Periodico di Ateneo
Anno XII, n. 3 - 2010
L’osteria del futuro 1950/1984 - 2010/2044 - 2050/2084
Disinnescata la bomba demografica 2075: flessione della popolazione mondiale
Il tempo è cambiato I quadri sociali della capacità di nutrire aspirazioni
Il futuro che vogliamo tutelare Il presidente dell’Acea parla dei prossimi obiettivi
“SI CHIAMERÀ FUTURA” In questo numero: Alessandro Baricco, Carolyn Carlson, Umberto Croppi, Carlo Freccero, Emanuele Gentili, Mario Morcellini, Monique Veaute
Sommario Editoriale
Rubriche 3
Primo piano 1950/1984 - 2010/2044 - 2050/2084 L’osteria del futuro: ossessione o utopia? di Paolo Leon Disinnescata la bomba demografica 2075: flessione della popolazione mondiale di Annunziata Nobile Università sostenibili Realizzazione e sviluppo del modello sinergico università-città di Francesco Cellini Il tempo è cambiato I quadri sociali della capacità di nutrire aspirazioni di Paolo Jedlowski Il futuro che vogliamo tutelare Il presidente dell’Acea parla dei prossimi obiettivi di Giancarlo Cremonesi «E se domani» Uso e abuso del concetto di futuro di Michela Monferrini Rethinking Utopia The reciprocal relations between the utopian imagination and everyday world di Victor S. Vakhshtayn L.a.s.e.r. Un lasciapassare per il futuro di Irene D’Intino The age of stupid …is it today? di Giacomo Caracciolo Oro blu: breve viaggio tra i conflitti moderni, per il dominio sui principali corsi d’acqua del pianeta di Giacomo Caracciolo Cronache e odissee da un altro mondo abitabile Quando la letteratura immagina il futuro di Michela Monferrini Ritratto del futuro? Il Giappone e il punto di vista collettivo di Edoardo Lombardi Vallauri
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Il sillabario della nostra memoria… …e forse anche del nostro domani di Irene D’Intino Tarda estate Quando il cinema italiano “parla” giapponese di Francesca Gisotti Inception L’architettura dei sogni di Fabrizio Attisani Futurperspectives FotoGrafia Festival internazionale di Roma: è di scena il futuro di Sarah Proietti Non tutte le profezie (non) si avverano «A dire la verità, se cercate un colpevole, non c’é che da guardarsi allo specchio» di Francesco Martellini «Chi vive in un’isola deve farsi amico il mare» Con Le sfide di Israele David Meghnagi ci regala un nuovo, prezioso contributo sul conflitto arabo-israeliano di Fabio Bego
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23 Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre Anno XII, numero 3/2010
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Marshall McLuhan e il mondo di domani A cent’anni dalla nascita dello studioso canadese di Gianpiero Gamaleri
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Hanno detto per noi...
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Incontri Umberto Croppi. Culture Valley di Federica Martellini Carolyn Carlson. A rhythm to carry the feet di Valentina Cavalletti Mario Morcellini. I media al futuro di Lia Luchetti Carlo Freccero. Futuro e fantascienza di Valentina Cavalletti Monique Veaute. «Per fortuna è una notte di luna» di Alessandra Ciarletti Emanuele Gentili. Low secret di Federica Martellini Alessandro Baricco. Un tempo nuovo di Alessandra Ciarletti
Popscene Ultim’ora da Laziodisu Non tutti sanno che...
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Reportage Cortona’s week Un esempio di interdisciplinarità per il mondo accademico di Pier Luigi Luisi
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Il Giappone: futuro o tradizione? Viaggio attraverso le idiosincrasie di un paese in movimento di Fabiana Iannilli
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I diritti della Madre Terra Dal Messico: intervista ad Emanuele De Vincenti a cura della redazione
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Direttore responsabile Anna Lisa Tota (professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi) Coordinamento di redazione Alessandra Ciarletti (caporedattore) Federica Martellini Ufficio orientamento - Divisione politiche per gli studenti r3news@uniroma3.it Redazione Ugo Attisani (Ufficio Job Placement), Giacomo Caracciolo (laureato del C.d.L. in Giurisprudenza e giornalista pubblicista), Valentina Cavalletti (Ufficio orientamento), Gessica Cuscunà (Ufficio orientamento), Irene D’Intino (studentessa del C.d.L. in Competenze linguistiche e testuali per l’editoria e il giornalismo), Indra Galbo (laureato del C.d.L. in Scienze politiche), Maria Vittoria Marraffa (studentessa del C.d.L. in Storia e conservazione del patrimonio artistico), Elisabetta Garuccio Norrito (Resp. Divisione politiche per gli studenti), Michela Monferrini (laureata del C.d.L. in Lettere), Monica Pepe (Resp.Ufficio stampa), Camilla Spinelli (studentessa del C.d.L. in Comunicazione nella società della globalizzazione), Fulvia Vitale (studentessa del C.d.L. in Giurisprudenza) Hanno collaborato a questo numero Fabrizio Attisani (laureato del C.d.L. in Giurisprudenza), Fabio Bego (studente del C.d.L. in Relazioni internazionali), Salvatore Buccola (direttore amministrativo Adisu Roma Tre), Francesco Cellini (Preside della Facoltà di Architettura), Giancarlo Cremonesi (presidente Acea S.p.A. e presidente della Camera di commercio di Roma), Gianpiero Gamaleri (ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Presidente Adisu Roma Tre), Francesca Gisotti (studentessa del C.d.L. in DAMS), Fabiana Iannilli (Segreteria del Rettore), Paolo Jedlowski (Dip. di Scienze sociali, Università di Napoli “L’Orientale”), Paolo Leon (docente di Economia pubblica), Edoardo Lombardi Vallauri (docente di Glottologia e di Linguistica generale), Lia Luchetti (dottoranda in Scienze della comunicazione), Pier Luigi Luisi (docente di Biofisica), Francesco Martellini, Annunziata Nobile (direttore del Dipartimento di Studi internazionali), Sarah Proietti (studentessa del C.d.L. in Scienze della comunicazione), Massimiliano Troiani (Dipartimento di Scienze Geologiche), Victor S. Vakhshtayn (Moscow School of Social and Economic Sciences), Simona Vitale (biglietteria teatrale Agis - Roma Tre) Immagini e foto Gregory Acs, Chico De Luigi©, Emanuele De Vincenti, Dipartimento di Progettazione e studio dell’architettura, Fondazione Romaeuropa, Manuela Giusto©, Fabiana Iannilli, Pier Luigi Luisi, Frédéric Iovino©, Edoardo Lombardi Vallauri , Sarah Proietti Progetto grafico Magda Paolillo Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma 06 64561102 - www.conmedia.it Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico. Impaginazione e stampa Tipografia Gimax di Medei Massimiliano Via Valdambrini, 22 - 00058 Santa Marinella (RM) - Tel. 0766 511644 In Copertina La Terra vista dalla Luna Finito di stampare gennaio 2011 Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998
«Il futuro è adesso» di Anna Lisa Tota
«Oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno, ma ciò che farai in tutti i giorni che verranno dipende da quello che farai oggi» Ernest Hemingway Se vuoi vedere dove va il vento, guarda la sabbia» Gloria Desideri Il tema del futuro ci affascina da sempre e su di esso si sono interrogati studiosi, poeti, scrittori e artisti di ogni tempo. «Il futuro è adesso» scriveva in un bel libro nel 1994 Alberto Melucci. Sono passati molti anni, ma il futuro continua ad essere nel qui e ora, nell’adesso appunto. Il futuro continua ad essere una dimensione che illumina il presente, conferendogli qualità e spessore. Come diceva Sant’Agostino, il tempo può essere considerato come una dimensione dell’anima, laddove il passato non esiste, in quanto non c’è più e il futuro non esiste in quanto deve ancora arrivare. Quel che ci resta è il presente. Il presente è l’unico luogo in cui passato e futuro possono prendere forma: noi siamo nel presente con una narrazione del passato e una rappresentazione del futuro. La qualità del nostro essere nel presente è strettamente connessa al modo in cui ci rapportiamo con il passato e influenza le aspettative che nutriamo verso il futuro.
“Il presente è l’unico luogo in cui passato e futuro possono prendere forma” D’altra parte, il futuro che abbiamo in mente conferisce al nostro presente la sua specifica tonalità. In questa prospettiva, interrogarsi sull’idea di futuro significa prendere atto e accettare il presente, il nostro qui ed ora. Significa non delegare al futuro che verrà la soluzione delle questioni irrisolte nel presente. Talora il futuro può coincidere, infatti, con quel luogo immaginario ed ideale, dove finalmente i sogni prenderanno forma e i progetti si realizzeranno. Il futuro diventa così una mistificazione, a cui delegare ogni possibilità di azione che ci neghiamo nel presente. Come dimenticare il Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggero? «… a patto di riavere la vita di prima con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere – dice Leopardi – Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella
che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero? Speriamo», risponde il venditore di almanacchi. Ma qual è la nostra rappresentazione del futuro? Come ci immaginiamo fra cinquant’anni?
“La qualità del nostro essere nel presente è strettamente connessa al modo in cui ci rapportiamo con il passato e influenza le aspettative che nutriamo verso il futuro” Come saremo su questo pianeta? Quali saranno davvero le questioni che ci staranno a cuore? Come evolveremo? Saremo sommersi dai rifiuti che produciamo o saremo diventati consumatori consapevoli e avremo ridotto l’inquinamento ambientale, acustico, visuale che oggi sembra sovrastarci? Avremo cambiato i nostri stili di vita e le nostre abitudini di consumo? In quanti saremo e di quanti e quali oggetti avremo assolutamente bisogno per assicurarci una vita felice? E la nostra felicità sarà sostenibile per le generazioni future e per l’intero pianeta?
“... a patto di riavere la vita di prima con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere - dice Leopardi - Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce, non la vita passata, ma la futura” Continueremo a riservare alla nostra specie il monopolio delle risorse del pianeta o ci arrenderemo all’idea di essere noi stessi parte dell’universo e saremo consapevoli del fatto che un modello di sviluppo sostenibile è l’unico che ci possiamo ragionevolmente permettere? Come saranno le nostre città? Lo abbiamo chiesto a sociologi ed esperti di media, a filosofi ed architetti, lo abbiamo chiesto ad artisti e danzatrici, ad attori istituzionali e politici. Abbiamo chiesto loro di confrontarsi con l’idea di futuro che hanno in mente, consapevoli del fatto che l’attribuzione di senso al futuro è parte del senso dell’agire che costruiamo nel presente. Nel 1980 Lucio Dalla in Futura cantava: «Chissà chissà domani /su cosa metteremo le mani/ … e se è una femmina si chiamerà Futura…». Si chiamerà Futura appunto, ma è adesso!
1950/1984 - 2010/2044 - 2050/2084 L’osteria del futuro: ossessione o utopia?
Solo cinque anni dopo il mate in diritti di cittadinanza, vengono affidate all’incertez1984, l’utopia nera di Orza del mercato, riducendo sia la protezione della sussistenza well si è rivelata sbagliata: sia quella dei diritti. Il declino della responsabilità pubblica il crollo del muro di Berliha perfino fatto aumentare, illusoriamente, il livello del no ha spazzato via il GranPIL: perché per la statistica mentre lo Stato lavora al costo, de Fratello del sistema soil mercato lavora al profitto oltre al costo. Se nel futuro quevietico. Ho sempre pensato sto processo continuasse, la società del 2044/2084 vedrebbe che la Fattoria degli aniun aumento delle malattie, dell’ignoranza, dell’emarginaPaolo Leon mali fosse un apologo mizione, della disuguaglianza: e il processo può effettivamengliore di 1984, perché se si deve pensare di nuovo ad un fute continuare. Nel passato trentennio, gli Stati hanno perduturo altrettanto lontano, la Fattoria ha in sé più semi di unito, in tutto o in parte, la propria sovranità monetaria, e le versalità («tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più banche centrali, alle quali l’hanno ceduta, regolano ma non uguali degli altri») rispetto a 1984, che è il risultato dell’acreano moneta “sovrana”. more-odio per il comunismo di un trotzkista. Certo, che due grandi classici siano trasformati in spettacoli di evasione, la “È vero che l’utopia, buona o cattiva, dice lunga sulla nostra epoca. Personalmente, Orwell mi può servire da obiettivo di un tragitto aveva affascinato già dal suo diario della guerra di Spagna verso un futuro migliore, ma per (Un omaggio alla Catalogna), e la sconfitta della repubblil’economista il lungo periodo è quello ca mi è sempre sembrata intrecciata con la tragedia del conflitto tra il partito comunista da un lato e il POUM e gli dove siamo tutti morti e chi si anarchici dall’altro: che sia altrettanto importante battere il avventura su quella strada, rischia di tuo alleato come il tuo nemico mi è stato di lezione nell’itrasformare il futuro di tutti nel dentificare il settarismo – e nelle utopie c’è spesso la fuga risultato delle proprie ossessioni” di un settarismo frustrato. Per verità, a me è anche sempre piaciuto il Marx sarcastico delle “osterie del futuro”. È vero che l’utopia, buona o cattiOra, da che mondo è mondo, la sovranità monetaria è va, può servire da obiettivo di un tragitto verso un futuro l’ultima risorsa in mano agli Stati per coprire la propria migliore, ma per l’economista il lungo periodo è quello dospesa (re e repubbliche hanno sempre venduto moneta); ve siamo tutti morti e chi si avventura su quella strada, riin assenza, come avviene, appunto, da trent’anni, se esiste schia di trasformare il futuro di tutti nel risultato delle proun massimo di pressione tributaria, se il mercato dei titoli prie ossessioni. Dobbiamo riconoscere che il futuro è il repubblici è limitato e se i “bisogni” sociali (o i diritti) tengno dell’incertezza, e non del rischio, dove si ferma l’analidono ad espandersi, il disavanzo nei conti pubblici è inesi economica e comincia la fantasia. vitabile e può solo correggersi riducendo il finanziamento Però. Una cosa è certa, anche nel 2084 ci sarà uno Stato, ed a “bisogni” e diritti – ed è proprio ciò che avviene con la è il comportamento della politica in queriduzione dello stato sociale. Fa riflettere sto lungo periodo che ci dirà se si tratta il fatto che quest’ablazione del potere di uno Stato che estende la civilizzaziopubblico è un puro frutto dell’ideologia: ne e i diritti alle future generazioni, o nasce da un’utopia (Von Hayek, per tutti) uno Stato che, lasciando fare all’egoistiche riteneva meno tirannica un’economia co interesse sul mercato di coloro che senza Stato, e più ricca una società disuogni volta sono i contemporanei, genera guale. La realtà mostra, invece, un mondo divisione e violenza. che diventa progressivamente più egoistiNegli ultimi trent’anni, lo stato sociale co e, allo stesso tempo, meno colto, più universale pensato nel dopoguerra in settario e più sporco. Europa, è stato variamente degradato: Ma non sarà necessariamente così, perché istruzione, sanità, previdenza, sussidio pochi desidererebbero un tale regresso. di disoccupazione, assicurazione inforEd ecco come si presenterebbe il futuro tuni sono stati lentamente trasportati dal alla Pangloss. Molto prima di quell’autosistema pubblico a un sistema misto, distruzione si formeranno culture politipubblico-privato. Le istituzioni pensate che che ricostruiranno una convivenza in origine per alleviare le imprese dal più civile. Nei nuovi paesi emergenti, che costo della sussistenza/riproduzione per George Orwell, autore di La fattoria de- nelle difficoltà occidentali del trentennio i propri lavoratori, e che si erano trasfor- gli animali (1945) e 1984 (1948) hanno costruito un grande sviluppo eco-
primo piano
di Paolo Leon
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nomico, gli elementi tirannici, razziali, sessistici non potranno non ridurre il loro impatto, perché non c’è sviluppo senza democrazia. Proprio l’apertura al mercato, che li ha fatti crescere, libererà in quei grandi paesi le forze necessarie per una coesione sociale maggiore: la loro crescita non avverrà ai danni del resto L’economista Friedrich von del mondo e anche i paesi Hayek, uno dei più importanti più poveri troveranno la via difensori delle teorie liberali del XX secolo, è stato uno dei del benessere. Il benessere maggiori critici dell’economia impedirà divisioni etniche e pianificata e centralista ed è lotte tra poveri. Regnerà la considerato uno dei maggiori pace. Le economie mondiaavversari delle politiche interli soddisferanno la domanventiste classiche di John da crescente di servizi, Maynard Keynes. mentre quella per i beni crescerà meno che in proporzione: l’ambiente migliorerà e i singoli individui avranno sempre più ampie possibilità di espressione, perché le tecnologie renderanno spazio e tempo molto meno scarsi di oggi. La condizione necessaria è un ritorno all’autorità degli Stati, ma ammaestrati dall’esperienza, gli individui saranno consapevoli del rischio della burocratizzazione e dell’oppressione statale. Perciò, questo pericolo si ridurrà e i singoli si aggregheranno, nelle forme oggi non definibili, per mettere in comune ragionamenti e speranze. Ma non ci si potrà aggregare restando soli, perché le inclinazioni di ciascuno renderebbero impossibile la nascita di una comunità d’intenti: anche nel futuro bisognerà appartenere a qualcosa e ciò causerà la rinascita dei partiti e del pluralismo. Non è immaginabile che il lavoro finisca – si ridurrà d’intensità, ma si allargherà a tutto il potenziale di lavoro – e il lavoro tornerà ad essere il fondamento della comunità. La Costituzione del 2044/2084 avrà lo stesso articolo 1 di quella italiana del 1948. Appunto: questo è Pangloss, l’osteria del futuro, l’altra faccia del 1984. Possiamo, allora, rappresentarci il futuro alla Orwell. Lo Stato sarà minimo e si limiterà alla giustizia, alla difesa e alla sicurezza: la sua ragion d’essere sarà la difesa della proprietà privata. Non sarà consentito al povero e allo sfortunato di importunare i proprietari, e la disoccupazione sarà colpa del disoccupato. Non ci sarà nessuno stato sociale, ma ai diseredati sarà offerta una beneficenza derivante dal buon cuore dei proprietari. Chi lavorerà sarà remunerato in base alla sussistenza, non alla produttività, e poiché ciò determinerà una continua scarsità di domanda effettiva, la crescita economica sarà limitata alla domanda che proviene dai proprietari. La società, tuttavia, avrà timore della rivolta dei poveri, e cercherà di surrogare la miseria di ciascuno con l’illusione di ideali nazionali e patriottici: lo scontro tra Stati di proprietari diventerà inevitabile, e sarà sanguinoso, perché senza sangue l’illusione sarebbe immediatamente percepita come tale da chi sarà sfruttato. La guerra costituirà la nuova domanda effettiva. Il regime sarà perciò popolare, ma con una democrazia limitata e protetta: potranno votare tutti,
ma chi avrà interesse a votare saranno solo i proprietari, che desiderano difendersi dalla violenza dei poveri. La classe media si restringerà e con essa anche la tolleranza: forme di razzismo diventeranno inevitabili, anche perché sarà necessario provvedere lo Stato con nemici interni e non solo esterni. La Costituzione del 2044/2084 assomiglierà allo Statuto albertino e il fondamento della Repubblica sarà la proprietà, non il lavoro.
“Appunto: questo è Pangloss, l’osteria del futuro, l’altra faccia del 1984” Non ho avuto bisogno di mettere in campo l’Unione Europea, i cui trattati sono fondati su un concetto di interesse generale rappresentato dalla libera concorrenza: perciò, l’Unione Europea somiglia più al futuro di Orwell che a quello di Pangloss; com’è stata pensata finora non potrà durare nel futuro. Sto, però, disegnando un Orwell alla Dickens: un film dell’orrore che, purtroppo, ha una corrispondenza con il pensiero economico standard, per il quale la realtà è sempre in equilibrio e la disoccupazione sempre volontaria. Nemmeno Von Hayek poteva immaginare che i suoi proseliti nel nuovo millennio sarebbero tornati a Bentham. Né Pangloss né Orwell sono accettabili, ma guardare al futuro non è inutile: se lo si fa con sufficiente cinismo, ci aiuta a comprendere meglio il presente e, forse, ad indicare come agire.
«Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri»
Disinnescata la bomba demografica 2075: flessione della popolazione mondiale di Annunziata Nobile Nel 1968, il biologo e demografo Paul Ralph Ehrlich pubblicava un best seller dall’apocalittico titolo The population bomb (titolo peraltro voluto fortemente dall’editore e non dall’autore) nel quale, sulla scia del pensiero malthusiano, sosteneva che la continua crescita della popolazione avrebbe messo a repentaglio il futuro del pianeta. La capacità di popolamento, infatti, sarebbe presto arrivata ai suoi limiti e il mondo avrebbe dovuto affrontare, già negli anni Settanta e Ottanta, fame e carestie di massa – soprattutto nei paesi poveri – con centinaia di milioni di morti.
“La popolazione mondiale, nel corso dell’ultimo trentennio, è cresciuta ogni anno in media di circa 80 milioni di persone, una quantità pari all’attuale popolazione della Germania. E il contributo dei paesi meno sviluppati è ormai attorno al 95%, essendo i paesi più ricchi prossimi alla crescita zero” La popolazione mondiale, in effetti, aveva conosciuto sin dai primi anni del Novecento, una crescita senza precedenti. Il secolo si era aperto con un miliardo e 600 milioni di abitanti e poco dopo la fine della seconda guerra mondiale si era aggiunto un altro miliardo. È, però, dopo gli anni Cinquanta che la velocità accelera in modo inaspettato: alla fine degli anni Sessanta, quando esce il libro di Ehrlich, la popolazione del pianeta conta un miliardo supplementare. E le previsioni demografiche che in quegli anni vengono effettuate, con dati di base di buona qualità e dunque più affidabili, disegnano un futuro inquietante: il Club di Roma, in uno scenario pessimistico, prevede ben 12 miliardi di abitanti per il 2000. Protagonisti assoluti della spettacolare crescita di questi anni sono i paesi meno sviluppati, che ad essa hanno contribuito per circa l’85%. Tale crescita non si è verificata per un improvviso aumento della loro già elevata fecondità (sei figli per donna nel 1950, a fronte di soli 2,8 nell’area più sviluppata), ma perché si è verificata una rapidissima e intensa discesa della mortalità, soprattutto di quella infantile, grazie alla massiccia diffusione di moderne terapie di prevenzione e di cura delle malattie, provenienti dai paesi industrializzati. La durata media della vita è così salita nell’arco di un ventennio di oltre 11 anni (dai 41 del quinquennio 1950-55 ai 52,2 del 1965-70). La fecondità, per converso, essendo fortemente legata a fattori culturali che si modificano lentamente, inizierà molto più tardi (e non
dovunque) la sua discesa. La conseguenza di queste dinamiche, pertanto, è stata una crescita senza precedenti della popolazione mondiale. Il problema demografico, aveva dunque riscontri oggettivi. L’obiettivo di Ehrlich non era, però, quello di creare panico agitando lo spettro della sovrappopolazione, quanto piuttosto quello di diffondere l’idea della liceità degli interventi statali, e di incoraggiare l’adozione di politiche che riducessero gradualmente la fecondità, avviando così un processo che avrebbe portato ad una dimensione globale della popolazione sostenibile nel lungo periodo. Molti paesi del mondo meno sviluppato hanno messo in atto politiche di contenimento della fecondità, che però, se si eccettua quella draconiana della Cina, non sono sempre state coronate da successo. Considerando l’area meno sviluppata nel suo complesso, la fecondità è tuttavia scesa moltissimo e il numero medio di figli per donna dall’inizio degli anni Settanta a oggi si è dimezzato (da 5,2 a 2,7). Malgrado ciò, la popolazione mondiale ha continuato ad aumentare in termini assoluti, pur se a una velocità più ridotta. Nel corso dell’ultimo trentennio, ogni anno è cresciuta in media di circa 80 milioni di persone, una quantità pari all’attuale popolazione della Germania. E il contributo dei paesi meno sviluppati è ormai attorno al 95%, essendo i paesi più ricchi prossimi alla crescita zero, a causa di una fecondità da decenni molto bassa.
“La sfida demografica è oggi più regionale che globale. I paesi sviluppati devono far fronte a un crescente invecchiamento, problema che può mettere in grave crisi i sistemi di welfare. I paesi meno sviluppati devono invece gestire un processo di urbanizzazione spesso caotico, determinato da flussi rurali-urbani di fortissima intensità” La fecondità diminuisce, ma la popolazione aumenta: sembra un paradosso, ma questo è solo apparente. La diminuzione del tasso di fecondità, infatti, non si traduce in un immediato arresto della crescita di popolazione perché il numero delle nascite può restare stabile o persino aumentare per qualche decennio se c’è un elevato numero di donne in età fertile nate negli anni di baby boom. È questo l’effetto inerziale, noto come “momentum demografico”, che si stima sarà responsabile di metà
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FIG. 1
Fig. 1 - Evoluzione della popolazione mondiale secondo tre varianti nelle previsioni delle Nazioni Unite, 2010-2050 (cifre in milioni). Fonte: elaborazione personale su dati United Nations, World Population Prospects. The 2008 Revision, in http://esa.un.org/UNPP
della crescita demografica dei prossimi 100 anni. La popolazione mondiale è oggi di circa 7 miliardi (verranno raggiunti nel corso del 2011); è dunque raddoppiata dagli anni dell’infausta profezia di Ehrlich. Fortunatamente, le catastrofi alimentari non si sono verificate, se non a livello di piccole aree. Il gigantesco aumento della produttività agricola (la “rivoluzione verde”) ha contribuito ad aumentare la capacità di popolamento del pianeta, ma a costi elevati (degrado ambientale causato dai pesticidi, riduzione delle risorse idriche e della biodiversità agricola). Frenare l’aumento della popolazione resta dunque un’esigenza ineludibile.
“L’evoluzione demografica differenziale delle diverse aree geografiche è destinata a ridisegnare la mappa del popolamento del pianeta. Particolarmente rilevante è la perdita di peso della popolazione europea, nel 1950 un abitante della terra su cinque era europeo, oggi lo è uno su dieci e alla fine del secolo il rapporto potrebbe salire ad uno su diciassette” La sfida demografica è oggi più regionale che globale. I paesi sviluppati devono far fronte a un crescente invecchiamento, problema che qualcuno ha definito – con roboante metafora – una bomba ad orologeria, che può mettere in grave crisi i sistemi di welfare. I paesi meno sviluppati devono gestire un processo di urbanizzazione spesso caotico, determinato da flussi rurali-urbani di fortissima intensità, devono saper sfruttare la cosiddetta “finestra demografica”, caratterizzata da un’elevata incidenza di giovani all’interno della popolazione, grande risorsa se viene gestita in modo adeguato, ma che può tradursi in un altrettanto grande problema se non si riesce a fornire loro un’adeguata for-
mazione e non si creano sufficienti spazi nel mercato del lavoro. Queste sfide, o “bombe ad orologeria” per chi ama le metafore, diventeranno ancora più rilevanti nel futuro, se si dà credito alle previsioni demografiche. Queste hanno un forte margine di incertezza, soprattutto se prolungate nel tempo, perché l’evoluzione futura delle componenti della crescita demografica (fecondità, sopravvivenza e migrazioni) è molto difficile da ipotizzare, in particolar modo quella della fecondità. Farò qui riferimento alle previsioni per il 2050 della Divisione per la popolazione delle Nazioni Unite – tra le più accreditate – che vengono aggiornate ogni due anni per correggere il tiro alla luce dei più recenti cambiamenti. Farò anche qualche considerazione sulle previsioni a più lungo raggio, ancora della Nazioni Unite, nelle quali i margini di incertezza sono, però, più che proporzionali alla lunghezza dell’orizzonte temporale.
“La popolazione mondiale, secondo i dati delle Nazioni Unite, conterà nel 2050 9 miliardi e 150 milioni di persone, ovvero 2 miliardi aggiuntivi rispetto ad oggi” Le previsioni si articolano, generalmente, in tre scenari, che derivano da tre differenti ipotesi evolutive della fecondità, ciascuna combinata con identiche traiettorie di mortalità e migrazioni. Ne risulta una forbice molto ampia, (vedi fig. 1); la popolazione mondiale potrebbe raggiungere, nel 2050, un ammontare variabile tra 8 e 10,5 miliardi. La differenza non riguarda solo la dimensione finale, ma anche le evoluzioni; la variante “bassa”, infatti, prevede un precoce inizio, già nel corso degli anni Quaranta di questo secolo, del decremento demografico a livello mondiale.
FIG. 2
Fig. 2 - Evoluzione osservata e prevista della popolazione per aree secondo la variante media delle previsioni a lungo raggio delle Nazioni Unite 1950-2100 (cifre in milioni). Fonte: elaborazione personale su dati United Nations, World Population to 2300, New York, 2004
cano ogni undici abiEssendo, tuttavia, lo tanti della terra nel scenario medio quello 1950, a uno su sette di ritenuto più probabile, oggi e a un probabile farò ad esso riferirapporto di uno su quatmento. La popolazione tro nel 2100. mondiale – consentiSe si scende al dettaglio temi l’arbitrio dell’uso del singolo paese, si del futuro in luogo del possono osservare veri condizionale – conterà e propri stravolgimenti a quella data 9 miliardi nella classifica degli e 150 milioni di perstati più popolosi, che sone, ovvero 2 miliardi vede oggi ai primi cinaggiuntivi rispetto ad que posti Cina, India e, oggi. La quasi totalità largamente staccati, di questa crescita (98%), per le considera- Fig. 3 - Distribuzione della popolazione mondiale per grandi aree geografi- Stati Uniti, Indonesia e zioni fatte in prece- che. 1950, 2010, 2050, 2100 (per il 2050 e il 2100, variante media). Fonte: Brasile. Nel 2050, semdenza, sarà dovuta ai elaborazione personale su dati United Nations, World Population to 2300, pre secondo la variante paesi che oggi vengono New York, 2004 media, l’India, con i definiti – con grandi suoi 1,6 miliardi di abiforzature, giacché è inclusa anche la Cina – meno svitanti, avrà sorpassato la Cina, al terzo posto saranno luppati. Se le ipotesi che sono alla base di questo scenaancora gli Stati Uniti e seguiranno Pakistan e Nigeria. A rio saranno vere, si profila una lenta ma continua dimifine secolo, la graduatoria dovrebbe restare inalterata, nuzione della velocità di crescita, fino al suo arresto a ma il Pakistan (408 milioni) avrà quasi raggiunto gli cui seguirà il decremento demografico. Stati Uniti. Nelle previsioni a lungo raggio, sempre delle Nazioni Particolarmente forte sarà la crescita demografica dei Unite, il punto di svolta si situerebbe attorno al 2075, paesi con larga maggioranza di popolazione musulpoi, per la prima volta nella storia dell’umanità dopo la mana. Peste Nera, la popolazione dovrebbe iniziare un lento Attualmente, dei 48 paesi con il più alto tasso di incredeclino (vedi fig. 2). mento (superiore al 2% annuo), ben 28 appartengono a questa categoria ed è verosimile che tale situazione continui nei prossimi decenni.
“Nelle previsioni a lungo raggio il punto di svolta si situerebbe attorno al 2075, poi, per la prima volta nella storia dell’umanità dopo la Peste Nera, la popolazione dovrebbe iniziare un lento declino”
L’evoluzione demografica delle grandi aree geografiche sarà verosimilmente molto differenziata. L’Africa, all’orizzonte del 2050, dovrebbe raddoppiare la sua popolazione attuale, raggiungendo la quota di 1,8 miliardi, mentre l’Europa proseguirebbe la traiettoria discendente, malgrado il robusto innesto di immigrati; il Nord America, l’America Latina e l’Oceania dovrebbero avere una crescita molto contenuta e la popolazione asiatica, di gran lunga la più numerosa, dovrebbe aumentare di circa 1 miliardo, superando i 5,2 miliardi. L’evoluzione demografica differenziale di queste aree ha ridisegnato, e ancor più avverrà nel futuro, la mappa del popolamento del pianeta. I mutamenti geodemografici, che comportano inevitabili conseguenze politiche, sono molto forti (vedi fig. 3). Particolarmente rilevante è la perdita di peso della popolazione europea, nel 1950 un abitante della terra su cinque era europeo, oggi lo è uno su dieci e alla fine del secolo il rapporto potrebbe salire ad uno su diciassette, per contro è fortissima la crescita del peso della popolazione africana: da un afri-
“È fortissima la crescita del peso della popolazione africana: da un africano ogni undici abitanti della terra nel 1950, a uno su sette di oggi e a un probabile rapporto di uno su quattro nel 2100” Questi paesi, molti dei quali sono economicamente deboli, hanno inoltre una elevatissima quota di giovani ai quali sarà difficile dare occupazione e che saranno perciò sempre più attratti dai mercati del lavoro europei, nord americani e dell’Asia nord orientale, investiti da un intenso processo di invecchiamento. Questa situazione ha destato preoccupazione tra alcuni analisti politici, che hanno parlato di “bomba islamica”. È, perciò, imperativo migliorare le relazioni tra mondo musulmano e società occidentali. Ciò non sarà facile, dato che molti di questi giovani vivono in comunità povere, vulnerabili al fondamentalismo radicale e che vedono l’Occidente in modo antagonistico e militaristico. La “bomba demografica” degli anni Sessanta del XX secolo non è esplosa e non esploderà, ma altre sfide si preparano per l’umanità del XXI secolo.
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Università sostenibili Realizzazione e sviluppo del modello sinergico università-città di Francesco Cellini Le diverse forme dell’insediamento degli spazi universitari nella città non sono state mai casuali, né puramente occasionali. Ad esse, in buona parte, è affidata l’immagine del ruolo civile, culturale e politico che l’istituzione ha voluto dare di sé; immagine che in ogni caso viene quotidianamente rispecchiata dalFrancesco Cellini le specifiche quantità, qualità, densità e tonalità delle occasioni di convivenza con la città, che appunto dalle forme del suo insediamento volutamente conseguono. I due modelli di riferimento più tradizionali e comuni, seppure molto adattati alle circostanze e modificati nel tempo, sono stati quello anglosassone del ‘campus’ e quello tedesco (humboldtiano) della ‘città universitaria’. Nel primo prevale il senso della separatezza funzionale e, in origine, anche sociale: senso che resta anche nelle interpretazioni contemporanee, le quali man-
Planimetria del piano di assetto del Valco di San Paolo
tengono l’idea di uno spazio dedicato ad un ciclo educativo riservato e quindi da svolgersi in un luogo ameno, dignitoso e austero, dotato (possibilmente) di conforti residenziali e quasi claustrali, lontano dalla città o, al più, vicino ad un borgo di servizio.
“Roma Tre ha adottato un modello del tutto originale, che punta sulla diffusione e l’integrazione delle proprie strutture nella città, con l’unica regola che esse siano comprese in un ben preciso settore urbano in via di sviluppo e ben collegate da un sistema efficiente di trasporti pubblici e di reti metropolitane” Nel secondo modello prevale ancora la separatezza, ma in tutt’altro modo: qui è la dignità dell’istituzione pubblica, generalista e non più classista, a imporre l’unitarietà e la distinzione della sua presenza fisica, che viene interpretata quindi come una cittadella non più residen-
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Modello del piano di assetto del Valco di San Paolo
ziale, ma soltanto didattica e scientifica, aulica, recintata e ben riconoscibile, posta in un dialogo paritario colle altre grandi istituzioni pubbliche della città. Contrariamente a tutto ciò, Roma Tre ha adottato un modello del tutto originale, che punta sulla diffusione e l’integrazione delle proprie strutture nella città, con l’unica regola che esse siano comprese in un ben preciso settore urbano in via di sviluppo e, soprattutto, siano ben collegate da un sistema efficiente di trasporti pubblici e di reti metropolitane.Va aggiunto che non si tratta di un modello precostituito o adottato per imitazione, a meno che non si voglia ricorrere all’evocazione, suggestiva ma in buona misura inadeguata, dei primi insediamenti universitari medioevali (Salamanca, Valladolid, Bologna) prodotti dalla gemmazione di polarità distinte e limitrofe in un’unica struttura urbana, ma di una strategia ben precisa, elastica e molto calzante alle condizioni reali, capace di assorbire, con un successo dimostrato sinora dai fatti, tutte le ovvie difficoltà ed incertezze della pianificazione nella città contemporanea. Il tema dell’identità e della riconoscibilità istituzionale viene quindi qui posto in un modo nuovo, dovendo fare a meno dell’unicità di uno spazio individuato da un recinto o da un toponimo, e si sposta prima di tutto su due piani distinti: quello immateriale dell’immagine pubblica (che deve essere, come in buona parte è oggi, evidente e chiara in ogni sua manifestazione culturale e mediatica) e quello fisico offerto dalla omogenea ed alta qualità architettonica e funzionale delle sue singole componenti edilizie, ambientali e dei suoi servizi.
Ma la straordinaria potenzialità di innovazione della strategia insediativa di Roma Tre, la sua stessa attualità, sta nell’idea di integrazione che vi è contenuta, come è stato già ampiamente, ma ancora forse parzialmente, dimostrato dai fatti: con essa uno studente (o un docente, o un funzionario) vive già ora la sua attività didattica (o scientifica o amministrativa) in un ambito proprio ma non del tutto esclusivo, anzi in qualche modo permeabile ed aperto alla città; poi, potenzialmente, esso potrà ancor più sentirsi utente di un sistema reticolare che comprenda altre strutture didattiche o culturali ed altre funzioni e servizi urbani.
“I due modelli di riferimento più tradizionali e comuni, seppure molto adattati alle circostanze e modificati nel tempo, sono stati quello anglosassone del campus e quello tedesco (humboldtiano) della città universitaria” Parallelamente l’università diventa in qualche modo più accessibile; soprattutto essa cessa di apparire, agli occhi dei cittadini, come un organismo sostanzialmente estraneo alla ‘civitas’ e si costituisce come un’istituzione davvero, e non solo formalmente, democratica.
