla terra esipesa su di lei il complesso di colpa che la sua geneste. Credo di averlo già detto, mi pare a Varsavia. E razione si porta dietro con la parola tedesco? credo d’avere già detto che, quando ero in Svezia, io Io faccio una differenza tra colpa e responsabilità. Io non sapevo ciò che stava accadendo in Germania. Lo avevo mi sento colpevole e trovo che non sia giusto, né corretto, saputo prima della maggior parte di coloro che vivevaattribuire quel complesso di colpa al mio popolo o alla no dentro e fuori la Germania. Così, mentre mi prepamia generazione. La colpa è qualcosa da attribuire a un ravo al viaggio in Israele, mi riaggredì quel senso di individuo: mai a un popolo o a una generazione. La recorresponsabilità che ho cercato di spiegarle prima. E, sponsabilità è diversa. E, sebbene abbia lasciato la Gercome a Varsavia, mi dissi che non avrei potuto limitarmania molto presto, sebbene non sia mai stato un sostenimi a posare una corona di fiori con la faccia di pietra o tore di Hitler, a dirla con una perifrasi, io non posso esclula faccia commossa. Una volta messo a confronto con dere me stesso da una certa responsabilità. O corresponciò che era successo, avrei dovuto reagire in qualche sabilità. Sì: perfino se mi fossi dissociato dal mio popolo, modo alla mia impotenza. Capito? Volevo fare qualcomi sentirei corresponsabile dell’avvento di Hitler. Infatti sa, non volevo restare passivo. Mi ripetevo: deve pur bisogna chiederci: perché egli prese il potere? E bisogna esserci un gesto da fare per il bene dei tedeschi e degli rispondere: non solo milioni furono abbastanza stupidi da ebrei, un gesto che apra la via al futuro. Oh, non voglio seguirlo ma perché gli altri non furono capaci di fermarlo. parlare con leggerezza di riconciliazione: essa non diEro giovane a quel tempo, d’accordo. Eppure anch’io appende da me. Ma la soluzione che trovai mi parve giupartengo al gruppo di coloro che non furono capaci di fersta perché col popolo ebreo abbiamo in comune una marlo. Nella vita di un popolo, il momento cruciale si vecosa abbastanza importante: la Bibbia. O, almeno, il rifica quando il popolo lascia che il potere finisca nelle Vecchio testamento. Perciò decisi di leggere il salmo mani di criminali. E anche quando un popolo, avendone 103, dal verso 8 al verso 16: «Alle tue minacce essi l’opportunità, non la usa per mantenere le condizioni nefuggiranno; si atterriranno al suono della tua voce…». cessarie a un governo responsabile. Perché dopo non si Decisi di leggerli in tedesco, nella lingua di Martin Lupuò fare più nulla. Dopo, diventa sempre più difficile cactero. Alcune espressioni erano difficili da capire, però. ciare i criminali che hanno preso il potere. Nella mia inSpecialmente per i giovani. Allora, mentre volavo a Tel terpretazione, insomma, la corresponsabilità inizia prima Aviv, studiai il testo e paragonai la traduzione di Mare finisce dopo. E tale corresponsabilità, sfortunatamente, tin Lutero alla versione ebraica delle stesse parole in se la trovano addosso anche i giovani. Non nella misura tedesco. Mantenni quasi tutte le espressioni poetiche di dei loro padri ma…Lei ha citato Varsavia… Martin Lutero e aggiunsi poche frasi dalla Bibbia degli […] Perché si gettò in ginocchio a Varsavia, cancelebrei. Credo che gli israeliani abbiano capito ciò che liere Brandt. volevo fare. E per questo sarò loro sempre grato». Non mi gettai in ginocchio perché avessi da confessare


Dove inizia lo spazio L’occhio di Wim Wenders ci racconta una Berlino sospesa di Lucilla Albano Nella filmografia di Wim Wenders – autore particolarmente significativo del cosiddetto nuovo cinema tedesco – i titoli si susseguono spesso con nomi di città o con il termine stesso di città, dai primissimi corti e lungometraggi in Lucilla Albano 16 mm, Silver City (1968) e Summer in the City (1970), ad alcuni dei suoi film più famosi, Alice nelle città (1973), Reverse Angle: New York City (1982), Paris, Texas (1984), Tokio-Ga (1985), Il cielo sopra Berlino (1987), Notebook on Cities and Clothes (1989), fino a Lisbon Story (1999) e Palermo Shooting (2008). Sembra quindi che l’amore di Wenders nel filmare città e paesaggi urbani e la scelta dei loro nomi propri come titoli per i suoi film, non sia solo un vezzo d’autore, ma una costante della sua poetica e del suo cinema. Focalizzare le riprese su un paesaggio urbano, sia esso Tokio o Berlino o Lisbona, è sempre contemporaneamente porsi la domanda, per Wenders, su che cosa significhi trovare un’immagine, guardare una città, perché mostrare e raccontare una città è un grande motivo narrativo, con cui si sono già misurati importanti scrittori e registi del passato. E se lo sguardo poetico permette sempre di vedere quello che altrimenti non si sarebbe mai visto o di vedere in altro modo ciò che già si conosce, lo sguardo di Wenders dimostra l’infallibilità di un autore che si esprime sempre secondo il proprio sentimento e la propria natura. Perché Wenders rimarrà famoso soprattutto per il suo occhio. Un occhio, un pensiero visivo, si potrebbe dire, che si posa su storie e personaggi ribelli, disorientati e insicuri, ma che è sicurissimo nelle proprie scelte estetiche, nel cogliere momenti di verità o nel creare immagini pregnanti. Il cielo sopra Berlino – tra quelli di maggiore successo e impatto nella carriera del regista – si presenta come una visione che coniuga il coinvolgimento di una città in un determinato momento storico con una fantasia di tipo onirico: gli angeli scesi tra gli abitanti di Berlino che osservano, inosservati, il pulviscolo eterogeneo di eventi e persone sempre alla ricerca di qualcosa che non c’è o che hanno perduto e che si conclude con un happy ending insperato. Damiel (Bruno Ganz), l’angelo che sceglie di diventare uomo, e Marion (Solveig Dommartin), la trapezista che vorrebbe

diventare un angelo, alla fine si incontrano e si amano in questa “terra di mezzo” che è la Berlino prima della caduta del muro. La forza del film sta nell’originalità della scrittura, nell’aereo movimento di macchina che avvolge e sorprende nella sua continuità e fluidità quasi ininterrotta i personaggi più anonimi o gli incontri più toccanti. E se ci si chiede, come si deve sempre fare quando si tratta di un regista come Wenders, dov’è l’autore, dove sta la chiave della sua ricerca, non è certo in un intreccio evanescente, non è nel-

«Focalizzare le riprese su un paesaggio urbano, sia esso Tokio o Berlino o Lisbona è sempre per Wenders una domanda su che cosa significhi trovare un’immagine, guardare una città» la descrizione di una società o di un ambiente o tanto meno nel cogliere o nell’approfondire delle psicologie, ma piuttosto nel descrivere il mondo attraverso la contemplazione e la percezione, attraverso situazioni ed emozioni che lavorano per accumulo e per addensamento, per esperienze di movimento e di passaggio, piuttosto che per un disegno aprioristico, già predisposto e confezionato. Il reale si mostra e mostrandolo si rivela, ci dice Wenders, attraverso una macchina da presa che a volte sembra cogliere i fenomeni quasi per caso e altre volte sembra inventare un mondo che non esiste. È la macchina da presa infatti a sembrare un angelo, a essere il vero angelo di questo film. Al posto della pienezza e dell’armonia del cinema del passato, capace nello stesso tempo di raccontare e di rappresentare, il progetto estetico del regista tedesco sta nell’improvvisazione, nella ricerca e nella scoperta, quelle che si compiono lungo il viaggio e lungo le riprese, tra il set e il profilmico, tra la macchina da presa e gli attori, e che, una volta compiuti, diventano essi stessi la storia, non più la storia piena del cinema classico, ma quella a “sbalzi e tentoni”, per suggestioni e tracce, per lampi e intuizioni, del cinema moderno. La Berlino del 1987 di Wenders è sia una Unreal City, come la Londra di Dickens o di Eliot, sia uno spazio urbano terribilmente realistico, con connotati precisi che il film ha evidenziato ed esaltato. Uno spazio in qualche modo diviso in due: quello che si può vedere ad altezza degli angeli, aereo, quasi spirituale, dove

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di percepire e di toccare al coinvoltutto è compatto, unito e armonioso; gimento totale, indicati dal passage dove svetta la colonna della Vittogio del bianco e nero al colore. ria, la Siegssaule – testimone di I temi della solitudine e dell’alienaun’epoca più felice – che ospita, tra zione si stemperano grazie alle prele sue ali di bronzo dorato, le ali desenze indefinibili degli angeli, da gli angeli che la abitano – ali tra le cui speriamo di essere redenti: non ali – immagine diventata una delle siamo soli, sembra dirci Wenders, e icone più significative del film. il contatto con la realtà può passare L’altro spazio è quello al livello attraverso vie sconosciute e mai dell’occhio umano, tra brutture e praticate. Infine la propensione alla squallore, alienazione e solitudine. letterarietà di alcuni film precedenE se il colore – in un film quasi tutti diventa qui a volte dimensione lito in bianco e nero – nell’ultima rica, altre volte presenza ingomparte riesce finalmente a invadere brante, soprattutto nell’ultima parlo schermo, la visione della città rite, nell’incontro finale tra Damiel e mane desolata e periferica, disadorMarion, che non ha il dono di riprena e disumana, e non bastano i se felici e toccate dalla grazia delgraffiti colorati a nascondere l’oscenità del muro, a renderlo a misu- Il Sony Center nei pressi di Postdamer Platz a Berlino l’ispirazione, come in altre, bellissime sequenze del film. ra d’uomo. Se lo spazio ne Il Cielo sopra BerSe mettiamo al centro di Il cielo solino sembra contare molto di più del tempo è anche vero pra Berlino, proprio la città di Berlino, la capitale di una che proprio attraverso lo spazio – come sempre al cinema patria con cui l’autore si identifica, anche se con disagi e – si può cogliere il tempo, quel passato, quel presente e conflitti, ecco che, da spettatori partecipi, ci possiamo chiequel futuro attraverso cui Wenders racconta Berlino, e dere non solo che cosa ha significato per Wenders filmare quindi tutta la Germania, di cui Berlino è il cuore e il cenBerlino, ma anche, ad esempio, che cosa ha a che fare la tro. E in cui, come dice il regista, «la storia è presente fisiBerlino di Wenders, con la Roma di Fellini, con la Londra camente ed emozionalmente», addensando metaforicadi Antonioni, con la Parigi di Godard e di Truffaut o con la mente, nel suo destino, anche quello di tutta l’Europa, la New York di Woody Allen e, soprattutto, con la Tokio di vecchia Europa, piena di storia e di memoria, ma anche di Ozu, con cui Wenders si è confrontato realizzando Tokioorrori e di distruzione. Ga, e misurando la distanza tra la Tokio a lui contemporaHomer, Omero, il vecchio cantore e professore che vediamo nea e quella mitica del «mondo amoroso e ordinato» che aggirarsi negli spazi della Staatsbibliothek, la Biblioteca staconosceva dai film di Ozu. E allora, al di là di situazioni, tale, rappresenta la memoria storica della città, vivendo in storie e stili tra loro incomparabili, un dato emerge evidenmezzo ai libri, a Toute la mémoire du monde, come recitava il te, e cioè che tutti questi luoghi, queste grandi capitali, si titolo di un documentario di Alain Resnais sulla Biblioteca trasformano sempre non in quello che sono, ma in paesaggi nazionale di Parigi. Splendido spazio questo della Biblioteca, dell’anima, di volta in volta mostrati e raccontati in quanto dove si svolge la più lunga e riuscita sequenza del film, esemincarnazione dello spirito del film, che non è quello di depio perfetto del modo di girare e di raccontare di Wenders. scrivere un città, ma di farne sempre qualcos’altro, un luoMa il passato è anche l’inutile ricerca di una delle più antigo immaginario sottomesso a un progetto creativo, uno che e belle piazze di Berlino, la Potsdamer Platz, tra la cui spazio percepito secondo la coscienza che ne hanno i perdesolazione Homer tenta di reperire qualche resto o rovisonaggi, e quindi l’autore. na; il passato sono le immagini di repertorio della Berlino Con questo film Wenders si è misurato – complici le poesie bombardata durante la seconda guerra mondiale; è l’inferdi Rainer Maria Rilke e i dialoghi di Peter Handke – con un no del nazismo, riproposto e messo in scena sul set del ritorno in patria, dopo tanti anni, e con la propria poetica, di film a cui partecipa Peter Falk, nei panni di se stesso. cui è rimasta intatta la sostanza ma che nello stesso tempo E se il passato è sotto il segno della tragedia, dell’orrore e ha cambiato di segno, si è trasformata. Il tema del viaggio, a della perdita, il presente è uno sguardo smarrito e angosciaWenders così caro, diventa più metafisico che reale, è quelto, in preda a una realtà alienante e a una solitudine sia fisilo dell’angelo, Damiel, che dal cielo scende in terra, è quelca che spirituale; il presente è il muro, in bianco e nero e a lo di Marion, la trapezista, che volteggia in aria per poi docolori, sono le ferite e le offese che ancora abitano la città di ver ricadere al livello della propria solitudine, ma che, alla Berlino e le vite dei suoi cittadini, abbandonati a se stessi. fine, nella ricerca dell’amore trova proprio ciò che cerca. E il futuro? Non può che essere prefigurato negli sguardi Il motivo dello scacco, della perdita persiste anche nella liberi, puri e innocenti dei bambini, che riescono a vedere dimensione angelica, con l’angelo caduto e innamorato al di là della percezione umana, quella adulta, e che sono che preferisce la disfatta della caducità all’assoluto dell’egli unici ad accorgersi della presenza degli angeli. Oggi ternità; mentre il tema della frontiera non sta solo nel Muquei bambini sono diventati grandi, ma non sembrano più ro che divide Berlino est da Berlino ovest, sintesi e metariuscire a vedere al di là, in prospettiva. Quale sarà questo fora di tutte le possibili frontiere, ma anche nel valicare futuro? Quale sarà il futuro di un’Europa che non sa ancouno status, come accade a Damiel: dall’immortalità alla ra di quale stoffa sono fatti i suoi sogni? mortalità, dall’invisibilità alla visibilità, dall’impossibilità


L’esperienza dei sopravvissuti alla Shoah Percorsi di rielaborazione del lutto nel vissuto transgenerazionale di David Meghnagi Proviamo a immaginare di non avere più nessuno dei nostri cari. Che da un giorno all’altro sparisca nel nulla l’intera popolazione della nostra città, che nove decimi della popolazione del nostro paese venga violentemente annientata. Proviamo a immaginare di perdere, da un momento all’altro, i nostri parenti più stretti, i fraDavid Meghnagi telli e le sorelle, i genitori, i nonni e gli zii; di perdere tutti insieme gli amici vicini e lontani, di non avere con chi dividere il dolore, lontani dalla casa, espulsi dal lavoro, braccati e soli con un’angoscia senza nome e che alla fine non ci siano nemmeno i cimiteri dove poter piangere i nostri cari. Immaginiamo che per il prolungamento della nostra sopravvivenza, di qualche giorno o mese, qualcun altro sia morto prima, che per una selezione qualcun altro è perito nelle camere predisposte alla distruzione finale, che per ogni lavoro utile al nemico, come chimico o scienziato, un altro uomo senza volto sia stato anticipatamente inserito nel numero previsto dei morti e degli uccisi ogni giorno di ogni mese. Proviamo a immaginare e forse potremmo capire che cosa è stato veramente il ritorno alla vita di chi ha fatto l’esperienza della deportazione e dei campi. Percepiremmo nella sua intensità la violenza di chi oggi vorrebbe colpevolizzare le vittime per un passato che non passa, perché si rifiutano di dimenticare, perché vogliono coltivare il ricordo di quel che è stato. Non ci chiederemmo come mai i diretti interessati di questa immane tragedia, non dimenticano. Ci chiederemmo come essi abbiano potuto continuare a vivere conservando la fiducia nei vicini, condividendo le speranze di un futuro migliore con chi ha finto di non vedere, o non ha voluto guardare. Come abbiano potuto riacquistare la fiducia nel genere umano e come abbiano conservato la fede, per quanto essa non possa più essere la stessa, se non al prezzo di un diniego profondo e di un’autocensura che fa violenza all’intelletto e alla fede in un Dio giusto e buono. Siamo abituati a pensare alla morte come a un atto conclusivo che interrompe l’esistenza. La morte, a livello biologico e psichico, è un processo che comincia molto prima. Quando la vita perde significato, è il sistema immunitario a risentirne. Di fronte a situazioni estreme ci si può lasciare distruggere dall’esperienza, la si può rimuovere negando che possa avere una qualunque conseguenza duratura. Ma si può anche lottare per tutta l’esistenza per conservarne la consapevolezza e integrarla nella memoria. La più distruttiva delle risposte è la conclusione che la reintegrazione della personalità sia impossibile, o inutile, o entrambe le cose. In questi casi il sopravvissuto percepisce la propria vita

come frammentata. Una tale condizione di frammentazione e di lutto è ben rappresentata nei romanzi di Isaac Bashevis Singer, che non a caso ha continuato a scrivere in jiddish, come se i veri destinatari dei romanzi, i lettori assassinati a milioni, fossero ancora in vita. Il mondo del sopravvissuto è andato a pezzi ed egli non sa più come venirne a capo. La decisione inconscia di non essere capace di ricostruirsi la vita ha come sfondo la percezione che tutto quello che apparteneva al mondo di ieri e che dava senso all’esistenza sia andato per sempre perduto senza possibilità di recupero, ovvero, sia per sempre scomparso. Altri, la maggioranza, per sopravvivere, ricorrono ai meccanismi della rimozione e della “negazione”. La condizione preliminare per il conseguimento di una nuova integrazione è data dal riconoscimento della gravità del trauma subito e della sua natura.

«La condizione preliminare per il conseguimento di una nuova integrazione è data dal riconoscimento della gravità del trauma subito e della sua natura» Nel dialogo tra le generazioni il lutto è un momento importante di riconciliazione e di ricostruzione. Possiamo separarci, come sostiene Freud, perché lasciamo morire la persona amata per poter vivere noi. Possiamo separarci, perché ad altri livelli ci riconciliamo con la persona perduta, facendola rivivere dentro, proiettandone il ricordo nella vita quotidiana e nel futuro dei nostri figli. Recuperando il passato, redimendo le ferite aperte, apriamo una porta sul futuro. Nel lutto individuale, quando la situazione lo permette, facciamo rivivere al nostro interno le persone che non ci sono più. L’elaborazione del lutto è possibile non solo perché a un livello, l’Io sceglie di vivere e lascia morire la persona amata, ma perché ad altri livelli questa torna a vivere dentro di noi. Questo è quanto accade generalmente nel lutto normale. Quando non ce la facciamo, ci accusiamo di colpe immaginarie o reali, secondo una logica tipica del processo primario, amplificandole nella nostra onnipotenza; diventiamo responsabili di tutto e dobbiamo perciò espiare per tutto sino alla morte. È il caso della melanconia. Oppure per difenderci da tale pericolo, cerchiamo rifugio nel diniego più assoluto, vivendo una vita non nostra, avvolgendo di normalità quel che non è più, trasferendo sulle generazioni che vengono dopo il peso dei conflitti irrisolti e il fardello di una colpa opprimente. La vita di chi viene dopo diventa in questi dolorosi casi una continua interrogazione alla Sfinge. I figli sono costretti a diventare adulti prima del tempo, devono fare da genitori ai loro genitori per non andare in pezzi loro stessi.

