Periodico di Ateneo
Anno XV, n. 3 - 2013
EDUCARE ALLA LIBERTÀ
Sommario Editoriale
Primo Piano La scuola che forma Lo spazio architettonico come valore educativo di Mario Panizza Educare all’Europa Il ruolo della scuola nell’immaginario sociale di Francesca Cantù
La vocazione internazionale dell’università Lo spazio europeo dell’istruzione superiore di Vincenzo Mannino
Una crescita intelligente, sostenibile e solidale Il rilievo strategico dell’orientamento di Massimo Margottini
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L’autoeducazione del “potenziale umano” L’attualità e l’internazionalità del modello Montessori di Clara Tornar
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La cultura è uno strumento di liberazione La pedagogia degli oppressi di Paulo Freire di Massimiliano Fiorucci
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L’educazione internazionale dei bambini Il pensiero di Jean Piaget di Merete Amann Gainotti
Un medium del Novecento Il ruolo della televisione pubblica nei processi educativi di Enrico Menduni
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Incontri Mario Botta. Solo la bellezza potrà salvare il mondo di Alessandra Ciarletti Adele Corradi. «A chiunque abbia fatto la quinta elementare» di Michela Monferrini Silvia Calandrelli. Rai Educational e la formazione continua di Alessandra Ciarletti Rubriche Palladium Ultim’ora da Laziodisu Non tutti sanno che…
Documenti Nell’educazione un tesoro di Jacques Delors
Recensioni The women’s table Un monumento per le studentesse di Yale di Francesca Gisotti
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Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre Anno XV, numero 3/2013 Direttore responsabile Anna Lisa Tota (professore straordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi)
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Caporedattore Alessandra Ciarletti
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Redazione Ugo Attisani, Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo Di Paolo, Francesca Gisotti, Elisabetta Garuccio Norrito, Michela Monferrini, Giulia Pietralunga Cosentino, Francesca Simeoni
C’è bisogno di ricerca Cambiare la valutazione in ingresso di Benedetto Vertecchi
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La poetica dell’educare La parola chiave è condivisione di Gilberto Scaramuzzo
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Hanno collaborato a questo numero Giuditta Alessandrini (professore ordinario di Pedagogia sociale e del lavoro), Merete Amann Gainotti (professore ordinario di Psicologia dello sviluppo e di Psicologia dell’educazione), Francesca Brezzi (professore senior di Filosofia morale), Francesca Cantù (prorettore vicario Università degli Studi Roma Tre), Carla Di Donato (dottore di ricerca in Teatro e arti dello spettacolo, Università Roma Tre e Université La Sorbonne Nouvelle/Paris III), Massimiliano Fiorucci (professore associato di Pedagogia interculturale), Sveva Magaraggia (ricercatore a tempo determinato Dipartimento di Filosofia, comunicazione e spettacolo), Vincenzo Mannino (prorettore con delega alle elazioni internazionali Università degli Studi Roma Tre), Roberto Maragliano (professore ordinario di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento), Massimo Margottini (delegato del rettore alle politiche di orientamento), Enrico Menduni (professore ordinario di Media digitali: televisione, video, internet), Chiara Meta (dottoressa di ricerca in Scienze dell’educazione), Mario Panizza (rettore Università degli Studi Roma Tre), Gilberto Scaramuzzo (ricercatore Teatro e educazione), Clara Tornar (professore ordinario di Pedagogia sperimentale - coordinatrice del Centro di studi montessoriani), Carmelo Ursino (commissario straordinario LazioAdisu), Benedetto Vertecchi (professore ordinario di Pedagogia sperimentale), Centro di ascolto psicologico - Divisione politiche per gli studenti
Collettività e connettività Le leve dell’apprendimento digitale di Roberto Maragliano
Prospettive di placement Diritto all’apprendimento e all’occupabilità di Giuditta Alessandrini
Una stanza tutta per noi Venti anni di rigoroso lavoro di Sveva Magaraggia
Idoli di bontà Il genere come norma nella storia dell’educazione di Chiara Meta «To be a man, to be a real man» La ricerca contemporanea di Gurdjieff per il risveglio dell’uomo nella sua integralità di Carla Di Donato Francisco Varela: conoscere la conoscenza di Francesca Gisotti
Alcuni fondatori dell’Università degli Studi Roma Tre
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Vicecaporedattore e segreteria di redazione Federica Martellini romatre.news@uniroma3.it