Questo voleva essere Roma Tre, ed in buona misura lo è oggi, a diciotto anni dalla sua fondazione. Naturalmente non tutto è stato semplice, né potrà esserlo in futuro. Già dagli inizi c’era la consapevolezza che la desiderata integrazione funzionale non sarebbe mai derivata da una mera giustapposizione di edifici universitari e di parti della città esistente, e così l’attuale assetto è stato raggiunto attraverso una faticosa stratificazione di progetti, in cui però è ben riconoscibile, anche a vederli retrospettivamente, il tratto di un disegno unitario, anche se massimamente pragmatico, adattativo e versatile. Adesso però il tema, reso ancor più difficile da una fase economia assai critica, è quello di programmare insieme ad un’espansione adeguata e prudente, il completamento ed il perfezionamento del già fatto, cosa che comporta ovviamente la compresenza di differenti strategie e di differenti opzioni temporali. Ad una cauta attenzione alle eventuali opportunità più lontane di sviluppo (varie, ma sempre sull’asse ostiense, sia nel suo tratto urbano che in quello più esterno, fino ad Ostia) ed alla tesaurizzazione di alcune occasioni specifiche (le donazioni relative al futuro centro studi di Villa Maruffi ed al centro convegni di Allumiere), si sta accompagnando un’accurata selezione di interventi puntuali per il completamento di alcuni servizi, non sempre mutuabili da quelli presenti dei dintorni, quale è il caso, fra gli altri, della Mensa nell’area della facoltà di Lettere e Filosofia o per il restauro ed adeguamento di alcune sedi. In altre situazioni, come sta avvenendo per il Valco San Paolo, un’area dove è prevista una notevole quantità aggiuntiva di edifici e servizi, lo sforzo di programmazione temporale e progettuale diventa particolarmente complesso, comprendendo almeno due obiettivi diversi e tuttavia connessi. Il primo è la realizzazione di edifici di alta qualità tecnica, funzionale ed estetica, tutti caratterizzati da un accentuato rispetto per il carattere ex-industriale del sito e per la sua particolare struttura orografica e urbana. Si tratta della ex Vasca Navale, ora in costruzione per un primo lotto assai significativo; delle Residenze universitarie con la connessa Scuola di alta formazione; del Polo scientifico-tecnologico per la ricerca ‘industriale’
I nuovi edifici nell’area della ex Vasca Navale al Valco di San Paolo
nel campo delle nanotecnologie, dell’Asilo aziendale e del potenziamento dello Stadio degli Eucalipti, tutti progetti in fase di avanzata programmazione o di appalto. Il secondo obiettivo, strettamente collegato al precedente, è quello di attuare qui un vero e proprio progetto urbano di ampio respiro, che renda coerenti e sinergici tutti gli interventi previsti con quelli già in funzione, dotando l’insieme di un rinnovato sistema di spazi pubblici pedonali, parcheggi, viabilità e servizi, che anche preveda ed accolga la futura acquisizione di edifici quali la ex-de Laurentis, la realizzazione dell’orto botanico e che infine abbia la capacità di configurare, in tutta la vasta area compresa nell’ansa del Tevere, un vero e proprio sistema coerente e organico, non solo universitario, ma in cui la parte universitaria assuma un ruolo centrale: una sorta di cuore pedonale, attivo, animato, confortevole per i suoi utenti, ma anche capace di rianimare la città circostante, di aprirvisi e di servire a chi ci vive.
“L’università diventa in qualche modo più accessibile e soprattutto cessa di apparire, agli occhi dei cittadini, come un organismo sostanzialmente estraneo alla civitas e si costituisce come un’istituzione davvero, e non solo formalmente, democratica” C’è poi il caso dell’ex Mattatoio, in cui si sta finalmente per concretizzare, con l’appalto di vari padiglioni, un disegno rimasto latente da anni: qui la facoltà di Architettura, i dipartimenti ad essa affini e quello di Arte, la loro biblioteca ed i loro laboratori, convivranno con strutture culturali comunali (Il Macro, la ex-Pelanda dei suini), con l’Accademia di Belle arti, con la Sovrintendenza comunale, la Scuola di Musica di Testaccio e con varie altre istituzioni ed associazioni minori, riproducendo, quasi in vitro e anche in questo luogo peculiare e difficile, il modello sinergico ed integrato università-città che distingue Roma Tre.
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Il tempo è cambiato I quadri sociali della capacità di nutrire aspirazioni di Paolo Jedlowski
Il comitato scientifico della sezione “Vita quotidiana” dell’A.I.S. ci ha invitati quest’anno a riflettere attorno a un saggio di Arjun Appadurai, The capacity to aspire (“la capacità di aspirare”, o di “nutrire aspirazioni”). Il cuore del saggio è l’idea che le rappresentazioni e gli orientamenti nei confronti del futuro siano Paolo Jedlowski una parte importante di ciò che chiamiamo cultura. Culture matters, scrive Appadurai, la cultura conta, e in particolare per le politiche dello sviluppo finalizzate alla riduzione della povertà. Queste potrebbero trovare nella capacità di nutrire aspirazioni da parte di chi è povero “un naturale alleato”. Per i poveri stessi, questa capacità farebbe parte delle «risorse necessarie per sfidare e modificare la propria condizione». Appadurai descrive le azioni di un insieme di organizzazioni non governative composte da attivisti impegnati a modificare le condizioni di vita degli abitanti degli slums di Mumbay. Fra le attività di queste organizzazioni rientra l’insegnare ai poveri a risparmiare. Il saggio si conclude con queste note: «Poiché le politiche dello sviluppo e di riduzione della povertà hanno a che fare con il futuro, è evidente che una migliore capacità di nutrire aspirazioni può solo rendere i poveri migliori partner di queste stesse politiche». E ancora: «Si tratta di mettere il futuro, piuttosto che il passato, al cuore del nostro modo di pensare la cultura». Alcune delle affermazioni con cui il saggio si apre mi paiono discutibili: non sono sicuro che l’antropologia abbia sottostimato fino ad oggi gli orientamenti al futuro presenti nelle varie culture come Appadurai dice; non mi sembra vero che le politiche dello sviluppo abbiano sempre mancato di considerare certe variabili culturali. Penso però che per chi si occupa di politiche sociali il passaggio dall’uso di nozioni riguardanti i “bisogni” a un discorso focalizzato sulle “aspirazioni” sia estremamente importante. Mette al centro dell’attenzione la soggettività delle persone, enfatizza la loro responsabilità, indica strategie d’azione concrete. Soprattutto, trovo di grande interesse l’invito a prestare attenzione agli aspetti per cui ogni cultura comprende certe rappresentazioni e orientamenti riguardanti il futuro. Nei termini di Appadurai, le aspirazioni sono orientamenti attivi nei confronti del futuro. Una miscela di immaginazione e di volontà. Sono, per così dire, dei ponti che i soggetti costruiscono fra il presente e il futuro. Possiamo articolare ulteriormente questa definizione.
Fenomenologicamente, le aspirazioni si collocano fra i meccanismi della protensione e quelli dell’anticipazione. Traendo linfa sia dalla protensione che dall’anticipazione, le aspirazioni sono qualcosa di simile a dei desideri disciplinati, cioè desideri posti in relazione con il principio di realtà (per come il soggetto ha modo di intendere la realtà, naturalmente): avere certe aspirazioni non significa infatti meramente desiderare, sperare o attendersi che qualche cosa accada, significa immaginare obiettivi plausibili e disporsi a corsi d’azione che al raggiungimento di questi obiettivi paiono adeguati entro un futuro probabile.
“Come ha scritto John Lewis Gaddis, «conosciamo il futuro solo attraverso il passato che vi proiettiamo». Le rappresentazioni del passato sono influenzate dai progetti che coltiviamo; ma anche le rappresentazioni del passato influenzano i modi in cui immaginiamo il futuro” L’aspetto più interessante delle aspirazioni è che queste sono sia un non-ancora (l’obiettivo, per definizione, non è ancora stato raggiunto), sia una modalità del presente. Aspirare a qualcosa vuol dire dare un senso al futuro (scegliere fra i possibili quello più desiderabile; far sì che il futuro non sia indifferente): ma lo si fa nel presente, e il senso del futuro si riverbera così sul senso dell’ora, che dalla presenza dell’aspirazione è modificato. Le aspirazioni sono dunque parte del significato che assumono i nostri corsi d’azione; contribuiscono a dare al presente la sua coloritura. Chi aspira a qualcosa è più vigile di chi non ha aspirazioni, è attento alle opportunità che all’aspirazione possono venire connesse (e che solo l’aspirazione, in verità, permette di considerare tali); è attivamente aperto al possibile. D’altro canto, come nota Appadurai, la capacità di nutrire aspirazioni è socialmente distribuita in modo ineguale. Nutrire aspirazioni è in un certo senso saper “navigare” nel tempo: ci vogliono conoscenze, informazioni, relazioni ed esperienze per saperlo fare; chi ne è povero, è povero anche della capacità di aspirare. Ma, scrive ancora Appadurai, le aspirazioni «non sono mai semplicemente individuali […]. Si formano nell’interazione e dentro lo spesso tessuto della vita sociale». Tanto gli obiettivi cui appare sensato aspirare, quanto il quadro temporale in cui le aspirazioni si situano, quanto infine il sistema di previsioni collettive sul cui sfondo si
dipana il progettato corso d’azione dipendono dai contesti sociali, e sono interiorizzati dagli attori come parametri che disegnano il solco entro cui le aspirazioni soggettive si collocano. Da L’antropologo statunitense Arjun Appadu- tempo abbiamo rai, autore del saggio The capacity to aspire imparato a parlare dei “quadri sociali” della memoria: ma esistono quadri sociali anche per il futuro. Come ha scritto lo storico John Lewis Gaddis, «noi conosciamo il futuro solo attraverso il passato che vi proiettiamo». Da sociologi, sappiamo quanto le rappresentazioni del passato siano influenzate dai progetti che coltiviamo; ma, viceversa, anche le rappresentazioni del passato influenzano i modi in cui immaginiamo il futuro. Sappiamo come il passato possa essere oggetto di rimozione oppure di elaborazione; ma entrambi i processi riguardano anche il futuro: ciò che è rimosso tende a ripresentarsi immutato, mentre ciò che è elaborato permette di progettare il futuro responsabilmente. Fra i modi in cui si guarda al passato e quelli con cui si guarda al futuro vi è insomma una circolarità. Ma entro quali quadri sociali si colloca oggi la “capacità di aspirare”? Questa è la domanda intorno a cui il saggio di Appadurai mi spinge a riflettere. Non posso parlare dell’India. Ma qui da noi, in Occidente? Lo sfondo su cui le persone hanno collocato le proprie aspirazioni (individuali, famigliari e di gruppo) nell’Occidente moderno è stato fornito a lungo dall’idea di progresso. Oggi l’idea pare in crisi. I quadri sociali entro cui noi guardiamo al futuro corrispondono a questa eredità lacerata.
“Lo sfondo su cui le persone hanno collocato le proprie rappresentazioni nell’Occidente moderno è stato fornito a lungo dall’idea di progresso. Oggi l’idea pare in crisi. I quadri sociali entro cui noi guardiamo al futuro corrispondono a questa eredità lacerata” A proposito del progresso, Robert Nisbet ha scritto che nella nostra civiltà «nessun’altra idea è stata più importante». Sul piano storico non si può dargli torto. Questa idea ha fornito un quadro entro cui aspirazioni soggettive ed attese riguardanti il futuro si sono sostenute reciprocamente. Il “progresso” è una credenza: la credenza che - a livello della società nel suo insieme - domani sarà migliore di oggi. Si tratta di una interpretazione del mutamento di cui le società moderne hanno fatto esperienza. Una interpreta-
zione in positivo: capace di selezionare le evidenze a conferma e di rimuovere le evidenze contrarie. Non è mai stata esente da critiche e non è mai stata disgiunta da contrappunti nostalgici, ma è stata un’interpretazione largamente egemonica. Raymond Aron la definiva una “religione secolare”. È una “grande narrazione”. Probabilmente la grande narrazione per eccellenza dell’Occidente moderno. Nelle sue differenti versioni, l’idea di progresso ha corrisposto a programmi orientati allo sviluppo di scienze e tecnologie, all’aumento dell’istruzione e della partecipazione politica, alla crescita delle capacità produttive e del benessere materiale e, almeno in linea di principio, alla distribuzione universale dei benefici prodotti. Ma insieme, e soprattutto, ha corrisposto all’attesa fiduciosa che questi programmi si realizzassero. Si è trattato di un orizzonte di senso entro cui certe aspirazioni sono state socialmente plausibili e sono state legittimate dall’aspettativa che fosse la società tutta a muoversi “in avanti”, verso un futuro migliore. I processi di modernizzazione, ovunque si sono verificati, hanno comportato una mobilitazione generalizzata di aspirazioni personali coerenti con progetti collettivi il cui successo era fiduciosamente previsto. Questo quadro ha reso individui e gruppi capaci di fornire a se stessi ciò che Appadurai nel suo testo chiama «[…] le giustificazioni, le narrative, le metafore e le strade per legare l’aspirazione a certi insiemi di beni e servizi ai più ampi scenari sociali»: una logica insomma che permette tanto di interpretare quanto di prefigurare certi corsi d’azione. L’epoca d’oro dell’idea di progresso, a livello di massa, è coincisa con i decenni fra il 1945 e i primi anni Settanta. Oggi l’idea sta diventando meno scontata. In verità, non è così ovunque, e anche in Occidente la crisi procede per gradi. Ma, per i più, alla fiducia nel futuro subentra oggi un regime di attese più incerto. A livello di massa, la prima erosione di questa fiducia è avvenuta negli anni Ottanta. Dall’incidente di Chernobyl in avanti si è cominciato a percepire che lo sviluppo scientifico e tecnologico dà luogo a rischi imprevisti. È ciò che, nello stesso anno di Chernobyl, teorizzava Ulrich Beck: dagli sviluppi delle tecnologie nucleari fino alle applicazioni della chimica e, più recentemente, della genetica, si delinea un panorama in cui scienze e tecniche paiono fonte di potenziali e originali minacce. Altri fattori di incertezza hanno colpito con forse maggiore efficacia. A partire dagli anni Ottanta il sistema finanziario ha raggiunto un livello di autonomia dalla produzione reale che è senza uguali nella storia, e ciò provoca oscillazioni paurose, i cui effetti sono perfettamente percepibili a livello di massa. Così come sono percepibili gli effetti della riorganizzazione della produzione in chiave post-fordista e della inedita precarizzazione del lavoro che questa ha generato. Unita agli scricchiolii del sistema previdenziale e assistenziale, la precarizzazione dei rapporti di lavoro ha allontanato le traiettorie di vita da modelli che erano sembrati assodati. Ma non si tratta solo di incertezza. Il punto è anche una concreta riduzione delle opportunità. In una ricerca pubblicata in Italia nel 2002, Antonio Schizzerotto ha notato: «I trentenni e i ventenni di oggi costituiscono le prime
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due generazioni del XX secolo a non essere in grado di migliorare le proprie prospettive di vita rispetto a quelle delle generazioni dalle quali discendono». Vale probabilmente lo stesso per la maggior parte dei paesi occidentali. E vale soprattutto per il nerbo della società novecentesca, i ceti medi, la cui posizione oggi è in bilico.
“I processi di modernizzazione, ovunque si sono verificati, hanno comportato una mobilitazione generalizzata di aspirazioni personali coerenti con progetti collettivi il cui successo era fiduciosamente previsto” Incertezza e contrazione del ventaglio delle chances richiedono una sorta di flessibilizzazione delle aspirazioni. È possibile che aumenti anche, per alcuni, la tentazione di ricorrere a mezzi illegali per realizzare aspirazioni che con mezzi legali appaiono fuori portata; per molti, cresce la tentazione di affidarsi alla fortuna (la crescita di spese in lotterie e simili ne è un indicatore). Ma per comprendere in che direzioni si stia modificando il quadro delle aspirazioni, è necessario rammentare che l’idea di progresso è fatta in verità di diverse nozioni intrecciate: c’è la fiducia nei progressi della scienza e delle tecnologie, quella nella crescita del benessere disponibile, e quella nel fatto che tale benessere sarà accessibile ai più. I dubbi più diffusi oggi non mi pare riguardino i primi elementi. Fra le promesse del progresso, una certa nozione di equità distributiva, almeno in quanto equità di distribuzione delle chances, è sempre stata presente. Ma questa oggi è in forse. Il progresso c’è, insomma, ma non per tutti. Questo sospetto genera risentimento. E il risentimento modifica radicalmente il quadro delle aspirazioni. Non si aspira più a qualcosa cui tutti, in linea di principio, possono aspirare senza che la soddisfazione degli uni neghi quella degli altri: si aspira a conseguire o almeno a mantenere certe posizioni che possono essere acquisite o mantenute solo a scapito dei concorrenti. I movimenti regionalisti delle regioni più forti, i moti corporativi di tanti gruppi sociali, hanno qui la loro origine. La fiducia nel progresso genera-
lizzato includeva. La prospettiva di un progresso selettivo divide. Per chi ha chiaro di non essere tra i fortunati, “progresso” diventa il nome di una promessa mancata. In alcuni, ciò che qui può svilupparsi è, più che un risentimento, un vero e proprio rancore: dove la memoria di ciò che si era imparato a desiderare e che ora è fuori portata assume il senso di un trauma che non si è disposti ad elaborare. Il progresso va ripensato, scrive Pierre-André Taguieff in Le sens du progrès (2005). Ciò che ritiene definitivamente inservibile è l’interpretazione del progresso in chiave “necessarista”, cioè tanto la credenza nel suo automatismo quanto la fiducia nel fatto che ogni aspetto del progresso si dispieghi di conserva: dagli ambiti scientifici e tecnici a quelli sociali, morali e politici. Ma come nota Taguieff «[…] alla fittizia necessità del progresso si potrebbe sostituire la […] volontà più modesta di realizzare questo o quel progresso in un dato ambito». Quella che si potrebbe salvare, in altri termini, è una nozione che «non rinvii più al progresso (al singolare) ma a dei progressi (al plurale)». Che includa prudenza e responsabilità. Il nuovo, in se stesso, non è garanzia di miglioramento. Ci sono cose che è opportuno serbare. Si tratta di un atteggiamento che Taguieff definisce un “conservatorismo critico”. Altrove lo chiama “migliorismo”, e dichiara di riprendere il termine da una donna, una romanziera, George Eliot. Forse non è casuale: Taguieff non cita il femminismo della seconda metà del Novecento, ma l’idea del senso dei limiti (del progresso, della perfettibilità, della natura stessa) che anima le sue riflessioni dal neofemminismo è stata elaborata ampiamente. Il pensiero femminista ha riformulato l’idea del progresso in quella di una crescente capacità di prendersi cura della vita, delle relazioni, del mondo. Ma elaborare i limiti del progresso per come lo si è fin qui prevalentemente pensato e proporre nuove declinazioni del concetto significa modificare il quadro delle aspirazioni. D’altro canto, significa anche riconoscere che esistono aspirazioni diverse, per tipo e per qualità. Ci sono aspirazioni che, per realizzarsi, hanno bisogno di essere condivise. L’aspirazione del protagonista del romanzo di Fitzgerald, Il grande Gatsby, ad esempio, era avere mille camicie: si tratta di ostentare la propria ricchezza. In questo caso non c’è bisogno che altri soddisfino la stessa aspirazione: anzi, l’obiettivo ha senso solo
Come per il passato le rappresentazioni del futuro sono oggetto di costruzione sociale. Ciò che è possibile, probabile oppure impossibile è raramente un dato incontrovertibile: è un modo di interpretare quello che abbiamo di fronte. Poiché questa interpretazione influirà sui corsi d’azione, si compete per diffondere l’interpretazione più conveniente. Gran parte dei conflitti che oggi attraversano i mondi della comunicazione riguardano esattamente questo punto: individui e gruppi competono, cooperano, negoziano o cercano di annullarsi a vicenda nel tentativo di far sì che la società nel suo insieme finisca per dare per scontate certe possibilità o certe altre. La centrale nucleare di Chernobyl, com’è oggi. Quello del 26 aprile 1986 è stato il più grande disastro della storia del nucleare civile nel mondo. Dall’incidente di Chernobyl in avanti si è cominciato a percepire che lo sviluppo scientifico e tecnologico dà luogo a rischi imprevisti
nella misura in cui altri non lo conseguono. (L’unica condizione è che condividano l’idea che l’obiettivo ha valore). Ma pensiamo un altro esempio: l’aspirazione a passeggiare per le strade di una città pulita. In questo caso, l’obiettivo è raggiungibile solo se altri lo condividono e cooperano al suo raggiungimento. In entrambi i casi si tratta di aspirazioni plausibili; ma sono essenzialmente diverse. Come quelle del primo tipo non riguardano solo le camicie, ovviamente, quelle del secondo non riguardano solo la pulizia delle strade. Possono avere a che fare con il desiderio di vivere in un mondo dove la soddisfazione degli uni non sia minata dall’insoddisfazione di altri; dove la dignità umana sia garantita; dove il riconoscimento sia equamente distribuito. Queste aspirazioni dipendono dal riconoscimento del fatto che l’umanità di chi non riconosce umanità all’altro è irrisoria. Questo tipo di aspirazioni convive nelle nostre culture con altre aspirazioni (quelle più correnti, non molto dissimili da quelle di Gatsby). Ma nessuna cultura è un tutto omogeneo. Le maggiori differenze corrono a volta al loro interno. Si tratta di fare ricerca: di indagare i sistemi di aspirazioni, ciò che li influenza, le direzioni in cui si stanno modificando. I nostri studi sulla memoria possono tornare utili. La memoria scava il solco entro cui le aspirazioni si incanalano e queste a loro volta spingono a leggere in certi modi il passato. Nel mondo contemporaneo, si dice che le memorie tendano a essere “brevi”: ma ciò riguarda soprattutto le memorie di lavoro, connesse a compiti multiformi e temporanei per loro natura; altre memorie, di portata più lunga, convivono entro le stesse persone. Lo stesso vale per il futuro: viviamo in “futuri brevi” a causa dell’incertezza di molti ambiti in cui ci troviamo a operare, ma ciò non esclude speranze, investimenti o progetti a più lunga scadenza. D’altro canto, contano i modi in cui la società intera, attraverso i flussi di comunicazione che si intrecciano al suo interno, immagina il futuro. Questi influenzano tanto la percezione della plausibilità di certi obiettivi quanto quella di certi corsi d’azione. La definizione del futuro ha effetti concreti sui comportamenti: le previsioni a riguardo sono dunque oggetto di dispute, di strategie comunicative, di manipolazioni da parte di diversi poteri.
“L’epoca d’oro dell’idea di progresso, a livello di massa, è coincisa con i decenni fra il 1945 e i primi anni Settanta. Oggi l’idea sta diventando meno scontata. In verità, non è così ovunque, e anche in Occidente la crisi procede per gradi. Ma, per i più, alla fiducia nel futuro subentra oggi un regime di attese più incerto” Le aspirazioni che le persone coltivano dipendono da questa costruzione, e d’altra parte vi contribuiscono. In una vignetta di Schultz, il celeberrimo Snoopy, seduto sul tetto della sua cuccia, diceva: «Nessun grande ricordo eguaglia la più piccola speranza». Dopo un breve silenzio commentava: «Questa mi piace». Piace anche a me. La speranza non è la stessa cosa dell’aspirazione; ne condivide però la radice. È un’attesa venata di desiderio. Apre il presente al possibile. Sperare e aspirare (così come progettare, prevedere, temere, essere in ansia e infinite altre forme di declinazioni dell’attesa) sono modi di attribuire un senso al futuro: ma lo si fa nel presente, e i loro effetti si riverberano nel senso dell’ora. Le aspirazioni sono parte del senso che attribuiamo all’agire. (l’articolo è una sintesi dell’intervento presentato al convegno nazionale A.I.S. - sezione “Vita quotidiana”, Milano, settembre 2010)
Incertezza e contrazione del ventaglio delle chances richiedono una sorta di flessibilizzazione delle aspirazioni: cresce la tentazione di affidarsi alla fortuna e le spese in lotterie e simili
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Il futuro che vogliamo tutelare Il presidente dell’Acea parla dei prossimi obiettivi di Giancarlo Cremonesi
Roma è oggi la portabandiera di una terza rivoluzione industriale economicamente sostenibile. Lo sostiene Jeremy Rifkin, l’esperto Usa di energie rinnovabili e presidente di Foundation on Economic trends, ma prima ancora lo sostiene Acea insieme al sindaco Alemanno. Acea, infatti, da centouno anni ha stretto un patto indissolubile con la città di Giancarlo Cremonesi Roma. Centouno anni di lavoro umano, di valori e di impegno impiegati nella città con cui Acea ha sempre avuto uno straordinario legame, lo stesso che l’ha portata a consolidare e sviluppare l’impegno quotidiano nell’erogazione dei servizi fondamentali. In questi centouno anni Roma da città è diventata metropoli. Acea, una grande multiutility al servizio dei cittadini. Distribuire luce e acqua a tutti per noi ha significato garantire vita, uguaglianza di diritti, sviluppo umano. Ed è proprio in questa prospettiva che abbiamo sempre guardato, fin dal lontano passato, al futuro. Acea si è mostrata sempre al passo con i tempi e i suoi cambiamenti, anzi se possibile un passo avanti. E grazie a questa capacità, ancora oggi possiamo rinnovare l’impegno verso i principi del risparmio energetico e dello sviluppo sostenibile. Il nostro obiettivo prioritario è quello di applicare concretamente la responsabilità sociale d’impresa non nei nostri interessi, ma in quelli dei cittadini. È per questo che ritengo indispensabile guardare alla sostenibilità ambientale come un tassello fondamentale per il futuro. Un futuro che coinvolge in pieno la città di Roma, la nostra Capitale. Nel 2009 il sindaco Alemanno ha lanciato una sfida importante, durante il primo summit internazionale sulla sostenibilità a Palazzo Colonna: il progetto “Roma Città Solare”, che si incarica di progettare una pianificazione integrata, proprio in virtù della grandezza e della complessità territoriale, sul rinnovamento delle fonti energetiche, affinché Roma possa diventare un esempio di metropoli sostenibile. Questo progetto rappresenta per Acea una sfida emozionante e prioritaria. È il nostro sogno comune. Un sogno, reso ancora più tangibile dal consolidamento del ruolo di Roma Capitale, recentemente validato dal provvedimento che ha attribuito un nuovo status alla città di Roma. Una metropoli con una governance adeguata non solo al ruolo di capitale d’Italia, ma anche al valore internazionale della città. Acea ha dunque davanti una grande sfida per il futuro, quella di partecipare al consolidamento di Roma Capitale attraverso la realizzazione di una metropoli a impatto zero, modello della terza rivoluzione industriale. Minicentrali energetiche sui tetti, reti di distributori di idrogeno misto a metano, cogenerazione ed energia solare negli ospedali, sui tetti delle scuole e a copertura di parcheggi, centri commerciali e ca-
pannoni industriali. E ancora, punti luce a tecnologia led per risparmiare energia e colonnine per ricaricare auto elettriche. Si tratta di un modello energetico ed economico decentrato, di supporto al passaggio dal ciclo del carbonio a quello del sole e dell’acqua, puntando sulle fonti rinnovabili a disposizione di tutti i cittadini. Con la possibilità per ogni cittadino di essere produttore, e non più soltanto consumatore di energia. Il tutto a vantaggio di una maggiore sostenibilità ambientale e climatica e di una maggiore crescita economica. Tra le tante iniziative in linea con questi principi, proprio alla fine dello scorso anno Acea ha inaugurato l’impianto fotovoltaico del centro idrico di Monte Mario, una struttura autosufficiente dal punto di vista energetico che, oltre a distribuire acqua potabile di ottima qualità a mezzo milione di romani, produce energia rinnovabile ed evita contemporaneamente l’emissione di ingenti quantitativi di CO2 nell’atmosfera. E ancora, la recente realizzazione da parte di Acea del moderno impianto fotovoltaico del centro Elsa Morante nel quartiere Laurentino 38, inaugurato in occasione della terza giornata dei festeggiamenti per i centoquaranta anni di Roma Capitale. Il contributo di Acea è stato quello di aver installato un impianto fotovoltaico con l’effetto di creare dei veri e propri “cubi di luce”. L’impianto, che sfrutta l’energia solare, con la propria tecnologia consente di coniugare l’approvvigionamento e il consumo di energia elettrica senza emissioni di sostanze inquinanti ed è caratterizzato da un design integrato nell’architettura del centro. Posso aggiungere che entro i prossimi anni Acea incrementerà sensibilmente la produzione di elettricità da fotovoltaico. Lo sviluppo delle fonti rinnovabili in questa ottica non deve essere considerato uno sforzo inutile una spesa mal riposta, ma risorsa ambientale per eccellenza.
“Il nostro obiettivo prioritario è quello di applicare concretamente la responsabilità sociale d’impresa non nei nostri interessi, ma in quelli dei cittadini. È indispensabile guardare alla sostenibilità ambientale come un tassello fondamentale per il futuro” Si impiegheranno nel migliore dei modi possibili tecnologia e ricerca, per raggiungere gli obiettivi europei in pochi anni e rendere i costi delle energie pulite competitivi con quelli delle fonti oggi più usate. È con questo impegno che Acea vuole contribuire a rendere Roma entro il 2020 la città più sostenibile d’Europa. La capitale, insieme ad Acea, potrà davvero assumere un ruolo guida nella prossima terza rivoluzione industriale. Il progetto è ambiziosissimo, ma la città sarà un esempio per tutto il mondo e in primis per l’Europa. Un’immagine della capitale che può e deve essere trasformata in realtà. Una sfida globale per il prossimo futuro.
«E se domani» Uso e abuso del concetto di futuro di Michela Monferrini
«“Sì, certamente, se domani dell’astronomia e dell’astrologia procedevano di pari passo è bello,” disse la signora fino a sovrapporsi e confondersi in un unico nome, e ancora Ramsay. “Ma ti dovrai svecome la Grecia all’Italia. Quella strada portava fin sulla sogliare con l’allodola,” agglia della casa dell’astrologo Nigidio Figulo, che al neonato giunse». Attorno alla parola Ottaviano Augusto fece un oroscopo esaltante, presentandomani Virginia Woolf ha dolo come futuro dominatore del mondo; e portava a Roma, costruito Gita al faro, una portava a Cesare e a Pompeo che si affidarono alle stelle delle sue opere più belle e per uno stesso responso, entrambi influenzati dall’esperienimportanti, quel romanzo za dei Caldei, di quelle schiere di astrologi che si erano riche fin dall’incipit si annunversate proprio a Roma imperversando fino all’epoca di cia fondato sul tempo e sulNerone, pretendendo un’autorità massima che giustificaval’attesa, romanzo anzi sul no con le origini mesopotamiche delle loro tesi. Michela Monferrini tempo dell’attesa. Il piccolo James Ramsay vorrebbe par“L’abitudine a dire e a dirci “domani”, tire l’indomani alla volta del Faro che si erge in lontananil bisogno di sapere cosa ci aspetta, di za. Attorno a lui, a creargli un’altalena di umori contrastanti, sua madre che alimenta la speranza, suo padre, coimmaginare cosa accadrà in un futuro me pure Charles Tansley, uno degli ospiti di casa, che la più o meno immediato e di capire cosa spegne. Si susseguono previsioni su “domani”, e proseè possibile o non è possibile pianificare, guono per capitoli e capitoli: «Ma non sarà bello», «Ma affonda probabilmente le sue radici potrebbe anche essere bello. Io credo proprio che sarà bello», «Domani non ci sarà modo di approdare al Faro», dove le affonda anche il linguaggio «Non si andrà al faro, James», «Ma forse ti sveglierai e ci umano” sarà il sole che brilla e gli uccelli che cantano». L’abitudine a dire e a dirci “domani”, il bisogno di sapere cosa ci aspetta, di immaginare cosa accadrà in un futuro più E non si può dire che quella strada si sia a un certo punto o meno immediato e di capire cosa è possibile o non è posinterrotta, perché con l’andare dei secoli e le prime risposte sibile pianificare, affonda probabilmente le sue radici dove certe a quegli interrogativi che sempre l’uomo si era posto, le affonda anche il linguaggio umano; così come dell’astrocon gli strumenti tecnici, i calcoli precisi e sempre più prelogia, la pseudoscienza che sarebbe in grado di orientare il cisi, con la scienza in grado di risolvere problemi di diversa nostro sguardo qualche ora/settimana/mese oltre il presente, natura, la fascinazione per l’oroscopo non venne meno, anrestano tracce antichissime, nella storia e quindi nella lettezi colpì, come una malattia, personaggi come Copernico o ratura. Se in Omero, in Virgilio, in Lucano e in generale neGalileo. Girolamo Cardano, cadendo nella trappola, realizgli autori classici latini e greci, immancabili e solenni arrizò rosei oroscopi all’arcivescovo di Edinburgo e al re d’Invano tra le pagine predizioni del futuro, voci degli oracoli, ghilterra, i quali, in meno di un anno, morirono rispettivadomande angosciate alle sibille, agli auspici e agli aruspici mente per impiccagione e tubercolosi. (presenti anche nel mito della fondazione di Roma), è perMa oggi, come riescono a convivere, per esempio, l’astrofiché in tempi già avidi o totalmente privi di strumenti sica e l’astrologia? Perché, pur in un’epoca in cui il adatti per soluzioni razionali, di dati esatti, di supporto della scienza è tutto, continuiamo a legun’ampia verificabilità empirica per spiegare gere gli oroscopi, ad aspettare che notizie poe risolvere gli interrogativi dell’uomo, la vesitive ci giungano dalle pagine finali di giorra scienza – quella astronomica – era stata nali e riviste, ad affidarci a coloro che ce le da molto affiancata dalla superstizione, da procurano anche quando non sappiamo letture – quelle appunto astrologiche – più minimamente chi essi siano? o meno fantasiose e ambigue del cielo e Il filosofo Theodor W. Adorno, nel titolo dei suoi segni e segnali: una stessa strada di un suo studio condotto analizzando la collegava l’America centrale dei Maya (aurubrica di oroscopi Astrological Forecasts, tori della “fortunata” profezia sulla fine del diretta da Carroll Righter sul Los Angeles Timondo nel 2012 – cioè “domani”) alla mes dal novembre 1952 al febbraio 1953, Cina, come l’India a Menfi, antica capita- I dodici segni dello zodiaco cinese. li ha definiti Stars down to earth, stelle le dell’Egitto pretolemaico (e non a caso Dinastia Sui 581-618 d.c. bronzo, Museo “terra terra” diremmo noi, stelle alla porrinomato centro religioso) in cui lo studio Guimet, Parigi tata di tutti (l’indagine è stata recente-
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mente ripubblicata da Einaudi con il titolo di Stelle su misura). Adorno, che conservava ancora fresco il ricordo di quelle masse tedesche di persone cieche e dipendenti da un dittatore che credeva negli oroscopi e nella magia e che con il suo carisma da leader pazzo fungeva lui stesso da oroscopo vivente nei confronti delle folle adoranti, si accosta non allo studio dell’astrologia in quanto tale, ma di un’altra massa che forse lo spaventa altrettanto e lo inquieta, ed è la sfuggente, sempre più vasta massa americana, che spasmodicamente diventa fedele alla parola dell’astrologo di turno, dimostrandosi altrettanto capace di cecità e desiderio di adorazione e narcisismo e conformismo. Ciò che spaventa Adorno è l’incapacità di riflessione, di critica, la sospensione del giudizio personale, l’assoggettamento, l’aggregazione per l’aggregazione. Ai lettori dell’oroscopo del Los Angeles Times non interessa che il “metodo” utilizzato dall’astrologo non gli venga minimamente spiegato, non gli interessa capire ma, così sembra, soltanto avere qualcosa in cui credere totalmente, qualcosa che aiuti a capire cosa fare, che indirizzi e decida per loro, giornata dopo giornata. I ben più consapevoli astrologi, nella nascente società dei consumi, diventano dunque a loro volta pedine di un sistema più
Lo zodiaco rappresentato in un mosaico del VI secolo nella sinagoga di Beit Alfa, oggi in Israele
grande che li consiglia e li influenza su cosa consigliare e su come influenzare. Il filosofo accosta, compara e scarnifica i messaggi, arrivando a leggere tra le righe e a capire che tutto quel che viene anche pittorescamente descritto, nasconde dei messaggi sul domani il cui succo è: lavorate, siate ubbidienti e fedeli, non parlate a sproposito, non vi rivoltate contro i superiori, siate felici di quel che già possedete, non desiderate oltre, non desiderate, non desiderate. Sono consigli mascherati, quelli che negli anni Cinquanta si trovavano sul Los Angeles Times, che pericolosamente somigliavano a ciò, appunto, che un dittatore avrebbe potuto pretendere dal suo popolo. Oggi che il tentativo di dirigere i lettori come si potrebbero dirigere delle vetture nel traffico intasato è fortunatamente venuto meno per motivi storici, politici e culturali, non è però venuto meno il desiderio delle persone di sentirsi rassicurate, o di trovare conferma in quel che soltanto possono sperare.
“Perché, pur in un’epoca in cui il supporto della scienza è tutto, continuiamo a leggere gli oroscopi, ad aspettare che notizie positive ci giungano dalle pagine finali di giornali e riviste, ad affidarci a coloro che ce le procurano anche quando non sappiamo minimamente chi essi siano?” I nostri astrologi, ben lontani dalle antiche terre babilonesi o foreste messicane, sembrano semplicemente voler “coccolare” i lettori, confermargli che sì, domani le cose andranno meglio, che domani, in fondo, domani è un altro giorno. L’ha detto chiaramente Rob Brezsny i cui oroscopi sono seguitissimi su Internazionale: «Scrivo lettere d’amore ai miei lettori», e l’ha confermato Herta Herzog accostando il funzionamento dell’oroscopo a quello del canovaccio di una fiction televisiva: «Prima i guai, poi tutto va per il meglio». Con un pericolo: che i fan di Branko, di Paolo Fox, dell’originale, sorprendente Marco Pesatori non si rendano conto che le favole sono sempre a lieto fine ed è anche bello crederci da adulti, ma la vita è un’altra cosa, oggi e anche domani.