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La camera oscura Un quaderno aperto dove scrivono gli uomini o la storia: il muro come immagine del nostro tempo di Michela Monferrini Un’intera città, per un istante, si è trasformata in una camera oscura. La luce, di fuoco. È successo. I suoi muri, le pareti dei palazzi, sono diventati immense carte appese ad asciugare, ma c’è voluto un istante perché l’immagine vi si stampasse. È successo davvero, solo che l’immagine non era un’immagine: erano uomini e donne e Michela Monferrini bambini, erano gli abitanti della camera oscura, della camera oscura che un istante prima, quell’istante prima, si chiamava Hiroshima. Alcuni sono stati carbonizzati, altri si sono liquefatti. Di questi ultimi è rimasta una traccia, un’impronta, sui muri della città. Di colpo, alla velocità della luce, sono stati “impressi” (non c’è altra parola per definire quello che è successo) sulle pareti vicino alle quali si trovavano a passare, a camminare, a vivere: non più uomini, donne o bambini, non più nemmeno corpi da seppellire, ma di colpo, ostacoli tra il lampo di luce e i muri. Di colpo, dunque, cosa? Quale la natura delle loro sagome (viene da dire “disegnate”) su quei muri? Al di là delle spiegazioni esatte della fisica, si fa fatica a credere che in un attimo un uomo possa essere ridotto alla sua sola ombra, la stessa che lo seguiva sul marciapiede quando camminava al sole, proprio la sua, personale ombra. Così si fa fatica a credere, ma è l’assenza tota-

«L’immagine trovò nel muro un supporto di fortuna, rimasto in piedi, mentre tutto, intorno, veniva inghiottito dal calore. Non più uomini, donne o bambini, non più nemmeno corpi da seppellire, ma di colpo, ostacoli tra il lampo di luce e i muri» le del corpo a richiederlo, che a resistere aggrappata al muro sia la sua anima, quella che, secondo gli esperimenti del dottor Duncan MacDougall, peserebbe 21 grammi – tesi poi diffusa dal film di Iñárritu –, ma nel caso in questione, priva persino di tale peso, solo fotografia o ombra dell’anima. «La prima vera immagine del nostro tempo»: nel suo ultimo libro, Il tempo invecchia in fretta, Antonio Tabucchi definisce così il risultato ultimo, visibile, di quel che successe quando Hiroshima divenne un’immensa camera oscura, quando l’“immagine” trovò nel muro un supporto

di fortuna, rimasto lì, in piedi, mentre tutto, intorno, veniva inghiottito dal calore. Come in una particolare morra cinese, tra l’uomo e il muro, Tabucchi ci ricorda che fu il muro ad uscirne vincitore. Altrove, in un altro racconto della stessa raccolta, la situazione sembra essere opposta: l’uomo è rimasto in piedi, il Muro abbattuto, la città si chiama Berlino, il secolo è lo stesso: «Ah, il Muro, che nostalgia del Muro. Era lì solido, concreto, segnava un confine, marcava la vita, dava la sicurezza di un’appartenenza. Grazie a un muro uno appartiene a qualcosa, sta di qua o di là, il Muro è come un punto cardinale, di qua c’è l’est, di là l’ovest, sai dove sei». La situazione sembra essere opposta, perché in realtà è ancora l’uomo a uscirne sconfitto: la caduta del muro gli ha tolto le coordinate del suo stare nel mondo, laddove prima, anche in assenza di Artisti a lavoro alla East Side Gallery, Berlino


Il Vietnam Veterans Memorial a Washington DC

specchi, era costretto a guardarsi e guardarsi intorno. Perché ecco, sia l’uomo o l’aria o la luce: prima o poi ci si ferma di fronte ad un muro, ci si fanno i conti. Così, a Washington DC, è il Memorial Wall, il muro che fa parte del Vietnam Veterans Memorial e che ricorda i soldati che combatterono la guerra del Vietnam, a chiedere ai visitatori uno sforzo di riflessione. Sulla superficie, specchiata e incisa, chi si trova lì vede il proprio volto riflesso

sulla lista interminabile di nomi di caduti e reduci, e date di morte: il muro riesce a raccontare e perciò, incredibilmente, ad unire. Più vicina a noi, un’altra lista di morte è incisa sul muro della sala d’aspetto della stazione ferroviaria di Bologna, a renderlo pubblica lapide comune. Accanto ai nomi è segnata l’età e chiunque legge si ferma un po’ di più su quello di Angela Fresu, tre anni, vittima di una morra cinese che non risparmiò niente e fece solo vinti, persone e cose. La prima immagine, per chi arriva a Bologna con il treno, è quella di un muro con la sua ferita bianca, che non s’è fatta cicatrice ma memoria, e resta infatti sotto una teca di vetro che paradossalmente, tardivamente lo protegge.

«In un altro racconto della stessa raccolta, la situazione sembra essere opposta: l’uomo è rimasto in piedi, il Muro abbattuto, la città si chiama Berlino, il secolo è lo stesso» Come per il personaggio di Tabucchi, un muro è sempre un invito a fare i conti con sé stessi, quaderno caduto aperto dove scrivono gli uomini o la storia, che è lo stesso. Allora lo si può immaginare nero e quadrettato come le lavagne di quando eravamo piccoli alunni, come quella che deve riempire Bart Simpson in eterna punizione, scrivendo per ore la stessa frase. Si può immaginare – ma non è più immaginazione perché esiste – un muro che non solo non divida niente e nessuno, ma che rechi un messaggio contrario a quella sua originaria, prima funzione: Parigi, Montmartre, pochi passi dalla splendida fermata metro Abbesses, nella piazza omonima (piazza degli Abbracci), il Mur des Je t’aime progettato da Frédéric Baron e realizzato da Claire Kito nel 1998 è lì per uno scopo preciso: «in un mondo segnato dalla violenza e dominato dall’individualismo, i muri, come le frontiere, hanno generalmente la funzione di dividere gli uomini, di separare i popoli, di proteggere dal diverso. Il Mur des je t’aime rappresenterà invece l’unione tra gli uomini, un luogo di riconciliazione, uno specchio che restituisce un’immagine di pace».

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Migranti e diritti La politica zoppa dell'Unione Europea di Paolo Benvenuti Le migrazioni, sempre presenti nella storia dell’umanità, caratterizzano con dinamiche peculiari l’attuale fase storica di internazionalizzazione delle relazioni sociali seguita al cadere del muro e al venir meno della contrapposizione fra i blocchi. Le spinte verso la globalizzazione si manifestano fortissime per Paolo Benvenuti quanto riguarda i flussi economici, commerciali e finanziari, ma portano inevitabilmente con sé una crescita dei movimenti di persone oltre frontiera. I flussi migratori si pongono con pressione tale da superare le politiche di contrasto degli stati di destinazione: ne segue, accanto alla migrazione legale, il manifestarsi di quella illegale. Quest’ultima è un aspetto molto rilevante delle

«Le spinte verso la globalizzazione si manifestano fortissime per quanto riguarda i flussi economici, commerciali e finanziari, ma portano inevitabilmente con sé una crescita dei movimenti di persone oltre frontiera» migrazioni e pone problemi di indubbia gravità (anche per il legame con fenomeni criminali come il contrabbando e il traffico di persone), cui ci si riferisce con l’espressione “emergenze” di ordine pubblico, umanitarie e sociali. Per fronteggiare queste emergenze si prospettano sempre più necessarie a livello nazionale, europeo e internazionale, una appropriata disciplina dei flussi migratori, una politica di contenimento del contrabbando di migranti, una attenta considerazione della situazione umanitaria, spesso drammatica, in cui si trovano i migranti irregolari, anzitutto nel paese di origine e a seguire nei paesi di destinazione. L’attenzione per le migrazioni nelle linee di ricerca dell’Università Roma Tre è continua e testimoniata, inter alia, dalla recente pubblicazione del volume Flussi migratori e fruizione dei diritti fondamentali (Editrice il Sirente, Fagnano Alto, 2008), frutto di una ricerca PRIN coordinata dal Dipartimento di diritto europeo. L’Unione Europea (UE) torna a elaborare la sua volontà progettuale in tema di immigrazione e asilo. Nel giugno di quest’anno, la Commissione ha inviato una Comuni-

cazione al Parlamento europeo e al Consiglio titolata Uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia al servizio dei cittadini in vista di un nuovo programma quinquennale (di Stoccolma) che, «partendo dai progressi realizzati e traendo insegnamento dalle attuali carenze, si proietti nel futuro con ambizione». Tra le priorità indicate vi è quella di «promuovere una società più integrata per il cittadino – un’Europa della solidarietà». La priorità è definita «importante»: nei «prossimi anni occorre consolidare e attuare effettivamente una politica di immigrazione e di asilo che garantisca la solidarietà fra gli stati membri e il partenariato con i paesi terzi, una politica che offra uno status chiaro e comune agli immigrati legali. Bisognerà stabilire un nesso più forte fra immigrazione ed esigenze del mercato del lavoro europeo e sviluppare politiche mirate di integrazione e istruzione e occorrerà utilizzare con maggiore efficacia gli strumenti disponibili per combattere l’immigrazione clandestina. La coerenza con l’azione esterna dell’Unione è un fattore cruciale ai fini della gestione di queste politiche. È importante che l’Unione confermi inoltre la sua tradizione umanitaria offrendo generosamente protezione a quanti ne hanno bisogno». Insomma, il tema immigraSbarco di clandestini


zione e asilo continua a essere aspetto essenziale della riflessione sulle linee di politica legislativa dell’UE. La comunicazione della Commissione sui profili dell’immigrazione e asilo è invero un follow up delle decisioni del Consiglio europeo di Parigi dell’ottobre 2008 che adottò il Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo proposto dalla presidenza francese dell’UE. Pertanto, con la comunicazione di fine giugno la Commissione riprende il discorso per andare oltre quanto realizzato con il Programma dell’Aia (2004-2009) in vista del nuovo programma quinquennale nel settore della giustizia, della libertà e della sicurezza (Stoccolma 2010-2014). In effetti, può osservarsi quale premessa che il tema delle migrazioni è più obbligato di altri perché per l’intera Europa queste possono essere considerate fenomeno “epocale”. Secondo i dati della Commissione, gli immigrati da paesi terzi rappresentano il 3,8% della popolazione dell’Unione (che ammonta a 493 milioni). In ciascuno degli anni recenti si sono registrati nella UE tra 1,5 e 2 milioni di arrivi netti. Il 1° gennaio 2006 soggiornavano nella UE 18,5 milioni di cittadini di paesi terzi. Si è di fronte a una tendenza che non rallenterà, poiché restano fortissimi i divari di ricchezza e sviluppo tra le regioni del mondo nell’attuale contesto; perché non si risolvono, anzi spesso si aggravano drammaticamente, i problemi di insicurezza in molti paesi di origine dei migranti; poiché rimane il bisogno di protezione di chi è in fuga dal proprio paese per motivi di persecuzione. D’altra parte, la Commissione mostra di avere chiara la sfida che la società europea ha di fronte sotto il profilo demografico e che impone scelte non rinviabili. La popolazione attiva europea, che ammontava a 235 milioni nel 2007, entro il 2060 diminuirà di almeno 50 milio-

ni se l’immigrazione netta prosegue a livelli simili a quelli storici, e diminuirebbe di circa 110 milioni in assenza di immigrazione. È una situazione di invecchiamento della popolazione che prefigura rischi di sistema: non soltanto per la sostenibilità dei costi sociali (pensioni e sanità), per la quale si impone una crescita considerevole di spesa pubblica, ma altresì per la stessa gestione di una società complessa che ha bisogno di una base ampia di popolazione attiva con qualifiche molto articolate per il funzionamento della gamma di servizi e per la

«I flussi migratori si pongono con pressione tale da superare le politiche di contrasto degli stati di destinazione: ne segue, accanto alla migrazione legale, quella illegale. Quest’ultima è un aspetto molto rilevante delle migrazioni e pone problemi di indubbia gravità» crescita. Anche il Consiglio europeo ha riconosciuto che le migrazioni internazionali sono una realtà che persisterà finché resteranno i divari di ricchezza e di sviluppo fra le diverse regioni del mondo e che l’ipotesi di immigrazione zero appare non realistica e pericolosa. Si può ben dire, dunque, che è cruciale per le istituzioni dell’UE concentrare l’azione sulle tematiche dell’immigrazione e dell’asilo. Queste, con il Trattato di Amsterdam, sono oggetto di strumenti normativi di politica comune che affrontano il problema nella sua dimensione interna ed esterna. Un tema estremamente complesso, nel quale l’interesse economico degli stati europei per le migrazioni si interfaccia con altre questioni: il rispetto dei diritti fondamentali della persona, la necessità di predisporre processi di integrazione sociale, il problema della sicurezza, le relazioni con i paesi di origine dei migranti, nonché la necessità di contrastare l’immigrazione clandestina e i fenomeni criminali a questa connessi. Ma quali sono i caratteri della politica europea comune dell’immigrazione, settore di competenza concorrente nel quale però il carattere transfrontaliero del fenomeno non solo impone un approccio coordinato degli stati membri, ma dovrebbe privilegiare il ruolo della Comunità nel funzionamento del principio di sussidiarietà? La politica europea è caratterizzata da una accentuata asimmetria della evoluzione della disciplina della migrazione legale e di quella illegale. La realizzazione della politica in materia di immigrazione legale è rimasta lacunosa, frammentaria (la normativa europea è focalizzata sui diritti di cittadini di stati terzi residenti di lungo periodo, sull’ingresso e soggiorno di cittadini di stati terzi per motivi di studio e di ricerca scientifica, e ancora sul diritto al ricongiungimento familiare da molti ritenuto poco soddisfacente per l’ampia possibilità di ricorso a clausole derogatorie concessa agli stati). Va rilevato che non è stato possibile definire una disciplina comune dei presupposti e requisiti per l’ammissione dei lavoratori di paesi terzi (e la cessazione del soggiorno,

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Immagini tratte dal documentario Come un uomo sulla terra di Riccardo Biadene, Andrea Segre e Dagmawi Ymer

tramite ritorno volontario o allontanamento), nonostante il riconoscimento di una emergenza demografica ed economica. Insomma, la politica europea in materia di immigrazione legale appare frammentata, in ritardo. Gli stati membri si sono mostrati restii a limitare la propria

«L’Unione Europea torna a elaborare la sua volontà progettuale in tema di immigrazione e asilo. Tra le priorità indicate vi è quella di “promuovere una società più integrata per il cittadino – un’Europa della solidarietà”» competenza sulla regolamentazione relativa alla origine e alla decadenza del titolo di immigrato legale. Quanto poi alla politica di integrazione degli stranieri, che deve accompagnarsi a qualsiasi politica di immigrazione, si è

applicato finora il metodo del “coordinamento aperto”. Si tratta di un approccio pragmatico che esclude l’armonizzazione legislativa e che si vorrebbe rafforzato politicamente dall’affermazione di principi comuni proclamati dal Consiglio e posti dalla Commissione a base del Programma per l’integrazione: ma il carattere solenne dei principi non rimedia al loro scarso valore costringente. Insomma, occorre prendere atto dell’assenza di equilibrio fra le competenze esercitate dagli stati membri e quelle dell’Unione. Si assiste a una prevalenza di una ottica particolaristica in virtù della quale la migrazione legale è vista come interesse anzitutto della politica nazionale per la quale i governi debbono rispondere alle sole comunità rispettive, quando invece gli elementi obiettivi evidenziano il bisogno di andare oltre le politiche nazionali, in favore di un quadro europeo nel quale i livelli nazionale e comunitario si sviluppino coerentemente. La situazione appare diversa per l’immigrazione illegale, dove si è formata una strumentazione comunitaria

Come un uomo sulla terra È un documentario di Andrea Segre, Riccardo Biadene e Dagmawi Yimer. Dagmawi, studente di Giurisprudenza ad Addis Abeba, in Etiopia, a causa della forte repressione politica nel proprio paese ha deciso di emigrare. Nell’inverno 2005 ha attraversato via terra il deserto tra Sudan e Libia dove si è imbattuto in una serie di disavventure legate non solo alle violenze dei contrabbandieri che gestiscono il viaggio verso il Mediterraneo, ma anche e soprattutto alle sopraffazioni e alle violenze subite dalla polizia libica, responsabile di indiscriminati arresti e deportazioni. Sopravvissuto alla trappola libica, Dag è riuscito ad arrivare via mare in Italia, a Roma, dove ha iniziato a frequentare la scuola di italiano Asinitas Onlus punto di incontro di molti immigrati africani. Qui ha imparato non solo l’italiano ma anche il linguaggio del video-documentario. Così ha deciso di raccogliere le memorie di suoi coetanei sul terribile viaggio attraverso la Libia, e di provare a rompere l’incomprensibile silenzio su quanto sta succedendo nel paese del Colonnello Gheddafi. Come un uomo sulla terra ha ricevuto numerosi premi e menzioni ed è stato proiettato anche a Roma Tre, lo scorso giugno, a cura dell’Osservatorio sulla cittadinanza e di CLIC (Corsi e laboratori interculturali per la cittadinanza)


numerosa e incisiva: è prevalsa la percezione della inadeguatezza dei mezzi nazionali di contrasto e della opportunità di affidarsi invece al livello comunitario di gestione. Si tratta di un insieme di normative che hanno dato vita anche a strumenti operativi, che si articolano nel controllo alle frontiere, nella lotta all’immigrazione clandestina, nel rimpatrio. Si va dalle direttive relative alle sanzioni finanziarie per i vettori che trasportano cittadini stranieri privi della documentazione necessaria per l’ingresso nel territorio di stati membri e all’obbligo dei vettori di comunicare i dati relativi alle persone trasportate, alla direttiva sul mutuo riconoscimento delle decisioni di espulsione. Si ricordi la decisione sulle modalità dei voli congiunti per l'allontanamento dei cittadini di paesi terzi illegalmente presenti nel territorio di due o più stati membri, nonché la direttiva sulle procedure di mutua assistenza tra gli stati dell’Unione per le espulsioni via aerea. Si aggiunga la decisione che istituisce il Fondo europeo per i rimpatri nel periodo 20082013. Nel 2008 è stata adottata la direttiva 115/CE sulle norme e procedure comuni applicabili negli stati membri al rimpatrio di cittadini di stati terzi soggiornanti illegalmente (da attuare entro il 24 dicembre 2010). Si tratta di una regolamentazione che interviene su un punto debole del sistema (attualmente, in media, un solo provvedimento di allontanamento su tre trova esecuzione). Essa, peraltro, non provvede alla armonizzazione degli aspetti sostanziali della decadenza di un immigrato dal soggiorno regolare (che restano di competenza essenzialmente statale). Essa limita il proprio campo di applicazione alla armonizzazione delle procedure di cessazione della presenza dell’immigrato nel territorio (rimpatrio volontario o accompagnamento alla frontiera) quali che siano i motivi della irregolarità della sua presenza sul territorio di uno stato membro, al fine pressoché esclusivo di migliorare l’efficacia del procedimento espulsivo. Questa direttiva, pervasa da un’ottica securitaria con un rilievo puramente marginale assegnato ai diritti dei migranti (retrocessi a standard da tenere «nella debita considerazione») rappresenta anche l’esordio non esaltante del Parlamento europeo come codecisore nel campo dell’immigrazione irregolare. Su altro piano, quello del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali, opera la decisione relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali, nonché la direttiva che impone l’introduzione di sanzioni negli ordinamenti nazionali. A queste misure si accompagna la possibilità per le vittime di ottenere un permesso di soggiorno in virtù della direttiva riguardante il titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di paesi terzi vittime della tratta di esseri umani o coinvolti nel favoreggiamento dell’immigrazione illegale che cooperino con le autorità competenti. Rispetto allo sviluppo di questa disciplina della UE di contrasto alla immigrazione illegale appare contraddittorio il ritardo nell’elaborazione di una normativa di contrasto al lavoro clandestino, elemento di forte attrazione della immigrazione illegale stessa: è ancora a livello di discussione una proposta di direttiva che preveda sia le fattispecie di

reato, sia le sanzioni idonee a contrastare i comportamenti dei datori di lavoro che utilizzino migranti irregolari. Il contrasto alla immigrazione irregolare si realizza poi attraverso il controllo alle frontiere, che, peraltro, è funzionale anche al corretto svolgimento della immigrazione regolare. Qui viene in considerazione il Codice comunitario relativo al regime giuridico di attraversamento delle frontiere (Codice frontiere Schengen): esso contiene una regolamentazione dettagliata volta a disciplinare verifiche approfondite da realizzarsi al momento dell’ingresso di cittadini di stati terzi ai valichi di frontiera. Soprattutto in questo settore gli stati membri vanno rafforzando una cooperazione anche di tipo operativo, tramite forme di gestione comune. L’Agenzia Frontex ha favorito la cooperazione pratica tra gli stati membri e ha conferito una accentuata dimensione operativa al controllo alle frontiere esterne dell’UE. Il suo ruolo sta ulteriormente crescendo nella gestione delle frontiere esterne e nel coordinamento delle iniziative degli stati membri volte a ridurre i flussi migratori illegali. In questo contesto di contrasto alla immigrazione irregolare acquista poi importanza il sistema

«Nei prossimi anni occorre consolidare e attuare effettivamente una politica di immigrazione e di asilo che garantisca la solidarietà fra gli stati membri e il partenariato con i paesi terzi, una politica che offra uno status chiaro e comune agli immigrati legali» Schengen di seconda generazione: si prevede che una segnalazione sia inserita nel sistema quando fondata su una minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale che può essere rappresentata dalla presenza di un cittadino di un paese terzo nel territorio di uno stato membro. Una segnalazione può inoltre essere inserita quando la decisione è fondata su una misura di allontanamento da parte di uno stato membro, così da impedire poi il suo reingresso attraverso le frontiere di un diverso stato comunitario. In conclusione, può ben dirsi che l’impegno della UE in materia di migrazioni si è concentrato soprattutto sull’immigrazione irregolare, con particolare riguardo al suo contrasto, mentre la politica comune in materia di migrazione regolare è rimasta carente. Necessitano segnali concreti di un riequilibrio che si accompagnino alle dichiarazioni di intenti. Ma finora la sola prospettiva sul tavolo è di portare a compimento la direttiva sull’ingresso dei lavoratori altamente qualificati (titolari della c.d. carta blu) nella logica di usufruire solo dei vantaggi delle migrazioni. Non sembra che su questa premessa l’Europa sia in grado di gestire una politica lungimirante delle migrazioni, ma saranno piuttosto queste a imporsi all’Europa con la forza sregolata di certi fenomeni epocali, con tutte le criticità e sofferenze acuite dall’assenza di ciò che nel linguaggio alla moda si chiama governance.

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Iran in transito Fra fondamentalismo e innovazione: la storia di un ritorno a Teheran di Camilla Spinelli La Persia e il suo impero, uno dei più potenti di sempre. Un impero che riuscì per la prima volta nella storia a racchiudere sotto un’unica guida popoli diversi e lontani fra loro. Proprio lì, già nel VI sec. a.C. si parlava di diritti umani: a tutti i popoli del territorio sarebbe stata daCamilla Spinelli ta la possibilità di praticare la propria religione, tutti avrebbero avuto gli stessi diritti e le donne sarebbero state poste sullo stesso gradino sociale occupato dagli uomini. Si dice che la storia tenda a ripetersi, ma forse questo non sembra essere il caso di quella regione del mondo che da metà Novecento viene chiamata Iran. Il destino è bizzarro e incontrollabile. Oggi, sfogliando giornali e riviste o seguendo un telegiornale, si sente sempre più spesso parlare di Asse del Male: un gruppo di paesi in forte polemica col modello occidentale. Questa etichetta spregiativa racchiude un insieme di paesi (Libia, Siria, Venezuela, Corea del Nord, Cuba, Birmania, Sudan, Bielorussia) e in testa all’elenco vi è quello che più di altri negli ultimi mesi è apparso distante dal nostro concetto di società civile: l’Iran appunto. Da sempre nello studiare culture diverse e lontane dalla nostra, si è spesso caduti in una visione occidente-centrica. In poche parole, si è voluto osservare “gli altri” per arrivare alla conclusione che “noi” siamo migliori e soprattutto detentori di un sistema e di un modello culturale assolutamente avanzato rispetto al resto del mondo. È anche vero d’altro canto, che risulta molto difficile avere una posizione neutrale soprattutto quando i due termini di confronto sono concetti complessi, multiformi e variegati, oltre che in costante mutamento, come quelli di Occidente e Oriente. Per questo nessuno meglio di una persona nata in Oriente e poi trasferitasi in Occidente (o viceversa) ci può venire in aiuto. È questo ad esempio il caso di Azadeh Moaveni, una giornalista americana cresciuta però in Iran che attualmente collabora con importanti testate giornalistiche come il Time o il New York Times. Nel suo ultimo libro Viaggio di nozze a Teheran la giornalista (coautrice fra l’altro con Shirin Ebadi de Il mio Iran) racconta del ritorno nel suo paese proprio a ridosso delle elezioni del 2005 che vedranno la vittoria inaspettata di Mahmud Ahmadinejad, un personaggio a metà strada tra un dittatore e una rock star nazionale, un uomo che secondo molti commentatori non avrebbe alcuna dote particolare ma che balzando in

primo piano sulla scena mondiale, lascia le proprie impronte dove non dovrebbe o non servirebbe proprio. Nel 2001 Mohammad Khatami venne eletto presidente dell’Iran per la terza volta proponendosi ancora come il candidato più riformista tra tutti e raccogliendo così quasi l’80% dei voti. Basava la sua politica su idee concrete come il dialogo con gli Stati Uniti, un governo democratico e riforme sociali e culturali, tra le quali una maggiore apertura nei confronti delle donne, che finalmente intravedevano la possibilità di vedere riconosciuta la parità dei diritti e il pieno accesso alla sfera pubblica. Questo, agli occhi di tutti, significava che l’Iran voleva finalmente una società aperta. Cosa è successo di così profondo da far cambiare tanto repentinamente le scelte politiche di un popolo? La stessa Moaveni non sa darsi una spiegazione logica, ma intervistando amici e parenti arriva a capire che i cittadini non vedono più il bene comune come un obiettivo da raggiungere e fortificare; ognuno pensa e agisce solo in funzione delle proprie aspettative personali. L’idolo non è più Che Guevara ma Bill Gates o Steve Jobs (a seconda che siate utenti Windows o Mac). Così, quando le parole iniziano a essere vuote di senso, è poi molto difficile dargli di nuovo colore e se sfortunatamente in giro c’è una persona carismatica che sa come attrarre a sé il popolo, tutto ciò che di positivo hanno prodotto i tempi più recenti si sgretola e crolla come un castello di sabbia colpito da un’onda. Da quando gli Stati Uniti hanno attaccato i talebani in Afghanistan e Saddam Hussein in Iraq, l’influenza di Teheran nella regione è emersa con molta velocità. Ora Ahmadinejad, per attirare su di sé i riflettori internazionali in un momento molto delicato per l’Iran, punta il dito contro l’Occidente dipingendolo come un nemico disposto a tutto pur di indebolire il suo paese. La congiuntura internazionale, un radicato nazionalismo e l’economia in crisi, portano il popolo iraniano a vedere nel nucleare un grande motivo di orgoglio. L’ultimo anno è stato caratterizzato dall’intensificarsi della repressione nei confronti di tutti coloro, in primis studenti e giornalisti, sono accusati di complottare contro il regime di Teheran. Improvvisamente gente comune, come la stessa Moaveni, si ritrova a essere vulnerabile alle vessazioni. Un caso su tutti è quello del giornale indipendente Shargh, bandito e poi riabilitato varie volte proprio perchè accusato di essere troppo riformista e perciò contrario al governo. Shargh riprende vita nel marzo del 2007 ma dallo scorso aprile il Consiglio per il controllo della stampa ne ha ordinato la definitiva chiusura oscurando anche i siti web dai quali era possibile avere informazioni in merito. Oggi più che mai infatti internet è uno strumento potente e straordinariamente efficace, anche nell’organizzazione del dissenso. Ed è più facile sottomettere un popolo disinformato e analfabeta.


Oltre i muri del silenzio La Lingua dei segni, la grammatica dell’espressione corporea di Maria Cristina Gaetano Numerose barriere nella società di oggi possono separare l’individuo dal suo diritto di vivere al meglio la realtà che lo circonda: barriere fisiche ma anche barriere sociali, spesso psicologiche, forse ancor più difficili da abbattere. Oltre queste barriere, tuttavia, si nascondono vissuti quotidiani che spesso muri apparentemente invalicabili impediscono di vedere. E si può rimanere stupiti nel rendersi conto di come la diversità sia parte della realtà e di quanto abbia strumenti e modalità di comunicazione tali da volersi a pieno integrare nel contesto cui appartiene. Andando oltre i consueti canali di comunicazione, si può così auspicare un reale superamento delle barriere: assumendo una necessaria posizione di ascolto, ci si può avvalere della comunicazione non solo per la trasmissione di informazioni ma anche e soprattutto per la condivisione di nuovi scenari e della loro, personale, forza espressiva. Coloro che, ad esempio, non percepiscono la voce di una persona sorda, non sono in grado di andare oltre il muro del silenzio e di scorgere nei gesti il suono delle parole: oltre il muro, c’è una capacità espressiva con una sua storia, con i suoi significati e le sue regole. Non conosciuta da tutti forse, ma presente e vissuta da molti. Le persone nate sorde, o diventate tali nei primi anni di vita, non possono acquisire naturalmente la lingua parlata ma, sfruttando il senso integro della vista, hanno spontaneamen-

«Le persone nate sorde, o diventate tali nei primi anni di vita, non possono acquisire naturalmente la lingua parlata ma, sfruttando il senso integro della vista, hanno spontaneamente adottato un canale di comunicazione alternativo: il linguaggio dei segni» te adottato un canale di comunicazione alternativo: il linguaggio dei segni. «Le persone sorde, inserite nella comunità udente, non sono mute per difetti all’apparato fono-articolatorio, che permette la produzione dei suoni di una lingua parlata, ma perché, non essendo integro il loro senso dell’udito, non hanno la percezione dei suoni vocali: non ricevono dunque alcuno stimolo a riprodurre questi suoni, se non rieducati appositamente». La Lingua dei segni nasce dall’esigenza di comunicare e presenta perciò tutte le caratteristiche di una vera e propria lingua: ha una propria articolazione, una sintassi, una grammatica. Non possiede un codice universale: ad ogni paese corrisponde una lingua differente, ha cioè delle caratteristiche proprie a seconda della cultura in cui viene impiegata. Si distingue dai gesti, arbitrari, che normalmente si utilizzano nelle conversazioni e non deve intendersi come codice

L’alfabeto della Lingua dei segni italiana

manuale attraverso il quale si traducono informazioni concrete di una lingua parlata. Avvalersi di immagini visive realizzate con le mani non riduce le realtà che si vogliono esprimere. Se la lingua parlata è fatta di suoni, la Lingua dei segni è fatta di immagini. In entrambi i casi chi si esprime ha propri pensieri e sentimenti e quindi una propria modalità di condivisione della realtà: nel primo caso attraverso il senso dell’udito, nel secondo attraverso il senso della vista. L’espressione facciale, il movimento dello sguardo e della testa, sono la grammatica; attraverso le forme e i movimenti delle mani si comunicano idee complesse, astratte, si parla di filosofia, di politica, di sport, della vita etc. Si può trasmettere l’ironia, la sofferenza, l’umorismo, il sarcasmo. E ogni cambiamento della società, tecnologico o culturale, introduce nuovi vocaboli, come accade per le altre lingue. La sordità è tuttavia una disabilità nascosta agli occhi di molti perché non si vede. La si riconosce nel momento in cui si deve comunicare: ciò comporta delle implicazioni sociali poiché gli udenti spesso non manifestano disponibilità e attenzione verso le persone sorde, al contrario, prendono le distanze. La comunicazione con i sordi, invece, deve rispettare delle regole necessarie all’interazione, come ad esempio tenere la testa ferma quando si parla o il viso illuminato, usare un tono di voce normale, frasi corte, semplici e complete. Accostarsi alla sordità comporta la scoperta di una cultura con delle regole ben precise. Nell’era tecnologica in cui viviamo gli strumenti disponibili per agevolare la comunicazione tra sordi e tra sordi e udenti sono certamente un ausilio di notevole importanza. Le nuove tecnologie, attraverso il canale visivo, favoriscono la comunicazione e lo sviluppo cognitivo, contribuendo

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così a incrementare l’interscambio comunicativo anche tra comunità di sordi e comunità di udenti. Viceversa insegnare a un sordo, privo di memoria uditiva, la lingua italiana, ad esempio, comporta l’insegnamento esplicito di ogni regola grammaticale e ciò non toglie che errori legati alle difficoltà di apprendimento potranno essere ricorrenti. L’educazione dei bambini sordi in Italia può avvenire secondo tre diverse modalità: il metodo oralista, che non utilizza alcun segno ma si basa solo sulla rieducazione al linguaggio verbale; il metodo bimodale, con cui si insegna la lingua italiana facendo corri-

«La Lingua dei segni nasce dall’esigenza di comunicare e presenta perciò tutte le caratteristiche di una vera e propria lingua: ha una propria articolazione, una sintassi, una grammatica» spondere alla parola il segno e infine, l’educazione bilingue, in cui si usa sia la lingua vocale che quella dei segni. Si può dire quindi, nel rispetto delle persone sorde che non si identificano in questa modalità di comunicazione, che la Lingua dei segni non è la lingua dei sordi ma la lingua di quelle persone sorde che vogliono utilizzarla. Le riflessioni qui riportate si propongono, infatti, di descrivere l’uso della Lingua dei segni come strumento complementare alle politiche finalizzate a valorizzare tutti gli strumenti possibili di educazione che permettano il raggiungimento della comunicazione verbale. Partendo dal riconoscimento della Lingua dei segni come una vera e propria lingua, e quindi come elemento di comunicazione, si vuole giungere alla considerazione che questa sia non uno strumento di separazione bensì di integrazione. A sostegno di questa riflessione è doveroso far riferimento alla recente Convenzione ONU per i Diritti delle persone con disabilità (New York, 13 dicembre 2006) ratificata dal Parlamento italiano nel febbraio scorso (Legge 3 marzo 2009, n. 18). «Una data storica per la promozione di una nuova cultura sulle condizioni delle persone con disabilità e delle loro famiglie». Già nel 1997, il trattato di Amsterdam, adottato dal Consiglio europeo e ratificato da tutti gli stati membri, tra i vari temi trattati, faceva riferimento ai provvedimenti opportuni da prendere per «combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali» costituendo in generale un documento importante per la politica delle pari opportunità. È la Convenzione tuttavia a segnare un reale superamento dei confini materiali con il peso di una ve-

ra e propria fonte di diritto internazionale in materia di disabilità, vincolante per i paesi che la ratificano e la integrano nel proprio ordinamento giuridico. La Convenzione, rafforzando i principi di integrazione e di piena partecipazione delle persone alla vita collettiva e ribadendo l’atteggiamento contro ogni discriminazione, dà alle persone con disabilità stessi diritti e stesse opportunità in tutto il mondo. Fa espressamente riferimento alla Lingua dei segni come forma di linguaggio insieme alle lingue parlate e alle altre forme di espressione non verbali; cita gli interpreti della Lingua dei segni tra gli ausili necessari all’accessibilità; riconosce il ricorso all’uso della Lingua dei segni, così come «al Braille, alle comunicazioni aumentative e alternative e ad ogni altro mezzo, modalità e sistema accessibile di comunicazione» scelto da una persona con disabilità, per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione, di opinione e di accesso all’informazione. Indica espressamente che l’uso della Lingua dei segni deve essere riconosciuto e promosso, così come devono essere agevolati l’apprendimento e la promozione dell’identità linguistica della comunità dei sordi: il diritto al riconoscimento della propria identità culturale, deve essere un diritto anche per la comunità dei sordi. Al tempo stesso, la Convenzione si rivolge alla società chiamata a sostenere un diverso atteggiamento, necessario per il raggiungimento di una piena uguaglianza. Un cambiamento della società in tal senso è infatti indispensabile affinché anche negli aspetti del-

«La sordità è una disabilità nascosta agli occhi di molti perché non si vede. La si riconosce nel momento in cui si deve comunicare e gli udenti spesso non manifestano disponibilità e attenzione verso le persone sorde, al contrario, prendono le distanze» la vita quotidiana si realizzino concretamente i diritti delle persone con disabilità. Con la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, definita dall’allora segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan una tappa storica, si tenta per la prima volta di eliminare radicalmente qualunque forma di discriminazione culturale. Se da un lato la Convenzione vuole stabilire regole certe e universali per promuovere e assicurare in modo pieno e paritario i diritti umani e le libertà fondamentali delle persone con disabilità, dall’altro si propone «in modo forse più innovativo, il riconoscimento di una necessaria azione educativa verso l’intera società», così da contrastare ogni forma di discriminazione, spesso dovuta all’ignoranza di quanto la diversità sia una risorsa.