In questa ricerca, condotta con un ampio ricorso alle categorie della psicologia sociale e della psicoanalisi, Adorno analizza il contenuto della rubrica astrologica di un quotidiano conservatore americano, il Los Angeles Times, per capire la natura e le motivazioni di un fenomeno sociale che ha grande diffusione nel mondo contemporaneo: la credenza nei poteri delle stelle mediata da giornali e riviste. Secondo Adorno, nel quadro della funzione comune di promozione della conformità sociale svolta dai mass media, ciascuno dei mezzi in questione - il cinema, la televisione, le rubriche di psicologia popolare e quelle di astrologia - ha metodi specifici di manipolazione, specifici destinatari e una specifica mescolanza di irrazionalità e di esigenze razionali. La razionalità, o meglio la «pseudorazionalità», questa «zona crepuscolare fra la ragione e le pulsioni inconsce», risiede invece nel fatto che i messaggi trasmessi dagli astrologi riguardano piccoli problemi quotidiani di natura prevalentemente pratica, ai quali fingono di dare la risposta più utile e sensata.
Rethinking Utopia The reciprocal relations between the utopian imagination and everyday world di Victor S. Vakhshtayn
First of all, let me confess that plan. Each website is a utopian place in a virtual space. If links my interest in utopia studies is on a Web page? take users to “wrong” destinations or even to not purely academic. For “dead ends”, the problem is due, not to resistance by the everyone who lives in environment nor to the imperfection of human material to Moscow, the problem of which reorganizers of physical space can always refer, but utopia is a matter of everyday exclusively to errors in the design of the website or its life: the inconsistency of architectural ensembles, traffic The utopian imagination is one of the jams, concentric urban powerful sources of the formal-rational planning (probably inspired by thinking implemented in urban the image of the spider’s web), and at the same time the planning and modernist architecture di Victor S. Vakhshtayn demands for universal transparency, rationality and realization. The philosophy of practice (M. Foucault, M. de representation of the future-in-the-present attitude. European Certeau in France, post-Wittgensteinian philosophy in Britain, architects who visited Moscow in the 1920s and 1930s used to and ethnomethodological sociology in North America) used say that “this is a city living between History and Utopia”. vulnerabilities in the utopian imagination to attack the idea of Today, alas, it is a city living at the crossroads of partially homogeneous space. More explicitly than others, this position realized utopian projects, both social and architectural. The was expressed by M. Foucault: «Bachelard’s monumental future-in-the-present attitude has given way to the future-inwork and the descriptions of phenomenologists have taught the-past reality. Etymologically, “utopia” is not just a place us that we do not live in a homogeneous and empty space, that does not exist. The word derives from the Greek: ού, but on the contrary in a space thoroughly imbued with “not”, and τόπος, “place”. However, ού is not expression of quantities and perhaps thoroughly fantasmatic as well… The absence; it refers to the idea of impossibility. A place that does space in which we live, which draws us out of ourselves, in not exist today but may possibly be established somewhere in which the erosion of our lives, our time and our history the future would be called a “me-topia”. A utopia is a place occurs, the space that claws and gnaws at us, is also, in itself, that does not exist because it cannot exist at all. However, a heterogeneous space. In other words, we do not live in a throughout the history of humanity, constant attempts have kind of void, inside of which we could place individuals and been made to accomplish utopian projects. So what happens things… we live inside a set of relations that delineates to a utopian project when it has been realized (in part or in sites which are irreducible to one another and absolutely not toto)? What kind of transformation comes about when the fruit superimposable on one another». This non-equality of places of utopian imagination is imposed on the world of everyday inherent in heterogeneous space has not been taken into life, the world of non-reflexive routine activities and account by utopia planners striving for symmetry and immediate perceptions that William James called “paramount transparency. The heterogeneous space of human practices is reality” in the twenty-first chapter of his Principles of non-transparent and contradictory. To express this Psychology? Utopia turns into heterotopia. Invaded by contradictoriness Foucault used the notion of heterotopia: omnipresent face-to-face interactions and «The heterotopia is capable of corrosive everyday practices, utopian juxtaposing in a single real place several projects undergo a peculiar transposition spaces, several sites that are in from place-site to place-locale. The themselves incompatible. Thus it is that utopian imagination is one of the the theater brings onto the rectangle of powerful sources of the formal-rational the stage, one after the other, a whole thinking implemented in urban planning series of places that are foreign to one and modernist architecture. Modern another; thus it is that the cinema is a urban planners and utopianists of the very odd rectangular room, at the end of Renaissance share the idea of space as which, on a two-dimensional screen, one homogeneous, initially empty, and sees the projection of a three-dimensional intended to be filled with bodies, objects space; but perhaps the oldest example of and actions. A website provides a good these heterotopias that take the form of metaphor for such a “place without contradictory sites is the garden». place”, planned in detail and created An attempt of utopia implementation: Moscow’s Modern botanical gardens have without significant departures from the reconstruction project, VOPR group (1932) maintained this heterotopian intention.
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They bring together plants which grow naturally in different parts of the world and could never “meet” except in the space specially created for their encounter. Museums and libraries are heterotopian in the same way. Fairs and amusement parks are also heterotopian. Foucault noticed the same heterotopian intent in cemeteries: within them there lie the bodies of people who lived in different epochs, and this biographical “heterochronicity”, projected onto the limited area of the cemetery, creates a specific temporal asymmetry of cemetery
How does the heteronomy of real space penetrate a utopian object, seize it, and break down its homogeneity? It does so through particular human practices: firstly practices of creation, then practices of its usage. Umberto Eco summarizes this process in Brasilia in the following points: a) The amount of Brasilia’s construction workers who lived there exceeded the dwellings intended for them. The district of Bandeirante thus arose around the city as a miserable favela, a huge shanty-town, and a sink of iniquity. b)The super districts in the south were built earlier and better than those in the north. The latter were constructed with Modern urban planners and materials so that, although they are newer, there are shoddy utopianists of the Renaissance share already signs of dilapidation. As a result, officials occupying the idea of space as homogeneous, senior positions prefer to live in the southern part of the city. initially empty, and intended to be c) The number of immigrants exceeded the number planned, and Brasilia could not accommodate all of them. Thus filled with bodies, objects and actions satellite-cities emerged, which in a short time increased the space. Towns combining districts with one-thousand, onenumber of citizens tenfold. hundred and one-year histories? are also heterotopian. Only d)The overlords of industry and major private entrepreneurs city-utopias – built by the united effort of political will with no refused to live in the super districts and located in cottages reference to what preceded them and therefore as towns situated parallel to the “wings” of the city. without history – claim to overcome heterotopian space. e) Because of the abolition of crossroads and footpaths, However, their claim is untenable. In practice, the transparent elongated streets proved to be suitable only for and logically consistent order of utopian design (not to automobilists. The distances between the districts and the mention the entire history of its subsequent usage) is “body” made it difficult to maintain relations and substituted by the logically inconsistent and nontransparent emphasized the non-equivalence of living areas. order of heterotopia. The utopian project based on the axioms Thus, the homogeneous became heterogeneous after the first of homogeneity and similarity is not viable in the contact with the sphere of practical interactions. An heterogeneous space of the living world. This is demonstrated implemented utopia is a heterotopia: the act of implementation by one of the largest utopian projects realized today – the city itself introduces heterogeneity into it. of Brasilia. As James Scott put it: «Brasilia was conceived of However something is missing. The philosophy of practice – by Kubitschek and by Costa and Niemeyer as a city of the which calls itself the “practical turn” – took a wrong turning future, a city of development, a realizable utopia. It made no somewhere along its theoretical road. It is too simple to reference to the habits, traditions, and practices of Brazil’s past criticize urban planners and the very spirit of modernism as or of its great cities, Sao Paulo, Sao Salvador, and Rio de “utopian” from the perspective of everyday life practices. It is Janeiro. As if to emphasize the point, Kubitschek called his too tempting to oppose utopian imagination against own residence in Brasilia the Dawn Palace… Like the Saint heterotopian practice. The postmodern obsession with the Petersburg of Peter the Great, Brasilia was to be an exemplary heterogeneity of local practices prevents us from seeing the city, a center that would transform the lives of the Brazilians opposite process: while omnipresent everyday practices who lived there». The city was planned in the shape of a plane transform utopian projects, the utopian imagination (or a bird) raising its wings above a plateau as its fuselage (or transforms everyday practices. body) where administrative buildings were situated. Located We do not live in the world where utopian imagination in the cabin (or head) were symbolically important places and everyday life are clearly separated. whose mission had to be valued, rather than being spatial When Habermas assumed that utopia is dead because references. Residential communities, organized into blocks by utopian energies are depleted, he failed to consider four giant buildings (superquadra), were concentrated in the possible infiltrations or leakages (if I may make this wings. The majority of those who moved ambiguous reference to the WikiLeaks to Brasilia from other cities complained affair) of these “utopian energies” into about a lack of street life, convenient the micro-level of social interaction. squares, corner cafes and other places to The new communication media have meet. They also criticised the city’s made this possible; but not only these. anonymity, visual monotony, and What is really necessary today is a absence of visual reference points. new theoretical language with which Another researcher James Holston to interpret and understand the describes that tension in terms of formal reciprocal relations between the and practical rationality: «Thus, while utopian imagination and the everyday the topologies of total order produce an world, between homogeneous unusual abstract awareness of the plan, rationality and heterogeneous practical knowledge of the city actually practices. This is the task for all of us decreases with the imposition of – sociologists, philosophers and systematic rationality». A Realized utopia: plan of Brasilia (1957-1960) architects.
L.a.s.e.r. Un lasciapassare per il futuro di Irene D’Intino
Ma se ci fermiamo al 1960, forse riusciamo ad immaginare La parola laser evoca, da semlo stupore del fisico americano Theodore Maiman quando, pre, qualcosa di sufficientemostrando al mondo scientifico la sua “invenzione”, si sentì mente futuristico. Dal morispondere che aveva trovato la “soluzione in attesa di un mento in cui è entrata a far problema”. Come se il laser rappresentasse una grandissima parte del gergo comune, queinnovazione, ma non avesse in realtà un’applicabilità risolusto termine ha evocato fantativa. Si sarà poi tolto una bella soddisfazione Mr Maiman, sie più vicine alla saga di Star quando avrà avuto modo di notare (e di far notare ai suoi ilWars che all’applicabilità lustri colleghi) quanto la sua “invenzione” abbia rivoluzionaquotidiana. Almeno per chi, to il nostro vissuto. Ma d’altronde anche Albert Einstein, sin come molti, ne ignora la comdal 1917, sembra si fosse dedicato allo studio delle emissioni posizione, i possibili utilizzi e stimolate di radiazione. Quindi l’antenato illustre, di per sé, la versatilità. Sì, perché il laIrene D’Intino rappresentava già una garanzia di qualità. Ed oggi ci troviaser in realtà si è rivelato adatmo qui, nel 2011, esattamente nel cinquantesimo anniversatabile a molti ambiti scientifirio dalla prima accensione del laser, ad osservare quanto ci, talvolta anche inconsueti e inaspettati, come l’ingegneria, qualcosa di quasi sconosciuto si sia in realtà insinuato nelle la medicina, fino anche all’industria militare e all’estetica. E nostre vite, modificandole. E quante possibilità, soprattutto, lo usiamo anche noi quotidianamente, forse senza neppure abbia spalancato davanti agli occhi della scienza, che ne gosaperlo: è quello che ci permette di leggere il cd all’interno de, per prima, le sue segrete potenzialità, ipotizzando e imdel suo lettore, che fa sì che le cassiere possano “battere in maginando tutte le possibili applicazioni che il raggio potrà cassa” i prodotti che vogliamo acquistare, o che i poliziotti ci avere nell’immediato così come nel lontano futuro. multino, misurando la nostra velocità (quando eccessiva!). O «Il laser – ci spiega Roberto Camussi, docente presso il Dialmeno è questo quello che è accaduto finora, a cinquanta partimento di Ingegneria meccanica e industriale – viene utianni dalla realizzazione del primo raggio. Ma di potenzialità lizzato nella tecnica in una gran varietà di apparecchiature. sembra proprio che ne nasconda molte e chissà che da qui a In ambito industriale il laser viene utilizzato soprattutto per cento o più anni non ci ritroveremo ad utilizzarlo, nelle sue tagliare o saldare lamiere in metallo anche di elevati spessovarie declinazioni, in ambiti finora inesplorati. Ma per poter ri. In metrologia grazie ai laser si lanciare uno sguardo verso il fupossono effettuare delle misure di turo, dobbiamo obbligatoriamente estrema precisione nel campo che compiere un passo indietro e cava dai micron alle decine di mepire innanzitutto di cosa stiamo tri». Ma poi precisa: «Si tratta coparlando: proprio perché per comunque di laser di grosse potenze noscere le cose bisogna assegnare che non hanno nulla a che vedere loro un nome, spieghiamo subito, con i laser utilizzati per la ricerca, per chi non lo sapesse, che il laser soprattutto nello studio dei mateè stato così battezzato partendo riali, nella microscopia ed ologradall’acronimo inglese di Light fia e nella fluidodinamica». È coAmplification by Stimulated munque indubbio che, anche nel Emission of Radiation (cioè “Amcaso dell’idraulica, «l’uso del laser plificazione di luce tramite emisha permesso di migliorare la qualisione stimolata di radiazione”). tà delle misure di velocità e conQuesto perché, appunto, il laser è centrazione nei modelli idraulici di per definizione (e cerchiamo di laboratorio», come sottolinea la dirlo con parole semplici!), «un Claudia Adduce (docente presso il dispositivo che emette radiazioni Dipartimento di Scienze dell’ingeluminose con un grandissimo nugneria civile). «Infatti le moderne mero di fotoni (particelle elementecniche di misura di velocità tari di luce) identici, concentrati (PTV e PIV) e concentrazione in uno spazio ridotto». Poi, da (LIF), che utilizzano laser, hanno il qui, il discorso si complica e anvantaggio di essere non intrusive; drebbero considerati tutti i possidi essere dotate di un’elevata risobili tipi e le diverse applicazioni Il fisico statunitense Theodore Harold Maiman, cui si deve luzione spaziale e temporale; di che un raggio laser può avere. l’invenzione del laser nel 1960
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realizzare misure simultanee di velocità e concentrazione in più punti del dominio di interesse. L’uso delle tecniche PTV, PIV e LIF ha inoltre permesso di ridurre significativamente il tempo necessario alla misura dei campi di velocità e concentrazione nei modelli idraulici». Diverso il discorso per l’ingegneria elettronica, come ci chiarisce Lorenzo Colace (docente presso il Dipartimento di Ingegneria elettronica): in questo caso il laser è un prodotto, «non un ambito applicativo come può essere nel caso delle telecomunicazioni o della medicina». Ma stupisce sicuramente osservare in quanti contesti, magari non conosciuti approfonditamente, l’utilizzo del laser si rivela importante, quando non fondamentale: il dott. Colace ci parla di telecomunicazioni (fibra ottica), telerilevamento e monitoraggio ambientale, medicina (diagnosi e terapia) e processi industriali, ma anche comunicazioni ottiche e apparati elettronici «senza dubbio di maggiore mercato e diffusione». Poi c’è l’ingegneria meccanica e industriale, dove «le apparecchiature basate sull’impiego di sistemi laser, a differenza delle apparecchiature di misura tradizionali, sono usate per misurare con tecniche non invasive la velocità di fluidi, la turbolenza e tutte le proprietà associate a un punto o a una superficie in una vasta gamma di ambienti, da semplici a complessi fino a ostili» ci spiega il prof. Camussi. «Essi misurano anche la dimensione delle particelle, la velocità e la portata volumetrica di particelle sferiche, bolle o gocce». Infine, aggiunge la dott. Adduce, «le tecniche PIV, PTV e LIF sono attualmente applicate allo studio, mediante modelli di laboratorio, di opere idrauliche, diffusione di inquinanti, bioingegneria». Infiniti ambiti utili alla scoperta, all’innovazione e alla crescita. E allora ci chiediamo: l’Italia a che punto è con lo studio di queste potenzialità? «Solito tormentone sulla ricerca – ci dice Lorenzo Colace – la situazione sui laser e sulle tecnologie elettroniche è analoga a quella di molte altre discipline. Questo paese è ancora capace di formare buoni ricercatori, ma non intende dar loro gli strumenti per lavorare. In sintesi, oggetti ad alto contenuto tecnologico vengono importati (non li progettiamo e non li realizziamo). Esistono pochissime eccezioni». Sulla stessa falsariga, o quasi, l’opinione di Claudia Adduce: «In Italia solo alcuni gruppi di ricerca di idraulica posseggono un sistema di misura di velocità e concentrazione che utilizza laser, in quanto tali sistemi hanno costi talmente elevati, che non sempre possono essere sostenuti dai gruppi di ricerca italiani». A risollevare il morale ci pensa il prof. Camussi, che invece ritiene che «malgrado i costi, a volte proibitivi, dei sistemi di mi-
Ma quali sono gli ambiti in cui l’applicazione del laser sembra destinata a crescere maggiormente? Cosa ci riserva il futuro del famoso raggio? «Nell’ambito della fluidodinamica – risponde Camussi – lo sviluppo di tecniche olografiche e di analisi tridimensionali rappresentano le applicazioni più probabili nel prossimo futuro». «A mio avviso – continua invece Colace – le applicazioni principali sono e saranno a lungo quelle legate alle telecomunicazioni. Mi aspetto anche interessanti sviluppi in ambito medico in cui ritengo che il laser sia ancora largamente sottoutilizzato. Altro ambito con grandi potenzialità è quello delle comunicazioni ottiche all’interno dei circuiti integrati». Conclude la dott. Adduce: «Le attuali e future applicazioni all’idraulica sperimentale sono misure di velocità su modelli di opere idrauliche e marittime, valutazione della diffusione di inquinanti in canali a superficie libera e mezzi porosi, realizzazione e studio di modelli di bioingegneria». Quasi una sfida lanciata dalla scienza di oggi per mettere alla prova il laser sulle proprie capacità di crescere e migliorarsi più di quanto non abbia già fatto da cinquant’anni a questa parte.
Hercules, un innovativo e potente raggio laser sviluppato da alcuni ricercatori della University of Michigan
Immagine di un raggio laser attraverso la nebbia riflesso sul parabrezza di un’automobile
sura basati sull’uso del laser, tecniche laser sono ormai ampiamente diffuse anche in Italia». Non c’è dubbio, e appaiono tutti d’accordo, invece, quando si esce dai confini nazionali: gli stati certamente più all’avanguardia, in questi ambiti, sembrano essere gli Stati Uniti, il Giappone e la Cina. Se ci fermiamo in Europa, non se la cavano male neppure Francia e Germania, evidentemente più attente di noi a investire in ambiti di ricerca e sviluppo.
“Ma cosa ci riserva il futuro del famoso raggio? Dallo sviluppo di tecniche olografiche e di analisi tridimensionali, alle applicazioni legate alle telecomunicazioni e all’ambito medico fino alle future applicazioni all’idraulica sperimentale si tratta di una sfida lanciata dalla scienza di oggi per mettere alla prova il laser sulle proprie capacità di crescere più di quanto non abbia già fatto da cinquant’anni a questa parte”
The age of stupid …is it today? di Giacomo Caracciolo Riscaldamento globale, scioglimento dei ghiacciai, innalzamento del livello del mare lungo molti tratti costieri e trasformazioni vegetali. A che punto sono questi fenomeni geoambientali, dei quali forse non ci preoccupiamo quanto dovremmo solo perché non ne sappiamo abbastanza? Siamo noi gli stupidi che in The Age of Stupid Peter PostlethGiacomo Caracciolo waite, pluricandidato all’Oscar, critica (e in un certo senso maledice) dal 2055, per non essere stati in grado di adottare tutti gli accorgimenti, grandi e piccoli, per salvaguardare gli equilibri del pianeta? Il docudrama, diretto da Franny Armstrong è virtualmente ambientato in un futuro drammatico, in cui gli equilibri ambientali, come li conosciamo, sono stati trasformati e le normali condizioni climatiche alterate dalla superficialità, dall’imperizia e, soprattutto, dall’incoscienza umana. Per capire se si tratti semplicemente dell’ennesimo film allarmista e quali siano le vere prospettive di “degenerazione” del pianeta Terra abbiamo incontrato il prof. Marco Alberto Bologna ed il prof. Anastassios Kotsakis dell’Università degli Studi Roma Tre. Partendo proprio dal film The age of stupid, dobbiamo già considerarci degli “stupidi” o siamo ancora in tempo per… Prof. Anastassios Kotsakis: Non è una risposta semplice. Innanzitutto bisogna tener presente che alcuni fenomeni di cambiamenti climatici sono fenomeni naturali a lungo termine mentre alcuni di quelli che pensavamo avvenissero a lungo termine, abbiamo invece scoperto che al contrario avvengono nel giro di poche centinaia di anni (poco per i geologi). Premesso ciò, non si può sottovalutare come certe attività umane modifichino fortemente le caratteristiche fisiche climatiche del nostro ambiente. Per alcune di queste, attraverso dei modelli, è possibile prevedere dove si sta andando e cosa si rischia per altre, invece, siamo degli apprendisti stregoni. In poche parole come si sta trasformando il pianeta? Si parla molto spesso di possibili “modificazioni della crosta terreste” e di altri fenomeni geologici. Prof. Marco Alberto Bologna: I problemi delle trasformazioni climatiche del globo non hanno base geologica e non riguardano la crosta terrestre (i ghiacciai certamente, ma questi non sono strettamente crosta terrestre, bensì acqua). Le trasformazioni oggi più evidenti riguardano invece gli aspetti ambientali, come “miscela” di aspetti di inquinamento (in senso ecologico) chimico-fisico e biologico, e conseguenze sugli ecosistemi, cioè i sistemi di tutti i viventi. E l’inquinamento dei corsi d’acqua? Prof. Anastassios Kotsakis: In paesi come il nostro è soprattutto l’inquinamento delle falde acquifere, con diverse sostanze che dal suolo penetrano nelle falde e modificano il si-
stema, a dover preoccupare. Non possiamo continuare a utilizzare risorse come l’acqua, che pure sono beni rinnovabili, come stiamo facendo (la ricarica dura alcune migliaia di anni, noi la consumiamo in alcune decine di anni). Parliamo dei cambiamenti climatici: il cosiddetto riscaldamento globale è soprattutto colpa nostra? Prof. Marco Alberto Bologna: L’elemento più evidente delle macro-trasformazioni in atto sono proprio i cambiamenti climatici e i loro effetti, oltre all’inquinamento da sostanze tossiche. Abbiamo ormai delle evidenze sperimentali delle cause dell’aumento dei gas serra (soprattutto anidride carbonica e metano), legati direttamente alle attività antropiche, all’industrializzazione forzata, alla globalizzazione e al rifiuto dell’idea che ci siano dei limiti ecologici anche per la nostra specie. Prof. Anastassios Kostakis: Il riscaldamento dell’atmosfera è dovuto all’emissione di gas. Però occorre una precisazione: nella storia del nostro pianeta le temperature medie del passato sono state anche più alte di quelle attuali. Per i geologi siamo in un periodo decisamente freddo. Bisogna inoltre tener presente che c’è anche un’alternanza naturale di riscaldamento e raffreddamento. Poi purtroppo, fin dal principio della rivoluzione industriale, le attività dell’uomo hanno avuto un impatto significativo. Con un innalzamento, ulteriore, delle temperature cosa succederebbe? Prof. Anastassios Kostakis: Nel caso delle città in riva al mare, a causa dello scioglimento dei ghiacciai di Groenlandia e Antartide potremmo avere un innalzamento del livello del mare e questo creerebbe notevoli disagi. Possiamo dire che il docu-drama, diretto da Franny Armostrong, sia “catastrofista”? Prof. Marco Alberto Bologna: Un approccio scientifico di stampo ecologico ci porta a dire che il problema è serissimo e i modelli previsionali sono più che allarmanti. Se non cambieranno drasticamente e immediatamente le tendenze, lo scenario prospettato dal film temo realisticamente che potrebbero vederlo pochi uomini. Prof. Anastassios Kotsakis: È evidente che l’uomo ha la possibilità di distruggere in pochi istanti buona parte della vita di questo pianeta, tramite ad esempio gli armamenti nucleari. Al tempo stesso non credo che ci sia una possibilità così vicina di cambiamenti ambientali, pur prendendo in considerazione gli scenari più pessimisti. Siamo davvero, già, al punto del non ritorno? Prof. Marco Alberto Bologna: Di certo non si deve rinunciare al tentativo di evitare i danni, adesso che possiamo farlo. Prof. Anastassios Kotsakis: Non sono in grado di dirlo, però vedo che alcuni parametri si stanno alterando rispetto a delle medie in nostro possesso, ereditate e stimate su dati di duecento anni fa. Qualcosa si potrebbe sicuramente fare: cambiando le abitudini di vita, come il consumo smodato di acqua e di energia elettrica, ma come si fa senza una giusta politica che vada in questo senso?
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Oro blu: breve viaggio tra i conflitti moderni, per il dominio sui principali corsi d’acqua del pianeta di Giacomo Caracciolo
«L’acqua è un bene rinnovabile […] ma non si rinnova nei nostri tempi, noi abbiamo un consumo di acqua molto maggiore della ricarica del sistema». Non trovavo incipit migliore, per questa breve analisi sui alcuni dei conflitti più significati scaturiti, negli ultimi decenni, proprio a causa dell’oro blu, che questo estratto dall’intervista al prof. Anastassios Kotsakis, direttore del Dipartimento di Scienze geologiche. In questa, tutto sommato evidente, riflessione è riscontrabile la ratio di tutte le guerre per accaparrarsi la gestione di corsi d’acqua: “sprechiamo” più di quanto il sistema possa (ri)darci naturalmente e non ce ne preoccupiamo abbastanza. “Oro blu” e “oro nero”. Sia l’economia industriale che le monoculture agricole necessitano di un’ingente quantità d’acqua e con la nascita di nuove economie di scala questa risorsa è divenuta un bene sempre più scarso e quindi più prezioso, fonte di rivalità e arma potente di ricatto. La differenza sostanziale però che esiste tra l’oro blu e l’oro nero è che l’uno ha un valore vitale per la nostra sopravvivenza ed è, soprattutto, insostituibile, mentre l’altro è sostituibile e se ne può fare benissimo a meno. Acque condivise. Il 40% degli stati mondiali si rifornisce da fonti d’acqua condivise con altri paesi. Il Rio delle Amazzoni, il Congo, il Fiume Azzurro, l’Orinoco e il Yenisei, i corsi d’acqua con portata maggiore del globo, scorrono su più di un territorio nazionale. Il Tigri e l’Eufrate nascono dal sistema montuoso turco dell’Anatolia meridionale. I due fiumi attraversano la Siria a Sud-Est per poi raggiungere l’Iraq. Nel gennaio del 1990 terminò la costruzione della grande diga di Ataturk che ha comportato il più grande sforzo economico mai sostenuto dal governo turco. Questo complesso ingegneristico devia l’acqua dell’Eufrate fino alla pianura di Harran attraverso un condotto lungo 26 km. Il progetto è stato fortemente avversato sia dall’Iraq che dalla Siria. Infatti nonostante il governo turco abbia garantito ad essi una quantità certa d’acqua, Iraq e Siria si trovano a dover dipendere totalmente dalle decisioni di Ankara. Da allora la questione idrica è stata sempre motivo di tensioni politiche tra i tre paesi e i Kurdi, presenti in questi territori, hanno più volte minacciato di distruggere la diga di Ataturk.
In India. Analizzando il territorio indiano, fiumi come il Gange, il Narmada, il Yamuna, il Sutlej, il Mahanadi, il Krishna e il Kaveri sono stati oggetto di dispute giudiziarie tra stati e governo centrale, per accordarsi sull’allocamento e le quantità d’acqua di cui ogni stato dovesse disporre. Questi conflitti non hanno avuto solamente come scenario le aule giudiziarie del governo centrale ma si sono combattuti anche drammaticamente nelle strade di città e villaggi. Dall’indipendenza dell’India, il fiume Kaveri è diventato motivo di forte conflitto tra gli Stati di Tamil Nadu e Karnataka. Il primo accordo tra i due sulla divisione delle acque del fiume Kaveri risale al 1892. Nel 1924 Tamil Nadu e Karnataka si accordano per la costruzione di una diga. Nel 1974 scade l’accordo per l’estensione dell’irrigazione generata dalla diga e così cominciano i conflitti tra i due Stati e le rispettive associazioni degli agricoltori. Nel 1983 la crisi arriva alla Corte suprema. Dopo diversi ricorsi nel 1991 si ha il verdetto finale che privilegia lo stato Tamil Nadu. La soluzione decisa dalla corte genera rabbia e malcontento da cui derivano, inevitabilmente, disordini nella capitale dello Stato di Karnataka. Israele e Palestina. La guerra tra Israele e Palestina è, anche, un conflitto per il controllo dell’acqua. La guerra del 1967 che portò all’occupazione israeliana della Cisgiordania e delle alture del Golan fu in effetti un’occupazione a scopi idrici. Oggi le acque della Cisgiordania sono gestite da una compagnia idrica israeliana, la Mekorot Water Company. I coloni dei territori occupati in Cisgiordania ricevono una quantità d’acqua tre volte e mezzo superiore alla quota destinata ai palestinesi. E come se non bastasse esiste un’ordinanza israeliana che vieta ai palestinesi di scavare nuovi pozzi, quelli già scavati non possono superare i 140 metri di profondità, mentre i pozzi israeliani possono raggiungere gli 800 metri. Nei villaggi rurali palestinesi l’acqua arriva solo poche ore al giorno non per cause tecniche, ma perché la compagnia israeliana che gestisce gli acquedotti può decidere di togliere l’acqua ai villaggi palestinesi per non farla mancare ai coloni e alle loro coltivazioni.
Una veduta aerea del fiume Congo
La diga di Ataturk sul fiume Eufrate, completata nel 1990
Cronache e odissee da un altro mondo abitabile Quando la letteratura immagina il futuro di Michela Monferrini È successo, e già da qualche anno. È successo che il futuro immaginato nel Novecento (appena “ieri”, ci pare) sia già passato: superato, e quindi accantonato, il 2001 dell’odissea nello spazio; superate e accantonate pure le visite su Marte e le relative Cronache del 2004 bradburiano, che a Borges fecero rievocare i nomi di Ariosto (per la sua Michela Monferrini Luna custode di terrene cose perdute), del Keplero anch’egli lunare in Somnium Astronomicum, del John Wilkins della Scoperta di un mondo sulla Luna, discorso tendente a dimostrare che può esserci un altro mondo abitabile, in cui si immaginava un oggetto volante – “non meglio identificato”, diremmo noi che invece siamo in grado oggi di identificarlo perfettamente – che avrebbe portato gli uomini sulla Luna. E proprio a partire da questa prefigurazione di un’astronave, vien da chiedersi
“Certo stiamo rischiando di vivere molto di quanto nel 1949 e nel 1953, rispettivamente George Orwell e di nuovo Ray Bradbury immaginarono in 1984 e Fahrenheit 451: gli schermi televisivi sempre più grandi; il perenne frastuono delle pubblicità; la folle velocità delle auto e le relative stragi stradali; l’alcolismo e l’abuso dilagante di sostanze stupefacenti; la stampa e i giornali di carta che si assottigliano sempre più” se oltre ad aver passato cronologicamente ciò che ci era stato narrato, se oltre cioè ad aver semplicemente staccato tutti i fogli del calendario 2001 e 2004, non abbiamo forse – Marte escluso – anche passato cioè vissuto davvero, quelle avventure predette. Oggi andiamo a zonzo per lo spazio, usciamo addirittura dai gusci meccanici per fluttuare o riparare, siamo stati sulla Luna, abbiamo lasciato impronte e bandiere, e forse in un angolo del nostro bianco pianeta-satellite – non lo avremo visto, andavamo di fretta – c’era davvero un cumulo enorme di cose smarrite (lacrime e strade, bussole, amori e cani, persino cani): l’avremo scambiato per un cratere. Certo stiamo rischiando di passare, cioè di
vivere, molto di quanto nel 1949 e nel 1953, rispettivamente George Orwell e di nuovo Ray Bradbury immaginarono in 1984 e Fahrenheit 451: gli schermi televisivi grandi e sempre più grandi sino a coincidere con le pareti stesse di una stanza; l’interattività; il perenne frastuono delle pubblicità, anche in strada, anche sui mezzi pubblici; la folle velocità delle auto e le relative stragi stradali; l’alcolismo e l’abuso dilagante di sostanze stupefacenti; la stampa e i giornali di carta che, anche grazie a una manipolazione “dall’alto”, si assottigliano sempre più, sino a sparire e diventare un ricordo. Ciò che sorprende, è che i due scrittori, certo alle prese con una stessa società in cambiamento, con la nascente massa del pubblico televisivo, con le recenti ferite procurate dai totalitarismi e il clima di paura e di attesa generato dalla guerra fredda, immaginarono due situazioni che avevano in comune moltissimo, persino quella che veniva indicata come l’unica àncora e possibilità di salvezza e nuovo inizio: la salvaguardia della parola, intesa come vero scambio comunicativo, conversazione tra esseri umani e crescita e protezione del passato. Ciò che viene nominato si salva, ci hanno insegnato Bradbury e Orwell e molti altri scrittori che definiremmo “di fantascienza”. Ciò che viene nominato, anche se non esiste più nella realtà, continua a esistere nel linguaggio, cioè in una diversa forma di realtà. 1984, o Fahrenheit 451, ci sembrano parlare del futuro, ma ciò che fanno in realtà è immaginare il futuro per parlare del passato, di come il passato può essere stravolto, rinnegato e quindi, rimpianto. Mai abbandonato del tutto. Sono, anche, libri sulla profondità che si può raggiungere in tutte le cose, e sulla nostalgia, e su ciò che si perde e forse finisce sulla Luna: libri, per esempio, veicolo di quel linguaggio che si vuole – nel futuro immaginato in questi due romanzi, in molti altri romanzi, e forse anche nella realtà del presente – appiattito, mortificato. «Le vostre parole, come sono antiche!» dice Montag a Clarisse, in Fahrenheit.
“1984, o Fahrenheit 451, ci sembrano parlare del futuro, ma ciò che fanno in realtà è immaginare il futuro per parlare del passato, di come il passato può essere stravolto, rinnegato e quindi, rimpianto. Mai abbandonato del tutto” E più avanti, il vecchio professor Faber dirà a lui «Non è delle cose che amo parlare, ma del significato delle cose». E però Montag incendia i libri per volere del regime, e fa in qualche modo ciò che nella trama di Orwell, in quell’altro regime immaginato, si intende fare, come se non fossero al-
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tro che due racconti di una stessa realtà, di uno stesso paese, di uno stesso totalitarismo: «Nel 2050, e forse anche prima, qualsiasi sostanziale nozione dell’archelingua sarà scomparsa. Tutta la letteratura del passato sarà completamente distrutta. Chaucer, Shakespeare, Milton, Byron...». Persino (forse soprattutto) quando a essere immaginate non sono state società, o regimi, ma scene apocalittiche, da fine del mondo già avvenuta, dunque storie di superstiti, il linguaggio umano ha avuto il suo ruolo da protagonista. Siamo quasi – cronologicamente parlando e fatta salva l’esattezza della previsione catastrofica dei Maya a proposito del 2012 – a quel 2013 immaginato centouno anni prima da Jack London nella sua Peste scarlatta: lì un anziano uomo, circondato da ragazzi e desolazione, prova a far “ripartire” il mondo nominando le cose, quelle stesse cose che, pure, non esistono più, e che i ragazzi non riescono nemmeno a immaginare, come se materia della fantascienza, per loro, fosse appunto il passato: «“Che vuol dire pagare, nonno?”», oppure «“Che significa scarlatto?”». Vengono in mente le scene altrettanto apocalittiche descritte di recente da Cor-
mac McCarthy ne La Strada, in cui a essere rimasti soli in uno scenario di devastazione totale sono un padre e suo figlio. Nel silenzio disperante che circola tra le pagine, fanno rumore a tratti le domande del piccolo, e sono ancora domande che vogliono “mettere in salvo”, cioè apprendere, cose che non si sono salvate affatto: cosa sono una diga, una lattina e una pistola lanciarazzi, cos’è un certo luogo, cosa sono le spugnole e che significa statali. Cosa vogliono dire contrattare e in linea d’aria. Dopotutto, lo scrittore non è che un uomo tra gli uomini, e come tutti vive in bilico tra oggetti e parole, non potendo prescindere dagli uni né dagli altri, non potendoli immaginare troppo diversi dagli oggetti e dalle parole che ha avuto e ha intorno nel passato e nel presente. E se il futuro sarà poi molto diverso da quel che finora è stato immaginato, allora sarà meglio per tutti che sulle previsioni catastrofiche l’abbiano vinta Leopardi e il suo Dialogo d’un venditore d’almanacchi: «Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura».