Hate crimes Il travestimento della violenza di Indra Galbo In tutta Italia i fatti degli ultimi mesi hanno fatto riaffiorare un problema mai risolto: l’omofobia. Le molotov contro locali frequentati da gay, le aggressioni per strada, l’intolleranza nei posti di lavoro, la partecipazione talvolta solo formale delle istituzioni, stanno ricreando un Indra Galbo clima da caccia alle streghe. Non sarebbe sbagliato dare anche una connotazione politica a questi eventi, ma fare solo questo potrebbe essere alquanto riduttivo in quanto lascerebbe l’analisi ad un livello superficiale. Se invece tentassimo un approccio più articolato potremmo individuare alcuni elementi assai interessanti. Quando parliamo di intolleranza non violenta una delle frasi più comuni è «io non sono contro i gay, però…». Dietro quel “però” si cela la fobia che potrebbe essere tranquillamente la rimozione di un’idea, di un desiderio o di un impulso culturalmente inaccettabile. Una ricerca effettuata alcuni anni fa e pubblicata dal Journal of Abnormal Psychology e dalla American Psychological Association provava che l’omofobia non è tanto la paura dell’omosessuale quanto piuttosto quella di essere considerato tale. Nell’ambito della ricerca venne osservato il comportamento di un campione costituito da 64 uomini, di cui 35 omofobi; a tutti loro furono mostrati video erotici con differenti indirizzi. Si notò che mentre durante la visione di filmati eterosessuali le reazioni si somigliavano, la differenza tra i due gruppi diventava notevole durante la visione di vi-

deo per omosessuali: circa il 60% degli omofobi ne risultava eccitato. Alcuni studiosi tendono a distinguere l’omofobia intesa come paura tout court e l’omofobia come esasperazione del sessismo (di cui la cronaca rintraccia vari episodi nei luoghi di lavoro, a scuola, nei locali di divertimento, talvolta con esiti violenti). Capita anche, però, che la linea tra queste due posizioni si assottigli incredibilmente soprattutto quando al centro del dibattito c’è il rapporto eterosessuale. In questo caso l’intolleranza è decisamente più sfumata e cosa peggiore sembrerebbe socialmente accettata come naturale derivazione del clichè uomo attivo-donna passiva. Più difficile stabilire i ruoli in una coppia omosessuale. Subentra facilmente il pregiudizio quando ci si misura con ciò che non si conosce, quasi una condizionata/naturale necessità di definire i contorni per mettere a fuoco l’immagine; di qui il ruolo fondamentale svolto dall’immaginario collettivo che produce comportamenti socialmente accettabili. Quando i ruoli standardizzati saltano ci si ritrova immersi in una confusione che trattandosi di sesso non può che avere derive pseudomorali che trovano nella paura il maggiore travestimento. E le paure svolgono all’interno della società un ruolo fondamentale in quanto permettono di esercitare facilmente il potere e altrettanto facilmente e direi docilmente lo si accetta: con la scusa della sicurezza si portano gli eserciti nelle nostre strade, con la scusa della difesa della famiglia si ignorano i diritti di milioni di persone che vivono nel nostro paese. Capita così che una legge sull’omofobia venga bocciata alla Camera, dopo mesi di lavori, manifestazioni e violenze, purtroppo violenze. E a pagare il prezzo della bocciatura sono, qui come altrove, le parti offese di una società che paradossalmente vede spostare sempre più in avanti il riconoscimento dei diritti umani.

L’omofobia diventa un hate crime negli Stati Uniti «After more than a decade of opposition and delay, we’ve passed inclusive hate crimes legislation to help protect our citizens from violence based on what they look like, who they love, how they pray or who they are», Barack Obama. «This is just the first step. We have a lot to do that’s left. We need to be grateful for this and move on. I just can’t even tell you how great it feels», Judy Shepard. «The next great civil rights bill», Attorney General Eric Holder. Dall’ottobre scorso negli Stati Uniti l’omofobia è un hate crime. È stato finalmente approvato infatti il Matthew Shepard Act, che inserisce le violenze per omofobia e transfobia tra i cosiddetti crimini d’odio, puniti con una severa legge federale varata nel 1968 per i crimini provocati dall’odio razziale in se- Barack Obama con Judy Shepard il guito all’omicidio di Martin Luther King. giorno dell’approvazione del Metthew La legge porta il nome di Matthew Shepard, uno studente del Wyoming as- Shepard Act sassinato 11 anni fa perché omosessuale. Da dieci anni i sostenitori della legge, tra i quali Ted Kennedy, si battevano per allargare la definizione di hate crime, finora prevista per i crimini causati dalla razza, il colore della pelle, la religione o la provenienza nazionale della vittima, ai crimini causati dal genere e dall’orientamento sessuale. In questi anni la misura era stata sempre bloccata al Senato e George Bush aveva minacciato di porre il veto se avesse raggiunto il suo tavolo per la firma. Il presidente Barack Obama ha siglato il testo del Matthew Shepard Act il 28 ottobre scorso.

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La generazione post ideologica Intervista al filosofo Umberto Galimberti di Federica Martellini

incontri

Umberto Galimberti è filosofo e psicoanalista, professore ordinario di Filosofia della storia e di Psicologia dinamica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Dal 1985 è membro ordinario dell’International association for analytical psychology. Dal 1987 al 1995 ha collaborato con Il Sole 24 ore e con il quotidiano La Repubblica, sia con editoriali su temi d’attualità sia con approfondimenti di carattere culturale. Traduttore e divulgatore in Italia dell’opera di Karl Jaspers, è autore di una vasta produzione saggistica. Fra le sue opere principali ricordiamo: Psichiatria e Fenomenologia, Milano, Feltrinelli, 1979; Il corpo, Milano, Feltrinelli, 1983; La terra senza il male. Jung dall’inconscio al simbolo, Milano, Feltrinelli, 1984; Gli equivoci dell'anima, Milano, Feltrinelli, 1987; Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltrinelli, 1999, L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Milano, Feltrinelli, 2007.

Prof. Galimberti, lei è stato quest’anno uno degli ospiti del Festival della Filosofia a Modena. Il tema scelto dagli organizzatori in questa edizione è la “comunità”, una dimensione che oggi appare alquanto difficile da poter definire e anche da sperimentare. In una fase storica in cui le identità collettive (e forse le identità tout court) appaiono in crisi, si radicalizzano o si dissolvono, di cosa si parla quando si parla di comunità? Quando si parla di comunità si parla più o meno delle scelte dell’uomo dal momento che, dal tempo di Aristotele, l’uomo viene qualificato come animale sociale. Oggi questa dimensione sociale, che significa “in relazione all’altro”, è venuta radicalmente meno nel senso che ciascuno ha sviluppato la dimensione individualistica e il momento relazionale ne soffre un po’. In questo io vedo una

«Ai giovani è stato rubato il futuro. Il futuro ora non si presenta più come una promessa ma come una minaccia o per lo meno si presenta come imprevedibile e scarsamente codificabile» specie di cascame di un’idea fondamentalmente cristiana, perché il concetto di individuo e il primato dell’individuo l’ha introdotto il cristianesimo. Prima c’era il primato della città. E gli individui erano giusti se si “aggiustavano” nell’armonia della città. Il cristianesimo ha messo in circolazione il concetto di anima e il primato dell’individuo ha conferito allo stato semplicemente il compito di sciogliere gli inconvenienti che impediscono o ostacolano la salvezza dell’anima, che è individuale. Il risultato finale di que-

sto processo è che ciascuno pensa a se stesso, appartato nel suo appartamento. E tutti i legami di solidarietà sono venuti meno. Negli anni Sessanta il futuro era una promessa. Poi divenne, forse, una scelta di campo. C’erano cause che sembrava valesse la pena di abbracciare e non penso solo alle ideologie politiche ma anche a movimenti come il femminismo, l’ecologismo, il pacifismo… I ventenni di oggi sembrano poco interessati a simili battaglie e appaiono, tutto sommato, molto più conformisti. Cresciuti senza l’ombra dei muri ideologici sembrano tuttavia, come e forse più di ieri, intrappolati da altri “muri” che sono l’incapacità di empatia e di comunicazione. Può essere questa una chiave di lettura del suo libro sul nichilismo e i giovani? Fondamentalmente ai giovani è stato rubato il futuro. Il futuro ora non si presenta più come una promessa ma come una minaccia o per lo meno si presenta come imprevedibile e scarsamente codificabile. Che cosa succede a questo punto? Che i giovani non possono nemmeno più fare la rivoluzione mentre nel ’68 hanno fatto la rivoluzione delle persone che stavano molto meglio di loro, il cui futuro era sostanzialmente garantito. Ma perché questo? Perché siamo entrati pesantemente nell’epoca della razionalità tecnica, la quale ha disciolto il conflitto delle volontà. Le rivoluzioni, i cambiamenti estremi avvengono per conflitti di volontà, mentre ora queste volontà non sono più in conflitto ma sono tutte e due dalla stessa parte avendo come controparte la razionalità del mercato. E allora con chi te la prendi? Perché il mercato è nessuno, è invisibile: sono operazioni finanziarie, sono sistemi incontrollabili. E infatti interrogando i giovani su come mai accettano lavori precari, di pochi mesi, ti rispondono: “perché altrimenti cosa faccio?”. Ecco questa è l’acquisita impossibilità di reagire perché non c’è una volon-


tà contro cui muoversi. E questi sono gli effetti dell’essere entrati nell’età della tecnica, che è l’età della razionalità strumentale, raggiungere il massimo risultato con il minimo impiego di mezzi. Lei scrive: «sono crollate le pareti che consentono di distinguere l’interiorità dall’esteriorità, la parte “discreta”, “singolare”, “privata”, “intima” dalla sua esposizione e pubblicizzazione». Oggi in fenomeni come i reality ma non solo – penso anche ad esempio a molte forme di autorappresentazione come alcuni tipi di video su youtube o a quella sorta di diario post-moderno che sono alcuni blog di giovanissimi – il senso del pudore sembra spostarsi di volta in volta un po’ più in là. È caduto un altro muro o si tratta di un altro fenomeno ancora?

«Gli insegnanti vengono selezionati sulla base delle loro competenze culturali, a prescindere dalle loro capacità di comunicazione e di fascinazione e così la scuola diventa un luogo deputato al massimo all’istruzione ma non certo all’educazione e tanto meno all’educazione ai sentimenti» Oggi si è sviluppata una sorta di modalità televisiva dove sostanzialmente si “insegnano” i sentimenti. Si insegna come si ama, come si odia, come si reagisce. Si parla a volte di pensiero unico, ecco qui si costruisce una sorta di sentimento unico, un’omologazione dei sentimenti attraverso cui ciascuno espone pubblicamente tutta la sua intimità. E questa dimensione, che a mio parere è spudoratezza, viene scambiata per sincerità, quindi come una virtù. Ma non è virtuoso privarsi della propria interiorità, della propria intimità. È semplicemente spudorato perché il pudore è per lo meno la tutela di ciò che è propriamente mio, di ciò che è intimo, di ciò che è interiore e una volta che la mia interiorità è sotto gli occhi di tutti, io sono come tutti. Oggi che la piazza è fuori moda, la scuola è in crisi, molte delle reti sociali di un tempo sembrano aver perso di significato, che tipo di spazio è quello dei social network? Che ruolo ha? È un ammortizzatore o un moltiplicatore di quella che lei ha definito una solitudine di massa? La comunicazione per via informatica è radicalmente differente dalla comunicazione vis a vis. In fondo tutte le cose che non abbiamo il coraggio di dire in faccia le scriviamo tramite messaggini telefonici. È una forma di mancanza di coraggio, una comunicazione coperta, secretata, dove quello che dico lo posso negare e in ogni caso posso configurarmi come altro rispetto a quello che sono. È un gioco falsificante. Il suo giudizio sulla scuola non è tenero. A suo avviso la scuola è un luogo dove non si sanno riconoscere i talenti e la soggettività, che non è in grado di contribuire al-

la costruzione di identità. Sembra quasi di leggere don Milani. Non è cambiato niente da allora? No. La situazione è molto peggiorata semmai. Nel senso che oggi la scuola, quando riesce, al massimo istruisce ma non educa. Perché l’educazione passa attraverso il coinvolgimento emotivo. Penso che tutti noi abbiamo studiato e ci siamo applicati nelle materie di cui i professori ci affascinavano, mentre abbiamo trascurato quelle di cui i professori ci erano antipatici perché dominati, come accade nell’adolescenza, dalla dimensione emotiva piuttosto che da quella intellettuale. Si tenga conto poi che in generale l’educazione passa per via erotica e cioè attraverso il coinvolgimento delle emozioni e dei sentimenti, attraverso la fascinazione. Io non ho difficoltà ad utilizzare anche la parola plagio: si impara per imitazione, per fascinazione. Ora, siccome molti insegnanti non sono per niente affascinanti, vengono selezionati sulla base delle loro competenze culturali e a prescindere dalle loro capacità di comunicazione e di fascinazione ed ecco che la scuola diventa un luogo deputato al massimo all’istruzione ma non certo all’educazione e tanto meno all’educazione ai sentimenti. Il fenomeno del bullismo, ad esempio, è il sintomo di contesti in cui ormai si è capaci solo di gesti, come risposta ad un impulso. Ma ad un livello superiore all’impulso dovrebbe esserci l’emozione e i ragazzi neanche quella provano perché per provare emozione devono - come dicono calarsi l’ecstasi. Ma neanche l’emozione basta, bisognerebbe avere i sentimenti. E dove si imparano i sentimenti, che sono la forma più evoluta del sentire? Si imparano attraverso la letteratura che ci dà il paradigma del dolore, della noia, della gioia, dell’amore, della passione, della tragedia, dello spleen. Ecco se tutte queste cose non accadono, allora il sentimento resta atrofico e l’emozione resta stentata. Interrogati sul proprio disagio emotivo i ragazzi non sanno cosa rispondere perché non hanno neanche i nomi per nominare i luoghi della loro mente. E questo è un bel disastro. Alcuni ricorderanno una sua intervista televisiva di qualche tempo fa durante la quale si confrontava con Fabri Fibra. Ne uscì un incontro piuttosto interessante, nel quale alla fine sembravate paradossalmente essere d’accordo su tutto. Un personaggio che, a detta di molti, interpreta molto bene il nostro tempo come Roberto Saviano ha detto di Fabri Fibra che è avanti di vent’anni rispetto alla letteratura. Fra vent’anni forse leggeremo le rime di Fibra come i versi di Ungaretti? E cosa ci sapranno dire sul nostro tempo e sui giovani di oggi? Non so se fra vent’anni leggeremo Fabri Fibra ma c’era un punto molto importante che mi pare Fibra avesse sottolineato e sul quale eravamo completamente d’accordo: è necessario cominciare a vedere i mali dei giovani non solo come disastri ma come rimedio ad angosce ben più profonde. Se uno si ubriaca o si droga è perché non vuole essere in un mondo che neppure lo convoca, neppure lo chiama per nome, che lo vede come un problema invece che come una risorsa. Ecco credo che si debba leggere il male dei giovani non come il male ma come il rimedio a un male peggiore.

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A Columbine c’era un elefante che nessuno vedeva, quando il disagio diventa violenza di Irene D’Intino

È il 2003. È la notte degli Oscar, della consegna dell’inconfondibile e ambitissima statuetta dorata. Quella notte sul palco, tra gli altri, sale Michael Moore, il regista statunitense che, con il suo Bowling for Columbine, vince il premio per il miglior documentario. Passano pochi mesi e ci spostiaIrene D’Intino mo sulla costa sud della Francia, in un altro tempio del cinema universalmente riconosciuto: Cannes. La Croisette vede trionfare Gus Van Sant, altro regista statunitense, che riceve la Palma d’Oro e il premio per la miglior regia grazie al suo Elephant. Luoghi, film, autori e premi diversi, ma un unico, comune denominatore: il massacro della Columbine High School. Il terribile fatto di cronaca che aveva sconvolto l’opinione pubblica mondiale nel 1999, tornava alla ribalta grazie al racconto di due registi profondamente diversi, in grado perciò di narrare l’accaduto da due punti di vista completamente differenti. Il documentario di Michael Moore prendeva le mosse da un’indagine delicata e approfondita sull’uso delle armi negli Stati Uniti e soprattutto sulla facilità di reperimento di queste da parte di comuni cittadini. Esemplare appare la scena iniziale, in cui il regista entra in possesso di un fucile grazie all’apertura di un

Un fotogramma delle riprese della strage di Columbine

conto in banca. Esito del lavoro di Moore è la constatazione di un diffuso senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni, che porta i cittadini a sentirsi autorizzati a gestire personalmente la difesa della proprietà privata e degli affetti attraverso il possesso e l’eventuale uso di svariati tipi di armi. Completamente diversi le intenzioni e gli esiti che muovono il lavoro di Van Sant. Parafrasando un proverbio anglosassone che vuole l’idea dell’elefante in una stanza assurgere a simbolo di quei problemi che tutti possono vedere ma di cui nessuno vuole parlare, la macchina da presa del regista statunitense segue, attraverso piani sequenza ripetuti e sovrapposti, la giornata che sconvolse la cittadina del Colorado fino al suo tragico epilogo con l’uccisione di 12 studenti e un insegnante. Volontà sottesa al lavoro di Van Sant è quella di non giudicare né esprimere pareri, ma solo trasmettere lo stato di angoscia e terrore di quelle ore di follia in cui Eric David Harris e Dylan Bennet Klebold compirono il massacro e portarono a conclusione le loro stesse vite con un tragico quanto eclatante suicidio. Da qualsiasi punto di vista lo si voglia guardare, comunque, è innegabile che il massacro alla Columbine High School scioccò l’opinione pubblica, ponendo una serie di questioni e problematiche che oggi, nel suo decimo anniversario, appaiono non solo insoluti ma anche quanto mai attuali. Oltre alle polemiche scatenatesi per un tardivo intervento della polizia, da subito l’opinione pubblica si interrogò sulla possibilità di prevedere un tale gesto: già nel 1996 Eric aveva creato un sito che conteneva, tra le altre cose, indicazioni su come fabbricare esplosivi e interventi personali che esprimevano tutta la sua rabbia e il suo rancore verso la società. Nel 1998 i due ragazzi erano stati arrestati per possesso di parti di computer rubate e il giudice aveva stabilito che necessitavano di un sostegno psicologico. Alcuni ritengono che proprio alla fine del loro percorso di cure i due giovani abbiano iniziato a progettare la strage, pensata come rivalsa e vendetta nei confronti della società. Il panorama musicale fu uno dei principali capri espiatori quando si andò alla ricerca delle motivazioni che avevano potuto spingere i due ragazzi ad un gesto simile: in particolare fu additato tutto il panorama rock metal e goth, ma lapidario fu il commento di uno degli artisti maggiormente accusati di aver indotto al-


la violenza i due ragazzi, il cantante Marilyn Manson, il quale rispondendo a chi gli chiese cosa avrebbe voluto dire ai due assassini, dichiarò: «Non gli avrei detto niente. Avrei ascoltato cosa avevano da dire, cosa che nessuno ha fatto». Le polemiche si riaccesero nel 2007, quando gli Stati Uniti furono nuovamente teatro di un massacro, questa volta avvenuto al Virginia Polytechnic Institute. Anche qui mano attiva degli omicidi è uno studente, Cho Seung-hui, sudcoreano, ancora una volta morto suicida durante il suo atto violento, ancora un volta spinto, almeno a giudicare dai suoi scritti, dal contesto sociale in cui viveva: «È tutta colpa vostra, mi avete spinto a farlo», scriveva prima di uccidere 32 persone per poi suicidarsi. Il quadro psicologico che emerge da questi casi estremi sembra essere abbastanza chiaro, almeno secondo lo psichiatra infantile americano Carl E. Drake che si è occupato dei fenomeni correlati ai massacri scolastici, rintracciando nell’esclusione e negli atti di bullismo i detonatori in grado di far esplodere la violenza di soggetti deboli: stanchi delle vessazioni e dei maltrattamenti, individuerebbero nell’omicidio non solo il modo migliore per vendicarsi, ma anche quello più giusto. Ad avvalorare la sua tesi un altro caso che, tramite un filo rosso, lega gli Stati Uniti all’Europa, più precisamente alla Finlandia. È infatti qui che nel 2007 uno studente di Jokela, Pekka-Eric Auvinen, irruppe nella propria scuola aprendo il fuoco sui compagni e sul personale dell’istituto e uccidendo otto persone. Nove se contiamo anche l’autore del massacro, morto a causa delle ferite riportate durante il tentato suicidio. Alla base del folle atto, almeno secondo le autorità, gli episodi di bullismo di cui Auvinen era vittima a scuola e che l’avreb-

bero indotto ad assumere irregolarmente psicofarmaci. Protagonisti di accese discussioni televisive e articoli di giornale, il bullismo e la violenza nell’ambiente scolastico appaiono quindi come le radici da estirpare, anche se certamente rappresentano delle concause, non certo le principali ragioni. Intanto però i governi si organizzano, cercando di ridimensionare i fenomeni: il presidente francese Nicolas Sarkozy ha proposto un piano di sicurezza che prevede l’inserimento di vigilantes all’interno degli edifici scolastici, in Germania il portale di un’emittente radiotelevisiva, mdr.de, ha stilato un dossier sull’argomento, in cui intervengono esperti e studiosi. E in Italia? Il ministro Maria Stella Gelmini ha proposto una “task force”, idea sostenuta anche dal Moige, il Movimento italiano genitori. Ma al di là delle diverse iniziative (e rispettive scuole di pensiero) i numeri parlano chiaro, almeno nel nostro paese: secondo i dati Istat, su un campione di 2.312 studenti delle scuole superiori, «il 12% dei ragazzi intervistati afferma di pensare al suicidio e il 10% di essersi fatto intenzionalmente del male o aver tentato il suicidio». In 20 anni il tasso di suicidi giovanili in Italia è aumentato del 13%, con un’impennata significativa nella fascia d’età tra i 15 e i 19 anni. Dati inquietanti, che lasciano trapelare un quadro sullo stato psicologico dei giovani che definire problematico potrebbe apparire un eufemismo, ma su cui bisogna riflettere per affrontare la questione dal punto di vista più efficace. E forse lo spunto migliore può offrircelo Andrew Kehoe, che ha dichiarato: «Criminali si diventa, non si nasce». Chi è Andrew Kehoe? Un uomo impegnato nelle attività scolastiche in un istituto del Michigan che, un giorno di maggio, entrò alla Bath School e uccise 45 persone. Il massacro più grave nella storia degli Stati Uniti. Era il 1927.