Un’immagine dal film La strada (2009) diretto da John Hillcoat e tratto dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy
Ritratto del futuro? Il Giappone e il punto di vista collettivo di Edoardo Lombardi Vallauri Il Giappone è sempre avanti di un po’. Questo si pensa, e il luogo comune ha i suoi fondamenti. Ci sono stato diverse volte a distanza di anni, sempre con lo stesso risultato: tornando in Italia, potevo annunciare agli amici quel che sarebbe accaduto entro un anno o due. Solo per fare un esempio, ho via via “profetizzato” che i telefoEdoardo Lombardi Vallauri nini da grossi sarebbero diventati piccoli, da neri sarebbero diventati di tutti i colori (compresi i fluo e i metallizzati), che contro ogni aspettativa sarebbero ritornati più grossi, che avrebbero incorporato la macchina fotografica; e così via. Lo stesso valeva per gli idoli che avrebbero di lì a poco dominato l’immaginario dei ragazzini occidentali: ho “previsto” Hello Kitty, i Pokémon, Dragonball Zeta e altri minori. La tecnologia e i prodotti dell’industria dello spettacolo fanno presto a circolare da un paese all’altro, ma gli aspetti più profondi di una civiltà si trasmettono più difficilmente. Invece io vorrei che alcune cose del Giappone arrivassero qui subito, perché ne abbiamo molto bisogno. Ai linguisti è noto che il giapponese incorpora forse più di ogni altra lingua strumenti grammaticali destinati a esprimere la cortesia, il rispetto per l’interlocutore e perfino il rispetto per le persone assenti di cui si sta parlando. Per dire che io o mio fratello abbiamo parlato si usa il verbo iu, “dire”: boku-wa itta ani-wa itta io parlai fratello maggiore parlò Se a parlare è stato un professore o un maestro si usa un verbo diverso, ossharu, quasi a esprimere che il maestro parli in modo degno di maggiore rispetto: sensei-wa osshatta professore parlò Lo stesso vale per diverse altre azioni fondamentali. Ad esempio i verbi iku “andare”, suru “fare”, neru “dormire”, se si vuole esprimere rispetto per la persona che compie l’azione diventano rispettivamente irassharu, nasaru, oyasumi-ni naru. Di solito il verbo più rispettoso è più lungo, quindi comporta uno sforzo leggermente maggiore per adoperarlo; proprio come più scomodi sono in genere i comportamenti più gentili anche in campo non linguistico. Per andare da una parte all’altra di un salotto dove delle persone sono sedute a parlare, fare il giro è più rispettoso che passare in mezzo; e anche un po’ più faticoso. Del resto, dire: «Per cortesia, saresti così gentile da avvicinarmi il sale?» è più faticoso che dire: «Passami il sale».
Un certo rispetto è riservato anche a entità inanimate, il cui nome può essere preceduto dal prefisso onorifico gooppure o-. Tipicamente, se si tratta di cose legate a qualcuno a cui si vuole mostrare rispetto; e non solo: ad esempio, il tè si chiama cha, ma normalmente viene nominato come o-cha; e il denaro, kane, è quasi sempre okane. Ma questo atteggiamento non è confinato nella lingua. In Giappone il rispetto e la decenza nei rapporti personali è prassi comune. Nei nostri luoghi pubblici, se due persone parlano fra loro, lo fanno forte abbastanza da essere sicure che il loro interlocutore le senta, e poco importa se sentono (e ne sono disturbati) anche gli altri. Nei luoghi pubblici giapponesi, due persone che parlano fra loro lo fanno piano abbastanza per essere sicure che non le senta e non ne sia disturbato nessun altro; anche a costo di fare fatica a udirsi fra loro. Per fortuna la loro scrittura è ideografica – in realtà, logografica; cioè, ogni segno sta per una parola, non per un’idea – quindi se l’altro non ha sentito li vedi rimediare tracciando nell’aria l’ideogramma dell’ultima parola che per buona educazione hanno pronunciata troppo piano. Il risultato, comunque, è che in un ristorante giapponese molto affollato puoi sentir volare una mosca. Mangiare fuori senza baccano è un sogno quasi irrealizzabile nelle nostre città, ma non sarebbe male un futuro di italiani decenti come giapponesi. Il rispetto per gli altri si vede da mille dettagli. Molti occidentali credono che gli abitanti delle grandi città giapponesi portino mascherine di carta sulla faccia per proteggersi dall’inquinamento (che invece non è affatto peggiore del nostro); ma la verità è quasi l’opposto: si tratta di persone raffreddate che non vogliono infettare gli altri, specialmente nei luoghi chiusi. Nei bagni pubblici, spesso chi ha usato la carta igienica la lascia con una piega a triangolo che facilita il prossimo utente, e soprattutto gli comunica un’impressione di ordine e pulizia. Il concetto giapponese di che cosa sia decente e che cosa no è molto diverso dal nostro anche in altri campi. La vergogna per ciò che attiene al sesso è molto meno per-
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vasiva e opprimente. Si possono vedere distinti signori che durante i lunghi trasporti in metropolitana leggono fumetti ad alto contenuto erotico, senza doverne foderare la copertina con improbabile carta da pacchi. Ma quel che più conta, in quella civiltà i comportamenti sessuali non danno luogo a censura e discredito. Si tratta sempre di una forma di rispetto.
“Ai linguisti è noto che il giapponese incorpora forse più di ogni altra lingua strumenti grammaticali destinati a esprimere la cortesia, il rispetto per l’interlocutore e perfino il rispetto per le persone assenti di cui si sta parlando” Mi pare molto civile che in una società le persone possano scegliere il loro modo di vivere il sesso senza sottostare a millenari condizionamenti e ad anatemi quotidiani. I treni giapponesi non hanno mai ritardo. Neanche un po’. Arrivano entro il minuto in cui sono previsti. Tutti, sempre. Scendendo da uno Shinkansen a Kyoto, che si trova sul Tokaido, la linea che va da Tokyo a Osaka, basta aspettare (a seconda dei momenti della giornata) cinque o dieci minuti perché passi il successivo. Come fosse Roma-Milano, solo che invece di un’ora, lì quello dopo lo attendi cinque minuti. Tutti aspettano secondo certe strisce che ci sono sul terreno, in modo da prepararsi a entrare nel vagone che hanno prenotato senza fare confusione. Il treno arriva al minuto previsto, e l’orario dice che partirà tre minuti dopo. Infatti quelli che devono scendere lo fanno in una manciata di secondi, e altrettanto in fretta salgono i nuovi occupanti. Tre minuti esatti più tardi il treno riparte. Nessuno, passeggero o ferroviere, ha ritardato tutti per un suo problema con la valigia, con il bambino, con la sigaretta o con una telefonata. Ognuno ha fatto in modo di posporre le sue esigenze perché non danneggiassero centinaia di viaggiatori. Gli autobus sono altrettanto seri. Se un amico ti invita a cena, e tu abiti dall’altra parte della città, lui consulta l’orario dei trasporti pubblici e può dirti: «Vai alla stazione della metropolitana di Tamachi, prendi la corsa per Shibuya delle 19.27. Alle 19.42 sei a Shibuya: esci dall’uscita di Hachiko, se fai le scale in fretta ci metti meno di quattro minuti e puoi prendere l’autobus numero 67, che passa alle 19.46. Scendi alla quattordicesima fermata, Nakano
dori, alle 20.01, e alla stessa fermata prendi il numero 91, che passa alle 20.02. Scendi dopo nove fermate, davanti al giardino di Rikugi-en, alle 20.13, e lì trovi ad aspettarti mio figlio, che ti condurrà fino a casa». Di questa orologeria ci si può fidare a tal punto, che perfino i bambini delle elementari girano da soli nell’immensa metropolitana di Tokyo. Tutto ciò è dovuto al fatto che ciascun addetto a un servizio fa il suo dovere. Anche qui è una questione di decenza. Nessuno mai si permette di anteporre le sue esigenze personali al compito di cui è responsabile. Vale anche per i cosiddetti “guasti tecnici”. Perché da noi le motrici e gli sportelli dei treni si rompono continuamente, e da loro mai? Perché da loro la manutenzione viene fatta ogni volta che è prescritta per essere sicuri che non capiti un guasto; da noi purtroppo molto spesso la manutenzione si fa... quando la porta o il pantografo si bloccano senza appello in mezzo alla campagna. I lavori pubblici riflettono la stessa solerzia. Da noi le pubbliche amministrazioni usano chiudere la strada al traffico e abbandonarla per mesi senza portare avanti i lavori, in totale dispregio dei loro amministrati. Nelle città giapponesi la strada viene bloccata una sera dopo cena; ove necessario l’asfalto è tagliato in blocchi rinforzati da telai in metallo, che potranno essere rimessi a posto; un gran numero di addetti lavora nella buca a ritmo febbrile tutta la notte; se la mattina il lavoro non è finito la strada viene rimontata o coperta con plance metalliche, e riconsegnata al traffico per non arrecare danno ai cittadini: i lavori riprenderanno, sempre strenui, la notte successiva. E così via, finché non saranno terminati. Non è questo, per noi, il sogno di un futuro da immaginare? Se non li ha sul sesso, il Giappone conosce condizionamenti millenari in altri campi. E non tutti a fin di male. Chi fa un lavoro umile non è insoddisfatto. L’uomo che stacca i chewing-gum dai pavimenti della metropolitana di Tokyo, e scopa gli angoli dalle cartacce, lo fa bene. E se lo fa bene è perché ritiene che la cosa migliore per lui sia farlo bene. Infatti ha un’aria soddisfatta e quasi importante. Da noi nessuno lo vuole fare, un lavoro così. E se lo deve fare, poi in realtà non lo esegue; e se è costretto a eseguirlo lo esegue male, e si lamenta di continuo, e insomma non ritiene che sia per lui un bene farlo. Il fatto è che in Giappone ai lavori umili è associata più dignità che da noi. Perché? Difficile rispondere, ma un’ipotesi si può fare. In Occidente, e ancor più in Italia, si ragiona in prospettiva individuale. In tale prospettiva ci si domanda: questa persona è fallita o è riuscita? Se sta in alto (il miliardario, il personaggio della tv) è riuscita, se sta in basso (lo staccachewing-gum) è fallita. Essendo la prospettiva individuale, è uguale per ogni persona: da ciascuno ci si aspetta che “riesca”, e chi non riesce deve sentirsi un fallito. Invece in Giappone il punto di vista è collettivo. In questa prospettiva appare subito chiaro che non possono tutti “riuscire”. C’è bisogno sia di chi sta in alto, sia di chi sta in basso. Sono altrettanto necessari. Quindi per la collettività non è un fallimento che ci sia qualcuno in basso. Il punto non è se una persona sia riuscita o fallita, ma se il sistema sia una riuscita o un fallimento. Chi stacca i chewing-gum dal pavimento della metro sa di essere parte di un sistema riuscito. Per questo sulle sue labbra erra un sorriso di soddisfazione.
Marshall McLuhan e il mondo di domani A cent’anni dalla nascita dello studioso canadese di Gianpiero Gamaleri «Il futuro è un territorio del passato»: questo è uno degli aforismi di Marshall McLuhan, forse non altrettanto famoso quanto «il mezzo è il messaggio», ma certamente molto stimolante e profondo. Mette in rilievo, infatti, il problema delle radici culturali del cambiamento, facendo capire che le profonde trasformazioni indotte dalle Gianpiero Gamaleri tecnologie possono essere gestite solo se si riflette sulla propria tradizione, sulle proprie origini. Si tratta, insomma, di scoprire il “filo rosso” che lega passato, presente e futuro e stabilire dei nessi capaci di cogliere i valori permanenti all’interno del cambiamento, anche quello così accelerato come l’attuale. Questo richiamo appare tanto più importante proprio nell’anno in cui si celebra il centenario della nascita dello studioso canadese, nato a Edmonton, nello Stato dell’Alberta, sulle coste occidentali del Canada, l’11 luglio del 1911 e trasferitosi poi a Toronto, nella cui università ha sviluppato la sua esperienza accademica e il suo itinerario di pensiero.
bra diventare una condizione permanente di un mondo del lavoro che deve adattarsi a sempre nuove condizioni in archi di tempo sempre più brevi. A ciò si aggiungano le emergenze dell’ecologia e del terrorismo, che sono oggi due delle grandi incognite del futuro. Ebbene, fin dagli anni Sessanta l’esplorazione di McLuhan ha cercato di conciliare questo presente e quel futuro con il passato. Egli soleva dire che solo un recuperato senso del tempo può rassicurarci. Leggiamo la conclusione di una sua celebre intervista, rilasciata a Eric Norden nel marzo del 1969, che, con sorprendenti accenni poetici, è anche il suo testamento intellettuale e morale: «Nei prossimi decenni spero di vedere il nostro pianeta trasformarsi in un’opera d’arte; l’uomo nuovo, integrato nell’armonia cosmica che trascende il tempo e lo spazio, accarezzerà, forgerà e modellerà ogni aspetto dell’artefatto terrestre come se fosse un’opera d’arte e l’uomo stesso diventerà un’organica forma d’arte.
Tra Canada e Italia Oltre al Canada, l’Italia è il paese in cui McLuhan è stato ed è maggiormente valorizzato. Anzi si può dire che il suo pensiero, a trent’anni dalla morte, sia da noi in costante crescita di popolarità e soprattutto di approfondimenti scientifici. Un recente convegno allo IULM di Milano è stato intitolato “Il secolo di McLuhan” proprio per segnare la profonda impronta da lui lasciata nel Novecento e sugli sviluppi futuri. Anche nel nostro Ateneo si prevedono iniziative per riflettere sulle sue opere e proiettarne le conseguenze sul futuro sviluppo socio-culturale. Marshall McLuhan, attraverso l’enorme ricchezza della sua conoscenza letteraria, attraverso le sue profonde e provocatorie esplorazioni della galassia dei media, attraverso i percorsi della sua sensibilità religiosa ci ha infatti portato a riflettere sulla grande parabola della storia umana e della nostra avventura individuale e collettiva sulla “astronave Terra”.
C’è un lungo cammino da percorrere e le stelle sono soltanto stazioni di cambio, ma abbiamo cominciato il viaggio. Nascere in questo tempo è un dono prezioso e rimpiango la prospettiva della mia morte soltanto perché non potrò leggere così tante pagine del destino dell’uomo − se mi permettete l’immagine alla Gutenberg. Ma forse, come ho cercato di dimostrare nella mia analisi della cultura post-alfabetica, la storia comincia soltanto quando il libro si chiude».
L’esplorazione del futuro Gli interrogativi che riguardano in particolare il mondo giovanile, tanto efficacemente messi in rilievo dal messaggio di capodanno del Capo dello Stato, esprimono nel modo più efficace questa generale incertezza sul domani. Basti pensare a temi come quelli della globalizzazione – che crea una competizione a livello mondiale – e della precarietà – che sem-
“Marshall McLuhan ci ha portato a riflettere sulla grande parabola della storia umana e della nostra avventura individuale e collettiva sulla astronave Terra”
Marshall McLuhan e Woody Allen in una celebre sequenza del film Io e Annie del 1977. Ricorre quest’anno il centenario della morte dello studioso canadese che ha coniato l’espressione “il villaggio globale”
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Hanno detto per noi… Nelle righe che seguono vogliamo ricordare alcuni passaggi dei discorsi tenuti presso il nostro Ateneo da grandi figure spirituali e intellettuali che hanno messo la propria vita al servizio dell’ umanità e del suo diritto a vivere in pace. Qui li vogliamo ricordare perché non si dimentichi in questa fase storica difficile il mandato più alto dell’accademia e il suo costante impegno per far fiorire la cultura, ponte fondamentale sul quale i popoli possono incontrarsi e dialogare. […] «Compito essenziale dell’Università è quello di essere palestra nella ricerca della verità: dalle più semplici verità, come quelle sugli elementi materiali e sugli esseri viventi; a verità più articolate, come quelle sulle leggi della conoscenza, del vivere associato, dell’uso delle scienze; a verità, infine, più profonde, come quelle sul senso dell’agire umano e sui valori che animano l’attività individuale e comunitaria. L’umanità ha bisogno di cattedre di verità e se l’Università è una fucina del sapere, quanti vi operano non possono che avere come bussola del proprio agire l’onestà intellettuale, grazie alla quale è possibile sceverare il falso dal vero, la parte dall’intero, lo strumento dal fine. Sta già qui un contributo significativo alla costruzione di un futuro ancorato ai valori saldi e universali della libertà, della giustizia, della pace. San Tommaso d’Aquino, di cui lunedì scorso abbiamo celebrato la festa, osservava che “genus humanum arte et ratione vivit” (in Arist. Post. Analyt., 1). Ogni conoscenza immediata e scientifica va rapportata ai valori e alle tradizioni che costituiscono la ricchezza di un popolo. Attingendo a quei valori che accomunano e insieme distinguono un popolo dall’altro, l’Università diviene cattedra di una cultura a misura veramente umana e si pone come ambiente ideale per armonizzare il genio individuale di una nazione e i valori spirituali che appartengono all’intera famiglia degli uomini. Ella, Signor Rettore, ha poc’anzi richiamato quanto ebbi a ricordare alcuni anni or sono, che cioè l’uomo vive una vita veramente umana grazie alla cultura. Cultura e culture non devono porsi in contrapposizione tra loro, bensì intrattenere un dialogo arricchente per l’unità e la diversità del vivere umano. Siamo qui in presenza di una pluralità feconda, che permette alla persona di svilupparsi senza perdere le proprie radici, perché l’aiuta a conservare la dimensione fondamentale del proprio essere integrale. La persona è soggettività spirituale e materiale, capace di spiritualizzare la materia, rendendola docile strumento delle
proprie energie spirituali, e cioè dell’intelligenza e della volontà. Al tempo stesso, essa è capace di dare una dimensione materiale allo spirito, di rendere cioè incarnato e storico quanto è spirituale. Si pensi, ad esempio, alle grandi intuizioni intellettuali, artistiche, tecniche, divenute «materia», cioè concrete e pratiche espressioni del genio, che le ha concepite in antecedenza nella propria mente. Questo cammino non può prescindere da un confronto leale a tutto campo con i valori etici e morali connessi con la dimensione spirituale dell’uomo. La fede illumina il quadro di riferimento fondamentale dei valori irrinunciabili iscritti nel cuore di ciascuno. Basta guardare alla storia con occhi obiettivi, per rendersi conto di quanto importante sia stata la religione nella formazione delle culture e quanto abbia plasmato con il suo influsso l’intero habitat umano. Ignorare ciò o negarlo non rappresenta solo un errore di prospettiva, ma anche un cattivo servizio alla verità sull’uomo. Perché aver timore di aprire la conoscenza e la cultura alla fede? La passione e il rigore della ricerca nulla hanno da perdere nel dialogo sapienziale con i valori racchiusi nella religione. Da questa osmosi non è forse scaturito quell’umanesimo di cui va giustamente fiera la nostra Europa , oggi protesa verso nuovi traguardi culturali ed economici? Per quanto dipende dalla Chiesa, come ricorda il Concilio Vaticano II, “il desiderio di stabilire un dialogo che sia ispirato dal solo amore della verità e condotto con la opportuna prudenza… non esclude nessuno: né coloro che hanno il culto di alti valori umani, benché non ne riconoscano ancora la sorgente, né coloro che si oppongono alla Chiesa” (Gaudium et spes, 92). L’incontro di Assisi di giovedì scorso ha mostrato come l’autentico spirito religioso promuova un dialogo sincero che apre gli animi alla reciproca comprensione e all’intesa nel servizio alla causa dell’uomo. Distinte autorità accademiche, gentili docenti, carissimi studenti, affido queste considerazioni a voi, che formate la grande famiglia dell’Università Roma Tre. Il vostro lavoro sia sempre sorretto da un impegno appassionato, sia svolto con costanza e generosità, sia animato da spirito di comprensione e di dialogo. Da chi, come voi, lavora nell’ambito della ricerca scientifica, dipende in non piccola parte il rinnovamento della nostra società e la costruzione di un futuro di pace migliore per tutti. Maria, la Madre della Sapienza, vi sostenga nella passione per la verità e vi illumini nei momenti di difficoltà e di prova. Non perdetevi mai di coraggio! Il Papa vi è accanto e vi benedice di cuore, insieme con le persone che vi sono care». Dal discorso di Sua Santità Giovanni Paolo II, Inaugurazione Anno Accademico 2001-2002 Visita di Sua Santità Giovanni Paolo II
[…] «Soprattutto oggi, che l’attività di ciascuno ha aspetti così molteplici, che si vede e si viaggia il mondo, che si è specializzati nel lavoro, ogni persona appartiene a molte unioni. Sono unioni quest’Università, ma anche le sue Facoltà e i suoi Dipartimenti. Italia ed Europa sono dunque solo due degliambiti nei quali viviamo la tematica dell’unione. Ma sono i due ambiti principali nei quali la viviamo nella politica. E la politica è, per eccellenza, l’attività per mezzo della quale il ricorso alla violenza è stato gradualmente bandito quale mezzo per risolvere i contrasti. Tale è la qualità di questa invenzione umana, tale il valore del bene che essa assicura - la pace - che ancora oggi fatichiamo a pensare di potere essere contemporaneamente parte di più unioni politiche. Ancora oggi l’unione politica nazionale, lo Stato unitario, ci appare come un monolito la cui esistenza stessa e con essa il bene supremo della pace che esso ci promette - sarebbe minacciata ove esso divenisse parte di una struttura di governo a più livelli. Temiamo allora che costruire una vera unione europea significhi perdita dell’unione italiana, o che la stessa perdita scaturirebbe dalla riorganizzazione in senso federale dello Stato. Invece, un’unione politica non è esclusiva di altre e nessuna può aspirare all’universalità delle competenze senza divenire strumento di oppressione anziché di pace. Diverse unioni non si escludono a vicenda, al contrario hanno bisogno l’una dell’altra. Possiamo dirlo con le parole che Dante usa per le lingue: “Chiunque ha ragione così guasta da ritenere che il proprio luogo natio sia il più bello sotto il sole, parimenti stima il volgare proprio, o lingua materna, al di sopra di tutti gli altri; e per conseguenza crede che proprio esso sia stato la lingua di Adamo. Io invece, cui il mondo è patria come l’acqua ai pesci, benché abbia bevuto dell’Arno prima di mettere i denti e tanto ami Firenze che, per amor suo, soffro ingiustamente la pena dell’esilio, - appoggio la bilancia del mio giudizio sulla ragione e non sull’affetto. E pur se al mio piacere e alla sensazione del mio appetito sensitivo non si presti luogo, al mondo, migliore di Firenze, - io … ho ponderato e fermamente ritengo esservi molte regioni e città più nobili e più deliziose della Toscana e di Firenze, di cui sono originario e cittadino, e parecchi popoli e stirpi usare una lingua più gradevole e più utile di quella che usano gli Italici”». Dalla prolusione dell’economista, prof. Tommaso Padoa Schioppa, Inaugurazione Anno Accademico 2002-2003
[…] «Se vediamo il mondo come un villaggio globale, dobbiamo essere partecipi di tutti i suoi doni e vantaggi, tra gli altri, anche il sapere. Non possiamo pretendere di essere una comunità globale se una parte della popolazione del mondo viene privata del sapere. Dobbiamo essere generosi come il cielo, fare fertile l’albero della conoscenza come la terra, diffondere l’amicizia come il vento, essere ostili e furiosi contro l’ignoranza e l’intolleranza, come il fuoco. Dobbiamo essere umani, essere gentili». Dalla prolusione del premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi, Inaugurazione Anno Accademico 2003-2004
[…] «Ma poi c’è un’altra cosa. Nonostante la scienza e la tecnologia siano così progredite, penso che la società umana abbia ancora molti problemi, molti problemi emotivi. Quindi se per questo tipo di problema ci affidiamo solamente ai farmaci o a mezzi esterni, io credo che la risposta non sia completa, dal momento che molti problemi emotivi derivano non necessariamente da elementi fisici: /è l’uomo stesso/ che ha creato taluni tipi di emozioni. In questo caso la realtà va trovata direttamente all’interno della stessa emozione. Quindi l’antica tradizione indiana della mente, della conoscenza della mente, delle emozioni, può essere utile quale rimedio ad alcuni problemi emotivi. Poi però se prendiamo questo metodo, le antiche tradizioni religiose, e ne prendiamo solo una citazione, facciamo affidamento su una sola citazione – non è sufficiente. Dobbiamo esaminare, sperimentare, ricercare in maniera scientifica. Quindi io la chiamo di solito etica circolare, non basata sul credo religioso, sulla letteratura di marca religiosa o su entrambe le cose, ma piuttosto sulle ricerche, sugli esperimenti condotti da scienziati attenti. Allora credo che possa essere più utile per la collettività. E questo quindi il secondo motivo, per trovare un rimedio per i nostri problemi emotivi attraverso queste tradizioni antiche – con la cooperazione della scienza moderna. Questo è il secondo motivo». Dalla Lectio magistralis del Dalai Lama Tenzin Gyatso XIV, Laurea Honoris causa in Biologia 14 ottobre 2006
Culture Valley Intervista a Umberto Croppi* di Federica Martellini
Cominciando dall’attualità, sono di scena i tagli alla cultura. Il Comune di Roma non ha alla fine aderito alla serrata dei musei del 12 novembre scorso. La sua voce è comunque rimasta una delle più critiche su questo punto. Il 21 novembre si è fermato il mondo dello spettacolo, un settore cruciale, credo, nella realtà romana. Qual è lo stato dell’arte sulla questione? Quali sono i nodi sul tappeto e le prospettive? È necessario distinguere innanzitutto. Una prima questione è quella dei tagli che sono stati operati nella finanziaria approvata nei giorni scorsi e che riguardano le spese dello stato sulla cultura (la riduzione del FUS – Fondo unico per lo spettacolo – per il sostegno dello spettacolo dal vivo e più in generale le disponibilità del Ministero dei beni culturali). In questo contesto va sottolineato che il Comune di Roma in generale per il 2010 è riuscito a mantenere le quote di investimento dello scorso anno che erano superiori a quelle degli anni precedenti e quindi non solo ha fatto il proprio dovere ma ha dovuto anche surrogare le carenze derivanti dallo Stato che sono state progressive negli ultimi anni e che hanno attraversato tutti i governi. Su questo naturalmente la mia voce si è unita a quelle di quanti hanno protestato per quello che stava succedendo. Altra cosa invece sono le manifestazioni che abbiamo indetto negli ultimi mesi che riguardano le norme contenute nella Legge 122 del luglio scorso che non sono tagli ma che hanno un effetto addirittura peggiore. Non si tratta infatti di limitazioni ai trasferimenti della spesa ma di norme, tra l’altro palesemente incostituzionali, che impongono delle prescrizioni assolutamente folli e incomprensibili alle amministrazioni pubbliche e quindi anche a tutti gli enti locali e a tutte le società in qualche modo partecipate con denaro pubblico. Si tratta di una decina di norme, le più eclatanti delle quali sono quelle che riguardano il limite di spesa del venti per cento nel 2011 rispetto al 2009 per mostre,
pubblicità e congressi. Questo comporterebbe che, siccome è indicata la capacità di spesa degli enti e non la fonte dei proventi, addirittura si potrebbe arrivare all’assurdo che se un’istituzione partecipata con denaro pubblico riceve sponsorizzazioni o contribuzioni da un privato non può comunque spendere più del venti per cento. E questo rappresenta di fatto un blocco a una delle attività che sta dando maggiori risultati, ovvero quella delle mostre.
“Il principio dell’intervento dei privati nelle attività culturali del settore pubblico attraverso sponsorizzazioni o partecipazioni ha poco più di quindici anni di vita ma in questi anni sono cambiate molte cose: c’è stata una maturazione. La sponsorizzazione pura e semplice è una dazione di denari in cambio di una piccola presenza nella comunicazione, mentre oggi la tendenza che noi stiamo incrementando è quella di creare delle partnership vere”
incontri
Umberto Croppi è stato assessore alle politiche culturali e comunicazione del Comune di Roma. Direttore generale della Fondazione Valore Italia (Esposizione permanente del Made in Italy e del design italiano), è membro del Consiglio superiore delle comunicazioni di cui è stato presidente della quarta sezione, componente del Consiglio del design del Ministero per i beni culturali e segretario del Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario del Manifesto futurista. È inoltre docente a contratto presso la Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università La Sapienza. È autore di numerosi saggi e coautore di volumi collettanei e collabora con diverse testate giornalistiche e radiofoniche, tra cui L’Indipendente, Il Riformista, Il Foglio, Il Secolo d’Italia, Charta Minuta. Esperto di comunicazione ha diretto un’agenzia di pubblicità. Ha creato e diretto la galleria d’arte BZF di Firenze, finalista del premio “Impresa e Cultura”, edizione 2003. Nell’ultimo decennio ha lavorato nell’editoria: è stato prima presidente della casa editrice Officine del Novecento e poi direttore editoriale della Vallecchi di Firenze.
Vi è poi il punto riguardante la riduzione dei membri dei consigli di amministrazione entro un limite di cinque il che significa che si impedisce di fatto la presenza dei privati nelle strutture: istituzioni come il Teatro della Scala o la Fondazione musica per Roma, che hanno più di dieci membri nel consiglio di amministrazione, dovranno quindi rivedere tutti i propri rapporti con i privati. E ancora: il divieto di sponsorizzazioni da parte di aziende pubbliche, lo
*L’intervista è stata realizzata il 26 dicembre 2010 durante il suo assessorato alle politiche culturali del Comune di Roma
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scioglimento di società per i comuni con meno di trenta mila abitanti che sono quelli che, proprio perché piccoli, spesso si trovano in società, anche consortili, per la gestione di servizi. Insomma è una follia che provocherà dei danni irreparabili se non verranno riviste queste norme. Per quanto riguarda la manifestazione del 12 novembre ci tengo a dire che è partita proprio dal Comune di Roma. E il Comune di Roma ha mantenuto in pieno l’adesione. Tuttavia, dal momento che il ministro Tremonti, a tre giorni dalla manifestazione, ha ricevuto una delegazione e ha riconosciuto la giustezza delle nostre rivendicazioni, il Comune di Roma, come altre istituzioni italiane, ha mantenuto l’adesione ma sospendendo le modalità previste. Quindi i musei sono rimasti aperti e hanno presentato materiale informativo sulla manifestazione. Abbiamo poi indetto una conferenza presso l’Ara Pacis che è stata fra l’altro il momento di maggiore attenzione sulla vicenda da parte della stampa nazionale e internazionale. Ci siamo anche ripromessi di riprendere con forme di protesta quali quelle già indicate qualora le assicurazioni che abbiamo ricevuto non si dovessero trasformate in atti. Domani, 17 dicembre, il consiglio dei ministri varerà il decreto “mille proroghe” nel quale dovrebbero essere recepite queste indicazioni. Quindi domani c’è il banco di prova, l’ultimo appello e sapremo se queste modifiche sono state effettivamente recepite sul piano normativo.
“La cosa che è importante tenere presente è che gli investimenti privati in cultura non possono essere sostitutivi di quelli pubblici e che per far aumentare l’impegno privato bisogna aumentare l’impegno pubblico” Un punto che in parte ha già toccato e su cui ciclicamente si torna a dibattere è quello dell’ingresso dei privati, o meglio di un ampliamento del ruolo dei privati, nella gestione dei beni culturali. Ad esempio per quanto riguarda Roma ultimamente si è molto parlato della proposta di Della Valle per la “sponsorizzazione” del Colosseo… Qual è la sua posizione su questo punto? Dunque intanto c’è un problema di fondo: il principio dell’intervento dei privati nelle attività culturali del settore pubblico attraverso sponsorizzazioni o partecipazioni ha poco più di quindici anni di vita. E posso dire, rivendicando un po’ un primato, che la prima amministrazione a introdurre questo principio fu la prima giunta Rutelli nel 1994 su mia indicazione (in quel momento collaboravo infatti con l’ufficio comunicazione della giunta Rutelli). In questi anni sono cambiate molte cose: intanto questa è diventata una consuetudine, ma soprattutto c’è stata una maturazione per cui da un lato le aziende non vogliono più essere utilizzate come dei bancomat e dall’altro le amministrazioni stanno migliorando il proprio standard. La sponsorizzazione pura e semplice infatti è una dazione di denari in cambio di una piccola presenza nella comunicazione, mentre oggi la tendenza che noi stiamo incrementando è quella di creare delle partnership vere. Per cui, per fare degli esempi, Enel che collabora con il museo MACRO legando la propria comunicazione all’arte contemporanea, in
una forma di collaborazione che è anche elaborazione comune di progetti. Oppure il Palazzo delle Esposizioni dove la Fondazione Roma, che è una fondazione privata, stabilisce con il comune dei protocolli d’intesa per cui la conduzione resta in mano pubblica ma con un apporto significativo da parte dei privati. La cosa che è importante tenere presente è che gli interventi privati non possono essere sostitutivi di quelli pubblici e che per far aumentare l’impegno privato bisogna aumentare l’impegno pubblico. Un recente convegno organizzato a Milano dall’Associazione Civita ha reso noti i risultati di una ricerca molto approfondita, la più approfondita fatta fino ad ora in Italia, da cui risulta un dato eclatante: considerando tutti gli investimenti di aziende private in cultura, a partire dalle piccole aziende che fanno sponsorizzazioni sul territorio fino ai grandi interventi, si arriva ad una cifra equivalente a mezza manovra finanziaria. Ciò significa che c’è una grande disponibilità da parte dei privati. Va incrementata soltanto una nuova cultura del rapporto. In proposito il Comune di Roma si è dato un nuovo regolamento e un ufficio, una figura dedicata proprio a questo che sta cominciando a operare in questi mesi, proprio per cambiare la cultura e le regole del rapporto con i privati. Anche perché altrimenti il rischio non potrebbe essere proprio che l’interesse dei privati si possa rivolgere verso quei beni o l’attività di quelle istituzioni che hanno ad esempio un maggiore richiamo mediatico, lasciando
Il 13 giugno 2010 si è conclusa, al Museo Fondazione Roma, la prima grande mostra di Edward Hopper in Italia. L’esposizione ha avuto un ottimo successo, facendo registrare nelle due sedi di Roma e Milano oltre 400.000 presenze
inevase tutta un’altra serie di istanze? È proprio per questo che dico che si passa dal concetto di sponsorizzazione a quello di partnership. L’investimento in cultura non è legato tanto al livello mediatico e non è quindi una forma di pubblicità, ma siccome i privati investono, legittimamente, in funzione dei propri interessi vanno individuati settori e progetti che abbiano un interesse reciproco. Di conseguenza non è detto che l’interesse sia nella grande istituzione o nella grande manifestazione, dove al contrario più spesso è proprio la formula bancomat che funziona, ma nella costruzione di progetti che devono vedere l’investitore privato partecipe e in grado di ricavare
degli utili, non in senso economico naturalmente, ma nella crescita ad esempio del proprio bilancio sociale. Nel 2008 all’inizio del suo mandato, come assessore alle politiche culturali del Comune di Roma, utilizzò una metafora per descrivere le sue linee programmatiche: «Un collage in movimento, un caleidoscopio, più che una foto d’autore. Penso ad una Culture Valley fatta dalle università, dalle accademie, dagli istituti di formazione, dalle scuole di specializzazione, dagli istituti culturali di tutti i più importanti paesi del mondo». Qual è il suo bilancio di medio termine di questi primi due anni e mezzo? Sono molto soddisfatto da questo punto di vista perché pur senza risorse specifiche da dedicare a questo e a volte con operazioni a costo zero abbiamo attivato un network con tutte le istituzioni culturali straniere. Roma è l’unica città al mondo ad avere una così alta concentrazione di istituzioni culturali internazionali – sono trentatre fra Accademie e Istituti di cultura – alle quali si aggiungono tutte le Ambasciate che svolgono un’attività culturale e di promozione. Noi abbiamo creato un sito internet dedicato (culturainternazionale.wordpress.com) che da informazioni di base e aggiorna quotidianamente il calendario delle attività, costruendo così, anche attraverso il sito, un rapporto con la città che prima era totalmente inesistente. Tutte queste istituzioni vengono coinvolte con una reciprocità ormai quotidiana, nel senso che noi chiediamo a loro di partecipare a tutte le manifestazioni e loro rispondono in funzione dei propri indirizzi, delle proprie esigenze partecipando ad esempio a iniziative che sono nel nostro calendario con propri artisti, ricercatori, delegazioni oppure aprendo i propri spazi per ospitare queste manifestazioni. Ci sono poi manifestazioni realizzate specificamente come il progetto Calliope, fatto insieme all’Auditorium e Musica per Roma, che nell’arco di tutto l’anno utilizzando orchestre, rappresentanze e gruppi teatrali dei vari paesi, offre un calendario complesso e di grande qualità.