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Il giro del mondo: accesso vigilato Intervista allo storico Alessandro Portelli di Michela Monferrini

Alessandro Portelli è docente di Letteratura angloamericana presso la Facoltà di Scienze umanistiche dell’Università La Sapienza. Collabora con Il Manifesto dal 1972 e ha scritto anche per Liberazione e l’Unità. Si è occupato di musica popolare e memoria storica orale di Roma e del Lazio. Ha fondato il Circolo Bosio e la Casa della Memoria. Con un saggio sull’eccidio delle Fosse Ardeatine ha ottenuto nel 1999 il Premio Viareggio.

Prof. Portelli, mentre si celebra il ventennale della caduta del Muro di Berlino, non le pare che si parli troppo poco del fatto che ancora oggi, in diversi paesi del mondo, si costruiscano muri per dividere le popolazioni? Non è un procedimento contraddittorio in un’epoca caratterizzata dalla globalizzazione? Sempre di più assistiamo a una contraddizione tra una globalizzazione dell’economia e dei capitali e l’arroccarsi delle identità più spaventate da questo processo. Vivia-

«A me non risulta che in un ipotetico aldilà ci sarà un recinto per i cattolici, uno per gli ebrei e così via: si dovrà per forza andare d’accordo e allora, perché non cominciare subito da qui?» mo in un’epoca particolare per cui l’unica cosa che non si può muovere sulla superficie del pianeta sono proprio gli esseri umani: tutto il resto gira velocemente e se soltanto qualcuno provasse a impedire alle merci di circola-

re, verrebbe subito sanzionato dal Fondo monetario internazionale. Al di là delle diverse circostanze che oggi portano alla costruzione di nuovi muri – per cui la situazione palestinese, ad esempio, è diversa dalla situazione in cui sono coinvolti Stati Uniti e Messico – a me colpisce il fatto che tutti i muri di recente costruzione sono muri che stanno tra terzo e primo mondo, muri grazie ai quali il mondo ricco si chiude, spaventato da ciò che si muove nelle sue vicinanze e che è altro da sé. Muri di difesa, quindi... Sì, con qualche differenza. Avete nominato il Muro di Berlino, ma effettivamente, in quel caso, il muro serviva ad impedire l’uscita – l’esodo – a chi abitava nella zona della Germania Est, mentre i muri più recenti servono ad impedire l’entrata in un determinato territorio. Questo è vero anche per quanto riguarda i numerosi muri invisibili di oggi, perché quando noi decidiamo di respingere i migranti, stiamo facendo da gendarme non solo per l’Italia, ma per l’Europa intera: edifichiamo un invisibile muro in mezzo al Mediterraneo, un muro che per le persone allontanate si materializza, subito dopo, nei campi di reclusione della Libia, per esempio, e cioè in muri reali, fisici, in reticolati,

In basso e nella pagina a fianco: a Belfast i muri sono comparsi nei primi anni Settanta, all’apice dei troubles, la fase più acuta degli scontri fra le fazioni cattolica e protestante. Nonostante ormai i varchi siano tutti aperti i muri, chiamati eufemisticamente peace lines, restano e sono visti come indispensabili dalla popolazione


in celle, in muri che a noi restano invisibili – e quindi non ci toccano – non perché non esistano, ma perché sono lontani, altrove e quasi nessuno ce li racconta. Il problema che noi oggi dobbiamo affrontare e risolvere è proprio questo: non esistono popolazioni che possano restare confinate per decisione di altri popoli. Bisogna comprendere che lo spostamento, per le persone, per le popolazioni, è legittimo, è un diritto. La lotta di classe attuale nasce dal bisogno di condivisione che i poveri provano verso tutto ciò che i ricchi possiedono e questo genera l’emigrazione, che viene così a rappresentare la forma più radicale della lotta di classe. Contemporaneamente, il muro diventa una delle forme forti di difesa dall’immigrazione. Esistono però anche “muri estremi”, come il Sunken Wall, il Muro interrato che nel cimitero di Belfast separa le anime protestanti da quelle cattoliche e da quelle ebraiche... Il muro di Belfast fa storia a sé perché lì è addirittura strumento di guerra civile. Quanto al muro interrato, come diceva la mia amica Annie Napier, moglie di un minatore del Kentucky, a me non risulta che in un ipotetico aldilà ci sarà un recinto per i cattolici, uno per gli ebrei e così via: si dovrà per forza andare d’accordo e allora, perché non cominciare da qui, da subito? Un giovane scrittore americano, Nathan Englander, ha pubblicato un bellissimo romanzo (Il ministero dei casi speciali, Mondadori, 2007, NdR) sul caso dei desaparecidos argentini, nel cui incipit viene descritto proprio un cimitero in cui le tombe degli ebrei perbene sono separate da quelle degli ebrei “poco rispettabili” in vita.

Il muro tuttavia ha anche una tradizione come forma d’arte e di memoria... Mi viene in mente che, mentre tra Israele e Palestina c’è semplicemente un triste, evidente muro, quello tra Messico e Stati Uniti è stato dipinto, dall’inizio, con colori accattivanti o pastello, in modo tale che non sembrasse una presenza ostile: questa è la “violenza soffice” che caratterizza gran parte della nostra epoca. Quanto al muro come forma artistica o base per l’opera d’arte, basti pensare al fenomeno del graffitismo. La mia impressione è che si tratti al settantacinque per cento di sporcare muri, ma che comunque sia arte per il restante

«Viviamo in un’epoca particolare per cui l’unica cosa che non si può muovere sono proprio gli esseri umani: tutto il resto gira velocemente e se qualcuno provasse a impedire alle merci di circolare verrebbe sanzionato dal Fondo monetario internazionale» venticinque per cento. In questo senso, il muro è la superficie di più antica tradizione: come un quaderno chiama scrittura, un muro ha da sempre chiamato pittura e proprio in questo periodo, alle Scuderie del Quirinale, è allestita una mostra sulla pittura romana, che è comprensibilmente una pittura murale. Io ho avuto modo di parlare con alcuni graffitisti e loro – e questa è la grande differenza rispetto a chi non è interessato a fare arte – dicono: «Ci mettano a disposizione dei muri, altrimenti siamo obbligati a farlo di nascosto».

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sato sia come posMa poi dicono sibilità espressiva che l’adrenalina che come barriera che ti dà il fatto difensiva e blocco di farlo di nascoal movimento alsto è incomparatrui. La differenza bile. Questo per fondamentale, se dire che oggi c’è pensiamo a questi una dimensione muri in un contetrasgressiva rispetto al passato sto ambientale, è (anche perché è che i primi fiancambiato il regicheggiano lo spame di proprietà zio, gli altri lo dei muri), ma per spezzano. il resto, si tratta Lei si è occupato della stessa esimolto di musica. genza dell’uomo Crede davvero di raccontarsi. che, come sempre Un’esigenza che Anche sul muro palestinese compaiono i primi graffiti e da sempre viene però non deve andetto, la musica dare a giustificare quello che è il teppismo: penso alle riesca ad abbattere i muri tra le popolazioni? scritte dei tifosi di squadre diverse o di schieramenti poliAd abbatterli no, ma occorre dire che musica bianca e musica nera già si parlavano, quando in realtà bianchi e neri vivetici opposti, sui muri dei palazzi, in città, ovunque. Quelvano i loro contrasti più violenti. Esistono vari esempi di casi in cui la musica avvicina chi è diviso per confini geografici o «E poi ci sono i muri invisibili, perché per motivi politici, storici o razziali: la Western/Eastern Diquando noi decidiamo di respingere i van Orchestra, per esempio, formata da giovani palestinesi e israeliani; il genere musicale Tex-Mex, così chiamato perché migranti, stiamo facendo da gendarme creato dagli scambi musicali e culturali tra Texas e Messico; non solo per l’Italia, ma per l’Europa il genere del corrido, musica epico-lirica e narrativa, presenintera: edifichiamo un invisibile muro te sia nel nord del Messico che nel sud del Texas e dell’Ariin mezzo al Mediterraneo» zona. Simili contaminazioni sono state possibili grazie all’immaterialità della musica e al fatto che essa può girare, essere veicolata dalle singole persone che si spostano. lo non è un dialogo con qualcun altro, bensì una reciproca Attualmente, sto lavorando in una direzione simile: sto cercancancellazione che non tiene conto del fatto che anche aldo di capire con quale tipo di patrimonio musicale possano vil’interno delle trasgressioni esistono regole che è bene vere gli immigrati. Non credo che la musica basti ad abbattere i continuare a rispettare. muri, ma credo che sia una delle forme migliori di dialogo. Quindi si può dire che ancora oggi il muro può essere pen-

«(...) Avevano raggiunto un accordo. Nella parte posteriore del cimitero avrebbero costruito un muro collegato a quello di cinta, creando così un secondo cimitero che in realtà sarebbe stato parte del primo, tecnicamente ma non halachicamente, e cioè nel modo in cui gli ebrei risolvono ogni problema. Il muro di cinta era alto due metri, una barriera modesta ma sufficiente a delimitare uno spazio sacro. La fondazione di un cimitero ebraico in una città ossessionata dai propri morti dimostrava che la loro integrazione nella società aveva raggiunto livelli insperati. Le Congregazioni Unite, progettando quel muro avevano voluto dimostrarsi fiduciose. Ma chi ti accetta oggi non necessariamente ti darà il benvenuto anche domani; e gli ebrei di Buenos Aires non avevano potuto fare a meno di prepararsi per i tempi bui. Così, sopra il modesto muro, avevano aggiunto un’inferriata alta due metri [...]. Kaddish, ripensando alle parole di Lila, aveva girato intorno al cimitero fino al settore delle Congregazioni Unite. Aveva varcato il cancello sempre aperto e attraversato il terreno ben curato, e quando aveva raggiunto il muro divisorio si era tirato su, arrampicandosi fino in cima e graffiandosi le scarpe contro i mattoni. Appollaiato là in alto, mentre osservava il settore dell’Impulso Generoso, Kaddish si era chiesto se fosse mai stato costruito un muro impossibile da scavalcare. Quello lì non era particolarmente impegnativo. Non serviva a fermare i vivi, ma a separare i morti». Da Nathan Englander, Il ministero dei casi speciali, Milano, Mondatori, 2007.


Si può essere qualcuno semplicemente pensando.

L’arte è estremamente vergine.

Grazie per questa parentesi morta, per questo incunabolo puro, per questo zefiro di oleandro!

A volte i morti sono una storia cupa, a volte si scoprono dopo, quando scostando tendine di spazio si trovano innumerevoli e sorti, ed è sgradevole dire a un passante “costui non è più sulla terra perché era ebbro di baci”.

Sono nata il ventuno a primavera Ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta. Così Proserpina lieve vede piovere sulle erbe, sui grossi frumenti gentili e piange sempre la sera. Forse è la sua preghiera.

Ero un uccello dal bianco ventre gentile, qualcuno mi ha tagliato la gola per riderci sopra, non so. Io ero un albatro grande e volteggiavo sui mari. Qualcuno ha fermato il mio viaggio, senza nessuna carità di suono. Ma anche distesa per terra io canto ora per te le mie canzoni d’amore.

Lascio a te queste impronte sulla terra tenere dolci, che si possa dire: qui è passata una gemma o una tempesta, una donna che avida di dire disse cose notturne e delicate, una donna che non fu mai amata. Qui passò forse una furiosa bestia avida di sete che dette tempesta alla terra, o ogni clima, al firmamento, ma qui passò soltanto il mio tormento.

Ci sono giorni che non si staccano dalle pareti.

Spesso il corpo parla con lo spirito in una lingua trascendente che vuole il silenzio assoluto.

Addestra la parola, c’è una donna che è sola appesa a un ricordo… Ma stempiato di nebbia e arso di parole tu ti distendi al sole, immemore da sempre.

La tenebra è una grande domanda di luce.

Veleggio come un’ombra nel sonno del giorno e senza sapere mi riconosco come tanti schierata su un altare per essere mangiata da chissà chi. Io penso che l’inferno sia illuminato di queste stesse strane lampadine. Vogliono cibarsi della mia pena perché la loro forse non s’addormenta mai.

Io come voi sono stata sorpresa mentre rubavo la vita, buttata fuori dal mio desiderio d’amore. Io come voi non sono stata ascoltata e ho visto le sbarre del silenzio crescermi intorno e strapparmi i capelli. Io come voi ho pianto, ho riso ho sperato. Io come voi mi sono sentita togliere i vestiti di dosso e quando mi hanno dato in mano la mia vergogna ho mangiato vergogna ogni giorno. Io come voi ho soccorso il nemico, ho avuto fede nei poveri panni e ho domandato che cosa sia il Signore, poi all’idea della sua esistenza ho tratto forza per sentire il martirio volarmi intorno come colomba viva. Io come voi ho consumato l’amore da sola lontana persino dal Cristo risorto. Ma io come voi sono tornata alla scienza del dolore dell’uomo, che è la scienza mia.

Sono molto irrequieta quando mi legano allo spazio.

Apro la sigaretta come fosse una foglia di tabacco e aspiro avidamente l’assenza della tua vita. È così bello sentirti fuori, desideroso di vedermi e non mai ascoltato. Sono crudele, lo so, ma il gergo dei poeti è questo: un lungo silenzio acceso dopo un lunghissimo bacio.


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03.32 Reportage dall’Aquila. Un racconto del terremoto in presa diretta

reportage

di Emanuela Cecilia La sera del 5 aprile nel mio appartamento al settimo piano all’Aquila sembrava una sera come tante, ormai le scosse erano diventate per noi la normalità, una presenza costante. Alle 22.40 c’era stata una scossa abbastanza forte, che a differenza di quelle delle settimane precedenti Emanuela Cecilia era stata solo un po’ più lunga. Un’oretta dopo ancora un’altra, ma negli ultimi mesi se ne erano sentite talmente tante che nessuno poteva immaginare quello che da lì a poche ore sarebbe successo. Quelle due scosse tuttavia hanno salvato tante persone che spaventate hanno lasciato le proprie abitazioni, purtroppo non tutti. Io ho pensato di

jour, ma inutilmente, la luce era andata via. A tastoni e con l’aiuto della luce del cellulare sono riuscita a infilarmi un paio di scarpe, una giacca e intanto sentivo oggetti che cadevano dappertutto, non riuscivo a stare in piedi, ho avuto la sensazione che il palazzo stesse crollando e l’unica cosa di cui ero sicura era che dovevo fuggire al più presto, do«L’Aquila ore 3.32. Sono stata vevo riuscire a scendere di sotto. In pochi istanti, i più lunletteralmente buttata giù dal letto, ghi della mia vita, sono arrivata alla porta d’ingresso, ho non so esattamente cosa sia stato a aspettato che finisse la scossa e ho iniziato a scendere le scale, che per fortuna c’erano ancora. Scendendo sentivo svegliarmi, se il boato proveniente grida disperate di donne, bambini, giovani, anziani che dalla terra, le urla disperate della mia correvano per le scale. Ad ogni pianerottolo si aprivano coinquilina o il letto che “ballava” davanti ai miei occhi crepe sui muri. ininterrottamente» Quando finalmente sono arrivata in cortile pensavo di essere la più sfortunata, cercavo di chiamare i vigili del fuoco per uscire, di andare a dormire in macchina, ma poi mi sono avvisarli che nel mio palazzo c’erano delle crepe, non mi sodetta che non sarebbe servito a niente, se non a beccarmi no resa conto subito di quello che era successo. L’ho capito un bel raffreddore. E così mi sono messa a dormire. solo più tardi, quando sono iniziati ad arrivare i soccorsi e le Alle 3.32 sono stata letteralmente buttata giù dal letto, non unità cinofile, quanto, al contrario, ero stata fortunata… Nelso esattamente col’immediata perisa sia stato a sveferia parecchie cagliarmi, se il boato se erano dannegproveniente dalla giate, ma a parte terra, le urla dispepareti crollate e rate della mia coqualche grossa inquilina o il letto crepa non si vedeche “ballava” ininva altro. terrottamente. Nel frattempo si Quando ho iniziainiziavano ad aveto a capire quello re le prime notizie che stava succesu tutto quello che dendo la scossa era crollato, sulnon era ancora fil’epicentro, l’innita, ma sembrava tensità del sisma, già passata un’ema sembrava un ternità. Ho cercato film, non poteva disperatamente di Il palazzo della prefettura all’Aquila. Insieme alla Casa dello studente è diventato uno dei essere vero. La accendere l’abat- simboli del sisma in Abruzzo città era in tilt,


Vigili del Fuoco, volontari, persone qualunque che si aiutavano, quasi tutti ancora in pigiama, qualcuno scalzo. Quello che è successo nel centro storico l’ho visto solo in televisione, non mi sono trovata di fronte a scene drammatiche, a dover tirare fuori persone dalle macerie, ad assistere alle tante tragedie che ci sono state, ma comunque il terremoto ha lasciato un’impronta indelebile dentro di me. È stato il momento della mia vita in cui ho avuto più paura, paura di morire. E mi sono sentita impotente, non potevo fare nulla per cambiare le cose. Per settimane non ho dormito, ero

«La città era in tilt, sembrava impazzita, chi era riuscito a uscire dalle case era in strada mentre altre piccole scosse continuavano a farsi sentire»

Le macerie della casa dello studente all’Aquila dove hanno perso la vita 8 studenti. In questo filone di indagini sono complessivamente 15 le persone indagate per omicidio colposo, disastro colposo e lesioni colpose

sembrava impazzita, chi era riuscito a uscire dalle case era in strada, i benzinai erano fuori servizio e tante altre piccole scosse continuavano a farsi sentire. Poco prima dell’alba sono andata via dall’Aquila e ho passato la mattinata attaccata alla tv a seguire i vari servizi su quanto accaduto, tutto sembrava irreale. Continuamente davano aggiornamenti sul numero delle vittime, che non smetteva di salire, e sulle persone che venivano estratte vive dalle macerie. Alcune zone erano irriconoscibili in tv, altre facevo fatica ad identificarle. Quando nel pomeriggio sono tornata all’Aquila per andare a vedere la situazione di casa mia, non era più la città dove avevo trascorso gli ultimi sei anni: ho trovato una città distrutta, dilaniata da un terremoto fortissimo, sembrava di essere in una zona di guerra, come se fosse stata bombardata. Ovunque mi girassi c’erano ambulanze, forze dell’ordine,

Sopra e a fianco: dipinti e foto private si affacciano fra le macerie

sempre nervosa, saltavo in aria al minimo rumore, e ancora adesso quando passa un treno, o sento qualche rumore particolare mi spavento, finché non capisco cosa è stato, allora mi tranquillizzo. Ormai sono passati oltre sette mesi da quella notte, ma quando mi fermo a pensarci mi accorgo di quanto sia ancora tutto vivo in me. Tante volte mi era capitato di vedere in televisione scene di terremoti, ma non avevo la minima idea di cosa fosse realmente, di quanto possa segnare le persone e della forza distruttiva contro la quale non puoi fare niente. Non lo puoi prevedere, se sei fortunato puoi solo scappare. Oggi, in attesa che vengano fatti i lavori di ristrutturazione nel mio palazzo, spesso mi capita di andare all’Aquila, i primi tempi provavo solo angoscia e stavo male, ultimamente invece è diverso. Ogni volta trovo una cosa nuova, un nuovo cantiere, ora una scuola, ora qualche casa, locali che riaprono, negozi e ho la sensazione che stia veramente ripartendo. E questo grazie alle migliaia di persone che hanno lavorato giorno e notte e che continuano a farlo per aiutare questa città a “tornare a volare”. E io nel mio piccolo sono sicura che tornerà a farlo! E inizio anche ad aver voglia di tornarci, non sarà facile perché la paura che possa succedere di nuovo è tanta, ma bisogna guardare avanti. Per la ricostruzione ci vorranno sicuramente anni, una città non si ricostruisce in pochi mesi, ma se i riflettori su questa tragedia che ha colpito l’Abruzzo non verranno spenti sono sicura che ci sarà una nuova L’Aquila, e chi lo sa, magari anche più bella di prima.