“Roma è l’unica città al mondo ad avere una così alta concentrazione di istituzioni culturali internazionali che vengono coinvolte con una reciprocità ormai quotidiana” Lo stesso lavoro lo stiamo portando avanti in maniera graduale con le università. Stiamo sottoscrivendo convenzioni su singoli progetti di durata anche pluriennale; collaboriamo con le università per quanto riguarda la ricerca su temi di interesse pubblico, abbiamo attivato meccanismi di partenariato internazionale. È in corso ad esempio un progetto, finanziato dalla Comunità europea, di partenariato con Mosca e Kiev sul recupero del patrimonio edilizio del Novecento che vede a Roma come casi di studio il quartiere del Trullo e quello del Tufello. Il progetto serve a noi per approfondire la ricerca sul nostro patrimonio e ai russi per acquisire una cultura di salvaguardia, sull’importanza di mantenere e riutilizzare quello che c’è, una cultura che loro non hanno perché hanno un patrimonio architettonico che sta andando distrutto. Un altro ospite di questo numero ci faceva notare come siamo forse protagonisti di un’epoca antirinascimenta-
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le. Immaginando di dover allestire una sorta di capsula sieme a Telecom e alla rivista Wired, che è diventato un del tempo, che racconti, alle generazioni che verranno, terreno costante di incontro e di sperimentazione. di noi e della nostra cultura (di quella che produciamo Partendo proprio da questo tipo di discorso. Ho visto oltre che del patrimonio che siamo chiamati a conserdi recente una splendida riproduzione in 3D della Capvare), cosa ci metterebbe dentro? E cosa racconterà di pella Sistina, realizzata in tre anni di lavoro dalla Uniquesta nostra postmodernità un po’ in bilico o se voversity of Pennsylvania. Mi sembra che le tecnologie gliamo in transizione, che ha forse finalmente perduto siano destinate a influire radicalmente non solo, come è il mito del progresso? ovvio, sui prodotti culturali contemporanei ma anche e Ma intanto penso che se questa è un’epoca antirinascisoprattutto sull’accesso alla cultura e sulle modalità mentale ce lo diranno i nostri figli. Semmai se dovessi utidella fruizione culturale. Che mestiere farà l’assessore lizzare una formula direi che la nostra è più un’epoca antialla cultura del Comune di Roma fra cinquant’anni? romantica. Ci sono tutte le premesse per un nuovo rinasciDi cosa si occuperà? mento, quello che manca eventualmente sono i mecenati È una bella domanda. Va detto intanto che questo degli asche comunque, tornando anche al discorso iniziale, a parsessorati è un modello italiano. In altri paesi non sempre le tire da Mecenate, non sono mai stati dei filantropi ma piutamministrazioni pubbliche sono strutturate in questo motosto persone che hanno utilizzato l’arte come fattore di do. Il fatto che l’amministratore locale sia diventato di fataccrescimento dei propri interessi politici o aziendali. In to un promotore di cultura ha depresso altre possibilità. questo momento quello che manca spesso è la committenOggi siamo nel guado, tanto che parliamo di assessorato za però esistono certamente energie forti. alle politiche culturali. Ed è un guado non facile da attraIl riferimento era anche alla carenza di collegamenti, versare perché negli ultimi venti anni si è creata una disdi sinapsi fra mondi e ambiti diversi, fra scienza e torsione per la quale si tende a vedere nell’assessorato una umanesimo sostanzialmente… figura ibrida che da un lato finanzia in maniera anche molQuesto in parte è vero e in parte no. Penso ad esempio a to frastagliata, segmentata e poco progettuale tante piccole tutto ciò che è collegato alle nuove frontiere dell’ITC e a e grandi iniziative proposte dai privati, compreso il sistetutto ciò che offre la rete dove invece i collegamenti sono ma dei teatri ad esempio, e dall’altro si fa promotore di fortissimi. Per fare un esempio paradigmatico lo sviluppo iniziative. Molto poco invece realizza quello che dovrebbe di internet e della rete, che oggi è diventato non solo lo essere il suo mandato e cioè quello delle politiche culturali strumento ma il terreno primario di scambio di informazioe cioè creare delle strutture di sistema che siano di promoni e di interrelazione sociale, non è stato creato dagli ingezione per i diversi sistemi della cultura piuttosto che di sogneri e dai tecnici ma dagli umanisti. Uno strumento milistegno alle singole iniziative. tare come internet è diventato di uso civile perché sono le università che hanno cominciato a utilizzarlo in questo mo“Lo sviluppo di internet e della rete, che do e che ne hanno poi creato anche tutte le forme successioggi è diventato non solo lo strumento ve: la trasmissione di immagini, di file visuali, di filmati nasce da esigenze di scambio di informazioni fra universima il terreno primario di scambio di tà. Così come sono degli umanisti che hanno dato la forma informazioni e di interrelazione sociale, alla rete, perfino nella semantica utilizzata (si pensi a ternon è stato creato dagli ingegneri e dai mini come “icona”) che deriva da questo tipo di bagaglio. tecnici ma dagli umanisti” Direi anzi che questo è un momento di grandi “mischiamenti”. Le premesse e le energie ci sono tutte. Senza cadere nei rischi dei limiti che la rete può generare, le possibiliQuesta situazione che si è consolidata ha dato origine a un tà che oggi vengono date da questa facilità di apertura di circolo vizioso, per cui le risorse che dovrebbero essere utinuovi territori, la velocizzazione di scambio di informaziolizzate per educare i cittadini ad andare a teatro o al cinema, ni, di accumulo di saperi sono un’occasione straordinaria. per favorire alcuni aspetti infrastrutturali – la gente a volte Poi non c’è dubbio che su certi piani l’Italia sia indietro, ad non va a teatro perché i mezzi non vengono pensati anche esempio il fatto che solo il trenta per cento delle imprese in funzione della fruizione dei servizi culturali – e di cui beutilizzi la rete, o tutte le poneficerebbe tutto il settore tenzialità della rete, è un in maniera trasversale finicampanello di allarme serio. scono per disperdersi in Al contempo, tuttavia, abmille rivoli, distribuiti ad biamo anche delle eccellenattività che senza i ventimize. E in questo, per quello la euro di contribuzione che è consentito ad un ampubblica finiscono per ministratore locale, io credo chiudere. Quello che è neche noi stiamo facendo dei cessario quindi è ricalibrare grandi sforzi e Roma è dii pesi, rivedere le modalità ventata un laboratorio ricodi utilizzazione del denaro nosciuto. C’è, ad esempio, pubblico in funzione di attiil progetto che ormai ha un vità di sistema, spostare il anno e mezzo di vita, del Attraverso Enel Contemporanea Award prosegue la partnership, iniziata peso sulle politiche piuttocapitale digitale, avviato in- nel 2009, fra Enel e il MACRO, Museo d’Arte Contemporanea di Roma sto che sul sostegno.
A rhythm to carry the feet Carolyn Carlson’s interview di Valentina Cavalletti
Danzatrice e coreografa Carolyn Carlson definisce se stessa innanzitutto una nomade. Da San Francisco alla University of Utah, dalla compagnia di Alwin Nikolais a New York a quella di Anne Béranger in Francia, dall’Opera Ballet di Parigi al Teatrodanza La Fenice di Venezia, dal Théâtre de la Ville di Parigi a Helsinki, dal Ballet Cullberg a La Cartoucherie a Parigi, dalla Biennale di Venezia a Roubaix, è stata sempre un’instancabile viaggiatrice. Ha calcato i palcoscenici più prestigiosi cercando di sviluppare e condividere il proprio universo poetico. Per descrivere il proprio lavoro preferisce parlare di “poesia visuale” piuttosto che di coreografia. Ha creato oltre cento assoli, alcuni dei quali hanno segnato tappe importanti nella storia della danza, fra questi ricordiamo: Density 21.5, The Year of the Horse, Blue Lady, Steppe, Maa, Signes, Writings on Water and Inanna. Nel 2006 le è stato conferito dalla Biennale di Venezia il primo Leone d’oro mai attribuito a una coreografa. Oggi è direttore del National Choreographic Centre Roubaix Nord-Pas de Calais, e dell’Atelier de ParisCarolyn Carlson, Master classes centre, che ha fondato nel 1999.
You are an international well-known dancer and an estimated choreographer. You have trod the stages all over the world from New York to Paris, from Stockholm to Venice. You danced with the greatest dancers in the world, as Rudolf Nureyev and Maurice Béjart. What is dance for you? Dance is a state of Being. A grace of becoming in each instant of renewed energy. A visual poem of fleeting images in chance potentials. the sun sets behind the ocean you see a beautiful light descending you hear the waves in constant motion you perceive the wind on your body you feel the color and atmospheric change there is no definition only a perceived beauty of passing the Dance. You write poems and you love painting too. You collaborate with famous musicians who compose music for your ballets. Where do you get inspiration for your performances? What role does improvisation play? I receive inspiration from all walks of life, be it a stone on the road, the sky in thunder, the people walking with us on our earth, the greatest painters, both known and unknown, all sounds of nature and those man - made genius composers. So I draw from life itself, an idea can come travelling on a train or just looking out my window. If one has the necessity within to create
all things are an inspiration. Improvisation plays a great role in my creations... I give the idea I have in mind to my collaborators, and each one has his own contribution to the unfolding of the process. I am not the controller...each one of my dancers and music composers have a say within the ideas. Yes, I put it all together in the end, with a joy that all have been an integral part of the process. This experience that brings my work to the definition of Visual Poetry. In this magazine we speak about the future. In your performance you combine body experience and technology, Eastern philosophy and the classical theatre, the Nature and the Sacred. Time and space are mixed. Which culture has influenced you the most?
“Dance is a state of Being. A grace of becoming in each instant of renewed energy. A visual poem of fleeting images in chance potentials” This question is hard to define... I am an American, influenced by the work of my Master, Alwin Nikolais... My roots of high rhythmic energy in time and space and motion, as well as discovering the Eastern philosophy of Japan and Zen Buddhism. All cultures have inspired me, as all include the sacred and profound. I have studied the esoteric philosophies of many domains, so I must say, perhaps I am a synthesis of
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Atelier de Paris-Carolyn Carlson, and in Venice too. Teaching can give perspective to the dance. What’s the future of contemporary dance? What is the role of the television? I do not think dance is an “elitist” art. Mankind has danced since the beginning of time, and as music, it is one of the oldest art forms. Our culture has defined this as something outside of the ordinary beauty of expression of the body and spirit. As for the television programs... These are commercial extravagances that have nothing to do with the true communication of Dance as communicating profound ideas (exception with the Art Channels). ARTE and those of the Italian programs on Dance.
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“Style is like living life, where one finds his true nature”
my most beloved texts and writings of the valued poems and illuminations that serve man for seeing an opening into doors of light and wisdom.
“I am not the controller... each one of my dancers and music composers have a say within the ideas. Yes, I put it all together in the end, with a joy that all have been an integral part of the process. This experience that brings my work to the definition of Visual Poetry” When you are on the stage, you use your body to communicate and to bring out the emotions in your public. Your style is made of sudden bursts, pauses in suspension, plastics gestures. How did you develop your style? Style is like living life, where one finds his true nature. Over the years of choreographing and performing, one finds his inherent voice through practice and search. It just doesn’t happen, it grows through time. «Things happening spontaneously by themselves». Nowadays dance seems to be an elitist art. Sometimes for the young people the dream to become a dancer is offered by TV programs. You said that dance can be transmitted through the teaching and not through books. You are the CCN Roubaix (National Choreographic Center) Director and you founded two important schools in Paris, the
So the role of TV is to produce high quality art, as to the essence of what makes a dance an art form. There needs to many more cultural stations that can convey this message. You can dance in your home, enjoy and go out and share with the others in the disco... this is good, however the true value inherent in the communication of dance as a cosmic-mystic energy to convey the spiritual is indeed a knowledge of in-depth study and perseverance. Therefore the next answer, yes, teaching is the fundamental foundation to further future artists. I have been privileged to have founded the Academy Isola Danza in Venice, where in four years, all students have now been performing their own works, as well as great performers on their own. The Atelier De Paris has a great number of dancers who have experienced masterclasses from the best of the world, thus the teaching from Mentor to protege continues. As for the future of contemporary dance? Only time will tell of those genius creators coming. I aspire that dance continues in the poetry of the body and spirit. All art encompasses the impulse of Life a brush stroke on canvas a word to envision a thought a sound to inspire a rhythm to carry the feet A dance to remember.
I media al futuro Innovazione culturale e abilitazione sociale: intervista a Mario Morcellini di Lia Luchetti Mario Morcellini è direttore del Dipartimento di Comunicazione e ricerca sociale alla Sapienza Università di Roma. Dal 2003 al 2010 è stato preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione alla Sapienza, dove insegna Processi culturali e comunicativi e Analisi dell’informazione e dei pubblici. Dal 2002 è presidente della Conferenza di scienze della comunicazione e dal 2003 portavoce nazionale dell’Interconferenza (Coordinamento nazionale dei presidi di Facoltà); attualmente è consigliere del CUN (Consiglio universitario nazionale). È stato direttore di ricerca e consulente, tra l’altro, per il Ministero dell’Università e della Ricerca, il CNR, la Rai, l’Ordine dei giornalisti, la Federazione della stampa, la Regione Lazio, la Provincia e il Comune di Roma. Gran parte del suo impegno istituzionale è stato dedicato alla nascita e al consolidamento accademico dell’area disciplinare delle Scienze della comunicazione. I suoi temi di studio e di ricerca si sono incentrati sui percorsi dell’educazione nell’età dei media, entro una prospettiva tesa a indagare l’influenza dei media sulla modernizzazione dell’industria culturale e televisiva italiana e sul giornalismo. Tra le sue principali pubblicazioni: Il Mediaevo italiano. Industria culturale, tv e tecnologie tra XX e XXI secolo (a cura di, Roma, Carocci, 2005); Contro il declino dell’università. Appunti e idee per una comunità che cambia (con V. Martino, Milano, Il Sole24 ore, 2005); La tv fa bene ai bambini (Roma, Meltemi, 1999). Questo numero di Roma Tre News in cui pubblichiamo la sua intervista è dedicato al tema “il futuro che immaginiamo”, in un ipotetico sguardo di prospettiva al 2084. Come vede il futuro dei media? Affrontando il tema del futuro dei media, bisogna sempre anticipare un caveat generale: è difficile, infatti, immaginare quali saranno le tecnologie che agiranno, in particolare quali saranno i media che noi definiamo strategici, quelli cioè che sono capaci di condizionare il clima culturale. Al netto di questa osservazione tautologica (perché è chiaro che noi immaginiamo le tecnologie di oggi o le loro evoluzioni) due dimensioni si possono azzardare meno rischiosamente. La prima riguarda l’impatto culturale della comunicazione del futuro, e dunque in quale misura la comunicazione del futuro accorcerà le distanze tra comunicazione e cultura, mentre la seconda enfatizza il rapporto tra tecnologie e persone, o meglio tra tecnologie e generazioni. Sull’ipotesi che il futuro veda abbreviare le distanze tra media e cultura, mi sento di escludere che la comunicazione del futuro sia così povera di qualità e di innovazione come quella di oggi. Per quanto si possa parlare positivamente della comunicazione di oggi, e ciò implica chiudere gli occhi su molte contraddizioni, è difficile non annotare che due vertenze sono al centro della scena: la prima è la vertenza qualità, che tradotta in termini non demagogici parte dalla circostanza che non di rado i soggetti sociali sembrano più forti dei contenuti offerti dalla vetrina dei media. Si assiste, cioè, ad una asimmetria della comunicazione rispetto ai sistemi di attese e all’evoluzione della mentalità collettiva.
La seconda è la vertenza contenuti. I messaggi mediali sono poco innovativi, incredibilmente fotocopiati tra i diversi media, a volte anche nel rimbalzo della rete, e sono comunque caratterizzati dal fatto di essere scarsamente elaborati. Quindi sia qualità che contenuti (le due cose non sono uguali ma per il momento le possiamo considerare interdipendenti) costituiscono una vertenza aperta. È impensabile che i media sopravvivano non alzando la qualità media, e quindi non innovando i meccanismi produttivi, le professionalità coinvolte e, alla lunga, i contenuti stessi della comunicazione. Quindi la mia ipotesi un po’ azzardata è che il futuro sarà dei contenuti. Fondo questa idea sulla presa d’atto che la bolla comunicativa di oggi, che vede confusione, ripetizione, cascami della cultura di massa, sia destinata ad esaurirsi, forse travolgendo quegli studiosi che hanno troppo euforicamente cantato le bellezze della comunicazione. Sul combinato disposto tra soggetti sociali e strategie di selezione nel mercato dell’offerta di consumi culturali è più difficile fare una profezia che non sia avventata. Una questione, però, si pone drammaticamente e coincide con un radicale spartiacque di generazione. Già oggi si può procedere a una sorta di tracciabilità del dividendo digitale per età. Comincia a vedersi chiaramente che la vertenza non è più sociale, ma un age-divide. È difficile non pensare che questo aspetto si riprodurrà senza adeguate politiche di contrasto. Almeno a breve, l’essere giovani (o essere adulti in una famiglia con juniores), sarà l’elemento strategico per innovare le diete comunicazionali. Penso che i centri propulsori d’innovazione, ma anche di acquisizione delle tecnologie pregiate o di elettronica di
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consumo, siano giovani e adulti con figli in età di formazione. Sono quelli più assetati di gestire la comunicazione come elemento di rimediazione delle differenze di età.
“Sull’ipotesi che il futuro veda abbreviare le distanze tra media e cultura, mi sento di dire che è impensabile che la comunicazione del futuro sia così povera di qualità e di innovazione come quella di oggi” Lei infatti negli ultimi anni ha lavorato moltissimo sul rapporto tra media e giovani generazioni e sul tema della soggettività della scelta. A suo avviso come è cambiata e come cambierà la mappa dei consumi culturali o comportamenti culturali dei giovani? Intanto è altamente probabile che non ci siano le sacche di dipendenza monomediale che ancora caratterizzano il mondo giovanile di oggi. Quasi nessuno lo dice: è vero che sono più gli adulti i monomediali, ma ci sono curiose resistenze nel cluster giovanile. È sostenibile l’ipotesi che i giovani saranno per definizione multipiattaforma, o meglio, con una parola più rigorosa, multitasking. Dovrebbe attenuarsi quell’avvitamento bizzarro in forza di cui oggi gli adulti sono il luogo del generalismo e i minori il luogo dell’innovazione culturale. È più probabile che ci sarà una compenetrazione di cluster e una minor differenza linguistica tra i contenuti delle due province di comunicazione. Oggi il generalismo si riconosce facilmente rispetto allo spontaneismo linguistico della rete. Non è impossibile pensare che la rete si possa – questa è una formula su cui non mi sento di azzardare una proposta, ma la voglio almeno enunciare – istituzionalizzare di più, e dunque la rete possa riproporsi come ricompensa
del generalismo in crisi, risarcimento sociale di un vuoto di contenuti che oggi non si può più intercettare nel grande atlante dei vecchi media. Come vede i linguaggi espressivi che caratterizzano i consumi e i comportamenti culturali? Si assiste ad un ritorno alla testualità? Questo evento si è già realizzato, e devo dire che è stato puntualmente annotato dagli studiosi contro le profezie apocalittiche dei sociologi e l’eccesso di diagnosi impegnate sull’oralità la rete ha imposto, con incredibile forza, un ritorno alla centralità della parola scritta. Sempre più soggetti accedono ai testi, e questo meriterebbe una più attenta valutazione storica e culturale. Il fatto che il testo, l’espressione più compiuta della “mentalizzazione” della vita, dello stoccaggio dell’esperienza e della codificazione (anche ai fini della memoria sociale), coinvolga un numero imponente di persone è davvero una novità rivoluzionaria, che dovrebbe essere colta più adeguatamente dagli studiosi di linguistica. Troppi credono che l’influenza della comunicazione si concentri sull’oralità, ma è soprattutto sulla scrittura che agisce l’impatto dei media. È impressionante prendere atto di quanto il circuito ristretto della scrittura, fondato su un meccanismo minoritario, si sia infranto. E i giovani ne sono la testimonianza d’avanguardia. Lei ha ampiamente documentato il ruolo dei media digitali (i blog, il giornalismo online etc.) nello sviluppare forme di consumo partecipativo. Le tecnologie potranno essere usate in chiave formativa? Certamente. È difficile vedere chiaro nell’esperienza complessiva del giornalismo sulla rete. Da un lato siamo assolutamente convinti che l’esposizione dei soggetti è aumentata, contrariamente a quello che raccontano molti studiosi del giornalismo. Se si fa l’addizione del mondo dell’editoria giornalistica, del libro, e dell’informazione online il numero
di utenti è più imponente che in passato. Che tutto ciò si traduca anche in un uso pedagogico è ovviamente più complicato. Dipende molto dalla forza educativa dei docenti e dalla sintonia che riescono a stabilire con gli allievi. Le esperienze di media education sono affascinanti ma minoritarie. Occorre capire meglio perché non riusciamo a generalizzarle, e a farle diventare un patrimonio di massa. Che posto si immagina avranno nel futuro le tradizionali agenzie di socializzazione? Dipende molto dal clima culturale del nostro tempo, che non è certo in buone condizioni di salute, al punto che noi parliamo esplicitamente di “recessione culturale”. Occorrerà seguire con grande attenzione la dinamica di questa recessione, documentando i punti di crisi e le parole chiave ai fini di un atlante della cultura moderna. Solo da una autoriflessione di questo genere può prendere le mosse un progetto di trasformazione, che dia una diversa meta ai bisogni sociali, all’insoddisfazione per lo stato di cose esistente e alla coscienza civile. Con una radicale precisazione: una vertenza qualità implica anche rivendicare un ruolo per la mediazione. Questo è un altro messaggio che bisogna dare esplicitamente ai giovani e ai moderni: non è cultura se non c’è mediazione. E quindi la mediazione la devono praticare gli adulti consapevoli del loro ruolo, i genitori che non fanno finta di essere amici dei figli, ma che tornano a esercitare la genitorialità i professori che non fanno gli amici degli studenti, ma esercitano la funzione magistrale. Vale anche per la politica non politicante. Vale per tutti quelli che sanno che la funzione di guida è stata sempre storicamente al centro dei processi educativi. Che ruolo potrà assolvere la scuola come agenzia educativa rispetto al rapporto tra giovani e consumi culturali? È fondamentale, anche dal punto di vista della storia recente. L’unico punto su cui non mi sento di attaccare i media è nella presa d’atto che la scuola non ha fatto il suo mestiere. La comunicazione potrebbe avere oggi un bilancio sociale e culturale diverso se i media fossero stati “accompagnati” da quel territorio che si chiama formazione. La scuola non c’è stata. Tutte le battaglie che abbiamo fatto sono state minoritarie e intellettualistiche. Non abbiamo saputo convincere i docenti e di conseguenza non è raro che essi non sappiano comunicare ai loro allievi. Con due conseguenze: a scuola c’è dolore, noia, ripetizione, liturgia; al tempo stesso questo trend a ignorare i linguaggi dei media ha finito per favorire un’interpretazione evasiva della comunicazione. E tuttavia non mancano dimensioni più positive: nei dati di ricerca, nelle sperimentazioni sociali più coraggiose, nella presa d’atto che i giova-
ni sono attivisti culturali sia nel tempo della scuola che nell’alone degli anni successivi. Si afferma, infatti, un’influenza positiva della scuola che in passato non si rintracciava mai e che darà effetti nel tempo. I giovani di oggi saranno gli adulti di domani. Come si potrebbe educare alla comunicazione e al cambiamento? La risposta provocatoria è che occorrerebbe cambiare la testa dei docenti. Ma per contraddirmi ricorro ad una famosa citazione che dice che gli uomini li puoi uccidere, non cambiare. Con la forza di questa constatazione bisogna convincere i docenti che se loro non cambiano la scuola è finita. La vertenza è lì. Ovviamente riguarda anche la politica italiana, e non certo solo quella di questa stagione.
“La rete ha imposto, con incredibile forza, un ritorno alla centralità della parola scritta. Il fatto che il testo, l’espressione più compiuta della “mentalizzazione” della vita, dello stoccaggio dell’esperienza e della codificazione (anche ai fini della memoria sociale), coinvolga un numero imponente di persone è davvero una novità rivoluzionaria” Ci potrà essere un futuro di conciliazione tra cultura e comunicazione? Direi di sì. Mi sembra impossibile che incassiamo un’altra sconfitta anche nel futuro, dopo averne registrata una sul passato. Sono più convinto che in passato che il centro di attenzione dei media non sia quello dell’ignoranza e del populismo. Alla lunga l’ignoranza uccide anche la comunicazione, perché non c’è innovazione né curiosità, l’ignoranza è beata di sé, è soddisfatta e non ha bisogno di stimoli. La comunicazione di grado zero è per definizione più virale, non è conservatrice. Se non innova non è comunicazione, ma una semplice tautologia della vita. Si può capire meglio questo aspetto ricorrendo a un esempio: dalla poesia noi abbiamo sorpresa, eccitazione, riconoscimento. Dalla banalità del reality noi abbiamo solo rassicurazione senza alcuna innovazione. Essendo sempre destinata ad essere un passo avanti rispetto alla vita, la comunicazione dovrà capire che il suo baricentro è l’acculturazione. Non la pedagogia sociale, ma una lettura più attenta dei bisogni di superamento
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dell’individualismo che sono insiti nell’atto comunicativo. Fino ad oggi non possiamo escludere che comunicazione e individualismo non siano stati profondamente alleati; domani non potrà più essere così perché l’individualismo è già ambientato nella stilistica del rapporto con la rete. Non può essere anche il contenuto dei media. Un indizio potente di questo bisogno di trasformazione è rintracciabile proprio sulla rete, dove le forme di socialità sono quelle che più tematizzano le nuove accelerazioni: si va verso forme di gestione della rete internet che enfatizzano di più l’aspetto dell’inter, non quello della solitudine del soggetto davanti agli schermi. La piramide dei consumi culturali, che per anni è stata metafora delle disuguaglianze comunicative. Secondo lei è ancora attuale e applicabile come figura geometrica? Sicuramente è molto cambiata perché la piramide che è stata così caratteristica del passato recente si presenta oggi come un tronco di piramide. È vero che c’è ancora un cluster di consumatori in difficoltà a stare nella modernità, di cui nessuno si occupa, ma non è così facile raffigurarla con una metafora espressiva come quella della piramide. Certamente non è finita la concezione piramidale della cultura, e questa è una prova che cultura e media non si sono davvero sinergizzati. Questa è la vera vertenza. Abbiamo creduto troppo facilmente che estendere la comunicazione significava favorire la cultura. Oggi sono disponibili prove che sembrano sostenere (anche) il contrario: alcune forme di ignoranza diffuse nella società sono profondamente innervate e supportate da una dorsale espressiva di arroganza che si fonda su costrutti semplificati appresi dai media. Ci sono isole della comunicazione – e i vertici sono alcuni talk show, i reality o meglio il surreality – che non solo non allargano minimamente il sapere, ma danno al soggetto l’arroganza di poter essere indifferente a qualunque sforzo di acculturazione. Se questa ipotesi è plausibile si tratta di una novità storica. Un esempio che entrerà nei manuali di comunicazione è dato dal racconto dell’omicidio di Sara Scazzi, e dal tessuto sotto-culturale che esso ha messo in luce. In passato la deprivazione culturale si ritraeva dalla scena, adesso la cerca. Usa spietatamente persino il dolore per avere cinque minuti di notorietà. Lei ha coniato delle locuzioni fondamentali come Mediaevo e Risorgimento dei consumi. Quale potrebbe essere secondo lei la parola adeguata per raccontare il cambiamento e tematizzare il futuro dei media? Cerco di arrivarci per approssimazione. Se dovessi fare una scelta che tradisce il mio spirito positivo, forse il termine più pertinente è quello di “abilitazione sociale”. Mi sembra che la più aspra critica ai media è che ci
sono sembrati abilitatori sociali ma in realtà sono stati dei registratori. È difficile sostenere che la comunicazione abbia spostato le persone verso l’area della competenza e persino che abbia favorito i processi che più facilmente si associano alla competenza: partecipazione, conoscenza del mondo, redistribuzione e innovazione dei saperi.
“A me sembra che la più grande critica che dobbiamo fare ai media è che ci sono sembrati abilitatori sociali ma in realtà sono stati dei registratori sociali” Per anni sono stato uno di quelli che più convintamente ha lavorato sul concetto di comunicazione come socializzazione dei moderni, ma si è trattato essenzialmente di una socializzazione figurativa. Su questo devo dichiarare una brusca autocritica. È vero che per i giovani sembra manifestarsi anche un incremento delle capacità critiche, altrimenti non ci spiegheremmo come mai essi sono comparativamente più interessanti proprio là dove gli adulti sono più deboli. Ma se osserviamo l’intera società, non si è rivelata fondata la speranza che la comunicazione allarga l’esperienza sociale e la capacità di lettura del mondo e del nostro tempo. È da revocare il dubbio, perché la lettura troppo euforica del mondo dei media si è rivelata unilaterale. La seconda parola è innovazione. Si tratta, è vero, di un termine a rischio di retorica, come molte delle parole investite da una fortissima moda. Proviamo a intendere con innovazione un cambiamento del comportamento culturale del soggetto che lo porta ad essere più capace di gestire il proprio destino. Così diventa una variante di capitale sociale e culturale, un altro modo di alludere alla competenza, all’azione e non solo alla riproduzione di parole in cui si può pericolosamente vedere una delle fonti di fortuna della comunicazione oggi dominante. Gli studi oggi disponibili sulla comunicazione ci dicono che essa è stata incredibilmente capace di mettere in mostra prove dei cosiddetti “effetti profondi” dei media. Trovo che qui ci sia una bella vertenza per i comunicatori: dove la comunicazione interferisce e modifica – userò un verbo forte – la coscienza, mettendo in discussione il nodo dove si elaborano valori che orientano l’azione individuale. Insisto che ormai gli studi ci possono consentire uno scatto di analisi sul potere dei media e su questa funzione si può ritrovare il concetto di innovazione: come la comunicazione del passato ha inciso sulle persone ma non le ha arricchite e rafforzate. In presenza di una svolta dei contenuti e di un allargamento sociale delle opportunità, si possono dare le condizioni di una straordinaria innovazione culturale.
Futuro e fantascienza: un binomio ancora in voga? Carlo Freccero e i telefilm di fantascienza americani degli anni Settanta di Valentina Cavalletti Carlo Freccero, attuale direttore di Rai 4, insegna Linguaggi della televisione generalista e Teoria e tecniche del linguaggio radiotelevisivo all’interno del Corso di Laurea in DAMS presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi Roma Tre e presso il Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università degli studi di Genova. Esperto di comunicazione e autore televisivo, ha svolto ruoli di primo piano sia per la televisione italiana che francese. Negli anni Ottanta, è stato direttore dei palinsesti di Canale 5 e di Italia 1 e ha lavorato per Rete 4 come curatore della programmazione del canale. Nel 1993 è responsabile della programmazione di France 2 e France 3. Lavora per la Rai dalla fine degli anni Novanta: dal 1996 al 2002 è stato direttore di Rai 2, dal 2007 al 2010 è stato Presidente di Rai Sat. Come si caratterizzavano i telefilm di fantascienza americani degli anni Settanta? La fantascienza è da sempre un genere letterario e filmico, che ha per scopo la descrizione del reale. Relegare in mondi lontani nello spazio e nel tempo vicende che ci riguardano da vicino è un modo per eludere la censura e per tradurre in termini narrativi critiche che, espresse in forma razionale e saggistica, risulterebbero ostiche al grande pubblico. Da sempre la fantascienza è una specie di utopia positiva o negativa che mette in scena e celebra il mondo a cui aspiriamo e in cui vorremmo vivere o, al contrario critica il presente fornendocene una visione più cupa e straniante. Non solo. Ogni periodo storico ha un proprio immaginario, frutto della realtà sociale e politica e dello spirito del tempo. Così, come tutti sanno, negli anni Cinquanta, dominati dalla guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, lo straniero, l’alieno, è presentato come un nemico. Si vedano ad esempio classici della fantascienza come La guerra dei mondi e L’invasione degli ultracorpi. In epoche di distensione internazionale e pacifismo percepito come valore universale, l’alieno diventa amico e fratello come nei film di Spielberg degli anni Ottanta, da E.T. a Incontri ravvicinati del III tipo. Mentre con il ritorno della guerra in seguito al terrorismo, anche
Spielberg si cimenta con il remake de La guerra dei mondi in cui gli alieni ritornano cattivi, mostruosi, ostili. La fantascienza degli anni Settanta si pone nel solco tra l’uscita dalla guerra fredda, la rivoluzione del Sessantotto e l’attesa quasi messianica dell’alieno spielberghiano, portatore di verità e di luce. Il telefilm icona di quegli anni è sicuramente Star Trek, prima grande produzione di fantascienza televisiva e ancora oggi oggetto di culto per generazioni successive di fan. Star Trek nasce alla vigilia del Sessantotto in un’America in cui l’integrazione razziale era al centro del dibattito politico e delle manifestazioni degli attivisti. Un’astronave si muove nello spazio alla ricerca di nuove civiltà, con l’obiettivo di conoscerle, non di dominarle. Del resto il suo equipaggio è un campionario di culture diverse, non solo terrestri, ma anche di diversi pianeti. In Star Trek si registra anche il primo bacio cinematografico interraziale. Un manifesto dei fenomeni degli anni Settanta. Ha dichiarato in proposito Gene Rochenberry, ideatore della serie: «mi accorsi che creando un mondo a parte, un nuovo mondo con nuove regole, si poteva trattare con più facilità di sesso, religione, Vietnam, alleanze, politica, missili intercontinentali: è quello che facemmo in Star Trek».
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I personaggi di Goldrake
Quei telefilm hanno in qualche modo permeato l’immaginario collettivo della mia generazione. Il loro carattere fantascientifico prefigurava un futuro fatto di mondi sconosciuti e di supereroi in grado di salvare l’umanità dal male. Tornando al presente, qual è la differenza tra i telefilm di oggi e quelli di allora? Penso ad esempio a Lost, a Flashforward o a Fringe. La fantascienza può tornare ad essere protagonista dei telefilm del futuro? Anche Fringe o Flashforward sono telefilm di fantascienza ma sono costruiti su un immaginario completamente differente, un immaginario che non ha più al centro il sociale e il politico, ma i grandi temi del presente: la tecnologia, la scienza e, al contrario, la religione, il mistero. Riflettendo su questi titoli possiamo dire che per la prima volta la fantascienza esce dall’utopia, dal non-luogo politico, per incamminarsi verso una nuova forma di non-luogo: la realtà parallela. Penso che questi telefilm siano diretti a un pubblico di giovani utenti di internet, appassionati di nuove tecnologie ma, allo steso tempo, affascinati da siti di incerta credibilità. Su internet vero e falso si confondono facilmente così come si confonde nella società americana il confine tra scienza e fede. Pensiamo ad esempio ai gruppi di pressione religiosa che pretendevano che nelle ore di biologia, venissero presentati ai ragazzi sullo stesso piano, la teoria dell’evoluzione di Darwin e il creazionismo della Bibbia. Lost e Fringe sono divagazioni sul rapporto spazio tempo coniugate con mitologia, misticismo e via discorrendo. In questo senso possiamo dire che la fantascienza è ormai un supergenere in grado di mettere in scena qualsiasi soggetto, dal politico, al sociale, allo scientifico, alla pura fantasy, senza doversi tutelare dalla censura o dover rispettare
le regole della razionalità, della scienza, della credibilità. Un universo di puro immaginario che le nuove tecnologie, i nuovi effetti speciali, rendono finalmente realizzabile anche sul piano puramente visivo.
“Gli americani hanno costruito con Hollywood prima e con la televisione poi, l’immaginario universale contemporaneo. Almeno sino ad oggi, l’America ha rappresentato il centro simbolico in cui confluivano anche le culture periferiche degli altri paesi, dal kung fu al ballo latino-americano” Nella sua programmazione televisiva sono sempre presenti i telefilm americani. America fa rima con futuro? Perché gli americani producono telefilm di qualità? Cosa abbiamo da imparare? Gli americani hanno costruito con Hollywood prima e con la televisione poi, l’immaginario universale contemporaneo. Nuovi centri di produzione stanno nascendo, a Bollywood come in Cina, ma, almeno sino ad oggi, l’America ha rappresentato il centro simbolico in cui confluivano e si rigeneravano in una grande koinè, anche le culture periferiche degli altri paesi, dal kung fu, alla mafia, al ballo latino-americano. La matrice della fiction italiana è costituita nei suoi modelli alti dal neorealismo, nei sui modelli bassi, dalla versione edulcorata e manierata del realismo coniugato col melodramma. Con una gamma di eroi che vanno dal
santo al carabiniere, dal mafioso da sceneggiata napoletana, al padre di famiglia. È una fiction che anziché all’immaginario e al mondo globale, si rivolge al quotidiano e al locale. In quanto alla qualità dei telefilm americani, penso che si possa riassumere in due momenti: grandi disponibilità di mezzi economici, coniugata ad una precisione assoluta nella costruzione della trama e dell’intreccio. Prima ancora del contenuto è il ritmo impresso agli eventi a conferire successo al prodotto. Negli anni Settanta e Ottanta, lo stesso target ideologico dei telefilm lo si assegnava ai cartoni, dove i robot (da Mazinga Z a Goldrake, da Jeeg Robot a Baldios) avevano il potere di utilizzare la loro forza stellare per portare il bene sulla Terra e distruggere ogni genere di malvagità. In che modo gli anime e i telefilm di oggi costruiscono l’immaginario e l’identità dei nostri figli? Quali sono i nuovi modelli culturali che imperano e quale messaggio vogliono trasferire? Il Giappone ha dimostrato nel tempo la capacità di lavorare a una robotica che esalta le forme antropomorfe: il robot diventa un essere umano. Nella figura del robot si fonda quindi l’aspetto tecnologico e umano dell’immaginario Mecha giapponese: l’ibrido tra carne e meccanica. E l’ossessione del Giappone per la mutazione dei corpi in chiave meccanica non si limita alla dimensione degli anime, basti pensare a un film paradigmatico come Tetsuo di Tsukamoto, che tratta in modo estensivo l’immaginario derivante dalla mutazione della carne in meccanica/ingranaggio. Nel genere Mecha possiamo distinguere diverse evoluzioni che si configurano come metafora della vita dei giovani adolescenti, adolescenti che devono affrontare una società dura, severa, selettiva. Queste figure cinematografiche, televisive, letterarie rappresentano nell’immaginario una vendetta, una sorta di uscita di sicurezza dalla suddetta società.
“La matrice della fiction italiana è costituita nei suoi modelli alti dal neorealismo, in quelli bassi, dalla versione edulcorata e manierata del realismo coniugato col melodramma. Con una gamma di eroi che vanno dal santo al carabiniere, dal mafioso da sceneggiata napoletana, al padre di famiglia” Negli ultimi dieci anni la programmazione televisiva è stata centrata sui reality che sembrano essere molto lontani dalle tematiche fantascientifiche. Quale sarà il tema centrale della TV del futuro? Mai fare previsioni sul futuro della televisione. Sarebbero tutte smentite. In televisione ci sono lunghi periodi di permanenza di un genere e brusche fratture che proiettano all’improvviso il presente nel passato. Succede già oggi: il reality mostra la corda e cresce la domanda di informazione ed impegno. Vieni via con me ha bruciato il Grande fratello.