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Il territorio italiano e il rischio tsunami di Giorgio Bellotti, Claudia Cecioni, Leopoldo Franco e Francesca Montagna

Giorgio Bellotti, Claudia Cecioni, Francesca Montagna e Leopoldo Franco

Con la parola tsunami, dal giapponese onda di porto (in italiano anche maremoto), si intende una serie di poche onde con un alto contenuto energetico, capaci di creare ingenti danni alle zone costiere, come per gli eventi che hanno coinvolto l’Oceano Indiano nel dicembre 2004. Si tratta di onde lunghe centinaia di chilometri con celerità dell’ordine delle centinaia di km/ora aventi piccola altezza in acque profonde, che può però amplificarsi sino a raggiungere alcuni metri in prossimità della costa per effetto dei fenomeni di rifrazione e shoaling. Diversi sono i fenomeni fisici che possono generare uno tsunami: terremoti, eruzioni vulcaniche, frane, impatti meteoritici. È possibile che uno tsunami si verifichi in Italia? Purtroppo sì! Nel corso della storia sono stati accertati e catalogati un centinaio di tsunami che hanno interessato le coste italiane, la maggior parte dei quali causati da frane aeree o sommerse e concentrati nel Mar Ligure e nel Tirreno meridionale. Il primo caso di maremoto registrato sulle coste italiane fu quello che colpì il golfo di Napoli in seguito alla catastrofica eruzione del Vesuvio nel 79 a.c. e che fra gli altri uccise Plinio il Vecchio. In epoca abbastanza recente varie fonti riferiscono di uno tsunami a seguito del terremoto della Val di Noto del 1693, quando una gigantesca ondata deva-

stò le coste orientali della Sicilia dopo che il mare si era ritirato per centinaia di metri (in questo caso l’epicentro del sisma si ritiene fosse situato sotto il fondo del mare, una trentina di chilometri al largo di Augusta). Nel 1908 il terremoto di Messina fu accompagnato da frane sottomarine che generarono uno tsunami che provocò molte più vittime del terremoto stesso (circa centomila). Più recentemente, il 30 dicembre del 2002, sulle coste dell’isola di Stromboli si è verificato un evento di maremoto. L’isola è la parte sommitale di un cono vulcanico ancora attivo e talvolta, ad alcune eruzioni più violente, sono associate cadute di frane sul versante nord, molto ripido, denominato Sciara del Fuoco (pagina a fianco, in alto). Nell’evento del 2002, due frane generarono il maremoto: una prima frana sommersa di volume stimato attorno ai 20x106 m3 ed una seconda frana aerea distaccatasi circa 500 m sopra il livello del mare e con un volume dell’ordine di 106 m3. Le onde di maremoto si irradiarono nel tratto di mare circostante inondando la costa dell’isola con altezze di risalita fino a 10 m e provocando ingenti danni alle strutture. Fortunatamente, data la bassa stagione turistica, non si verificarono perdite di vite umane. L’ultimo distacco di un corpo franoso è stato registrato nel febbraio 2007: in questo caso l’onda generata non ha provocato danni nelle coste vicine. Nella pagina a fianco, in basso è rappresentato un possibile scenario indicativo di tsunami generato nell’isola di Stromboli. Le linee blu indicano la propagazione dei fronti d’onda. Prendendo spunto da questi eventi è nato uno studio interuniversitario che vede coinvolte, oltre all’Università Roma Tre, l’Università dell’Aquila, il Politecnico di Bari, l’Università di Roma Tor Vergata e, più recentemente, l’Università di Firenze. Lo scopo delle ricerche congiunte è quello di valutare il rischio legato a possibili tsunami generati intorno all’isola di Stromboli e di sviluppare un moderno sistema di allerta per mi-

Meccanismi di generazione di onde di tsunami: terremoti sottomarini (a sinistra) e frane (a destra) (www.ngdir.ir)


tigare gli effetti devastanti degli tsunami. Le ricerche sono state giudicate di rilevante interesse nazionale dal MIUR, che ha finanziato ben due progetti PRIN, rispettivamente per gli anni 2005 e 2007. La modellazione fisica e numerica sono gli strumenti utilizzati per studiare la fisica del fenomeno e stimare possibili scenari di maremoto a largo di Stromboli. Presso il laboratorio idraulico LIC del Politecnico di Bari sono stati condotti alcuni esperimenti, che riproducono in scala 1:1000 e in modo semplificato un evento franoso su un’isola conica con pendenza 1:3 di geometria e profondità assimilabili all’isola di Stromboli (a pagina seguente, in alto). Il gruppo di ricerca dell’Università Roma Tre, si occupa principalmente di simulare, mediante modellazione numerica, la generazione, la pro- Sciara del Fuoco, Stromboli pagazione e l’interazione con la costa di onde di tsunami generate da frane. In particolare, ristiche delle frane e quindi per la realizzazione di carte nell’ambito dei progetti di ricerca sopracitati, sono stadi rischio. Il limite di questo codice è l’elevato costo ti sviluppati ed applicati due codici numerici. Uno è computazionale: si pensi che una simulazione tipo vietridimensionale e permette un’analisi di grande dettane normalmente effettuata impiegando griglie di calcoglio delle fasi di generazione dell’onda e di inondaziolo composte da circa dieci milioni di nodi. ne delle coste. L’altro è un modello 2D che si basa su Il secondo modello è stato studiato per essere appliequazioni integrate sulla verticale, che risulta essere cato nei sistemi di allerta tsunami in tempo reale, nei più adatto per simulare la propagazione delle onde su quali è fondamentale la rapidità di esecuzione, oltre grandi aree geografiche con elevati fondali, dati i ridotovviamente all’accuratezza dei risultati. Un aspetto ti costi computazionali. molto interessante del modello è la sua capacità di efIl modello 3D utilizzato è un codice commerciale di fettuare previsioni di livelli di inondazione della costa fluidodinamica, denominato FLOW-3D, che ha pera partire da misure di tsunami condotte in tempo reamesso di riprodurre prima gli esperimenti realizzati le. Esso è in grado inoltre di fornire stime sul livello presso il LIC, e poi altri casi di frane aeree e sommerse. di inondazione durante la fase di misura delle onde, I risultati finora ottenuti evidenziano come questo codicorreggendo le previsioni mano a mano che lo tsunace possa essere utilizzato per l’individuazione delle mi viene misurato e fornendo così informazioni di aree soggette ad inondazione in funzione delle carattemaggior dettaglio sulla sua gravità. A titolo di esempio a pagina seguente, in basso, si mostrano alcuni risultati numerici ottenuti con i due codici descritti. La prova mira a riprodurre uno degli esperimenti condotto nella vasca del LIC, per il quale sono disponibili registrazioni del moto ondoso che è possibile usare come termine di paragone. Nello specifico in figura si riporta il confronto fra l’elevazione della superficie libera misurata da alcuPropagazione di onda di tsunami generata a Stromboli

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Modello fisico in vasca di una frana aerea su un’isola conica (corpo rosso ellissoidico su scivolo). Laboratorio LIC, Politecnico di Bari

Sopra: schema dell'isola e delle sonde di misura. Sotto: confronto fra i dati sperimentali (linea rossa) e i risultati dei due modelli numerici, FLOW-3D (linea nera continua) e il modello integrato sulla verticale (linea nera tratteggiata)

ne sonde poste nella vasca a diverse distanze dal punto d’impatto della frana (v. schema) e i risultati ottenuti con i due modelli numerici nei punti corrispondenti. I risultati del modello 2D appaiono soddisfacenti solo nelle sonde poste sui fondali più profondi. Per quanto riguarda il sistema di previsione e allerta di eventi di tsunami, similmente a quanto accade per i terremoti, non è ancora possibile anticiparne l’occorrenza. Peraltro, mediante un’idonea rete di strumenti di misura sia delle possibili sorgenti tsunamigeniche (terremoti, frane), sia delle onde stesse, è possibile allertare la popolazione prima che si verifichi l’inondazione della costa. L’efficacia del sistema è tanto maggiore quanto più grande è l’anticipo con il quale è possibile diffondere l’allarme. Ad esempio per grandi superfici marine come l’Oceano Pacifico, ove i tempi di percorrenza del maremoto dall’area di generazione alle coste sono dell’ordine delle ore, questi sistemi possono salvare tantissime vite umane. Negli Stati Uniti è in funzione un sistema di monitoraggio tsunami, denominato DART (Deep-ocean Assessment and Reporting of Tsunami) composto da una serie di strumenti oceanografici strategicamente posizionati; questi forniscono via satellite in tempo reale le informazioni a centri specializzati, che gestiscono la divulgazione degli allarmi tsunami. Nel Mar Mediterraneo purtroppo le distanze tra le aree nelle quali possono generarsi tsunami e le coste abitate sono estremamente ridotte, con tempi di percorrenza generalmente inferiori all’ora (come si evince dall’immagine a pagina 49, in basso). Realizzare un sistema di allerta capace di diffondere allarmi in tempo utile alla popolazione rappresenta, in queste condizioni, una grande sfida scientifica e tecnologica. I mezzi dei quali è necessario avvalersi sono estremamente sofisticati e richiedono la collaborazione di tecnici e scienziati dalle competenze più diverse, da cui il carattere di forte interdisciplinarietà delle ricerche in atto. In quest’ottica lo studio che si sta conducendo nell’ambito del PRIN 2007, si pone l’obiettivo di affinare le conoscenze relative alla fisica dei fenomeni coinvolti e di realizzare strumenti utili allo sviluppo di un sistema d’allarme tsunami per l’isola di Stromboli.


A come alfabeto Il Museo storico della didattica Mauro Laeng

La conoscenza della storia della realtà educativa e dello sviluppo delle istituzioni scolastiche rappresenta una premessa indispensabile per comprendere le contraddizioni e le potenzialità del presente. Per chi opera all’interno di una istituzione destinata alla formazione e alla riCarmela Covato cerca, qual è quella universitaria, questa esigenza conoscitiva rappresenta una ineludibile esigenza. I luoghi di conservazione della memoria educativa costituiscono, da questo punto di vista, un patrimonio prezioso. Com’è noto, presso il nostro Ateneo, ha sede il Museo storico della didattica “Mauro Laeng”, la più antica realtà museale italiana relativa alla storia della scuola e alla storia sociale dell’educazione. La sua fisionomia attuale, arricchitasi nel tempo di numerose e significative acquisizioni documentarie che hanno determinato ampliamenti apprezzabili del patrimonio originario, è finalizzata proprio alla salvaguardia e alla conservazione delle fonti relative alla storia della scuola e dell’educazione. Allo tesso tempo, il Museo rappresenta una occasione di studio e di ricerca destinata al mondo della scuola, agli studenti e ai docenti dell’Ateneo e soprattutto agli studiosi impegnati nella ricerca storica ed educativa. Il suo patrimonio è costituito da tre filoni principali: una consistente parte libraria, un settore archivistico e, infine, una sezione oggettistica e iconografica. Il Museo ha una storia davvero molto prestigiosa. Al momento della sua istituzione, voluta da Ruggero Bonghi nel 1874 nella Roma divenuta da poco capitale del nuovo Regno, il Museo ebbe la denominazione di Museo d’istruzione e di educazione fino al suo primo declino verificatosi nel 1881 e fu diretto da Antonio Labriola, autorevole docente di Filosofia morale e Pedagogia della Facoltà di Filosofia e Lettere dell’Università di Roma. Egli diede al Museo un’impronta di grande rilievo scientifico e, al tempo stesso, ne potenziò la fisionomia pedagogica finalizzata, in particolare, alla crescita culturale degli insegnanti della scuola del nuovo Regno. Nei pri-

mi anni del Novecento poi, il Museo venne ricostituito a opera di Luigi Credaro e chiamato Museo pedagogico. La denominazione di Museo pedagogico rimase immutata anche negli anni della direzione di Giuseppe Lombardo Radice che tra, il 1936 e il 1938, volle riorganizzarlo. Il Museo venne allora affiancato all’Istituto di Pedagogia della Facoltà del Magistero. A causa di difficoltà logistiche e organizzative e soprattutto per le conseguenze degli eventi bellici, il Museo fu destinato a un ulteriore “oscuramento”. Molto più tardi, nel 1986, si giungerà all’attuale denominazione di Museo storico della didattica. Grazie soprattutto all’impegno di Mauro Laeng – alla cui memoria il Museo è stato dedicato – si riuscì infatti a rifondarlo nell’ambito del Dipartimento di Scienze dell’educazione, presso la Facoltà di Magistero, con una delibera del Consiglio di Amministrazione, su parere favorevole del Senato Accademico dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza e dopo un intenso lavoro svolto da colleghi, esperti e collaboratori. Successivamente il Museo ha continuato a operare all’interno dell’Università degli Studi Roma Tre. Negli ultimi anni, il Museo ha potuto svilupparsi notevolmente, grazie anche all’impegno della Facoltà di Scienze della Formazione che ha messo a disposizione significative risorse e ha promosso un importante riordino informatizzato di gran parte del patrimonio museale. Valorizzare le testimonianze documentarie della vita scolastica del passato rappresenta oggi una sfida culturale contro ogni tentazione nostalgica o retoricamente celebrativa della scuola del passato. La documentazione conservata presso il Museo storico della didattica si caratterizza, a differenza di altre istituzioni analoghe, per la sua eterogeneità legata all’identità originaria e al contenuto delle nuove acquisizioni via via realizzate. Il patrimonio del Museo comprende una consistente parte libraria, un ampio settore archivistico e una ricca raccolta oggettistica e iconografica. Il patrimonio archivistico è legato alla presenza di due preziosi archivi, l’archivio Giuseppe Lombardo Radice (o almeno una parte di esso) recentemente riordinato e inventariato per la parte relativa ai carteggi ma non per quella dei lavori didattici (I. Picco, a cura di, Archivio Giuseppe Lombardo Radice. Catalogo, Roma, Armando, 2004) e l’archivio dell’Ente scuole per i contadini dell’agro romano, che raccoglie im-

orientamento

di Carmela Covato

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portanti testimonianze relative all’attività di diffusione dell’alfabetizzazione e di lotta contro la malaria avviata nel primo Novecento da Sibilla Aleramo, Angelo Celli, Giovanni Cena, Duilio Cambellotti e Alessandro Marcucci. La documentazione più specificamente museale comprende un’ampia raccolta di oggetti e di materiali didattici relativi alla scuola italiana a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, fra i quali si segnalano un vasto materiale documentario dell’Ente scuole per i contadini dell’agro romano (documenti, protocolli, schedari, partitari, verbali, due disegni di Duilio Cambellotti; sei grandi tavole di legno di soggetto agricolo dipinte da Duilio Cambellotti per la scuola di Colle di Fuori), materiali e documenti delle prime scuole Montessori, compresi alcuni pezzi originali realizzati su disegno della stessa Montessori per le prime Case dei bambini di San Lorenzo; manoscritti e opere di Luigi Volpicelli; sussidi per l’insegnamento infantile e sussidi per l’insegnamento tecnico; una sezione storica di informatica didattica; suppellettili, oggetti e strumenti a uso didattico antecedenti alla prima guerra mondiale; giocattoli, bambole, burattini e molto altro. Il Museo storico della didattica ha allestito, negli ultimi anni, numerose mostre documentarie in collaborazione con vari enti e istituzioni, dal MIUR al Comune di Roma, dalla Provincia di Roma alla Regione Lazio, delle quali si segnalano le più significative (ciascuna corredata da un catalogo) che hanno avuto i seguenti oggetti tematici: A come alfabeto...Z

Maria Montessori in una classe

come zanzara. Analfabetismo e malaria nella campagna romana, in collaborazione con il Comune di Roma (Palazzo delle Esposizioni, 20 novembre 1998 - 6 gennaio 1999), nell’ambito della mostra è stato organizzato un convegno su Igiene, educazione e arte nell’agro romano; Trucci, trucci cavallucci...L’infanzia a Roma tra Otto e Novecento (Roma, Villa Torlonia, 2-20 ottobre 2002); Dalle case dei bambini nel quartiere San Lorenzo alle scuole rurali nell’agro romano, in occasione del convegno Sviluppi attuali della ricerca sulla pedagogia di Maria Montessori (Aula Magna del Rettorato, Università degli Studi Roma Tre, 22 maggio 2003); A passo di marcia. L’infanzia a Roma tra le due guerre (Museo di Roma in Trastevere, 4 marzo - 25 aprile 2004). L’insieme di queste iniziative intende confermare, da una parte, e ampliare, dall’altra, le finalità individuate al momento della rifondazione del Museo nel 1986. Il Museo, infatti, non si configura più come un luogo in cui attivare una didattica esemplare a livello nazionale, come avvenne a Roma capitale del nuovo regno, ma come occasione per costruire una “casa” della memoria, che richiede nuove acquisizioni e ulteriori sviluppi. Principalmente destinato a studenti, docenti e studiosi interessati a svolgere ricerche nel campo della storia della scuola e dell’educazione, il Museo vuole aprirsi anche a chiunque voglia riflettere sulla quotidianità della vita scolastica che fa parte, in modi diversi, del vissuto e del ricordo di tutti.