Nell’ultimo Telefilm festival 2010, che si è svolto a Milano la scorsa primavera, si è parlato delle ragioni che hanno determinato una flessione degli ascolti delle serie in generale e di alcuni titoli di punta, che nelle stagioni precedenti avevano segnato invece record storici. Alla luce di quanto emerso nel dibattito, in cui si è parlato di frammentazione degli ascolti e della moltiplicazione delle piattaforme, i telefilm possono fare ancora audience? A quale pubblico parlano? L’interazione tra web e televisione decreterà la morte del piccolo schermo? Come la TV può «somatizzare» le novità che giungono dal web, per usare una sua espressione? Siamo sempre alle previsioni. Qui però più sul piano della tecnologia che dei contenuti e forse, in questo caso, si possono fare ipotesi. I telefilm si rivolgono ad un pubblico “alto” in senso contemporaneo, a un pubblico cioè che più che ad una cultura umanistica, fa riferimento a competenze tecniche e a interessi narratologici. Un pubblico che, a differenza della mia generazione, ha imparato a maneggiare audiovisivi, a cimentarsi con videogiochi, prima di imparare a leggere e scrivere.
“Mai fare previsioni sul futuro della televisione. Sarebbero tutte smentite. In televisione ci sono lunghi periodi di permanenza di un genere e brusche fratture che proiettano all’improvviso il presente nel passato” È un pubblico che non conosce il digital divide, ma, allo stesso tempo e inconsciamente, ha imparato a padroneggiare una storia, un intreccio, perché sin da piccolo ha giocato innumerevoli partite sulla propria console come protagonista di storie fantastiche. È lo stesso pubblico che scarica le serie da internet perché non può aspettare la messa in onda del prossimo episodio del serial preferito. Indipendentemente dalle piattaforme di fruizione (internet, DVD, Blu Ray, televisione, telefono, play station) questo pubblico continuerà a chiedere storie per saziare la propria fame di immaginario. Il telefilm ha comunque un futuro.
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«Per fortuna è una notte di luna» Intervista a Monique Veaute di Alessandra Ciarletti Monique Veaute dopo gli studi in Scienze umane all’Università di Strasburgo, inizia la sua carriera come giornalista a Radio France nel 1977 e dal 1984 diventa responsabile degli eventi internazionali a France Musique. Fonda e dirige nel 1982 la sezione Musica della Biennale di Parigi e organizza nel 1984 l’apertura della Grande Halle de la Villette. Nel 1984 crea a Roma il Festival di Villa Medici, che nel 1986 diventa Fondazione Romaeuropa-arte e cultura, di cui è stata direttore artistico sin dalla prima edizione e direttore generale fino al 2007. Mantiene oggi la carica di vicepresidente. È stata consigliere culturale all’Ambasciata di Francia a Lisbona, consigliere scientifico dell’Istituto nazionale di dramma antico. Dal 2005 al 2008 è stata membro del consiglio di amministrazione dell’Accademia di Francia a Roma e dal 2008 è membro del consiglio di amministrazione del Théâtre national de Chaillot. Da agosto 2007 al 2009 è stata amministratore delegato di Palazzo Grassi a Venezia. Monique Veaute è stata insignita in Francia del titolo di Chevalier des arts et lettres dal Ministro della cultura e ha ricevuto l’Ordre National du Mérite dal Ministro degli affari europei; nel 2006 in Italia è stata insignita del titolo di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana. Ci racconta come è nato il Romaeuropa Festival e qual è stata la sua idea fondante? Il Romaeuropa Festival nasce come tante altre cose: per caso. Già venticinque anni fa ero assolutamente europea, ma del nord Europa! Quando l’allora direttore di Villa Medici, Jean-Marie Drot mi chiese di lavorare con lui a Villa Medici, devo ammettere che inizialmente ebbi qualche esitazione: non conoscevo il sud e per me l’Italia era perlopiù collegata al mondo mediterraneo e distante dalla piattaforma culturale rappresentata da Parigi, Londra, Vienna, Amsterdam, dove tutto circolava e si scambiava velocemente. Roma mi sembrava molto lontana da tutto ciò. Ricordo bene che la mia prima impressione, fu di una città buia con un pesante carico archeologico. In questo senso all’inizio ebbi dei dubbi nell’accettare l’incarico. Dopo di che, come sempre accade, gli incontri giocano un ruolo fondamentale nel caratterizzare i luoghi. Infatti ebbi la fortuna, fra gli altri, di incontrare Renato Nicolini, Roberto D’Agostino e Fabrizio Grifasi: giovani che mi fecero scoprire un’altra città, più sotterranea magari e con una grande domanda di modernità. Mi fu subito chiaro che l’unico spazio possibile a Roma era quello del tempo contemporaneo, lavorando sia con alcuni personaggi del teatro come Giorgio Barberio Corsetti e Mario Martone, ma anche con tutto il teatro che si faceva nelle cantine, integrandolo ovviamente con il mio background nordeuropeo. L’idea era di fare un innesto: non a caso uno dei primi temi che ho affrontato è stato proprio Barocco e modernità. Perché? Perché nel 1984/85 il periodo delle grandi avanguardie era quasi arrivato alla fine e si capiva bene che c’erano molte cose che potevano convivere insieme e in questo senso per me quella era sicuramente un’epoca barocca. Si potevano mischiare i generi, ritrovare il classico, andare su certe forme musicali contemporanee, affini per strumenti proprio all’epoca barocca. Insomma, quello che all’inizio mi sembrava un grande difetto divenne per me interessante svilupparlo in qualcosa di positivo: il che è sempre fondamentale se si vuole riuscire a convivere bene con qualcosa che sembra molto distante.
L’impatto di questa modernità con una villa storica, come Villa Medici appunto, e in più in un contesto come Roma - una città con duemilacinquecento anni di storia! - era una combinazione forte, se vogliamo anche ambiziosa… ma l’interazione ha funzionato. L’altro aspetto che mi sembrò fondamentale integrare era la portata culturale e internazionale che in qualche modo le ambasciate garantivano su Roma insieme agli Istituti di Cultura, il tutto raddoppiato grazie a quelli della Santa Sede. Non solo. C’erano e ci sono le Accademie legate al Grand Tour e tanto altro ancora. Quindi con questo tipo di piattaforma ci siamo detti: perché fare delle cose nazionaliste? Siamo a Roma e siamo in Europa! Cominciai così a sentirmi parte di quel tutto, perché personalmente ho sempre fatto fatica a dire questo è francese, questo è tedesco, questo è inglese etc. Mi è sempre suonato molto stonato, rispetto alle mie corde: nel mondo artistico un bravo musicista lavora sia con un’orchestra che con un’altra… un po’ come un professionista del calcio. Quindi anche il semplice fatto di ritrovarmi in gruppi in cui si parlava tedesco, italiano, francese, inglese, mischiando un po’ tutto, mi diede l’impulso a intraprendere un cammino. Per circa venti anni lei è stata il Direttore artistico del festival più innovativo, sperimentale e internazionale. Qual era/è il suo criterio nello scegliere un progetto artistico piuttosto che un altro? L’artista che nella sua carriera l’ha colpita di più e quello, se c’è, su cui si è ricreduta? Il criterio è stato sempre la modernità, la contemporaneità, l’innovazione. Qualsiasi sia la forma espressiva è fondamentale che l’artista abbia qualcosa da dire, non importa il campo. Può essere anche molto astratto. Per questa ragione all’epoca mi interessai di danza contemporanea, perché era un modo di approcciare il palcoscenico che rimetteva in discussione tutti i parametri tradizionali. La danza contemporanea va a cercare l’architettura, la letteratura, la musica, il lavoro con la luce e può entrare nel mondo astratto senza problemi: un po’ come l’arte contemporanea, se vogliamo. Sì, lo spettacolo dal vivo più vicino all’arte contemporanea è sicura-
mente la danza: si gioca con i corpi e non a caso grandi artisti della body art hanno avuto un grande rapporto con la danza. Ho sempre cercato registi che avessero avuto a che fare con la danza. Basti pensare a Robert (Bob) Wilson, Pina Bausch. Per quanto riguarda il tema dell’innovazione bisogna dire che si è molto evoluto nel tempo: all’inizio probabilmente la questione che mi ponevo era sostanzialmente il rapporto fra patrimonio e modernità, dopo di che la mia attenzione si concentrava nel trovare il modo di superare le frontiere. Fu una necessità anche storica dal momento che la caduta del Muro avvenne proprio nel mezzo del nostro viaggio. Oltre all’innovazione mi stimolava molto approfondire il rapporto col mediterraneo: pur partendo da una posizione privilegiata – siamo una grande civiltà occidentale – dall’altra parte del Mediterraneo si apriva un orizzonte est molto ricco e variegato. Il confronto con questi vari est mi permise di entrare in relazione con culture e modalità espressive completamente diverse dalle nostre, con le quali valeva la pena dialogare, quantomeno farle conoscere al grande pubblico. Certo, all’inizio per me fu complicato capire come far entrare il mondo iraniano piuttosto che indiano, cinese e giapponese in un contesto in cui all’epoca gli incroci erano molto meno evidenti. Per questo mi interrogavo sul patrimonio, sul tipo di civiltà che c’era dietro; volevo conoscere le dinamiche sociali e culturali che li caratterizzavano, ero curiosa di capire il loro concetto di modernità e come si declinava nella loro società. Volevo capirlo e integrarlo con le altre culture, correnti artistiche, espressioni concettuali. Ovviamente oggi tutto circola rapidamente e senza troppe difficoltà. Inoltre c’è da dire che essendo una fondazione era importante crearci uno spazio nostro all’interno di questa città, ben consapevoli che se le cose avessero funzionato, saremmo stati un traino anche per altre istituzioni. Quindi era necessario mantenersi sempre alla ricerca. Oggi per noi la ricerca è molto concentrata sul mondo delle tecnologie, senza tralasciare ovviamente lo spettacolo fatto dagli esseri umani. Ho sempre tenuto a proporre progetti artistici in cui i singoli artisti avessero un modo di comunicare cose interessanti con modalità nuove. Un artista che mi ha colpita da subito è sicuramente Peter Sellars… un progetto, invece, che all’inizio non mi convinceva e che poi si è rivelato strepitoso è stato Le zingaro. Roma è una piattaforma culturale piuttosto difficile: ogni scelta stilistica, avanguardia artistica, o semplice moda del momento non può non tener conto della tradizione in cui si inscrive. Il rapporto con questo passato può essere anche molto castrante. Eppure lei ha dimostrato sul campo una grande intuizione artistica unita a un’ottima dose di diplomazia. E scommetterei che ha saputo condire il tutto con buona ironia. Come si è relazionata con le diverse istituzioni. Ha avuto momenti di difficoltà? Sempre, fin dall’inizio. Consiglio a qualsiasi persona che abbia un’idea, di non mollare mai e resistere sempre. E quando dico mai mollare intendo mai mollare il progetto, Monique Veaute e Trisha Brown
non adattarsi, non fare delle cose per cercare di piacere al politico o al pubblico. Se uno è convinto di quello che fa deve trovare i mezzi e i modi per convincere il politico e il pubblico. Partendo da questo principio ci siamo dati tantissimi strumenti di comunicazione, incontrando sempre gli artisti. Alcuni dapprincipio non volevano venire a Roma. Un esempio? Peter Sellars. Diceva «mi uccideranno, non mi vorranno, non ha senso, parlo solo inglese, non mi sembra che l’Italia sia aperta a questo tipo di innovazione».
“Il tema dell’innovazione si è molto evoluto nel tempo: all’inizio probabilmente la questione che mi ponevo era sostanzialmente il rapporto fra patrimonio e modernità, poi la mia attenzione si è concentrata nel trovare il modo di superare le frontiere. Fu una necessità anche storica dal momento che la caduta del Muro avvenne proprio nel mezzo del nostro viaggio” Gli dissi: «ti sbagli completamente»… Venne e da allora torna in Italia quasi ogni anno. Un altro punto di forza è stato quello di lavorare in collaborazione con altre istituzioni, sensibili al nostro lavoro: Guido Fabiani è fra coloro che hanno creduto in questo progetto, lo ha accompagnato e ha contribuito a realizzarlo attraverso il Palladium, per esempio. Grazie a persone come lui non si è soli nella lotta. Anche perché come si può immaginare ci sono gelosie, la corsa ai fondi, se si finanzia uno non si finanzia l’altro, il successo, e il successo crea una forma di invidia. Per salvarci abbiamo avuto bisogno di partner. A volte avevamo partner anche più forti di noi, basti pensare a Musica per Roma. Ma il nostro impatto sulla stampa ha avuto spesso più carattere… questo ha creato qualche distanza. Al contrario, quando hai un partner come l’Accademia di Santa Cecilia, non ci sono problemi… le sinergie funzionano quando c’è intelligenza. L’altro problema è la politica: in Italia la politica vuole intervenire troppo sulla cultura e questo non funziona. Un’istituzione culturale è una azienda: molta gente non si rende conto che durante un festival ci sono centinaia di persone che lavorano per realizzarlo: non solo gli artisti. Ci sono i tecnici delle luci, gli scenografi, i macchinisti, gli elettricisti e tanti altri ancora. Un direttore bravo deve essere lasciato al suo posto: non lo si può cambiare ogni volta che cambia il quadro politico. Innanzitutto perché questo mestiere richiede una grande disponibilità di tempo: per guardare i video, gli spettacoli, le mostre, spostarci, conoscere le nuove forme ed espressioni artistiche, studiare il bilancio, incontrare gli artisti. Tutto questo non si può inventare da un giorno all’altro perché si vuol fare qualcosa di visibile. Recentemente è stata Amministratore delegato di Palazzo Grassi, impegnata anche nella creazione dello spazio
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di Punta della Dogana. Roma e perché le famiglie sono in contatto. Venezia, due grandi città, artistiRoma è decisamente più dispersiva, camente a pari merito e con storie e dunque più difficile da contestare. altrettanto importanti e opposte. Quale delle due città è più aperta Una pragmatica, imporporata, anal cambiamento? corata alla tradizione, una proPer tradizione Venezia. Venezia è la spettiva che dà su una cupola; l’alBiennale e tutti i tentativi che sono tra in movimento, fluttuante, scalstati fatti per duplicarla altrove non tra, mercante, indipendente, la sua hanno avuto la stessa capacità attratprospettiva è il mare. In base alla tiva e trainante. Con questo non vosua recente esperienza, è un quaglio dire che il Festival del Cinema dro che conferma? Dove si è più di Roma non sia importante, ma pronti al cambiamento che l’arte semplicemente che quello di Veneanticipa? zia ha un altro respiro, un’altra stoVolendo comparare le due città bisoria: la gente è abituata ad andare lì e gna dire, per cominciare, che sono a vedere le cose lì. Anche nell’arte: realtà differenti a partire dalle diPunta della Dogana ha avuto un mensioni: una grande città e una picgrande impatto a livello internaziocola città. Dopo di che c’è una città nale… tutto il mondo dei collezionimolto politicizzata che è Roma e una sti era lì, sul mare! E c’erano i giocittà molto elitaria che è Venezia. vani. Ho visto arrivare delegazioni Quindi da una parte c’è la possibilità da tutti i musei del mondo, in contidi investire in grandi eventi, dall’al- Storia dell’Africa contemporanea, Socìetas Raffael- nuazione, settimana dopo settimana. tra c’è il fatto che tutte le grandi fa- lo Sanzio, Villa Medici, ottobre 2010 E quando si pensa che è soltanto un miglie internazionali passano da Venezia, hanno casa a Vedecimo del MAXXI, che pure è un museo bellissimo, ci si nezia, realizzano eventi e aiutano Venezia. Solo per citarne chiede il perché. Il perché sta nella storia di Venezia e nella uno: François Pinault che ha comprato Palazzo Grassi, ha resua capacità indiscutibile di tagliare l’onda. Tuttavia il staurato Punta della Dogana, completamente a sue spese e MAXXI funzionerà, è bellissimo, ci vorrà solo un po’ di fra trenta anni lo restituirà allo Stato. È un investimento che tempo, ma funzionerà. Punta della Dogana è stato aperto e fa per un certo periodo della sua vita, ma lo fa da grande meimmediatamente ha decollato. La forza di Venezia è anche la cenate. Il mecenatismo nel suo significato tradizionale esiste memoria collettiva: ciascuno di noi sa che se va alla Biennaa Venezia, credo un po’ meno a Roma, perché qui è lo Stato le del cinema o dell’arte vedrà delle cose incredibili, nuove e che fa molte cose. Venezia è più aperta alla contemporaneità, le vedrà lì. Questo è un dato di fatto. sembrerà strano, ma per Venezia questa è la sua storia. I pri“Roma non si scuote mai più di tanto. È mi musei sono nati a Venezia, i primi mecenati che non fossero principi o uomini di Chiesa, sono arrivati a Venezia. I una città che ha tanta storia, ha vissuto e mercanti d’arte che fecero nascere il collezionismo li troviavive molto. Per dirla fuor di metafora, mo a Venezia, la città dei grandi scambi mercantili. Tutto Roma reagisce al nuovo come se lo questo ha portato quasi naturalmente alla Biennale: oggi ci avesse già visto. La sua storia mantiene sono biennali, quadriennali dappertutto, ma la Biennale nasce a Venezia più di cento anni fa. Si capisce quindi che queper così dire una sovranità sul presente” sta città ha qualcosa da dire, da dare. Qualche volta resiste un po’, ma c’è. Roma è più complicata. Fare una manifestaL’Italia ha prodotto numerose eccellenze artistiche. Che zione a Venezia è anche più semplice, immediatamente si clima si respira oggi? coinvolge tutta la città. E chi va lì in due giorni gira tutto il Be’ abbiamo personaggi enormi a livello internazionale cocentro storico, oltre a partecipare all’evento di richiamo. Rome Ronconi, i Raffaello Sanzio, ma anche Emma Dante. Alma è molto più dispersiva, difficilmente si riesce a coinvoll’Italia non mancano le eccellenze artistiche… all’Italia di gere l’intera città: si va a quartiere. Eppure io a Venezia ho oggi manca in campo artistico il riconoscimento da parte dei sentito le stesse resistenze che ho sentito a Roma. Ma a Ropolitici e dei media. Ma non solo. Ho spesso l’impressione ma tutto si disperde con più facilità. Pensiamo al teatro di che siano proprio gli italiani a non credere di essere all’altezavanguardia, per il quale l’Italia è al primo posto: nessuno al za del loro passato; e qualche volta anche gli artisti italiani mondo fa le cose che fa la Socìetas Raffaello Sanzio. Ciò pensano che sia meglio lavorare fuori. nonostante Roma non si scuote mai più di tanto; è una città L’espressione artistica cambia strumento e modo di rapche ha tanta storia, ha vissuto e vive molto. Per dirla fuor di presentarsi col mutare del tempo, ma resta sempre fedele metafora, Roma reagisce al nuovo come se lo avesse già vial suo “credo”. L’arte contemporanea suscita spesso dei sto. La sua storia mantiene per così dire una sovranità sul perché, scardina certezze… volendo fare una proiezione presente. E questo ovviamente per alcuni aspetti è utile. Al un po’ pretenziosa ma comunque possibile, che arte si facontrario, a Venezia qualsiasi cosa si sa subito e in un attimo rà fra cento anni? diventa l’unico punto all’ordine del giorno, di discussione Partiamo da un presupposto fondamentale: l’arte non dà rilocale e internazionale. Una piccola cosa che succede a Vesposte. L’arte è uno specchio della realtà: non è un caso che nezia, la si sa un attimo dopo a Parigi, Londra o New York, oggi ci siano così tanti morti sulle tele, nelle sculture, osser-
vazioni morbose di cadaveri imbalsamati; tutto questo è sendo le avanguardie, quindi distruggendo le loro regole, ma in z’altro una rappresentazione visiva di come si sente la socieevoluzione con esse, e chi non lo farà e si inventerà una cosa tà. Dopo di che l’arte è anche interrogazione: ci sono delle completamente nuova. La cosa che mi stupisce di più è che opere che obbligano il pubblico a partecipare anche attraverl’invenzione è infinita, abbiamo un cervello geniale. Ovviaso il rifiuto; impongono per così dire nuove prospettive. Domente in questo percorso si perderà anche qualcosa… va copo aver guardato alcuni video, si continuerà a guardare le sì! La seconda cosa è la tecnologia e le sue numerose applistrade, la natura, gli oggetti e il significato che hanno allo cazioni. La possibilità di utilizzare internet e la sua gratuità stesso modo? L’arte contemporanea si interroga e ci interronell’accesso ai libri, alle biblioteche del mondo, agli spettaga sulla concezione che ciascuno di noi ha rispetto a ciò che coli è una grande possibilità; quello che dobbiamo ancora lo circonda. Non solo. Interroga anche sulla storia. Perché sviluppare è il farlo in modo conviviale, che non significa alcune opere sono così rappresentative per un paese? Perché chattare, no, intendo sedersi accanto a una altra persona, senl’individuo e la collettività ci si riconoscono così tanto? za perdere il rapporto umano… a meno che non ci trasforL’arte non può risolvere, qualsiasi sia la sua forma di espresmiamo definitivamente in computer, come sostiene un astrosione. Se si fa ricerca è una cosa, se si fa l’applicazione della fisico canadese! Alcuni esperimenti sui computer dimostraricerca è un’altra ancora. Qualsiasi forma assuma l’arte è no che messi in batteria, dialogano, si scambiano informasempre un momento di ricerca. L’applicazione di essa divenzioni… un po’ come la nostra telepatia, no?! La combinaziota quello che lo spettatore si porta dietro nella sua vita quotine macchina – uomo ci dimostra già da qualche anno che diana. Inoltre ci sono due aspetti importanti: da una parte il funziona e spesso risolve grossi disagi, basti pensare a Oscar fatto che gli Stati Uniti non sono più il referente della cultura Pistorius. Chi lo sa, magari la macchina ci aiuterà sempre moderna contemporanea nel mondo. Questa perdita di cenpiù a risolvere situazioni di disagio fisico. tralità, non ci ha aperto un altro mondo, ma tanti altri. La Come sarà il museo del futuro? E il suo pubblico? scoperta dell’India, della Cina, del Sudamerica: nuove forme Credo che ci saranno due tipologie di museo: un gran museo di civiltà tutte estremamente interessanti dal punto di vista su internet, che vuol dire la possibilità di costruirsi il proprio dell’arte e che propongono nuovi approcci. Faccio un esemmuseo, mettendo insieme, una accanto all’altra le opere che pio. Per realizzare Punta della Dogana ho lavorato con l’arpiacciono di più – la Gioconda accanto a un Picasso o a un chitetto giapponese Tadao Ando: nel realizzare uno spazio Klee – e di condividerlo poi comodamente a casa con gli espositivo noi (occidentali) a priori apriamo una porta in amici. Un museo immaginario, per così dire. L’altra possibimodo tale da entrare direttamente nello spazio centrale; loro lità, potrebbe essere una cosa tipo, passatemi la parola, sebinvece aprono porte laterali, non ci sono mai grandi corridoi, bene non mi piaccia, un grande Disneyland: quindi un granci sono interruzioni, lo spettatore esce da una stanza e entra de spazio, all’interno del quale ci sono tanti percorsi e lo in un’altra attraverso porte laterali. Mi ricordo, durante i laspettatore sceglie di volta in volta cosa vuol vedere, quale vori di restauro, che per me sarebbe stato ovvio fare una esperienza fare, perché l’arte è e rimane un’esperienza emogrande apertura sul lato di Campo della Salute verso il mare. tiva. Immagino uno spazio, come fosse una città, dedicato Voila, Tadao Ando, ha sovvertito completamente l’assetto. completamente all’arte e all’interno di questo spazio si può Poi mi è stato spiegato che gli spiriti maligni vanno dritto e stare interi giorni e intere notti, con grandi spazi per condivise hanno un qualcosa, come un muro, che li blocca non endere le esperienze. Immagino un museo come una sorta di trano nella casa, mentre lo spirito intelligente può fare il laviaggio: tu ti sei costruita una storia e poi vai lì, in questo birinto; questo fa parte ovviamente della cultura orientale. enorme spazio artistico e sviluppi la tua esperienza, la scamPartendo da un piccolo esempio come questo ci si rende bi e la rinnovi anche attraverso gli altri. Insomma immagino conto che quando si lavora in sinergia con un’altra cultura, uno spazio grande e un grande spazio dato all’arte… anche con un altro approccio è fondamentale essere aperti, pronti perché già oggi gli artisti realizzano opere fisicamente molto ad accogliere nuove prospettive, nuovi mondi. Credo che la grandi… chissà fra cento anni!! caduta dell’egemonia americana nell’arte, ma anche nel ciUna cosa che resterà uguale a oggi è la capacità dell’arte nema e nella letteratura ci porterà a un mondo policentrico e di impressionarci, faccio un esempio: dopo aver visto, visa livello culturale a una polisuto le istallazioni di Ricentricità. Inoltre, visto che chard Long, non posso più alcune culture sono legate vedere, passeggiare su una alla riproduzione del passastrada di ciottoli senza to, anche noi per fare questo pensare a lui. Già oggi i passaggio saremo obbligati collezionisti commissionaa capire meglio il rapporto no giardini agli artisti… fra patrimonio e modernità, tutto lascia supporre che ci passato e presente e come i sarà bisogno di grandi spadue mondi si incrociano e zi. Ecco, l’idea è questa: dialogano. La seconda grannel 2084 si potrà decidere de evoluzione ha a che fare di andare una settimana in con Orwell: in Orwell si è questo meraviglioso spabloccati in un modello, le zio/mondo artistico non famose avanguardie, oggi solo per conoscere le openo, ciascuno reagirà a modo re, ma anche per parlare proprio, chi lo farà superan- Cappuccetto Rosso, di Joel Pommerat, Teatro Palladium, febbraio 2011 con gli artisti.
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Low Secret Il far west delle informazioni in rete: intervista a Emanuele Gentili di Federica Martellini Emanuele “emgent” Gentili è un esperto di sicurezza IT ed ethical hacking. Consulente nel settore della sicurezza offensiva, è trainer partner della società americana di formazione Offensive Security: si occupa della formazione live in lingua italiana per i master di certificazione. Ha maturato una lunga esperienza nell’analisi dei livelli di sicurezza delle infrastrutture (penetration test) ed è un ricercatore accreditato nel campo della sicurezza informatica. Attualmente è Chief executive officer di Tiger Security e ha svolto consulenze e collaborazioni con Arma dei Carabinieri, istituti bancari, associazioni creditizie, aziende del settore anti fraud, enti di intelligence e servizi di sicurezza italiani. È coordinatore del progetto BackTrack Linux, cofondatore di Exploit Data Base, security developer della distribuzione GNU/Linux Ubuntu e membro di OWASP (Open Web Application Security Project) ed AIP (Associazione informatici professionisti). Ha sempre pubblicato le proprie scoperte in “responsible disclosure” (rivelazione responsabile). Si definisce un libero pensatore con un forte background tecnologico, che ama scambiare opinioni su temi tecnici e “new ways of thinking”. Si dice fiero di aver rifiutato offerte lavorative in sedi prestigiose, tra cui quelle di Google e Verizon, per poter sviluppare le proprie idee e la propria professionalità, almeno a livello core, all’interno del territorio italiano. Tu sei molto giovane e sei un esperto di sicurezza informatica piuttosto affermato. Ci racconti quali sono state le tappe della tua formazione? La mia formazione ha ben poco di classico o convenzionale. Parlando di titoli di studio standard, sostanzialmente detengo un diploma di Liceo scientifico tecnologico sperimentale. Ho frequentato il primo anno del Corso di Laurea in Sicurezza dei sistemi e delle reti informatiche, presso l’Università degli Studi di Milano, distaccamento di Crema, poiché prevedeva modalità di didattica a distanza: vale a dire possibilità di seguire le lezioni in orari “non standard”, con il solo obbligo di sostenere gli esami in sede. Scelsi questa formula perché già lavoravo come consulente e programmatore per una grande azienda di telecomunicazioni italiana, ma la mia decisione, non me ne vogliano i docenti di Crema, risultò poco proficua in termini di “bagaglio tecnico” e così decisi di interrompere. Da quel momento ho continuato ad arricchire le mie conoscenze quasi esclusivamente in maniera autonoma, fino ad arrivare a certificarmi “Offensive Security Certified Professional” (OSCO), certificazione per Ethical Hacker, di cui ad oggi sono anche unico trainer a livello europeo. La certificazione OSCP è un percorso formativo molto tecnico, giudicato tra i più duri nell’ambito dell’Ethical Hacking, basti pensare che il tempo massimo consentito per completare l’esame è stimato in ventiquattro ore, senza alcuna interruzione. Tale certificazione è ad oggi erogata specialmente a enti di intelligence e reparti governativi della difesa tra cui la National Security Agency. Il tuo è un “mestiere” poco convenzionale e, almeno nell’immaginario collettivo, molto “futuristico”. Il futuro, secondo te, è ancora delle professioni informatiche? Concordo sul fatto che fare di professione l’ethical hacker sia poco convenzionale, ma la crescente brama di nuove tecnologie rende questa figura indispensabile sulla scena odierna. Basti pensare a cosa potrebbe succedere se venissero mes-
si in produzione sistemi di gestione di quelle infrastrutture definite critiche, quali quelle elettriche, idriche e telefoniche, senza effettuare in modo ciclico, dei test di penetrabilità dei sistemi, o ancora cosa potrebbe accadere se alla base dei classici sistemi di home banking o semplicemente dei computer di bordo delle nostre auto, non ci fossero cicli di analisi con unico fine quello di scovare bug (ovvero errori) di programmazione che potrebbero permettere a malintenzionati di ottenere accesso non autorizzato ad architetture sensibili. Il futuro è delle professioni informatiche in modo direttamente proporzionale alla pigrizia, alla voglia di comodità e all’amore per le nuove tecnologie dei consumatori.
“Il futuro è delle professioni informatiche in modo direttamente proporzionale alla pigrizia, alla voglia di comodità e all’amore per le nuove tecnologie dei consumatori” La rete è una grande risorsa, forse una delle più democratiche fra quelle nate negli ultimi decenni, ma può diventare anche una trappola? Quanti dati personali vengono immessi ogni giorno in rete? Qualcuno ci guadagna? Con uno sguardo privilegiato sulla questione posso dirti che internet è apparentemente una democrazia, ma in realtà un “far west” gestito e controllato, per quanto possibile dato il grande flusso di dati, dagli sceriffi di turno (governi e operatori delle telecomunicazioni). Perlopiù abitata da normali utenti (consumer), internet può tuttavia dimostrarsi molto più pericolosa di una normale passeggiata per strada. Paragonando il personal computer alla propria casa ed un malware (che esso sia worm, keylogger o un qualsiasi virus dedito a minare il normale funzionamento del sistema operati-
vo) ad un ladro, la statistica ci dice che probabilmente siamo già quasi tutti stati derubati molteplici volte e ci tengo a sottolineare che quasi a nulla serve un antivirus (paragonando ad un caso reale: “allarme per i ladri”). Ma andando oltre i “furti con scasso virtuali”, vorrei far presente la vera minaccia, quella che da qualcuno viene definita brutalmente “stupidità umana”. Con il boom dei social network, Facebook e Twitter per citarne due, tutti si sentono motivati a comunicare e far presente alla rete ogni singolo istante della propria vita: c’e’ chi si diletta nell’upload di foto personali in condizioni pietose e chi invece “verbalizza” ogni singolo pensiero che gli passa per la testa, tutto ciò con incoscienza disarmante e facilità tecnica estrema, data da strumenti ormai ovunque accessibili (smartphone, tablet, netbook etc.) e dal look accattivante. Pochi si soffermano a leggere e riflettere sulle policy con cui verranno trattati i dati pubblicati. Nessuno o quasi è diffidente per natura, sembra un gioco, ma in futuro potrebbe divenire una brutta esperienza in quella dimensione dove il “diritto all’oblio” è tecnicamente impraticabile. È ormai notizia di pubblico dominio che la CIA (Central Intelligence Agency), tra i propri progetti strategici ne aveva uno con obiettivo quello di profilare nella maniera più precisa possibile ogni cittadino americano al fine di salvaguardare la sicurezza nazionale. Il progetto sarebbe stato talmente dispendioso da risultare operativamente non attuabile. In questo intento però è riuscito Mark Elliot Zuckerberg, fondando Facebook, unica e sostanziale differenza è quella che alla base non c’e’ alcuna azione di intelligence e selezione ma l’accoglienza di uno strumento graficamente accattivante e semplice da utilizzare, che vanta l’inserimento autonomo di informazioni personali, foto o video in costante aggiornamento. Il guadagno è da riassumersi in due ottiche: pubblicità mirata e forse vendita di informazioni e dossier “targhettizzati”, ma questo, sicuramente, non ci sarà dato saperlo. Quante delle informazioni che pensiamo riservate, una volta scambiate o inviate on line, restano tali? Partirei dal semplice concetto che tutto quello che passa per la rete internet non rimane privato. Esistono forme di dialogo o scambio file definibili, al momento, “sicure” come per esempio l’invio di documenti tramite l’ausilio di tecniche di crittografia del contenuto, ma come la tecnologia insegna: quello che ieri era nuovo, oggi è quasi sorpassato. La stessa identica cosa avviene per la sicurezza delle informazioni. È davvero impossibile sparire da Facebook o sparire da Google? Perché? Come accennavo precedentemente il “diritto all’ oblio” è cosa praticamente impossibile. Quando si pubblica un contenuto in rete, esso può essere scaricato, stampato e riprodotto, spesso in barba alle norme relative al copyright, quindi far sparire un fatto accaduto o della documentazione pubblicata in rete è cosa veramente ardua. Basti pensare che esistono dei servizi che si occupano di fare copia di tutto quello che trovano, al fine di conservare un archivio di internet, dato un sito, un articolo o dei contenuti multimediali. Per quanto riguarda Facebook la questione è leggermente differente, accettando infatti le norme proposte al momento dell’iscrizione si dà a Facebook la comproprietà di tutto ciò che poi verrà inserito: siano essi video, messaggi di testo o foto. Tuttavia Google in casi particolari, con tempi di delay
biblici, permette la “rimozione” dei contenuti dalla parte visibile, conservandone sempre e comunque i contenuti all’interno della propria base dati. Se penso alle tecnologie che ci spiano, da profana, mi vengono in mente film come Nemico pubblico o The Net o anche le acrobazie telematiche di Lisbeth Salander nella trilogia di Stieg Larsson. Ma nella realtà quotidiana la rete ci spia? O meglio chi è in grado di spiarci attraverso la rete? In futuro saremo tutti sempre più “tracciabili”? La rete è un ottimo terreno per recuperare informazioni mirate su persone, indipendentemente che esse siano di pubblico dominio o al contrario “riservate”. Basti pensare alle azioni mosse dal colosso Google, che si affacciava sulla scena come semplice motore di ricerca con grafica pulita e priva di pubblicità e che oggi invece è diventato il miglior strumento di intelligence sulla piazza. Si pensi alla sua storica evoluzione che ha visto la messa a disposizione di un sistema di posta (Gmail) comodo e con molto spazio o a “Google Analytics” (progetto acquistato per milioni di dollari e offerto oggi a costo zero) che serve per tener traccia delle statistiche relative a visite di siti web e per ultimo all’arrembaggio alle piattaforme mobile con Android. Facendo una quadra di questi tre strumenti, e sono solo la minima parte di quelli offerti a costo zero da Google, si può comprendere quante informazioni passino in mano al colosso di Mountain View. Voci di corridoio dicono che Google sarebbe in grado ad oggi di tracciare, attraverso i propri servizi, oltre il 99,62% dei navigatori della rete. La spiegazione è presto fatta sulla base della percentuale dei siti web che ospitano all’interno delle proprie pagine codice di bigG (per esempio Google Analytics, cui facevo riferimento prima), degli utenti che utilizzano il browser Chrome e di quelli che giornalmente si appoggiano ai servizi di posta di Google. Ciliegina sulla torta poi è sicuramente Android, che alla accensione dello smartphone chiede di inserire il proprio account Gmail per accedere alle funzionalità di telefonia. Questi dati devono far riflettere i normali utenti della rete, non tanto per cercare di scavalcare una profilazione così mirata, ma bensì per essere coscienti che tutto ciò che facciamo in rete è potenzialmente tracciato e tracciabile. Secondo il dizionario specialistico dell’hacking curato
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da Eric S. Raymond l’hacker è «Una persona che trae piacere nella sfida intellettuale di scavalcare o aggirare creativamente dei limiti». Un hacker è un militante, un tecnico o un burlone? Cioè quello che fa un hacker è uno scherzo, una prova di abilità o un atto “politico”? Esistono varie accezioni nel linguaggio comune legate al termine hacker: per i media si tratta sostanzialmente sempre e comunque di un sinonimo di “criminale informatico”, in realtà però potremmo definire gli hacker in due macroaree: “White Hat” e “Black Hat”.
“La rete è un ottimo terreno per recuperare informazioni mirate su persone, indipendentemente che esse siano di pubblico dominio o al contrario “riservate”. Google oggi è diventato il miglior strumento di intelligence sulla piazza” I White Hat Hacker, anche chiamati ethical hacker, sono professionisti con un solido background tecnologico che svolgono in modo estremamente etico le proprie ricerche, divulgando i risultati ottenuti in maniera prettamente confidenziale, innanzitutto verso i vendor (soggetti commerciali e non che hanno la proprietà intellettuale del prodotto/architettura su cui sono stati riscontrati problemi di sicurezza) al fine di accordarsi in modo diretto per un piano di rientro operativo che possa fornire quanti meno disservizi o pericoli possibili ai normali utenti, cittadini o infrastrutture. I Black Hat Hacker sono l’esatto opposto, vivono di vendita di informazioni o di utilizzo di informazioni ottenute in modo non lecito a discapito dei semplici utenti che tutti i giorni entrano in rete per lavorare, per studiare o per puro svago. In questa area rientra ad esempio Russian Business Network, generalmente abbreviata in RBN, organizzazione criminale specializzata nell’appropriazione di identità, carte di credito e diffusione di malware. In queste due macroaree sono poi presenti anche gli “Hacktivisti”, soggetti politicizzati che usano la rete per dare risalto alle proprie convinzioni politiche: spesso con “defacement” (ovvero cambio delle homepage dei siti per divulgare un messaggio politico, senza toccare il resto dell’infrastruttura informatica) o ancora progetti come Wikileaks che fanno della volontà di veicolare informazioni confidenziali militari il proprio obiettivo.
Che cosa si intende per ethical hacking? L’ethical hacking è un test di hackeraggio (psicologico ed informatico) verso personale aziendale e infrastrutture tecnologiche. Ha come scopo quello di mettere a conoscenza il proprietario di un azienda delle problematiche procedurali, psicologiche e informatiche della propria infrastruttura e dei propri dipendenti al fine di valutare un eventuale piano di rientro. Questa azione viene generalmente effettuata in gruppo (comunemente chiamato “tiger team”) che si occupa di verificare e sfruttare tutti i punti deboli di infrastrutture informatiche, fisiche e psicologiche al solo fine di prelevare in modo non autorizzato più dati confidenziali possibili mostrando così poi al proprio cliente (generalmente amministratore delegato dell’azienda) quali punti deboli ha la sua struttura e come potrebbero essere risolti. Tutto ciò viene finalizzato con la redazione di due report, rispettivamente: Executive Summary (report non tecnico per la parte dirigenziale) e Technical Summary (report tecnico contenente le vulnerabilità sfruttate che hanno permesso accesso alle informazioni confidenziali) che vengono poi utilizzati per rendere l’infrastruttura più sicura possibile.
“Per i media il termine hacker è sempre e comunque un sinonimo di criminale informatico, in realtà potremmo distinguerli in White Hat e Black Hat. I primi, chiamati anche ethical hacker, sono professionisti che svolgono in modo etico le proprie ricerche; gli altri sono l’esatto opposto” Wikileaks: un nome che è venuto alla ribalta della cronaca la scorsa estate in seguito alla pubblicazione di decine di migliaia di documenti classificati del Pentagono sulla guerra in Afghanistan e che negli ultimi mesi ha continuato a far discutere. Che cos’è? Wikileaks è un’organizzazione internazionale nata per mettere in pubblica evidenza documentazione coperta da segreto di stato, formata da giornalisti, dissidenti, attivisti e scienziati, l’organizzazione si occupa di verificare l’autenticità di materiale fornito da fonti coperte dall’anonimato per poi procedere alla pubblicazione. Wikileaks nasce per fare giornalismo trasparente rendendo di pubblico dominio fatti e documenti di cui altrimenti non saremmo mai venuti a conoscenza.
Un tempo nuovo Parla Alessandro Baricco di Alessandra Ciarletti
Alessandro Baricco (Torino,1958) ha esordito con Il genio in fuga. Due saggi sul teatro musicale di Gioacchino Rossini (1988). Castelli di rabbia (1991) è il suo primo romanzo. Da allora ha scritto e pubblicato Oceano Mare (1993), il monologo teatrale Novecento (1994), Seta (1996). City (1999) e Senza sangue (2002). Tra i saggi, da ricordare anche L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin (1993), Barnum. Cronache del Grande Show (1995) e Barnum 2. Altre Cronache del Grande Show (1998). Nel 2002 pubblica Next. Piccolo libro sulla globalizzazione e sul mondo che verrà. Compare in televisione nelle trasmissioni L’amore è un dardo e Pickwick. Per il teatro è autore, regista e interprete di Totem, City Reading Project e di Omero, Iliade. Pubblica Questa storia nel 2005 e poi I Barbari. Saggio sulla mutazione (2006). Nel 1994 ha fondato la Scuola Holden, e dal 2005 è socio di Fandango Libri. Il suo ultimo lavoro teatrale è del 2007: una lettura interpretata (e ridotta) di Moby Dick. Nel 2008 a Locarno presenta il film Lezione 21, da lui scritto e diretto, e nel 2009 pubblica il romanzo Emmaus.
Lei dice che viviamo in un mondo in cui conta quello che raccontiamo non quello che effettivamente risulta reale. Cos’è la realtà e qual è il suo tempo? Tempo presente = reale; tempo futuro = sogno? La realtà oggi è in gran parte quel che raccontiamo. Poi restano alcuni fatti che sembrano esenti da qualsiasi genesi narrativa: la nascita, la morte. Sempre lei dice che il futuro è finito, soprattutto in termini economici e politici; gli intellettuali in questa terra di nessuno “minuettano” con intelligenza e acume. Sembra che solo la tecnologia con le sue numerose applicazioni abbia diritto al futuro. Il campo della creatività sembrerebbe essere riservato a dei selvaggi di genio, sempre per utilizzare una sua espressione. Non è poco? No, non è poco, perché i selvaggi di genio sono gli unici che oggi possano ricomporre le novità antropologiche e tecnologiche che vediamo sotto i nostri occhi in un paesaggio coerente e forte: sono quelli che possono tradurre tante diverse innovazioni in un unico quadro di civiltà. Dal 2006 ci racconta la mutazione che viviamo. Dice che i grandi cambiamenti storico culturali sono da sempre apportati dai barbari, o meglio, da coloro che vengono definiti tali perché non riconosciuti dai loro contemporanei. Infrangono canoni come fossero grissini e danno vita a un nuovo impasto per il futuro. In queste ultime settimane ho letto ancora il dialogo fra lei e Eugenio Scalfari. Forse allora il futuro non è soltanto dei selvaggi di genio… Diciamo che il futuro è costruibile da pochi selvaggi di genio, spesso barbari, e da moltitudini di persone normali che imparano da loro schemi mentali e liturgie gestuali dove ritrovano se stessi.
Dice: Beethoven come Shakespeare sopravvive a qualsiasi mutazione, non invecchia mai. Alle mutazioni sopravvivono meglio gli artisti o gli intellettuali? E chi fra loro, pescando dal XX secolo, ci sarà nel 2084? Artisti e intellettuali, direi che non fa grande differenza. Ci sono opere e ci sono idee che resistono a qualsiasi mutazione. Ma mai è possibile dire PRIMA quali sopravviveranno.
“Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo” Da I barbari. Saggio sulla mutazione” In Next parla dello strapotere del marchio, del brand. E con quel brand si vende un mondo, o meglio un immaginario. Giustamente dice che la globalizzazione è grigia perché la fanno i banchieri. Chi la potrebbe fare in un modo diverso e colorato? Beh, la Rete lo sta facendo, ad esempio. Il fatto che si possa dialogare con chiunque nel pianeta, con la sola mediazione di una tecnologia e una lingua comuni, è già un bell’esempio di globalizzazione virtuosa: e non ha scopi di lucro, è giusto un game. 2084: si gioca l’ultimo tempo della partita, barbari e imbarbariti. Chi è in vantaggio? E chi vince? Vincono i barbari, a prezzo di un certo, inevitabile, imbarbarimento.
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Cortona’s week Un esempio di interdisciplinarità per il mondo accademico
reportage
di Pier Luigi Luisi C’è un paradosso interessante nel nostro sistema educativo accademico. Prepariamo degli specialisti in una sola disciplina, poi spediamo questi specialisti nel mondo e chiediamo loro di risolvere o per lo meno cimentarsi con i problemi della nostra società. Ma tali problemi – di Pier Luigi Luisi siano l’inquinamento, il cloning, le staminali, la globalità economica, il riscaldamento terrestre, la fame nel mondo – non sono mai risolvibili, e neppure affrontabili, con una disciplina sola alla volta. Richiedono una sinergia tra discipline diverse, un dialogo fattivo tra specialisti – cose che però i nostri laureati e dottori non hanno mai imparato a fare nelle nostre università. E c’e’ anche un altro problema nel nostro sistema educativo: che i nostri studenti lavorano per anni e anni solo alla loro specializzazione, e non hanno più né il tempo né l’energia di occuparsi degli altri aspetti della vita che sia l’arte, la musica, la letteratura, la religiosità, il loro stesso corpo e la loro stessa salute mentale. Naturalmente queste sono tutte generalizzazioni, ci sono per fortuna varie eccezioni. Ma rimanendo nel quadro statistico di carattere generale, si avverte il problema di una università che crea specialisti bravi e competenti che poi non sono preparati a cimentarsi con la problematica complessa del mondo di oggi e per di più sono minacciati da un certo inaridimento culturale e spirituale. Per sopperire a questa mancanza, che crea anche problemi a livello di mercato, sempre più alla ricerca di persone con un orizzonte aperto e versatile, si è da tempo cominciato a parlare di interdisciplinarità, creando dei programmi all’interno di alcune università – per lo più americane – con l’idea appunto di arricchire il bagaglio dei giovani scienziati di un po’ di cultura umanistica o, viceversa, di innestare nella mente dei letterati l’importanza di certi valori scientifici su
cui il mondo moderno si sorregge. Uno degli esperimenti di maggiore successo in questo senso è la settimana residenziale di Cortona, finanziata e organizzata dal Politecnico federale di Zurigo, da molti considerato il MIT europeo. La Cortona’s week è un progetto con delle particolarità salienti (www.cortona.ethz.ch) nato nel 1985 per iniziativa di un professore di Roma Tre, (il sottoscritto) che allora era docente di chimica al Politecnico di Zurigo. Mi sono ritirato dalla direzione di Cortona proprio quest’anno, in cui abbiamo celebrato il venticinquesimo anniversario, un quarto di secolo, quasi un miracolo.
Cortona’s week art
Scene di lavoro alla settimana di Cortona
“Nel nostro sistema educativo i nostri studenti lavorano per anni e anni solo alla loro specializzazione, e non hanno più né il tempo né l’energia di occuparsi degli altri aspetti della vita che sia l’arte, la musica, la letteratura, la religiosità, il loro stesso corpo e la loro stessa salute mentale” La settimana è dedicata per lo più a dottorandi del Politecnico, quindi studenti di scienze naturali e ingegneria che vengono “mescolati” con studenti di Facoltà umanistiche di altre università e poi con artisti, musicisti, filosofi, psicoterapeuti, leader religiosi. L’altra caratteristica originale è che oltre alle lezioni e conferenze di tipo teorico (che si svolgono in genere nella mattinata), l’intero pomeriggio è dedicato ad aspetti sperimentali: nei cosiddetti workshop i partecipanti possono – a loro scelta – dipingere o scolpire, dedicarsi alla musica, al Tai Ji o allo yoga o a esercizi respiratori e psicologici di vario genere. Al primo mattino ci sono sedute di meditazione. Moltissimi workshop quindi, non con l’idea di farli tutti, al contrario, ogni partecipante deve sceglierne un numero ristretto e attenersi ad essi per l’intera settimana. La scelta è sulla base di quello che è necessario a ciascuno,
individualmente, per raggiungere una propria integrazione. L’alta professionalità degli insegnanti è un altro criterio distintivo, tanto più importante quando ci si muove su un terreno che ha il pericolo di essere imparentato con new age e facilonerie varie. Ogni settimana vede la presenza di circa centocinquanta partecipanti, insegnanti inclusi. Provengono da varie parti del mondo, si sono viste anche delegazioni dal Giappone, dal Canada e da alcune università americane. Studenti e dottorandi provengono per lo più da Svizzera, Germania e Austria. Pochissimi dall’Italia a dispetto del fatto che siamo in Italia e l’Italia dovrebbe essere la patria del Rinascimento e quindi della simbiosi tra scienza e umanesimo. Il perché di questo assenteismo è una domanda interessante e importante. Forse siamo in un periodo di anti-rinascimento. Negli ultimi anni si è cercato di estendere l’esperimento Cortona’s week all’esterno del Politecnico di Zurigo. Così con l’Istituto americano Fetzer del Michigan si è organizzata nel giugno del 2009 una settimana dedicata a Science and Spirituality, anche con la collaborazione del Dipartimento di Biologia di Roma Tre (Cortona-Fetzer: www.ics-s.org). Da notare che spiritualità non vuol dire religione. È un concetto più generale, basato sugli aneliti primordiali dell’uomo verso l’ascensione interna, e verso l’etica, l’altruismo, l’ecologia. Poi può anche diventare religione, il che rende per molti le cose molto più facili. Quali sono le principali questioni sollevate in un meeting come questo tra scienza e spiritualità? Le questioni al centro del dibattito in quell’incontro, per fare un esempio, erano le seguenti: - Who is the final judge of reality? Science or spirituality? - Do we need spirituality to give a meaning to life? - Will spiritual insights be critical to future science? Will science be critical to seeing the spiritual dimension? - The mistery of order: is the order of the universe spiritual, or natural? - Is the brain the only responsible for extraordinary states of experience, such as out-of-body states, near death encounters, ecstasy etc. È di adesso la collaborazione tra il Politecnico di Zurigo e università tecnologiche indiane per la organizzazione a Hyderabad, India, di una settimana dedicata a Science and the Spiritual Heritage of India (www.cortona-india.org), pure finanziata dal Politecnico di Zurigo (alla ricerca di relazioni internazionali con l’Asia) – che mi ha onorato dell’incarico di organizzarla. In questo caso l’enfasi è di studiare e discutere insieme se ed in qual misura l’eredità spiri-
tuale dell’India antica – dai Veda, al Mahabarata, alle Upanishadas, fino al messaggio pacifista di Gandhi – può essere resa compatibile con il mondo moderno della globalizzazione, della tecnologia avanzata, del consumismo… In questo caso, molti dei conferenzieri sono naturalmente indiani, ma ci ho portato anche una buona componente dei leader di Cortona in quanto si tratta anche di fare scambi e conoscenze interculturali. Così, un filosofo francese parlerà della stretta relazione tra Schrödinger, uno dei padri della fisica quantistica e le Upanishadas.
La settimana di Cortona: workshop sperimentali
Francisco Varela (a sinistra) ad una delle prime edizioni della settimana di Cortona
“Uno degli esperimenti di maggiore successo in questo senso è la settimana residenziale di Cortona, finanziata e organizzata dal Politecnico federale di Zurigo, da molti considerato il MIT europeo” Non tutti sanno che il diciottenne Schrödinger si formò sugli antichi testi di saggezza indiana (rileggete la prefazione e la conclusione del suo libro What is life? in questa ottica). Poi c’è stata una sezione dedicata alla spiritualità delle donne in India, una dedicata alla coscienza e una dedicata ai problemi economici dell’India. Ci sono stati workshop che paragonavano lo yoga con il nostro metodo Feldenkrais, l’astronomia indiana con la nostra, il canto indiano “kirtan” con le nostre melodie canore… L’ex presidente dell’India, Dr. Kalam, ha aperto i lavori della conferenza, il 20 novembre. Ho amici a livello internazionale che vorrebbero fare con me una Cortona-Cina, e una Cortona-Thai e il mio sogno sarebbe naturalmente quello di creare un Network Cortona International, una rete di Cortona che collega le maggiori università del mondo in una unione preposta alla creazione di migliori leader del nostro futuro. Sarebbe bello naturalmente creare in questa luce una Cortona-Italy. Difficile. In parte per lo spirito anti-rinascimentale di questa fase politica italiana, in parte per motivi finanziari – una Cortona’s week costa in media centomila euro, e circa cinquecento euro al singolo partecipante – inutile chiederli alle nostre università barbaramente decurtate, e in Italia non c’è la tradizione che i privati magnati finanziari facciano qualcosa per la cultura. Se qualcuno ha un’idea, si faccia avanti…
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Il Giappone: futuro o tradizione? Viaggio attraverso le idiosincrasie di un paese in movimento di Fabiana Iannilli A guardarlo da vicino il Giappone appare ancora più misterioso e imperscrutabile di quello che sembra dall’Occidente. Il mistero di una cultura millenaria che tiene il passo con le più sofisticate tecnologie, la simbologia linguistica e il misticismo religioso avvolgono questo Fabiana Iannilli lembo di terra in una coltre spessa ma allo stesso tempo sottile di indescrivibile fascino dal sapore aspro ma accogliente. Per otto lunghissimi giorni ho provato, correndo tra Tokyo e Kyoto, le due macroanime del Giappone, a cogliere l’essenza di questo paese, della sua cultura, della sua società... oggi mentre scrivo ho ancora mille domande che mi affollano i ricordi e mi arrendo al pensiero di stabilire un confine tra quello che è presente, proiettato prepotentemente al futuro e quello che è stato il passato, ma che è costantemente presente. Questo complesso gioco temporale sta nelle due anime del Giappone: Tokyo e Kyoto. Tokyo, la capitale, la città dove i giovani lavorano, studiano, vivono perennemente immersi nella più avanzata tecnologia, alla costante ricerca della propria personalità talvolta espressa con forti tinte di egocentrismo, dal look radicale e colorato; Kyoto, l’altra capitale, quella spirituale, quella dei templi buddhisti, shintoisti e zen dove si corre da un luogo all’altro a porgere omaggio alle divintà dell’affollato pantheon nipponico. Due anime, due contrasti, due opposti che non si allontanano ma convivono armoniosamente. Festeggiare l’arrivo del nuovo anno in Giappone è stata un’esperienza incredibile; eravamo immersi in un educato e composto mare di persone nella gelida notte di Kyoto, in attesa di poter accedere all’interno del tempio, lo Yasaka-Jinja (santuario che sorge nei pressi di Gion, quartiere storico di Kyoto) dove abbiamo assistito al rituale comportamento durante l’Hatsumoude (festeggiamenti del capodanno giapponese). C’era chi sceglieva di mettersi in fila per la preghiera con
rintocco della campana, chi ha acquistato la Hamaya, la freccia della buona fortuna, o chi ha lasciato legato al tempio un messaggio di buona speranza con gli Ema, piccoli pezzi di legno con un disegno su un lato e il desiderio da scrivere sull’altro. Tutto questo si svolge ogni anno, mobilitando migliaia di persone che compiono brevi o lunghi viaggi votivi, momenti durante i quali è possibile incontrare tutte le anime del Giappone: manager, donne e uomini in costumi tradizionali, madri e figlie, famiglie, giovani e anziani tutti accomunati da un solo obiettivo, la visita al tempio durante i primi giorni dell’anno nuovo. Questo immenso ma composto flusso di persone non coinvolge solo la città di Kyoto, anche a Tokyo le celebrazioni dell’Hatsumoude sono presenti e imponenti. Migliaia di persone ci hanno inconsapevolmente coinvolto nella massiccia visita al Meiji jingu (santuario costruito in memoria dell’imperatore Meiji e dell’imperatrice Shoken) appena ritornati a Tokyo: all’uscita della metro di Harajuku non abbiamo potuto opporre resistenza all’intenso e variopinto flusso umano che si dirigeva educatamente verso il santuario della capitale. Al permeante fervore rituale-religioso, così visibile durante i primi giorni del nuovo anno, fa da controparte l’esponenziale sviluppo economico e tecnologico del “made in Japan” a conferma di quanto siano intense le tinte dei contrasti che animano il paese. Il Giappone di questi giorni è un paese che sta vivendo una fase molto delicata della sua storia: si sta risollevando a fatica e con secolari cambiamenti sociali dalla crisi economica degli anni Novanta, e sta vivendo il traumatico successo della grande rivale Cina, con il rinnovato interrogativo di come domare l’Oriente continentale dopo secoli di frenetico confronto con l’Occidente. In questo complesso contesto ancora da definire, tradizione e rilancio economico (o futuro) sembrano essere le parole chiave per interpretare la fase attuale del Giappone; dopo l’intenso vagare nella terra delle geishe e dei videogiochi io scelgo armonia come lettura finale a tutto il caos emotivo che ho vissuto. Senza armonia, credo, queste anime così radicali non riuscirebbero a sopravvivere e ad offrire nuove possibilità di rilancio-slancio verso l’Oriente come verso l’Occidente.
Ema
Shibuya,Tokyo
I diritti della Madre Terra Dal Messico: intervista ad Emanuele De Vincenti a cura della redazione Negli ultimi tre anni hai documentato, con una mole imponente di materiali audiovisivi, i movimenti che a livello planetario pongono il problema del cambiamento climatico, di cui troppo poco si sa e si parla nel nostro Paese. In particolare hai realizzato video in America Latina (Bolivia, Perù, Ecuador, Messico), Emanuele De Vincenti seguendo sia gli appuntamenti dell’ONU sul tema sia le altre occasioni d’incontro che sono state sollecitate dai Paesi latino-americani, con un forte impegno delle popolazioni indigene. Perché sono proprio i popoli amerindi i più attivi nel porre il problema del cambiamento climatico? Più in particolare, qual è stato il senso della Conferenza mondiale dei popoli sul cambio climatico e i diritti della Madre Terra convocata fra il 19 e il 22 aprile 2010 a Cochabamba, in Bolivia? La conferenza di Cochabamba ha rappresentano il culmine di un processo non solo regionale ma globale e non solo ecologico ma anche politico ed economico.
rindie in generale, e che ha trovato spazio nelle recenti nuove Costituzioni di Ecuador e Bolivia. Sono proprio l’emergere degli antichi saperi tradizionali, la nuova visibilità dei popoli indigeni, le loro proposte e soprattutto le loro lotte in difesa di ecosistemi di vitale importanza per l’intero pianeta a costituire un fenomeno nuovo e di grande interesse. Un fenomeno che meriterebbe di essere conosciuto e sul quale si dovrebbe aprire un’ampia riflessione da parte degli altri Paesi, tra cui il nostro. Un fenomeno che occupa un posto di rilievo nel contesto attuale dell’America latina, la «regione più progressista del mondo», come l’ha definita Noam Chomsky.
“L’emergere degli antichi saperi tradizionali, la nuova visibilità dei popoli indigeni, le loro proposte e soprattutto le loro lotte in difesa di ecosistemi di vitale importanza per l’intero pianeta costituiscono un fenomeno nuovo e di grande interesse”
La Conferenza di Cochabamba dell’aprile 2010 è stato uno spazio in cui si sono potute ascoltare, sul tema del cambiamento climatico, le voci di centocinquanta Paesi (tante sono state infatti le delegazioni ufficiali, cui vanno aggiunte le rappresentanze di organizzazioni ambientaliste, contadine, “La conferenza di Cochabamba ha sociali e politiche provenienti da tutto il mondo). Delegarappresentano il culmine di un zioni che hanno messo sul tavolo sia il parere degli esperti sia il sentire della gente, i bisogni e le proposte di ampi straprocesso non solo regionale ma globale ti della popolazione. Fra le conclusioni della Conferenza di e non solo ecologico ma anche politico Cochabamba che sono state portate al vertice di Cancún, ed economico” anche se poi disattese, c’erano quelle di realizzare un referendum mondiale sulla crisi climatica, di redigere una diMalgrado l’urgente necessità di un accordo internazionale chiarazione dei diritti della Madre Terra e di istituire un triper frenare il processo di degrado ambientale del pianeta, i bunale internazionale per i crimini ecologici. governi dei Paesi del mondo A Cancún, tuttavia, la Bolitardano a unificarsi intorno a via è rimasta isolata nelle una visione e una strategia sue proposte, perché gli alcomuni. tri Paesi, anche latino-ameIl fallimento del vertice di ricani, hanno firmato l’acCopenhagen sul cambio clicordo. Un accordo che, per matico (Cop 15), nel dicemquanto minimale, ha avuto bre 2009, ha mostrato il preil consenso della totalità dei valere degli interessi particoPaesi dell’ONU. lari di alcuni paesi, come Stati La posizione della Bolivia è Uniti e Cina, sul benessere stata presentata come intrangenerale, il sumaq qamaña, la sigente mentre in realtà sosteconvivenza armonica con la neva coerentemente il mannatura e fra gli uomini, un dato datole a Cochabamba concetto che la cultura aymadai trentacinquemila partecira condivide con le culture Marcia per la giustizia climatica e i diritti della Madre Terra, Can- panti e dai numerosi rappreandine, amazzoniche e ame- cún, Messico, 7 dicembre 2010 sentanti di governi.
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La Bolivia si è sentita tradita anche da paesi a lei vicini, come dice Luis Hernández Navarro «l’hanno lasciata morire sola». Tra l’altro si è creato un pericoloso precedente quanto ai meccanismi decisionali delle Nazioni Unite, perché gli accordi di questo tipo devono riscuotere l’unanimità e il dissenso della Bolivia non è stato tenuto in considerazione. Il presidente boliviano Evo Morales ha annunciato che il suo governo presenterà un ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia per invalidare il documento approvato dalla Cop 16. Per combattere il cambio climatico c’è solo una misura efficace: ridurre le emissioni dei gas da effetto serra. Come ha segnalato la delegazione boliviana: «recenti rapporti scientifici mostrano che trecentomila persone stanno già morendo ogni anno per i disastri relazionati al cambio climatico». E questo studio prevede l’aumento di morti annuali fino a un milione. L’accordo di Cancún è buono per Stati Uniti, Canada e i paesi sviluppati, che hanno già calcolato la relazione costibenefici derivanti dal cambio climatico. Con il rapido scioglimento della calotta polare, il Canada, per esempio – insieme a Stati Uniti, Russia, Norvegia e Danimarca – sarà avvantaggiato dall’apertura di nuove rotte marittime e dall’accesso a giacimenti petroliferi e minerari finora irraggiungibili. Hanno calcolato che possono permettersi di peggiorare la crisi. I paesi più pregiudicati, invece, saranno quelli del terzo mondo, in particolare gli arcipelaghi e le isole già oggi minacciati dall’innalzamento del livello dei mari. Alcune regioni, come quella andina che contiene la maggior concentrazione di ghiacciai tropicali, vede sparire rapidamente le risorse idriche e vitali non solo per il suo sviluppo ma per la stessa sopravvivenza.
Le grandi imprese multinazionali, grazie al loro potere economico, non hanno difficoltà ad avvalersi di studiosi e intellettuali per difendere queste teorie. Dall’altra parte le ricerche più avanzate nel campo dell’ecologia appaiono in sintonia con alcuni elementi fondativi delle antiche civiltà contadine e delle attuali culture indigene: la Terra è vista come un organismo vivente, come la Madre Terra che va curata e rispettata. L’ottica del capitalismo nella sua fase neoliberista è quella di un pianeta da cui estrarre tutte le risorse possibili in vista di uno sviluppo illimitato. È una concezione che si è rivelata non solo errata, ma anche suicida. È un modello economico che ha dimostrato ampiamente la sua insostenibilità.
“Il capitale multinazionale, che attraverso le sue attività produttive ed estrattive è il maggior responsabile della contaminazione ambientale e della crisi climatica, si ostina a negare l’evidenza e, in alcuni casi, la stessa esistenza di una crisi climatica”
E purtroppo, nonostante diversi intellettuali, scienziati e istituzioni dei paesi sviluppati critichino oggi fortemente questa concezione, il potere economico delle grandi multinazionali orienta in modo determinante le decisioni politiche, anche a livello planetario, continuando a spingere lo sviluppo in una direzione opposta. Un esempio? Una delle soluzioni proposte dalle grandi corporazioni multinazionali, e sostenute dai governi a Cancún, è quella del REDD (la Riduzione delle Emissioni per Disboscamento e Degrado) che consiste nell’attribuire a ogni paese una quota di emissioni “Le ricerche più avanzate nel campo di carbonio consentite. Questo permette ai paesi più indudell’ecologia appaiono in sintonia con strializzati di comprare ai paesi in via di sviluppo la loro alcuni elementi fondativi delle antiche quota di inquinamento, frenandone di fatto lo sviluppo a proprio beneficio. Per le foreste, è ancora peggio. civiltà contadine e delle attuali culture Se finora le grandi estensioni boscose del pianeta si sono indigene: la Terra è vista come un salvate è proprio grazie al fatto che si tratta di territori poco organismo vivente, come la Madre ospitali, come l’Amazzonia, e scarsamente popolati. Sono Terra che va curata e rispettata” stati i popoli indigeni, unici abitanti di quelle regioni, che ne hanno garantito la conservazione. I loro diritti di usufrutto e Qual è il ruolo degli intellettuali e degli studiosi in quegestione di quelle terre sono oltretutto ancestrali e riconosto contesto? sciuti dal diritto internazionale. I ruoli degli scienziati e Ora, con l’ultima trovata degli intellettuali sono del REDD, si pretende già definiti con la scelta di affidare la salvaguardi campo che ognuno dia dei boschi ai grandi di loro ha fatto. Il capiorganismi finanziari intale multinazionale, che ternazionali, estrometattraverso le sue attività tendo gli abitanti origiproduttive ed estrattive nari. Un po’ come affiè il maggior responsadare la cura del gregge a bile della contaminaun branco di lupi. Le dezione ambientale e delcisioni di Cancún, anche la crisi climatica, si da questo punto di vista, ostina a negare l’evinon fanno ben sperare denza e, in alcuni casi, per il 2011, dichiarato la stessa esistenza di Conferenza mondiale dei popoli sul cambio climatico e i diritti della Madre dall’ONU «anno interuna crisi climatica. nazionale delle foreste»! Terra, Cochabamba, Bolivia, 19-22 aprile 2010
Popscene «Vivevamo nelle fattorie, poi abbiamo vissuto nelle città e ora vivremo su internet» di Ugo Attisani «Nello stesso modo in cui non potrai mai tornare indietro ad un computer più lento, non potrai mai tornare indietro ad uno stato minore di connessione». Douglas Coupland, A Radical Pessimist’s Guide To The Next Ten Years
Justin Timberlake e Jesse Eisenberg in una scena di The social network
I Radiohead sono stati fra i primi a mettere a disposizione sul proprio sito un intero album, In Rainbows
tempo un eroe. In qualche modo Parker e il suo collega Shawn Fanning, alla fine degli anni Novanta, poco più che ventenni, sono stati i primi ad intuire le possibilità di libertà fino ad allora inimmaginabili insite in internet. E il veicolo con cui questa geniale intuizione e la rivoluzione che ne è conseguita si sono affermati è stata proprio la musica. Tutto questo il film ce lo ricorda, e in un modo ancor più ammiccante, e chissà quanto involontariamente ironico, facendo interpretare Parker da Justin Timberlake, superstar della musica pop americana. L’esistenza di Napster durò soltanto due anni, dal 1999 al 2001, quando venne poi sommerso dalle denuncie milionarie degli artisti che si vedevano privati di quelli che ritenevano essere i loro giusti guadagni e dalle azioni di disturbo perpetrate addirittura contro i singoli utenti del programma di file-sharing grazie agli ingenti mezzi messi a disposizione dalla RIIA, la potentissima associazione delle imprese discografiche americane. Nonostante ciò, per un Napster che cessò di esistere, nacquero in progressione geometrica altri programmi o strumenti per condividere file, ora non solo più musicali ma anche video, sostenuti dall’ormai universalmente accettata convinzione che la libera condivisione sulla rete fosse un valore talmente preponderante da travolgere in un sol colpo i diritti di proprietà intellettuale e le legittime aspettative di ritorno commerciale dell’industria. Come la cosa sia andata a finire è cosa ben nota: ad oggi i negozi di dischi sono pressoché scomparsi se si escludono le grosse catene di distribuzione e con loro anche i supporti come vinile, cassette e cd; la musica viene fruita attraverso molteplici strumenti come computer, lettori MP3, smartphone, sempre comunque sotto forma di file; ma soprattutto, giusto o sbagliato che sia, per gran parte delle nuove generazioni la musica è un bene da acquisire gratuitamente. Ancora oltre, la possibilità di arrivare
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È appena uscito anche sugli schermi dei nostri cinema The Social Network, il film Ugo Attisani di David Fincher su Mark Zuckerberg, il ragazzo che nel 2003, mentre era una matricola di Harvard, un po’ per scherzo un po’ per rivalsa nei confronti della ex fidanzata, mise on line le fotografie delle ragazze delle università della zona per sottoporle all’impietoso giudizio della platea studentesca maschile, ponendo le basi di quello che di lì a poco sarebbe diventato Facebook. Il film, pur basato sul libro di Ben Mezrich ispirato dalle confessioni certamente di parte di Edoardo Saverin, il cofondatore di Facebook poi estromesso da Zuckerberg, celebra e pone un punto definitivo su quelli che Le Luci Della Centrale Elettrica nel suo album d’esordio del 2008, Canzoni Da Spiaggia Deturpata, aveva definito come gli “Anni Zero”, anni in cui il progresso tecnologico ha imposto un cambiamento talmente radicale da andare a minare anche le basi considerate più solide dei rapporti umani. La cosa che però più ci ha colpito nel film di Fincher è stata, ed è curioso pensare come dopo solo dieci anni lo avessimo già dimenticato, il ricordarci come a fare da motore di propulsione a questo cambiamento sia stata proprio la musica. Nel film, infatti, assume una posizione centrale la figura di Sean Parker, uno dei due creatori di Napster, il primo programma di peer-to-peer, cioè in grado di permettere agli utenti online di scambiare file musicali a distanza come si scambiavano fino a quel momento messaggi in chat attraverso i programmi di instant messaging. Parker rappresenta agli occhi di Zuckerberg un punto di riferimento e allo stesso
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ad una quantità di musica pressoché illimitata in un tempo irrisorio (e uno dei fattori che più ha inciso nella diffusione di connessione veloci a banda larga è stato proprio il diffondersi del fenomeno del file-sharing) ha modificato in modo radicale e profondo i principali attori di questo scenario, gli ascoltatori ma nondimeno i musicisti stessi. Siamo pienamente subentrati in quello che il giornalista Chris Anderson, direttore della rivista Wired, ha definito in un suo li- Arctic Monkeys bro del 2004 un modello di economia della coda lunga, ovvero un sistema in cui un numero indefinito di minuscole nicchie di consumatori/ascoltatori caratterizzati dagli stessi gusti supera nel suo insieme la fetta di mercato rappresentata dai gusti predominanti. Questo lo osserviamo in prima persona quotidianamente ad esempio quando incontriamo quindicenni che sono fan accaniti della musica elettronica tedesca degli anni Settanta oppure quando ascoltiamo opere prime di musicisti che si richiamano a fenomeni musicali che pensavamo dimenticati. Ed è forse in questo aspetto che si è prodotto il mutamento profondo che ha portato la nascita della musica digitale e dei suoi strumenti di diffusione a diventare, da semplice momento di evoluzione tecnologica, un grande fenomeno sociale, grazie alla creazione e allo sviluppo di una nuova base sociale, dai confini ampi e poco definiti, che si è affermata insieme con il sorgere del cosiddetto Web 2.0, delle piattaforme come Youtube, Myspace e infine Facebook stesso. La musica quindi, così come negli anni Cinquanta e Sessanta con il rock era stata un fenomeno di natura dirompente nella società, negli ultimi dieci anni è stata alla base di una vera e propria rivoluzione delle forme di socialità che potremmo definire digitali. E se è vero che qualcuno potrebbe obbiettare che ciò è avvenuto a scapito di diritti acquisiti e di interi rami dell’industria commerciale, provocando un vero e proprio terremoto economico e costringendo la giurisprudenza a rivedere le proprie posizioni in materia di diritto d’autore per cercare di arginare il fenomeno del file-sharing, è anche vero che chi ha saputo non fermarsi a una visione tradizionale e limitata ha poi capitalizzato in modo clamorosamente vincente le nuove prospettive apertesi in questi dieci anni. È il caso su tutti della Apple di Steve Jobs che, proprio grazie all’intuizione di creare un lettore MP3 che non fosse solo un oggetto funzionale e dalle elevate prestazioni nella resa dell’ascolto, ma anche un oggetto di design in grado di colpire e impressionare il mercato, ha dal 2001 pratica- Arcade Fire
mente monopolizzato il mercato della musica digitale con il suo Ipod, le cui generazioni e i cui modelli si sono velocemente succeduti fino ad oggi. La lungimiranza della azienda di Cupertino non si è poi fermata alla creazione di uno strumento di ascolto come l’Ipod ma, nel 2003, è riuscita, almeno in parte, a portare l’industria discografica da una posizione di strenua difesa nei confronti del MP3 ad un’apertura nei confronti di questo nuovo mercato, grazie alla nascita di Itunes Store, il primo negozio di musica online su larga scala. Così come per il mercato anche chi tra gli artisti è stato più sensibile all’evolversi dei nuovi scenari è stato poi premiato dal pubblico. Del resto paiono del tutto superati i timori che all’inizio del decennio paventavano la fine della musica, nascondendo in realtà soltanto la paura di perdita di profitti. In questi dieci anni infatti sono innumerevoli i casi di giovani artisti che proprio grazie alla possibilità di bypassare i tradizionali passaggi imposti dall’industria discografica hanno potuto far conoscere la propria musica ad una platea altrimenti irraggiungibile di ascoltatori, mettendo i file MP3 delle loro canzoni in rete tramite siti, social network musicali come Myspace o direttamente nei canali di file-sharing, raggiungendo poi le vette delle tradizionali classifiche di vendita, come è accaduto tra gli altri a gruppi come gli Arcade Fire, gli Arctic Monkeys o alla cantante inglese M.I.A. Tra gli artisti già affermati non si possono invece dimenticare i casi esemplari dei Radiohead che per primi tra i grandi gruppi hanno messo a disposizione sul loro sito un intero album, In Rainbows, permettendo ai fan di scaricarlo versando la cifra che essi ritenevano giusta o i Nine Inch Nails, che dopo aver permesso lo scaricamento gratuito del loro album Ghosts IIV ne hanno poi venduto duecentocinquantamila copie del cofanetto in vinile, al prezzo da collezionisti di 300 dollari. Rimane quindi evidente come la rivoluzione della musica digitale, lungi dall’essere un fenomeno esclusivamente deleterio come era stata dipinta in partenza, ha introdotto invece nuova linfa in un mondo che prima del suo affermarsi sembrava ancorato a categorie vecchie di vent’anni, espellendo dal mercato le forze più conservatrici e orientate soltanto al guadagno e fornendo invece nuove opportunità di ascoltare e di farsi ascoltare a una massa prima invisibile e realmente indistinta di persone, intendendo però stavolta indistinto in un accezione positiva, cioè senza badare alla sua età o alla sua provenienza sia geografica che sociale.