Reddito e merito I due parametri fondamentali per le azioni di diritto allo studio di Gianpiero Gamaleri Recentemente si sono profilate iniziative a livello nazionale per valorizzare la qualità degli studi, attraverso il riconoscimento di borse di studio agli studenti meritevoli le cui famiglie non sono in grado di sostenere la spesa per gli studi universitari: non solo le tasse ma anche i Gianpiero Gamaleri costi accessori di vitto e alloggio. Il ministro Gelmini ha annunciato l’incremento di 135 milioni di euro destinati ai giovani capaci e meritevoli privi di mezzi economici e ha promesso 65 milioni di euro per la realizzazione di 1700 posti letto in più in residenze universitarie. Sono sforzi certamente apprezzabili ma che non devono dare l’impressione che si cominci tutto daccapo. L’impegno degli enti regionali per il diritto allo studio Dobbiamo infatti registrare che l’obiettivo di dare la borsa di studio e l’esonero dalle tasse a tutti gli aventi diritto è stato conseguito negli ultimi anni per un rilevante numero di studenti attraverso l’azione degli enti regionali per il diritto allo studio. Riferendoci soltanto alla nostra regione, nell’anno accademico appena concluso, Laziodisu ha infatti distribuito 21.000 borse di studio di un importo medio di 2.510 euro ciascuna: un impegno complessivo per oltre 50 milioni di euro.

Gli uffici dell’Adisu Roma Tre

Gli interventi a favore degli studenti del nostro Ateneo In particolare sono stati 1939 gli studenti di Roma Tre che hanno ottenuto un sostegno economico complessivo di 4.867.000 euro, oltre ad altri minori benefici riservati agli studenti Erasmus. Riguardo le residenze, l’investimento per la loro gestione è stato di 613.000 euro, mentre la spesa per la ristorazione è stata di 837.000 euro, con un incremento sull’anno precedente del 37%, consentendo di assicurare 86.000 pasti nelle mense e locali convenzionati. Altre iniziative sono destinate agli studenti diversamente abili (specie per la maggiore diffusione del linguaggio dei segni e il potenziamento dei mezzi di trasporto), alla promozione di attività culturali, alla mobilità internazionale e all’orientamento al lavoro. Abbiamo riassunto il quadro di questi interventi per mettere in luce il fatto che la valorizzazione delle “eccellenze” ossia degli studenti migliori non deve nascondere le iniziative già in atto da anni e più recentemente potenziate, in attuazione di una precisa norma costituzionale (l’art. 34 della Costituzione), che dispone: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”. Tener conto del reddito ma anche del merito È chiaro che l’attenzione dell’Ente regionale per il diritto allo studio deve essere particolarmente orientata verso quegli studenti che, senza l’intervento pubblico, non potrebbero proseguire gli studi a livello universitario. Ma se si guarda all’insieme delle attività, non può sfuggire il fatto che anche il merito viene tenuto nel dovuto conto sia nelle conferme delle borse di studio dopo il primo anno di università, sia attraverso un ricco tessuto di attività strettamente collegate agli indirizzi e alle iniziative di Ateneo volte a valorizzare gli studenti migliori, come nel caso del premio Galluzzi per laureati eccellenti in Ingegneria e Fisica, realizzato d’intesa con i presidi delle rispettive Facoltà.

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Università e mondo del lavoro Il progetto di Roma Tre in collaborazione con Laziodisu di David Meghnagi Roma Tre è un Ateneo giovane che ha laureato decine di migliaia di studenti nelle più diverse discipline. Molti dei nostri laureati si sono positivamente inseriti nel mondo del lavoro e svolgono importanti ruoli culturali e sociali. Ci siamo proposti di andarli a cercare nella convinzione che la loro esperienza possa esseDavid Meghnagi re di grande aiuto per i nostri studenti che si apprestano ad entrare nel mondo del lavoro. Il primo passo è la ricognizione dei nostri laureati per aree e settori. A questa prima fase seguiranno degli incontri con interviste mirate che saranno svolte da un gruppo di studenti di Roma Tre coinvolti nel progetto. Le interviste avranno lo scopo di mettere a fuoco le difficoltà incontra-

te, le modalità con cui i nostri laureati si sono inseriti nel mondo del lavoro e le possibilità lavorative esistenti oggi. Un terzo momento sarà l’organizzazione di un convegno da tenersi nei mesi di marzo o aprile del prossimo anno accademico in cui saranno discussi i materiali raccolti e i risultati del lavoro svolto. All’iniziativa hanno aderito diversi docenti di Roma Tre tra cui Francesca Brezzi, Roberto Cipriani, Marina D’Amato, Gianpiero Gamaleri, Giacomo Marramao, Francesco Mattei, Antonella Palumbo. Nel corso del convegno sarà inoltre presentato un progetto per l’istituzione di un sito interattivo tra studenti, laureati e docenti a sostegno dell’attività di stage e di inserimento nel mondo lavorativo. Per quanti fossero interessati a saperne di più e per contribuire al progetto è possibile scrivere a: meghnagi@uniroma3.it.


Vivere e studiare a Mosca Tre studentesse di Roma Tre raccontano la loro esperienza di Elena Mari Da dieci anni l’accordo di collaborazione internazionale stipulato tra la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Roma Tre e la Facoltà di Filologia dell’Università Statale Lomonosov di Mosca (MGU) – la più grande e gloriosa università della Federazione russa – consente ai migliori studenti dei corsi di lingua russa di studiare per tre mesi a Mosca. Io e altre due mie compagne di corso, Barbara Biasizzo e Valentina Verardo, abbiamo avuto la fortuna di ottenere questa borsa di studio ed effettuare un soggiorno di studio nella capitale russa da settembre a dicembre 2008.

La sede dell’Università statale Lomonosov di Mosca (MGU)

Accolte all’aeroporto da una studentessa russa italianista, siamo state sistemate nello studentato, ubicato all’interno dell’edificio principale dell’Università MGU, uno dei simboli della Mosca sovietica. È un gigantesco, impressionante complesso con corpo centrale di 32 piani e due corpi laterali di 17 piani, inaugurato nel 1953: una vera e propria città universitaria con biblioteche e sale di lettura, aule per conferenze, librerie, mense, ufficio postale, negozi, lavanderia, parrucchiere, calzoleria, svaghi culturali e sportivi per studenti russi e stranieri. Ogni studente ha a disposizione una camera singola in un mini

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appartamento di due stanze e divide il bagno con il proprio vicino. Adeguarci alla nostra “nuova casa” non è stato difficile, anche se abbiamo dovuto affrontare piccoli inconvenienti che non ci hanno impedito di vivere con entusiasmo e spirito d’avventura la nostra vita di studentesse in un contesto multiculturale per noi davvero inedito e singolarmente stimolante. Dopo il test iniziale di verifica della nostra competenza comunicativa, abbiamo seguito i corsi di lingua e cultura russa che si svolgevano dalla mattina al primo pomeriggio per quattro giorni alla settimana. La tessera studentesca ci ha consentito di visitare le cosiddette “case-museo” di alcuni grandi scrittori russi: Tolstoj, Pus˘ kin, Cù echov, Bulgakov. Abbiamo visitato la Galleria Tretjakov che raccoglie ed espone la più vasta collezione di arte russa del mondo; il Museo di Belle Arti Pus˘ kin, che ospita un’eccellente collezione di artisti francesi impressionisti e postimpressionisti e ancora il Museo storico di Mosca. Il teatro è intensamente presente nella vita dei russi; abbiamo assistito a due spettacoli di Cù echov al Teatro d’arte di Mosca a lui dedicato, che peraltro è il teatro che mise in scena i suoi capolavori agli inizi del Novecento; e abbiamo naturalmente assistito a uno spettacolo di balletto al Teatro Bol’s˘ oj. I prezzi assai contenuti di tutta la vita artistica e culturale di Mosca ci hanno anche consentito di ascoltare alcuni magnifiLa Piazza Rossa a Mosca ci concerti al Conservatorio di Mosca. La celebrazione domenicale del rito ortodosso, cui abbiamo assistito, ci ha insieme incuriosito e coinquesta, tutt’altro che facile per gli innumerevoli giri da fare volto. Il costante segnarsi, le ripetute genuflessioni, le innunei diversi uffici, per firme e timbri vari che sembravano non merevoli icone illuminate dalle candele, l’oro e la ricchezza finire mai, un vero tour de force che richiede perseveranza. cromatica dei paramenti, la ieraticità dei gesti accompagnati In conclusione, possiamo dire che la nostra è stata un’espeda letture salmodiate in slavo-ecclesiastico e dalle splendide rienza indimenticabile, un’occasione veramente unica nel voci del coro immettono in un’atmosfera fuori del tempo, o suo genere. Di questa straordinaria possibilità di studio ed per meglio dire, di un tempo sacro. È quello che si percepisce esperienza di vita siamo grate alla presidenza della nostra visitando Sergiev Posad (ex-Zagorsk) a circa settanta chiloFacoltà che stanzia una parte dei propri fondi per la collabometri da Mosca, ovvero il Monastero della Trinità e di San razione internazionale con i paesi che non rientrano negli Sergio, fondato nel 1345, sorta di sacra fortezza costituita da scambi Erasmus, e alla professoressa Claudia Lasorsa che un poderosa cinta di mura, numerose torri, una cattedrale, con grande impegno cura l’attuazione di questo accordo. due chiese e diversi edifici, la biblioteca, gli appartamenti Questa esperienza costituisce uno stimolo che determina dello zar e il palazzo del metropolita. Il complesso ospita annon di rado le successive scelte professionali. Attualmente che la tomba dello zar Boris Godunov. Una gita veramente quattro ex stagisti sono apprezzati dottori di ricerca in Slasuggestiva. vistica e si avviano alla carriera universitaria; numerosi San Pietroburgo, la celebre “finestra sull’Europa”, dove studenti sono stati selezionati nel corso degli anni per il tisiamo arrivate di primo mattino, ci ha colto di sorpresa. La rocinio CRUI-MIUR presso gli Istituti italiani di cultura, a città è completamente diversa dalla capitale: è come se Vilnius (Lituania) e a San Pietroburgo; quattro studenti, improvvisamente dall’Eurasia fossimo approdate in Euroselezionati in primavera alle prove dell’Eurofestival di linpa. La città sulla Neva è elegante, maestosa, imperiale: epgua russa, sono stati invitati a trascorrere una settimana a pure tutto ci risultava quasi familiare, tutto è a misura San Pietroburgo per partecipare alla cerimonia conclusiva d’uomo. Gli abitanti sono cortesi e più aperti ai turisti. La del festival; alcuni infine lavorano presso le rappresentanvita è meno frenetica che a Mosca. ze di ditte italiane in Russia o seguono il dottorato di ricerUn grosso problema, comunque, sia a Mosca che a San Pieca presso Università della Federazione russa. Non è questo torburgo, è stato affrontare la burocrazia russa. Bisogna regiun singolare germe di eccellenza della nostra Facoltà? strarsi presso la struttura nella quale si alloggia, operazione,


Ultim’ora da Laziodisu di Salvatore Buccola In occasione della giornata dedicata all’orientamento che ha avuto luogo il 23 luglio scorso, abbiamo presentato agli studenti la nuova edizione della Carta dei servizi per il diritto allo studio dell’Adisu Roma Tre. Uno strumento rinnovato, oltre che nei contenuti, anche nella veste tipografica e nel formato, tascabile, la cui scelta è stata dettata dall’auspicio di fornire agli studenti uno strumento di consultazione rapido. All’interno della guida sono presentati in maniera sintetica i vari servizi rivolti agli studenti ed alcune indicazioni operative sul come, dove e quando poterne fruire. Una guida pratica, dunque, ma anche, come sottolinea il prof. Gianpiero Gamaleri nell’introduzione «strumento di dialogo per migliorare sia le relazioni con gli studenti, sia la quantità e la qualità delle prestazioni offerte, in uno spirito di comune collaborazione». Per chi non ne fosse ancora in possesso ricordiamo che la Carta dei Servizi è in distribuzione presso gli uffici dell’Adisu Roma Tre di Via della Vasca Navale, 79.

Programmi di mobilità Laziodisu e l’Ateneo Roma Tre hanno stipulato una convenzione per l’incentivazione della mobilità internazionale verso Paesi non appartenenti all’Unione Europea. Annualmente viene predisposto un piano progettuale di attività per la mobilità internazionale di studenti e dottorandi nelle diverse discipline a fronte del quale Laziodisu eroga un contributo. Inoltre, nei limiti della propria disponibilità, Laziodisu si impegna a fornire agli studenti stranieri, che rientrino in programmi di mobilità internazionale verso l’Università degli Studi Roma Tre, i servizi di mensa e alloggio al costo di 2,03 euro per ciascun pasto e di 160,80 euro mensili per l’alloggio. Per l’anno 2009 sono stati messi a disposizione dell’Università degli Studi Roma Tre da Laziodisu 50 posti alloggio. Premio di Laurea Gli studenti già beneficiari di borsa di studio che conseguano la laurea triennale o la laurea specialistica o la laurea a ciclo unico entro la durata legale dei relativi corsi di studio, hanno diritto a beneficiare di un importo integrativo pari alla metà della borsa di studio ottenuta nell’ultimo anno di corso. Per gli studenti diversamente abili il diritto a beneficiare del premio di laurea

si determina con il conseguimento del suddetto titolo di studio entro il 1° anno fuori corso. Il diritto al premio di laurea è subordinato alla disponibilità dei fondi stanziati annualmente. Gli interessati sono tenuti a presentare apposita richiesta entro 30 giorni dal conseguimento del titolo accademico, consultando la seguente pagina web: http://dirstudio.sirio.regione.lazio.it/premilaurea/home.asp Orientamento in itinere: borse di studio GLOA/Laziodisu L’Università Roma Tre e Laziodisu hanno stipulato una convenzione in materia di orientamento formativo volta a ridurre il fenomeno dell’abbandono degli studi e il ritardo nel percorso universitario. Annualmente è indetto un bando per l’erogazione di borse di studio riservate a studenti senior in possesso di elevati requisiti di merito che, sotto la diretta supervisione dei docenti del Gruppo di Lavoro per l’Orientamento di Ateneo (GLOA), svolgeranno 250 ore di tutorato in favore di colleghi studenti secondo il progetto elaborato dal GLOA in collaborazione con Adisu Roma Tre. Nell’a.a. 2008/2009 sono state messe a bando 26 borse per un importo totale di 50700 euro. L’ammontare di ciascuna borsa è stato fissato in 1950 euro. I 26 borsisti vincitori stanno svolgendo le proprie attività presso le Facoltà sotto la supervisione dei docenti GLOA e il coordinamento organizzativo dell’Ufficio orientamento – Divisione politiche per gli studenti.

rubriche

A fianco: la copertina della Carta dei servizi

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Non tutti sanno che… Prestito interbibliotecario metropolitano (PIM) Dal 26 ottobre scorso alcune Biblioteche universitarie romane e Biblioteche di Roma hanno attivato il servizio PIM pensato per facilitare l’accesso alle raccolte bibliografiche a livello cittadino. Gli utenti di Roma Tre potranno prendere in prestito i libri posseduti dalle Biblioteche di Roma facendone richiesta a una delle seguenti biblioteche di Ateneo che partecipano al progetto: - Biblioteca Lino Miccichè, Sezione spettacolo della Biblioteca di area delle arti - Sezione economia della Biblioteca di area giuridico-economico-politica - Biblioteca Guillaume Apollinaire del Centro di studi italo-francesi Reciprocamente queste biblioteche mettono a disposizione degli utenti di Biblioteche di Roma il proprio patrimonio bibliografico. Per accedere al servizio: dopo aver consultato il catalogo delle biblioteche comunali di Roma e aver verificato la disponibilità del documento è necessario inoltrare la richiesta in una delle tre biblioteche di Roma Tre sopra elencate, dove verrà completata la transazione nelle fasi di ritiro e restituzione. Si possono richiedere fino a 5 documenti per volta. Roma Tre e Istituzione universitaria dei Concerti (IUC) Grazie alla convenzione tra Roma Tre e IUC gli studenti, i docenti e il personale di Roma Tre potranno seguire i concerti della 65° stagione musicale 2009-2010 della IUC con speciali riduzioni sul costo dei singoli biglietti e degli abbonamenti. Abbonamenti 22 concerti: studenti, 45 euro; docenti e personale, 78 euro Biglietti: riduzioni di circa il 20%; under 30: 8 euro

Sono disponibili mini abbonamenti e carnet di biglietti. Per informazioni rivolgersi alla IUC: tel. 06 3610051/2; www.concertiiuc.it. Botteghino universitario a Roma Tre. Nuova la sede ma lo sconto resta Dal 6 ottobre scorso la Biglietteria teatrale di Roma Tre ha riaperto i battenti, in una nuova sede ma con le stesse tariffe vantaggiose! Da quest’anno infatti per comprare biglietti di spettacoli teatrali a prezzi ridotti (fino al 50%) si potrà andare al botteghino universitario presso gli uffici di via Ostiense 169, accanto alle Segreterie studenti. La biglietteria, riservata ai soli studenti universitari, propone biglietti teatrali, per oltre 50 teatri romani, a costi ridotti fino al 50% e senza l’applicazione di alcuna commissione di agenzia. Previste delle agevolazioni anche per i docenti e il personale tecnico-amministrativo dell’università. Tra i servizi offerti ricordiamo anche una vendita, aperta a tutti, di biglietti teatrali, a prezzo intero. Inoltre, per gli appassionati dello spettacolo dal vivo, anche quest’anno si riconfermano gli incontri di Teatro 30 e Lode! Veri e propri appuntamenti in università (seminari, dibattiti e performance) tra studenti e attori, registi, scenografi e autorevoli protagonisti del mondo del teatro. Il botteghino universitario e gli appuntamenti di Teatro 30 e lode! sono realizzati dall’AGIS Lazio in collaborazione con la Provincia di Roma, la Regione Lazio e il Comune di Roma ed in coordinamento con le Università di Roma Tre, La Sapienza e Tor Vergata. Per informazioni: Via Ostiense 169 (piano terra) tel. 06 57332243 - e-mail: biglietteria.roma3@libero.it da martedì a giovedì 13.00-16.00 www.spettacoloromano.it


Jüdisches Museum Il labirinto della memoria metafora di un terribile peregrinare

Tre strade: la drammatica certezza della fine (verso la Torre dell’Olocausto), un esilio precario (nei Giardini di E.T.A Hoffman) e la continuità della Memoria (fino alle sale espositive). I corridoi, più precisamente assi, progettati da Daniel Libeskind per guidare i visitatori alGiacomo Caracciolo l’interno del Museo ebraico di Berlino simboleggiano proprio questi diversi destini a cui è andato drammaticamente incontro il popolo ebraico. Una stella di Davide decostruita (o – come alcuni sostengono – un blitz, fulmine in tedesco) senza ingressi dalla strada né finestre (nel senso tradizionale del termine). L’unica via di accesso: una scala e un corridoio sotterraneo dall’adiacente Berlin Museum, a simboleggiare l’inscindibile legame tra storia tedesca ed ebraica. Il drammatico zig zag del museo – metafora di un terribile peregrinare – è interrotto da una linea retta. Dall’intersezione nascono sei spazi trapezoidali inaccessibili, spazi vuoti, infatti il filo conduttore di quest’opera di Libeskind è proprio il Vuoto. Inteso, anche, come assenza di fede negli atti dei carnefici e di speranza nelle vite delle vittime. Una volta all’interno, di fronte alle tre strade, si è assaliti dallo stesso senso di freddo che suscitano a prima vista le lastre di zinco scelte per coprire esternamente l’edificio. Il percorso che con-