Ultim’ora da Laziodisu di Salvatore Buccola Laziodisu Card Con l’avvio dell’anno accademico 2010/2011 Laziodisu, in collaborazione con la Banca Popolare di Sondrio, ha messo a disposizione degli studenti un nuovo strumento, pratico e veloce, per la ricezione delle borse di studio, dei rimborsi e di qualsiasi altra somma erogata da Laziodisu stessa, eliminando ogni tipo di rischio connesso alla gestione del denaro contante. Viene rilasciata immediatamente allo sportello, unitamente al codice segreto PIN, è da subito utilizzabile e non richiede l’apertura di un conto corrente.
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Caratteristiche Laziodisu Card permette di: - accreditare automaticamente le borse di studio, i rimborsi e qualsiasi altra somma erogata da Laziodisu; - prelevare denaro contante presso tutti gli sportelli bancomat in Italia; - acquistare beni e servizi negli esercizi convenzionati Pagobancomat; - pagare utenze, avvisi MAV ed effettuare ricariche telefoniche presso tutti gli sportelli automatici abilitati. Laziodisu Card è inoltre uno strumento che in futuro permetterà di essere arricchito con nuovi servizi utili agli studenti del Lazio.
Non tutti sanno che... Celtic Forever di Massimiliano Troiani Celtic Forever. You’ll never walk alone è una cavalcata tra la miriade di successi e i tanti personaggi che hanno fatto grande il club cattolico di Glasgow, nato nel 1887 su intuizione di un prete, Fratello Walfrid, per finanziare la mensa dove trovavano un aiuto e del cibo caldo i poveri di origine irlandese della città. Dai primi Old Firm con i Rangers, ai Lisbon Lions che nel 1967 conquistarono una storica Coppa dei campioni contro l’Inter di Herrera, fino ad arrivare ai giorni nostri, la splendida maglia a strisce bianco-verde del Celtic è divenuta un’icona, il simbolo di un’intera comunità, quella irlandese, sparsa per tutto il mondo. Nel 1981 il Celtic incontrava la Juventus in Coppa dei campioni, il turno lo passò la Juventus. Quel Celtic guidato dal capitano Danny McGrain
era arcigno, con poca classe ma vendeva cara la pelle e in Italia si fece molte simpatie tra cui quella di chi scrive. Charlie Nicholas, l’attaccante, e Paul McStay il regista, che nelle movenze somigliava tanto a Giuseppe Giannini, sono i giocatori a cui sono più legato, insieme al barbuto Danny McGrain, capitano degli anni Ottanta, ma sono tante le storie e i personaggi che il libro raccoglie e custodisce. La storia di una comunità che si riconosce in tutto e per tutto in un club ormai tra i più famosi del pianeta. Non a caso anche i supporter del Celtic hanno adottato come loro inno il celebre You’ll never walk alone. Perché i “Bhoys” non cammineranno mai soli e non scorderanno mai le loro origini e la loro storia, che vale certamente la pena di essere raccontata.
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Il sillabario della nostra memoria… … e forse anche del nostro domani
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di Irene D’Intino Le parole sono preziose. Permettono l’identificazione, la descrizione, la conoscenza. Ma proprio come tutte le cose realmente importanti che si rispettino, risultano allo stesso tempo imperiture e fragili. Nascono con noi, crescono e si evolvono al nostro passaggio. E inevitabilmente si trasformano, dando nuova forIrene D’Intino ma alle cose e assumendo su se stesse nuove sfumature. Poi, ad un certo punto, proprio così come sono arrivate, a volte scompaiono, per poi riapparire molto tempo dopo, oppure semplicemente per abbandonarsi all’oblio. Ognuno di noi ne ha un bagaglio personale: parole legate alla nostra infanzia, a fatti, questioni, modi di dire che abbiamo incontrato nella nostra esistenza. E che ogni giorno continuiamo a conoscere, apprendere, apprezzare, scegliere oppure scartare. Pensiamo allora come sarebbe raccoglierle tutte, partendo da quelle che caratterizzano gli anni della nostra crescita, per creare un proprio sillabario personale. Il risultato, sicuramente, sarebbe molto simile al Sillabario della memoria (Salani Editore) di Federico Roncoroni, autore della grammatica italiana che molti di voi avranno avuto sul proprio banco, negli anni di scuola. «Sono parole – scrive Roncoroni nella sua premessa – che mi hanno fatto e mi fanno diverso dagli altri uomini e dalle altre donne, che amano o odiano altre parole, ma, nello stesso tempo, mi rendono uguale o simile a tanti altri uomini e a tante altre donne, cui, in modo misterioso, quasi sensuale, mi legano con il sottile filo di seta dei loro significanti e dei loro significati». Si inizia con “abballinare” e si termina con il classico “zuzzurellone”, passando per i meno consueti “donneare”, “lisciva” e “smargasso”. Un viaggio nelle parole che è anche un percorso nella memoria, che ognuno, a modo suo, potrebbe ripetere e appuntare, proprio per non perdere ciò che ci ha cresciuto, nutrito e descritto. Perché la perdita è sempre in agguato: la dimenticanza, la sostituzione o anche il semplice disuso costituiscono i rischi più grandi per le parole. E noi neppure ce ne rendiamo con-
to. I modi di dire, per esempio. Oppure il linguaggio giovanile. Quella che un tempo poteva essere considerata un’espressione di tendenza, “cool” (ecco un’altra parola che si usa oggi, ma che non si usava prima e forse non si userà dopo) magari oggi è obsoleta, o ancora peggio non significa proprio più nulla. Stessa cosa per gli stranierismi: un tempo, quando la lingua della cultura era il francese, che aveva esportato nelle scuole lo studio dei suoi termini, chi avrebbe mai pensato che presto sarebbe stato sostituita dall’inglese? Andateglielo a spiegare, ai “cugini d’oltralpe”, che ancora non si riprendono dallo shock! Le parole sono il senso che gli diamo e che assumono in relazione al contesto. Se i presupposti cambiano, non possiamo sperare che la parola resti immutata. Cosa succederà, quindi, al nostro linguaggio, guardando avanti negli anni? In che direzione vanno le nostre parole, e dove le stiamo portando? Presumibilmente bisogna dare per scontato un certo numero di termini che perderemo, con il passare del tempo. Ma quali? Innanzitutto, certamente quelli che stanno ad indicare qualcosa che un domani non esisterà più. Basti pensare al “walk man”, termine, ancora una volta inglese, che negli anni Ottanta spopolava, ma che oggi è stato sostituito prima dal “lettore Cd” e poi, oggi, dal “Mp3”. Il “walk man” è diventato quasi, nel giro di dieci o quindici anni, un oggetto d’antiquariato. E la stessa fine è riservata al suo significante. Magari, però, la stessa sorte toccherà al “Mp3”, quando verrà sostituito dal suo successore tecnologico. Probabilmente scompariranno anche molti termini che le generazioni precedenti alla nostra ritenevano di uso quotidiano, e che noi abbiamo perso, rinnovandole, modificandole o sostituendole. E nuove parole invece nasceranno, per identificare oggetti, luoghi, situazioni nuove che soppianteranno oggetti, luoghi, situazioni e parole vecchie. Anche le tecnologie probabilmente incideranno molto nel parlato del futuro, facendo sopravvivere, secondo un principio darwiniano, quei termini più veloci, che posseggono una possibile abbreviazione, che vengono usati più spesso e che quindi, in linea di principio, sono destinati a sopravvivere, a discapito di altri. Ci auguriamo però sentitamente che non scompaia il “ch”, soppiantato da un più semplice, e veloce, “k”. E soprattutto, che qualcuno si ricordi di tramandare il congiuntivo.
Tarda estate Quando il cinema italiano “parla” giapponese di Francesca Gisotti Una storia d’amore spezzata dal destino, il disagio esistenziale di un uomo “in sospeso”, le atmosfere delicate e nostalgiche dell’Estremo Oriente. Questo e molto altro ci racconta Tarda estate, il lungometraggio dei giovani registi Marco De Angelis e Antonio Di Trapani. Francesca Gisotti Realizzato grazie alla collaborazione fra la casa di produzione La Fabbrichetta e il Dipartimento comunicazione e spettacolo dell’Università Roma Tre, il film è stato presentato alla 67° Mostra del cinema di Venezia, nella sezione Controcampo italiano, distinguendosi per la capacità di analizzare in maniera trasversale molteplici aspetti della società giapponese, in bilico fra una modernizzazione estrema e la volontà di restare ancorata alle proprie tradizioni. Il film è soprattutto la storia di Kenji, un giornalista giapponese che dopo tanti anni passati a Roma decide di ripercorrere a ritroso il proprio percorso. Ecco allora che il rientro a casa rende possibile una riscoperta di sé, facendo riemergere pensieri e sentimenti tenuti sotto la polvere, frammenti di un’esistenza passata a ricercare quel senso dell’essere uomo che solo rivolgendo lo sguardo alle proprie radici si può cogliere pienamente. Kenji trova un Giappone molto diverso da quello che aveva lasciato; grattacieli e strade gremite di macchine, di uomini e donne vestite all’occidentale ne hanno stravolto “l’involucro esterno”; ma accanto a questa realtà se ne muove, parallelamente, un’altra, quella che vive nei racconti della madre vecchissima e che riaffiora nei ricordi di un amore mai dimenticato. Fra sogni, proiezioni mentali e salti temporali, si fa sempre più nitida la figura di Noriko, la donna che mentre tutto scorreva continuava ad aspettarlo, pagando con la morte la propria dedizione verso di lui. Ora un’altra donna, la giovanissima nipote, offre a Kenji l’opportunità di sospendere per un attimo la sua “corsa” e riscoprire la parte dell’anima rimasta ancora fanciulla, tutta protesa verso un processo di conoscenza destinato a continuare oltre i confini temporali della vita materiale. Il viaggio in Giappone diventa così l’ultima tappa di un lungo itinerario interiore, prima di spiccare il definitivo volo verso l’alto. La scelta di riprese frontali, di movimenti di macchina lentissimi, l’uso di
una musica evocativa e mai di semplice accompagnamento, rendono Tarda estate un film affascinante e misterioso che è anche un omaggio dei due registi alla tradizione e alla cultura del cinema orientale, con la sua capacità di creare attese e dolci smarrimenti. Fondamentale il lavoro sulla sceneggiatura che gioca con i silenzi tanto quanto con le parole, e sulla fotografia che restituisce, come dietro un velo sottile ed impalpabile, i colori e la delicatezza dei paesaggi nipponici. Abbiamo parlato di Tarda estate con i due registi Antonio Di Trapani e Marco De Angelis. Come nasce il soggetto di questo film? La decisione di ambientarlo proprio in Giappone è stata dettata da un amore e da una curiosità verso questa realtà o è stata anche una scelta “estetica” frutto cioè della passione per la tradizione cinematografica orientale? Andare fuori dall’Italia ha risposto al bisogno di allontanarsi dalla contingenza dell’attualità quotidiana (con cui molti registi italiani preferiscono invece ancora, a volte stancamente, confrontarsi) e, allo stesso tempo, ricercare la bellezza lì dove un nostro innamoramento fosse stato più immediato. Non solo l’amore per il cinema dei maestri giapponesi, dunque, ma anche l’interesse per un mondo che ancor più del nostro si presenta già stilizzato (basta pensare, per fare un esempio, ai tratti somatici), un universo segnico allo stesso tempo impenetrabile e nostalgico. Il film è stato presentato alla 67° Mostra del Cinema di Venezia, com’è stata questa esperienza e che tipo di accoglienza ha ricevuto da parte della critica? Venezia per noi è stata un’esperienza importantissima. Inutile soffermarsi sul valore e sulla tradizione di un Festival che nel corso dei decenni ha mostrato i capolavori di tanti cineasti da noi amati. È come un punto di arrivo e di partenza insieme. La critica sembra aver accolto bene il film, in particolar modo quelle persone al cui giudizio diamo sempre un particolare peso per la loro capacità di vedere in filigrana la sincerità di un’opera, oltre che il suo valore estetico. Il film è stato realizzato a quattro mani in tutte le sue fasi. Qual è il valore aggiunto di un lavoro che nasce da una collaborazione fra due personalità artistiche? Il processo creativo è qualcosa di personale e irripetibile, ma se si riesce a trovare la giusta intesa l’opera può essere la somma di due forze, piuttosto che l’ambiguo risultato di quotidiani compromessi. Occorre però trovarsi in una sintonia quasi perfetta, sia nella sensibilità, nella percezione, che nella volontà creatrice. Possiamo avere opinioni di-
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verse su molte cose, ma non su cosa è bello e cosa non lo è. Com’è avvenuta la scelta del cast? Com’è stato lavorare con attori stranieri provenienti da un sistema di lavorazione molto diverso dal nostro? Non solo il cast, ma tutto il film nasce da una certezza: Hal Yamanouchi. Protagonista di un nostro precedente cortometraggio, Voci di rugiada, ci ha colpiti per le sue doti umane, oltre che artistiche, per la sua capacità di rinnovarsi continuamente e mettere la sua lunghissima esperienza a disposizione di due esordienti in un progetto assolutamente autarchico. Al fianco dei pochi altri professionisti, come Andrea Tidona in Italia e Masato Mitani in Giappone, ci sono molti esordienti che ci hanno sorpreso per la loro bravura: soprattutto per quanto riguarda gli interpreti giapponesi, non abbiamo potuto fare dei veri e propri provini. Ci siamo basati su foto trovate cercando nei social network e sulla preziosa intermediazione di alcuni amici. A livello di distribuzione quanto è difficile riuscire a promuovere la diffusione di un film come questo, totalmente estraneo a certe logiche commerciali? È già stato difficile produrlo. Non avremmo potuto fare niente senza il preziosissimo aiuto del Dipartimento comunicazione e spettacolo, il cui sostegno, non solo logistico e tecnico, ci ha permesso di ridurre notevolmente i costi, ren-
I due registi Antonio Di Trapani e Marco De Angelis
dendo possibile la realizzazione del nostro piccolo film. Distribuirlo sarà probabilmente ancora più difficile poiché non dipende più solo dalla nostra incosciente imprudenza, ma da un confronto non più rimandabile con la realtà del cinema italiano, con i suoi spazi ristretti o nulli per le opere indipendenti e difficilmente collocabili come Tarda estate. Sarà compito di Gianluca Arcopinto e Emanuele Nespeca, co-produttori del film, riuscire a trovare la giusta formula distributiva. Tarda estate è la storia di un processo di trasformazione sia individuale che sociale. Quanto la storia del protagonista può essere inquadrata all’interno di un determinato contesto storico-culturale e quanto invece può essere letta come la storia universale di ogni uomo di fronte alla propria esistenza? La storia di Kenji non è solo la storia di un giornalista giapponese che ritorna nel proprio Paese dopo tanti anni: è la storia di un uomo che, vicino alla fine della propria esistenza, fa i conti con il proprio passato. Viene mandato in Giappone per capirne la realtà attuale, ma lui se ne distacca sempre di più per abbandonarsi ai ricordi: solo attraverso la rievocazione del proprio passato riesce a riconciliarsi con il presente, ma non con la realtà contingente e mutevole che lo circonda, bensì con l’eterno presente della vita che vede viversi e che, serenamente, accetta la propria “meravigliosa straziante” caducità. Nel film i personaggi spesso raccontano storie, favole, leggende che sono state tramandate oralmente nei secoli. Quanto il cinema può essere ancora oggi un mezzo per salvaguardare la cultura e la memoria storica di un Paese? Il cinema ha un rapporto ancora più complesso con il tempo, con i diversi tempi (diegetico, percettivo, storico etc.). Al di là della sua capacità di registrazione – come nei bellissimi cortometraggi di Vittorio De Seta degli anni Cinquanta – il cinema, per la sua riproducibilità infinita dell’istante perduto, si pone già costituzionalmente come “eterno ritorno” o, meglio, come presente inesauribile, dimensione asessuata dove il tempo è sempre perduto e ritrovato.
Inception L’architettura dei sogni di Fabrizio Attisani Tentiamo di ragionare su Inception prima che Nolan diventi un’istituzione e quindi un intoccabile. Perché il passaggio da istituzione a museo e da museo a mausoleo è troppo breve, e l’unico modo di rintracciare un pizzico di umanità in quest’opera è quello di scovarne i difetti. Innanzitutto, Nolan confonde il secondario col priFabrizio Attisani mario, il discorsivo col figurale, la struttura con la costruzione, l’ingegneria con l’architettura, la regia con la sceneggiatura. A dire il vero, al Nolan di Inception sembra interessare soltanto il contenuto manifesto del sogno, prodotto della censura onirica, e non i pensieri onirici latenti, scaturigine dell’inconscio. Anche la costruzione a strati, i sogni nei sogni e l’ascensore che scende nel “subconscio” (termine per altro rifiutato da Freud) sono in realtà ben poco freudiani, dato che la regressione operata dal sogno non è tanto spaziale quanto topica. Il logos, poi, non è certo una legge del sogno. In Inception, invece, tutto risponde alla logica del racconto e del montaggio, laddove l’inconscio si esprime per metafore (sintomi) e metonimie (oggetti), cioè immagini (condensazione e spostamento), ed è estraneo al principio di non contraddizione. L’inconscio non è lingua (codice e struttura) ma linguaggio. E così il cinema. Nolan, poi, imbastisce una struttura complicatissima (ben cinque livelli di sogno!) ma trascura la costruzione e i personaggi. Le sequenze d’azione, per esempio, si mettono in evidenza per l’inedito profilmico (il combattimento a gravità zero) e non per una messa in scena a dire il vero non molto innovativa. Passeranno alla storia ma non la faranno. E a parte Dom Cobb, a cui conferisce vita il solito immenso Di Caprio (vero plusvalore in senso marxiano), gli altri personaggi sembrano solo pedoni da disporre sulla scacchiera della sceneggiatura, ognuno con una funzione in rapporto con l’altro e con l’intera impalcatura dell’intreccio. Da ciò deriva la freddezza di Inception: se lo spettatore si immedesima prima con lo sguardo del regista e poi coi personaggi, e il primo è anonimo e i secondi meramente funzionali, non può scattare l’empatia e la fruizione resta solo su un piano intellettuale. Anche il paragone con Kubrick mi pare abbastanza fuorviante. È vero, sia Nolan che Kubrick amano i film-cervello chiusi e labirintici, solo che il primo semplicemente non si
fida del cinema mentre il secondo vi riponeva una fede talmente cieca da investire 12 milioni di dollari, un’enormità per l’epoca, in un film senza dialoghi come 2001: Odissea nello spazio. Dov’è il rischio, autoriale e imprenditoriale, di dirigere un blockbuster da 160 milioni di dollari facendo esclusivo ricorso alla parola (soggetto, sceneggiatura e dialoghi), che è l’unica lingua conosciuta dallo spettatore medio? E sgombriamo il campo da un altro malinteso. Inception non è perfetto. Nessun film lo è perché in realtà lo sono tutti: qualcosa di imperfetto necessita di modifiche, solo che – una volta apportate – questo diviene qualcos’altro e il primo resta imperfetto. Allora, non potendo venire modificato, questo qualcosa sarebbe già perfetto in sé. Inception, in definitiva, è un insieme strutturato di segni che non ha altro da comunicare se non… la propria struttura. Come nel sogno di Cobb: una topografia di grattacieli diroccati che hanno perso completamente la loro facciata e si erigono in un mondo che non contempla nient’altro che il suo demiurgo.
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Futurperspectives FotoGrafia Festival internazionale di Roma: è di scena il futuro di Sarah Proietti FotoGrafia Festival Internazionale di Roma, è arrivato alla sua nona edizione. Il tema scelto quest’anno è Futurperspectives ossia: può la fotografia interpretare il futuro? Questa domanda è la colonna portante dell’intera mostra, che dal 24 settembre al 24 ottobre scorso, è Sarah Proietti stata ospitata al MACRO – Museo d’Arte Contemporanea Roma, a Testaccio. Marco Delogu, direttore artistico del festival, parla di visioni, visionarietà e futuro: tre parole che riecheggiano, con significati e sfumature diverse, nell’ultima edizione del festival. Qui ci si interroga sugli sviluppi della fotografia contemporanea; le influenze sul futuro e le sue prospettive sono stati esplorati proponendo in maniera critica le visioni dei singoli autori; altrettanta rilevanza è stata attribuita alla relazione sempre più salda tra la ricerca di libertà, sia nell’identità visiva che nel processo produttivo, e la fotografia contemporanea. Ad affiancare il direttore artistico, tre curatori: Marc Prust per la sezione fotografia ed editoria, Valentina Tanni per fotografia e new media e Paul Wombell per fotografia e arte contemporanea. Il primo si è occupato della mostra Unpublished – Unknow che presenta una selezione di lavori ancora non pubblicati. Si può affermare che una fotografia vista da nessun altro al di fuori del fotografo stesso, esista? Più che una mostra di lavori non pubblicati, si tratta di una mostra di lavori non ancora completati. Prust ha selezionato più di novanta progetti di diversi fotografi: Alessandro Gandolfi, Gianfranco Maggio, Sergio Ramazzotti, Massimo Mastrorillo, Antonia Zennaro, Anton Kusters, Alessandro Serranò, Kosuke Okahara, Donald Weber, solo per citarne alcuni. Anche il lavoro di ricerca compiuto da Valentina Tanni cerca di capire qual è il possibile lavoro di interpretazione della fotografia sul futuro. Il rapporto tra fotografia e new media non è definito, ma è al contrario alla ricerca di una propria identità e determinazione, proprio perché i confini tra questi due campi non sono più individuabili. L’introduzione del linguaggio digitale, la possibilità di creare, manipolare e condividere le immagini, da una parte portano alla perdita di immediatezza, al disperdersi della competenza tecnica e linguistica della fotografia mentre dall’altra la potenziano: l’immagine fotografica è ovunque,
siamo in una proficua fase di sperimentazione. Questo influenza lo stile e i linguaggi degli artisti, che agevolano l’osmosi tra video, cinema, web, grafica e fotografia. La mostra si intitola Maps and legends proprio perché vuole mappare questo territorio in continua evoluzione, tracciarne la cartografia. Accanto alle mappe, le leggende per decifrarle. Nella mostra trovate le gif animate e le fotografie nei mondi virtuali, le immagini di Google street view e gli scatti che cambiano in tempo reale con il flusso dei dati. Dieci fotografi, Marco Cadioli, Carlo Zanni, Filippo Minelli, Martijn Hendriks, Harm Van den Dorpel, Justin Kemp, Phillip Toledano, Jaime Martìnez, Sascha Pohflepp, Jon Rafman per una mostra che cerca di scrutare nel futuro della fotografia. La mostra curata da Paul Wombell è intitolata Bumpy ride. Una fotografia viene spesso guardata come articolazione di un passato, di una storia. Una volta scattata, è già ricordo. Ma alcuni fotografi stanno rivoluzionando questa concezione, realizzando immagini che guardano in avanti, a un avvenire possibile. Cédric Delsaux, Mirko Martin, Kader Attia, Ilkka Halso, Peter Bialobrzeski, O Zhang, Ebru Erülkü e Jill Greenberg usano il digitale e l’analogico per realizzare immagini che sfidano il nostro immaginario. Fantascienza, città dilaniate dalle catastrofi, bambini che piangono in attesa del domani, natura rinchiusa nei musei. Il Festival FotoGrafia ha ospitato, in anteprima assoluta la nuova produzione del Mese Europeo della Fotografia: Mutations 3 – Public image, private views, curata da Emiliano Paoletti. Altro appuntamento prestigioso è quello con la Commissione Roma, giunto all’ottava edizione, che ogni anno chiede a un fotografo internazionale di ritrarre Roma secondo il suo punto di vista. Tod Papageorge, fotografo americano capostipite della Scuola di Yale, è l’artista scelto per questa edizione. Inoltre le più importanti Accademie internazionali hanno presentato alcuni progetti realizzati appositamente per il festival: L’altro lato a cura di Éric de Chassey di Philippe Gronon e Petites Histoires di Agnès Geoffray, presentata all’Accademia di Francia a Roma; A question of time a cura di Alessandra Capodiferro, Lavinia Ciuffa e Marco Delogu, presentata all’American Academy in Rome; Zoo di Carlos Abalá e Ignasi López, presentata alla Reale Accademia di Spagna. Infine, è stato esposto il vincitore del Premio Libro 2009, Deformer di Ed Templeton. Un festival ricco e articolato, che offre diversi spunti di riflessione. Neil Leifer, fotografo statunitense diceva: «La fotografia non mostra la realtà, mostra l’idea che se ne ha». Qual è la vostra idea di futuro?
Non tutte le profezie (non) si avverano «A dire la verità, se cercate un colpevole, non c’é che da guardarsi allo specchio» di Francesco Martellini «Una visione del futuro senza compromessi» così recitava nel 2006 la locandina di V per Vendetta, il lungometraggio scritto dai fratelli Wachowski, ispirato al fumetto omonimo di Alan Moore, in cui la celebre coppia di sceneggiatori si inventa un’Inghilterra proiettata Francesco Martellini in un futuro molto prossimo, sottomessa a un regime dittatoriale molto simile nell’atteggiamento ai totalitarismi europei del XX secolo e che evoca in più passaggi gli scenari di 1984 di George Orwell. Proprio la scelta di un futuro che é quasi contemporaneità e gli innumerevoli riferimenti, anche filmati, a fatti storici o episodi realmente accaduti in passato contribuiscono a dare al tutto una patina che appare via via sempre meno favolosa e sempre più storica, slegando quella visione senza compromessi dello slogan da un vincolo puramente artistico e conferendogli un’atmosfera di serietà che spinge il pubblico, inevitabilmente, a chiedersi se lo scenario prospettato non possa, a tratti, diventare realtà in un periodo storico-politico come quello attuale. A ben guardare, in effetti, le analogie si trovano; non che si siano instaurate di nuovo dittature o vi siano in giro organi di polizia politica come i “castigatori” a fare piazza pulita dei non affiliati al potere; l’Alto Cancelliere Sutler e il malefico signor Creedy, l’uomo dei cappucci neri, li lasciamo ancora alla pellicola; potremmo avvertire però una certa corrispondenza di scenari se pensiamo al personaggio forse più sgradevole per aspetto e storia, sul volto del quale si apre il film: Lewis Prothero, la “voce di Londra”, ex comandante impiegato nei campi di concentramento, divenuto uomo di primo piano del regime e volto televisivo per eccellenza, l’incarnazione stessa del mezzo: «L’Inghilterra domina perché lo dico io!» urla ad un suo collaboratore in una scena, minacciando di licenziarlo. L’intera sceneggiatura gira intorno all’importanza fonda-
mentale che i media hanno nell’instaurazione e soprattutto nel mantenimento di una forma di potere autoritaria, il partito di Sutler è salito al potere, come dice anche V, infondendo nella popolazione la paura di epidemie, attentati e pericoli imminenti per la nazione, e proclamandosi come l’unico in grado di fronteggiarle. La paura é la carta vincente, e quando Prothero viene ucciso da V, nel film, l’intero stato maggiore del regime è in allarme; il responsabile della propaganda Dascomb sulla scena del delitto: «... la perdita della voce di Londra potrebbe essere devastante per la nostra credibilità», e ancora dopo la distruzione del vecchio Bailey: «... il nostro compito è riferire le notizie, non fabbricarle, quello é compito del governo». Ed è ancora con un messaggio televisivo che V appare la prima volta in pubblico per spiegare il suo obbiettivo e chiamare a raccolta gli inglesi sotto il palazzo del parlamento che avrebbe fatto esplodere. Se i media sono centrali nelle meccaniche del film il protagonista non poteva che risultare il personaggio mediatico per eccellenza, essendo lui paradossalmente un fuggitivo, un clandestino, un uomo di cui persino l’identità é sconosciuta, ma che si rende noto nel suo anonimato. V usa la violenza, ma solo contro quei personaggi che lo “meritano”, verso i quali anche il pubblico farebbe lo stesso, diventando così eroe e anti-eroe allo stesso tempo. Il suo parlare per citazioni colte, la sua fermezza di voce e la sua linearità di pensiero quasi ostentata stridono sia con i tratti dei personaggi del regime, sottolineandone la brutalità e l’incapacità di agire se non con la forza, sia con quelli di Evey, che accompagna in un percorso di crescita personale a tratti sereno, a tratti tragico. Non é un rivoluzionario che agisce con la forza bruta, non è un macho, è astuto e intelligente; il messaggio che arriva chiaro al pubblico è quello di avere sempre una propria coscienza critica e capacità di analisi, non solo di ciò che ci viene proposto dai media, ma del mondo in cui ci muoviamo, in generale. E alla fine della pellicola, osservando il parlamento inglese che esplode, se ci si sta ancora chiedendo se Sutler e Creedy non possano, a tratti, diventare realtà, forse ci si può rispondere che dipende solo ed esclusivamente da noi.
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«Chi vive in un’isola deve farsi amico il mare» Con Le sfide di Israele David Meghnagi ci regala un nuovo, prezioso contributo sul conflitto arabo-israeliano di Fabio Bego Israele come tutte le nazioni ha fondato la propria esistenza su una progressiva conquista della legittimità. Il processo di consolidamento dello stato ebraico rimane ancora oggi incompleto poiché trova un’opposizione consistente da parte di forze interne ed esterne, Fabio Bego le quali minacciano la composizione territoriale e mettono in discussione la sovranità della nazione. La definizione e la portata delle minacce sono per David Meghnagi le sfide cui lo stato deve rispondere per garantire la sicurezza dei cittadini e portare a compimento il sogno dei padri fondatori, ossia quello di vivere in un paese libero, democratico e tollerante, dove le diversità etniche e religiose costituiscano una ricchezza socio-culturale e non il pretesto per una disintegrazione reciproca. Soffermandosi sugli aspetti politici e sociali che determinano la competizione tra il popolo ebraico e quello arabo, l’autore dimostra come la violenza non scaturisca da contingenze recenti, ma come l’aggressività cui assistiamo sia piuttosto il canale di sfogo di risentimenti reciproci covati dalla memoria sociale, nel corso dei secoli. Emerge dal libro la visione di un popolo ebraico superstite, sempre ingaggiato in una lotta per la sopravvivenza che ha dovuto combattere senza alleati. La diaspora ha vissuto il dramma delle persecuzioni e dei diritti negati, languendo nei tormenti di un estenuante esposizione alla violenza strutturale e fisica. La condizione di precarietà e pericolo ha infuso nella comunità una sensazione di paura che ha pervaso l’esperienza collettiva di generazione in generazione. Questo sentimento continua a perseguitare gli ebrei d’Israele. Il conflitto contro i vicini paesi arabi é latente dal 1948. La cadenza sporadica degli attacchi e
il modo indiscriminato con cui vengono messi a segno rendono tutti i cittadini dei potenziali bersagli. Secondo l’autore, il bisogno di protezione ha indotto il governo di Tel Aviv a intraprendere azioni di sicurezza preventiva e a dotarsi di un arsenale capace di annientare il nemico al primo segno di ostilità. Alle minacce di "teatro" si aggiunge la retorica di gruppi politicizzati dell’Occidente. Un amalgama eterogeneo sul quale pesa la crisi ideologica della politica occidentale, accusa lo stato israeliano di essere il principale responsabile delle tensioni tra Occidente e Islam. Paradossali argomentazioni di un razzismo che inverte la sua rotta, hanno risvegliato un antisemitismo che trascende i circoli dell’estrema destra. Uno dei casi più eclatanti citati da Meghnagi é quello della Fiera del libro di Torino del 2008, con le polemiche che ne seguirono per la scelta di Israele come paese ospite da parte degli organizzatori. Israele é l’avamposto dell’Occidente in una regione dominata dalla cultura islamica. Arabi e ebrei, israeliani e palestinesi sono «condannati come separati in casa a condividere i pochi spazi a disposizione». Questa affermazione dell’autore ci fa supporre che gli individui percepiscono la convivenza sotto forma di pena alla quale non possono sottrarsi. Come ci fa riflettere Meghnagi, i tentativi di imporre una pace basata solo su compromessi diplomatici, tendono a fallire poiché l’azione dei radicalismi politici e dei fondamentalismi religiosi destabilizza continuamente i fragili equilibri raggiunti. Diviene quindi imperativo concepire una pace implementata dall’azione collettiva, basata sulla riconciliazione e la capacità di perdonare l’altro. Non possiamo rassegnarci alla spettrale immagine di un futuro perseguitato dai fantasmi e per ciò impegnato a rivendicare il passato come un cane che cerca di mordersi la coda. Uno scenario simile sarebbe una vorticosa discesa nell’abisso di un conflitto viscerale. Un conflitto in grado di fagocitare persone, idee, nazioni e popoli.
Quelli che sul futuro si erano sbagliati…. «Le televisione è tecnicamente possibile. Ma commercialmente è una perdita di tempo» (Lee De Forest, scienziato e inventore statunitense, pioniere della radio, 1926) «Cartoni animati con un topo? Che idea orribile: terrorizzerà tutte le donne incinte» (Louis B. Mayer, capo della Metro Goldwyn Mayer, rifiutando il personaggio di Topolino nel 1928) «L’auto rimarrà sempre un lusso per pochi» (The Literary Digest, 1899) «Quando l’Esposizione di Parigi sarà finita, la luce elettrica avrà chiuso e non ne sentiremo più parlare» (sir William James Erasmus Wilson, presidente dello Stevens Institute of Technology, 1879) «Che bisogno ha una persona di tenersi un computer in casa?» (Kenneth Olsen, ingegnere statunitense, cofondatore della Digital Equipment Corporation, 1977) «Pensare di attraversare l’Atlantico con una nave a vapore è come pensare di andare sulla Luna: una follia» (Dyonisus Lardner, docente di filosofia naturale e astronomia presso lo University College di Londra,1838) «È impossibile che qualcosa più pesante dell’aria possa volare» (Lord William Thomson Kelvin, fisico irlandese, presidente della Royal Society britannica, 1895) «La fotografia durerà poco, per l’evidente superiorità della pittura» (Le Journal des savantes, 1829) «Penso che nel mondo ci sia mercato forse per quattro o cinque computer» (Thomas Watson, presidente della IBM, 1943)
«La bomba atomica non esploderà mai. Parlo come esperto di esplosivi» (William Daniel Lehay, ammiraglio statunitense, 1945) «L’ipotesi di viaggi nello spazio è una totale assurdità» (Richard van der Riet Woolley, astronomo inglese, 1956) «Scavare sotto terra per cercare petrolio? Siete pazzi?» (gli esperti della compagnia mineraria consultata da Edwin Laurentine Drake per il primo progetto di trivellazione petrolifera, 1859) «In futuro un computer potrà forse pesare non meno di 1,5 tonnellate» (Usa Popular Mehanics, 1949) «Gli aerei non andranno mai veloci come i treni» (William Henry Pickering, astronomo statunitense, 1908) «I treni ad alta velocità sono impossibili: i passeggeri non potrebbero respirare e morirebbero di asfissia» (Dyonisus Lardner, docente di filosofia naturale e astronomia presso lo University College di Londra, 1856) «Il microchip: ma a che serve?» (un ingegnere della IBM, 1968) «La clonazione di un mammifero è impossibile: sia oggi, sia in futuro» (Michael A. Froham, biologo della State University di New York, 1993) «Il Sole non gira attorno alla Terra? Folle, eretico, assurdo e falso» (Tribunale dell’Inquisizione sulle teorie di Copernico e Galileo, 1616) «Il rock’n’roll morirà entro giugno» (Variety, 1954)
Teatro 30 e lode... a Roma Tre Anche quest’anno, con l’inizio della stagione teatrale ha riaperto il servizio di biglietteria Agis all’interno del nostro Ateneo. La biglietteria teatrale è parte integrante del più ampio progetto Teatro trenta... e lode!, voluto e sostenuto da Regione Lazio, Provincia di Roma e Comune di Roma d’intesa con i tre atenei romani La Sapienza, Tor Vergata e Roma Tre. Il progetto, al quinto anno di vita, vuole avvicinare segmenti della realtà culturale cittadina e agevolarne lo scambio, facilitando l’accesso della popolazione universitaria ai luoghi dello spettacolo e invitando gli artisti presenti sulla piazza romana ad incontrare gli studenti e i docenti del nostro Ateneo. Il servizio, la cui sede a Roma Tre è al piano terra di via Ostiense 169, si rivolge agli studenti e al personale dell’Ateneo con una rete di convenzioni che raccoglie quasi tutti i teatri romani. I biglietti si acquistano presso il botteghino (mart. - merc. - giov. 13.00-16.00; tel. 06.57332243; biglietteria.roma3@libero.it; www.spettacoloromano.it) con riduzioni che vanno dal 20 al 50%. Il servizio emette anche biglietti a prezzo intero per gli accompagnatori degli studenti e del personale che non abbiano diritto alla riduzione. Un capitolo a parte merita Un abbonamento per tutti, uno strumento dinamico ed economico che permette al pubblico romano di assistere a 12 spettacoli, scegliendoli tra i ben 150 che 36 teatri romani e 4 teatri della regione propongono, al costo di soli 96 euro, più 3 di prevendita.
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