Jüdisches Museum di Daniel Libeskind

duce alla Torre dell’Olocausto inizia da un muro nero e conduce ad una pesante porta anch’essa nera. Assenza di luce, di ragione, e perciò di speranza. All’interno il vuoto della torre è squarciato dalla luce indiretta di una feritoia posta tanto in alto da non permettere di vedere, e neanche sentire chiaramente, cosa succede all’esterno. Cosicché i suoni distorti e l’ambiente (tutto realizzato in cemento armato) completamente privo di meccanismi di areazione – caldissimo d’estate e freddo d’inverno – catapulta il visitatore in uno stato d’inquietante attesa. Qui anche due necessità tecniche, come i fori per l’aria e la scala per la pulizia del tetto, diventano parte della ricostruzione. I primi, lungo una parete, ricordano terribilmente quelli che sputavano gas nelle camere di morte, mentre la seconda – irraggiungibile anche salendo gli uni sulle spalle degli altri – la speranza delusa di una fuga irrealizzabile. La torre – definita “Voided Void” (vuoto del vuoto) dallo stesso Libeskind – rappresenta all’esterno il vuoto spaziale dell’interno del museo, ma anche quello creato dall’assenza di milioni di ebrei vittime della Shoah. Il Giardino di E.T.A Hoffman, cui conduce la via ingloriosa dell’esilio, è quadrato – delimitato da un robusto muro di cinta in cemento – e si trova sotto il livello del suolo. Ciò nonostante, a differenza della claustrofobica Torre dell’Olocausto, da qui è possibile scorgere lampi di cielo e brandelli di edifici. Quanto basta per sentirsi vivi. Oppressi, ma vivi. Nel giardino dell’esilio affondano le loro radici quarantanove pilastri – a base quadrata – anch’essi di cemento armato che sorreggono altrettanti alberi. I pilastri creano un labirinto soffocante – aggravato dall’inclinazione del suolo (circa sei gradi) che dà capogiro – e gli alberi, seppur figli di una natura benigna, posti così in alto rappresentano il desiderio irrealizzabile del ritorno a casa. Per Libeskind il giardino rappresenta il naufragio della storia: «si entra e si prova l’esperienza di qualcosa che disturba. Sì, è instabile; ci si sente un po’ male camminandoci dentro. Ma è voluto, perché è la stessa sensazione che si prova lasciando la storia di Berlino... è quasi come navigare con una barca, come essere in mare e scoprire d’improvviso che ogni cosa sembra diversa.» L’ asse della continuità – collegato agli altri due corridoi – conduce, attraverso una scala, alla costruzione principale, dove su tre piani sono distribuite le sale espositive. Un percorso in-

recensioni

di Giacomo Caracciolo

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tenzionalmente lungo ed ostico (a causa di un intrico di travi inclinate) ma, a differenza delle altre vie, illuminato da una luce che, si affaccia dai lucernari nel soffitto e dalle lunghe finestre laterali, incutendo fiducia. Un percorso ascensionale reso impervio dalla costante minaccia della storia. Il Jüdisches Museum (realizzato nel decennio tra il 1989 e 1999 e inaugurato nel 2001), nelle sue sezioni espositive, è anche la testimonianza di quante poche tracce della cultura ebraica siano presenti a Berlino. Piccoli oggetti e materiali d’archivio che evocano, anch’essi, più un’assenza (il Vuoto) che una presenza. Non è un museo che si visita per apprendere, ma per capire. Provare a capire sensa- Kadishman’s steel sculpture “Shalechet” Void, Jüdisches Museum zioni che per fortuna, la maggior parte degli europei, hanno solo conflitto». E in queste parole si trova la ragione della sentito raccontare. Non tutti riescono a rimanerne affascelta del decostruttivismo per il Jüdisches Museum. Inscinati, alcuni addirittura rischiano di sentirsi oppressi, fatti, Libeskind decostruisce, come una guerra insensata dalla struttura stessa della costruzione decostruttivista, ha decostruito molte città, crea spazi vuoti incolmabili, da non riuscire a terminare la visita. Questo perché Dacome incolmabile è la mancanza di tutti coloro che sono niel Libeskind, ebreo di Polonia, figlio di deportati, oltre stati uccisi ingiustamente in nome dell’odio, ma crea anad essere uno degli esponenti di spicco della Decostructiche con i suoi spazi irrazionali una speranza consapevovist Architecure – forse il più promettente a fine anni Otle. La speranza appagata dei pochi sopravvissuti ma sotanta quando gli venne assegnato l’incarico – è soprattutprattutto quella che la memoria storica di ciò che è stato to parte stessa di quella memoria. Il Decostruttivismo – impedisca eccidi futuri. teorizzato da Jacques Derida – conosciuto dal grande pubblico grazie a Frank O. Gehry (teorizzatore di architetture aperte, abbozzate e non finite), Peter Eisenman (che per il Biocenter dell’Università di Francoforte presentò il progetto di tre edifici disposti a lisca di pesce) e lo stesso Libeskind, caratterizzato dalla contrapposizione di spazi e linee è forse l’unico stile adatto a raccontare una storia tanto drammatica. L’architetto decostruttivista sfida la razionalità degli spazi teorizzata dal movimento Postmoderno (di cui sono un esempio le opere di Robert Venturi) e cerca attraverso una geometria instabile di dare plasticità ai volumi. Disarticola e decompone figure geometriche, inclina piani (sfidando la forza di gravità) e fugge dai comuni canoni estetici in tema di costruzioni funzionali. Manifesto di questa tecnica architettonica è stata sicuramente la mostra allestita presso il Museum of Modern Art, di New York, nel 1988. Gli organizzatori dell’evento (Philip Jhonson e Mark Wigley) fecero affiggere, alle pareti, queste parole: «questi progetti evidenziano una sensibilità architettonica diversa, in cui il sogno della forma pura viene disturbato. Tradizionalmente l’architetto tentava di produrre forme pure, basate sull’inattaccabile integrità di figure geometriche elementari, ed evitava di inquinarle per ribadire valori culturali centrali: stabilità, armonia, sicurezza, comfort, ordine, unità… In questi progetti, invece, la forma pura è stata contaminata, trasformando l’architettura in un agente di instabilità, disarmonia, insicurezza, sconforto, disordine e Giardino dell’esilio, Jüdisches Museum


123 metri sotto il Muro di Berlino L’avventura di due studenti italiani nella Germania del 1961 di Rosa Coscia Il tunnel della libertà (Ellen Sesta, Garzanti, 2002) è un romanzo che racconta una vicenda realmente accaduta: un’avventura dimenticata ed emozionante, che ha avuto per protagonisti due studenti italiani di ingegneria a Berlino, Domenico Sesta e Luigi Spina. La storia prende avvio nel 1961, alla vigilia della costruzione del muro nella caRosa Coscia pitale tedesca. Sconvolti per l’isolamento forzato nella zona est del compagno di università Peter e della sua famiglia, Mimmo e Gigi escogitano un piano per fargli varcare il confine. Dopo un primo tentativo fallito, Mimmo, con la complicità dell’addetto agli archivi della facoltà e di alcuni amici riusciti a superare lo sbarramento, progetta un tunnel che da una fabbrica in disuso ad ovest della città sbuchi in uno scantinato ad est. Lo scavo del tunnel dura ben sette mesi, durante i quali Mimmo, Gigi e i loro compagni affrontano e risolvono ogni sorta di contrarietà. Con turni massacranti di lavoro, le tempestive invenzioni dei due giovani e l’aiuto fondamentale e inatteso di Ellen – futura moglie di Mimmo, autrice del libro – i nostri riescono nell’impresa, sfuggendo al controllo delle temibili spie dei servizi segreti orientali. Il 14 settembre 1962, l’attraversamento di quel tunnel verso la libertà da parte di una trentina di persone viene documentato da una troupe delle rete televisiva americana NBC. La stringatezza dell’opera lascia ampi spazi alla storia vera a propria, raccontata da una dei protagonisti con straordinario realismo. La Sesta dimostra un’eccezionale capacità di trasportare il lettore, anche quello troppo giovane per aver vissuto gli avvenimenti di quegli anni o comunque per ricordarli, nel mezzo della vicenda nel suo accadere. La precisione con la quale l’autrice descrive Berlino, in un affresco fatto di colori, di sentimenti, di paure, permet-

Un’immagine dal film tv diretto da Enzo Monteleone

te di individuare con precisione le storiche piazze della capitale tedesca, distrutta dalla guerra, e i locali più tipici della vita studentesca. Tutto ciò contribuisce a dar forza al messaggio del libro: anche i regimi più duri possono essere abbattuti, grazie ad un impegno attivo per affermare valori diversi da quelli imposti dall’alto da un regime dittatoriale che tenta di cancellare l’esistenza di libertà, amicizia, solidarietà. Dalle vicende raccontate nel libro è stato tratto anche un film tv diretto da Enzo Monteleone. Il regista si cimentava per la prima volta con la fiction per la tv, trasportando in essa la sua passione per la storia rivissuta attraverso vicende piccole e personali. Rispetto agli avvenimenti reali raccontati nello scritto della Sesta, si notano alcune varianti: per esempio, la morte di Peter. Il personaggio dell’amico fuggiasco, nel libro e nella realtà, non muore, ma riesce a passare con la famiglia a ovest di Berlino. Fu un altro ragazzo di circa vent’anni, anche lui di nome Peter, che, cercando di oltrepassare a mani nude il Muro, venne fermato dal filo spinato e lasciato morire dissanguato. La sua morte venne filmata dall’altra parte del Muro e diventò un simbolo delle ingiustizie di quegli anni. Anche il finale del film non rispecchia gli eventi veramente accaduti. Entrambe le storie hanno un lieto fine, ma, nella realtà, il tunnel non fu scoperto dalla polizia della Germania dell’est e divenne inutilizzabile solo a causa di un’infiltrazione d’acqua. Infine, le 29 persone che Mimmo e Gigi riuscirono a portare in salvo dall’altra parte della galleria non furono inseguite da poliziotti. Tuttavia, queste discrepanze hanno contribuito in misura rilevante all’impianto drammatico del film, mantenendo sempre viva la tensione, grazie al ritmo sostenuto dell’azione. Girato a Budapest, perché la capitale ungherese conserva ancora lo scenario e le atmosfere di quegli anni, in 35 mm, Il tunnel della libertà ha una fotografia, un montaggio e una regia di livello decisamente cinematografico. L’ottimo cast, formato da Kim Rossi Stuart (Mimmo) e Paolo Briguglia (Gigi), affiancati da Antonia Liskova (Ellen) e da bravissimi attori locali, fornisce convincenti interpretazioni, che bilanciano qualche piccolo difetto della sceneggiatura, laddove alcuni personaggi sono forse un po’ schematici e monolitici. Nel complesso Il tunnel della libertà risulta un buon prodotto che, distribuito attraverso un canale come la televisione, diventa luogo della memoria collettiva degli spettatori e di tanti giovani, cui le istituzioni di formazione troppo superficialmente parlano di un passato neppure tanto lontano.

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Goodbye Lenin! Il passo inarrestabile del tempo di Maria Vittoria Marraffa Nel 2003 è uscito nelle sale il film Goodbye Lenin! diretto dal regista Wolfgang Becker. Subito campione d’incassi in Germania, portò a casa il premio come miglior film europeo al Festival di Berlino nello stesso anno. La storia è quella di Christiane, fervente socialista militante nella Germania dell’Est che colpita da inMaria Vittoria Marraffa farto dopo aver visto in tv il figlio picchiato durante un corteo, cade in coma per otto mesi risvegliandosi all’indomani della caduta del Muro di Berlino. Date le sue precarie condizione di salute i medici consigliano al figlio, Alex, di evitare alla madre qualsiasi fonte di stress ed è a questo punto che la trama del film si sviluppa in tutta la sua originalità. Alex cerca di fermare il tempo nella loro casa ricreando i finti telegiornali di regime aiutato da un amico cineasta, cercando cibi ormai introvabili (perché già rimpiazzati dalle marche occidentali), giornali e cimeli della “vecchia” Germania dell’est. Tra gag esilaranti e momenti di tristezza, il film scorre lungo il filo del difficile momento di passaggio tra separazione e unità politica della Germania di fine anni Ottanta. Il muro che cade è sinonimo di una grande libertà che presto lascerà spazio alla confusione e alla nostalgia di coloro che come Christiane non hanno mai visto realizzarsi i propri ideali politici. Quel muro era stato lì per ventotto anni, separava non solo Berlino ma l’intero paese: era il simbolo della “cortina di ferro”. La storia del film è quella di una singola famiglia che vive un difficile trapasso storico, ma anche delle tante persone (tra cui il regista stesso) che si sono sentite perse prima di cominciare a vivere in una Germania di nuovo unita. Proprio questo tema è conti-

nuamente sdrammatizzato dal personaggio di Alex che è costretto dalla situazione familiare a fingere che nulla sia cambiato, una messa in scena che fungerà quasi da terapia per minimizzare il distacco. In Alex, c’è anche la voglia di prendere tempo e, dietro agli accorgimenti per mantenere intatto il mondo conosciuto dalla madre, salvaguarda quegli ideali con cui lui stesso è cresciuto. La geniale trovata della ricomposizione di un mondo ormai finito è il motivo intorno al quale si riflette anche sui rapporti umani, sempre in quel panorama politico dai risvolti irreversibili che modificherà per sempre la vita dei protagonisti. Tutto cambia troppo in fretta e i anche i giovani non sono, al contrario di ciò che si sarebbe pensato, abbagliati dalle luci dell’occidente ma, al contrario, rimangono smarriti in un senso di confusione. Il film finisce con la morte di Christiane e la successiva fine della commedia “protettiva” di Alex. Goodbye Lenin! è uno di quei film che narrano avvenimenti e fatti storici importanti in maniera leggera ma che nascondono sotto il sottile e trasparente velo cinematografico la fondamentale riflessione storica e sociale. Studiare e osservare con occhi lontani aiuta soprattutto a non cadere nei frequenti errori storici. Il film non vuole spostare l’attenzione dall’enorme significato del crollo del muro, indubbio per tutti, ma far riflettere anche sugli immediati cambiamenti che questo ha comportato. L’impatto è stato forte e ha colto tutti impreparati tra rimpianti e un’immensa felicità. Il Muro di Berlino nel 1989 divideva la città in due con i suoi 155 chilometri di lunghezza bloccando ogni possibilità di comunicazione, ma è noto che prima del muro, già altri tentativi di divisione con filo spinato e blocchi di cemento armato erano stati posti nel cuore della città. Il Muro ha causato oltre al dolore anche molte vittime, tutti quelli che tentarono di scavalcarlo in nome della libertà. Il suo crollo il 9 novembre 1989 e le immagini dei tedeschi che passano dalla parte est a quella ovest è una delle più belle manifestazioni di libertà della nostra epoca.


Bhopal, un disastro ancora in corso Dal 2 al 6 novembre 2009 la Sezione italiana di Amnesty International e Greenpeace Italia hanno promosso il Bhopal bus tour. Una delegazione di sopravvissuti al disastro avvenuto nella città indiana nel 1984 ha dato vita in Italia a una serie di manifestazioni, iniziative e incontri pubblici tra Roma e Milano, con l'obiettivo di riportare sotto i riflettori dell'opinione pubblica una tragedia che causò la morte di circa 25.000 persone e che ancora oggi, dopo 25 anni, resta drammaticamente attuale. Nel primo numero del 2008 ci eravamo già occupati del caso Bhopal e torniamo a farlo convinti della necessità di ricordare gli scenari prodotti dall’altra faccia della globalizzazione. Bhopal, infatti, nonostante siano passati 25 anni resta un caso emblematico nel contesto della responsabilità delle aziende. Non è, infatti, soltanto un tragico epilogo di una vicenda economica del secolo scorso, ma rappresenta tuttora un triste esempio di come la legge protegga i destini di imprese potenti, dimenticando quelli delle persone che ne hanno subito e ne subiscono i danni. In questi anni ai protagonisti della tragedia di Bhopal non è stata data la possibilità di rivendicare i propri diritti e ancora oggi continuano a soffrire per le conseguenze del disastro. Il 5 novembre scorso, presso la Facoltà di Economia del nostro Ateneo si è svolto il convegno Imprese, diritti umani e ambiente. La responsabilità delle imprese per l'impatto delle loro attività in India, Nigeria e Italia, sono intervenuti fra gli altri: Carlo Alberto Pratesi, Salvatore Monni, Raffaele Guariniello, Giorgio Forconi, Sathyu Sfrangi, Biagio De Marzo, Alessandro Giannì e Riccardo Noury La storia Il 2 dicembre 1984, poco prima della mezzanotte, circa 40 tonnellate di isocianato di metile, un agente chimico utilizzato nella produzione di pesticidi, e oltre 12.000 chili di reagenti chimici fuoriescono dallo stabilimento di pesticidi della Union Carbide, oggi Dow Chemical Company. La città è Bhopal, al centro del subcontinente indiano. Nel giro di pochi giorni muoiono circa 10.000

persone e altre 15.000 perdono la vita nei 20 anni successivi. Il numero di vittime non è certo e probabilmente mai lo sarà perché la zona coinvolta nel disastro è quella delle bidonville. Successivamente a causa dei problemi di salute in migliaia hanno perso il lavoro o la capacità di guadagnare denaro. In pratica, tutti quelli che sono stati colpiti dalla fuoriuscita dei gas sono stati trascinati ancora più a fondo nella povertà. A una tragedia se ne aggiunge un’altra: a distanza di quasi 25 anni, l'area interessata dalla fuoriuscita del MIC non è ancora stata bonificata né sono state condotte inchieste adeguate sull'incidente e sulle sue conseguenze. Ad oggi più di 100.000 persone continuano a soffrire di malattie associate al disastro, come disturbi respiratori, cancro, ansia e depressione, malformazioni genetiche e i sopravvissuti sono tuttora in attesa di ottenere una riparazione equa e adeguata per le sofferenze che il disastro ha provocato. Le misure messe in atto dal governo indiano per avviare una riabilitazione dei sopravvissuti al disastro - sia dal punto di vista delle cure mediche sia della riabilitazione socio economica - sono state insufficienti. Nel 2001, inoltre, la Union Carbide è passata sotto il controllo della Dow Chemical Company, la quale dichiara di non avere alcuna responsabilità in merito. A partire dallo scorso anno il governo indiano ha finalmente iniziato ad accogliere alcune richieste della gente di Bhopal. Impervia ed incerta è la strada che le vedrà soddisfatte.

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Periodico di Ateneo

Anno XI, n. 3 - 2009

1989. Scacco matto

Il punto di svolta del XX secolo

Cives e barbari Il gioco infinito dell’inclusione-esclusione

L’impossibile patria Potere, identità e scrittura in Herta Müller

Muri dell’Est Intervista a Roberto Morozzo Della Rocca

PRIMA O POI OGNI MURO CADE INTERVISTA AL FILOSOFO UMBERTO GALIMBERTI

La generazione post ideologica


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