Immagini e foto Archivio fotografico del Centro di studi montessoriani dell’Università Roma Tre, Archivio FDLM Fondazione Don Lorenzo Milani - www.donlorenzomilani.it, Enrico Cano©, Mimesis Lab - Università Roma Tre, Pino Musi©, Beat Pfändler©, Bia Simonassi© (treebookgallery.blogspot.com) Ringraziamo Bia Simonassi (treebookgallery.blogspot.com) che ha realizzato per noi il mind map pubblicato alle pp. 34-35 Progetto grafico Magda Paolillo, Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma - 06 64561102 - www.conmedia.it Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico Impaginazione e stampa Stilgrafica s.r.l. Roma - tel. 0643588200 In copertina Lezione di tecnologia, 1958, foto Frighi, Archivio FDLM Fondazione Don Lorenzo Milani Finito di stampare settembre 2014 ISSN: 2279-9192 Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998
La scuola che “abbiamo a cuore” di Anna Lisa Tota
«L’educazione si colloca al centro dello sviluppo sia della persona sia della comunità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di sviluppare pienamente i propri talenti e di realizzare le proprie potenzialità creative, compresa la responsabilità per la propria vita e il conseguimento dei propri fini personali». (da Nell’educazione un tesoro, Rapporto della Commissione internazionale per l’educazione del XXI Secolo, Jacques Delors). In un passo successivo di questo famoso discorso presentato all’UNESCO, Jacques Delors afferma che l’eduAnna Lisa Tota cazione è la via principale per raggiungere ideali di pace, libertà e giustizia sociale. I tipi di educazione che egli menziona sono quattro: imparare a conoscere, imparare a fare, imparare a vivere insieme e imparare a essere. Secondo Delors, un’educazione che si limiti a sviluppare uno solo di questi aspetti, è inadeguata per lo sviluppo armonioso e completo di un essere umano.
In questo numero ci occupiamo di scuola, di educazione e, pertanto, ci occupiamo anche di libertà e di pace. Educare alla libertà è il titolo scelto in omaggio alla grande tradizione italiana di Maria Montessori e di don Lorenzo Milani, ma anche alla tradizione antroposofica di Rudolf Steiner, ai lavori di Paulo Freire e di Jean Piaget. “Educare alla libertà” significa, ad esempio, riconoscere al singolo essere umano la libertà di essere come è. In una bellissima frase Michaela Glöckler dice ad un bambino: «Ich freue mich darüber, dass du genau so bist, wie du bist» (sono felice che tu sia proprio come sei). Senza giudizio, senza valutazione. Non c’è un ideale esterno, al quale normativamente il bambino si deve conformare, come una sorta di righello dell’anima con cui “raddrizzare” la piantina che si ostina a crescere “storta”. Gli educatori, i “maestri” accompagnano maieuticamente i bambini e le bambine lungo un percorso di acquisizione progressiva della consapevolezza, lungo un percorso di autoeducazione. Il concetto di autoapprendimento risulta centrale in molte delle prospettive qui menzionate, in quanto via possibile per coniugare le competenze del sapere con quelle della vita. Se apprendere infatti significa “fare esperienza”, come insegnare qualcosa all’altro, se non accompagnandolo in un percorso di cui egli stesso sia fautore? Le competenze della vita (imparare a vivere insieme, imparare a essere) acquisiscono un’importanza pari alle competenze del conoscere e del fare. Ma cosa significa imparare ad essere? A Cartesio che scriveva «cogito ergo sum», Rudolf Steiner rispon-
deva: «se penso, non sono». Il pensiero nell’antroposofia riguarda la rappresentazione e, come tale, non riguarda il mondo dell’essere. Imparare ad essere significa, in tale prospettiva, imparare a non pensare la realtà, ma “a esserla”, cioè a fondersi con essa. Una qualità che i bambini sembrano avere innata, ma che va perduta nel processo di transizione all’età adulta e che pertanto un’educazione volta alla libertà potrebbe aiutare a recuperare con consapevolezza. Ma dove e in che modo nelle nostre scuole e nelle nostre università insegniamo ai bambini e ai giovani ad essere e a vivere insieme? Quali sono i curricula, dove queste qualità vengono coltivate? All’università la tentazione di dire che “spetta ai percorsi scolastici precedenti” è forte e suona assai rassicurante, ma è legittima?
In questo numero ci occupiamo di scuola, di educazione e, pertanto, ci occupiamo anche di libertà e di pace
In che misura noi professori abbiamo imparato a essere e a vivere insieme? E come possiamo insegnarlo? I confini sicuri delle nostre discipline ci permettono di insegnare materie che, se non felicemente fecondate dai saperi della vita, possono produrre conoscenze sterili. Imparare a conoscere è certamente fondamentale, ma come insegnare il resto? E cosa dire dei saperi pratici? Già in altre occasioni abbiamo sottolineato, sulle pagine di questo giornale, come il saper fare sia tutt’uno con il saper conoscere. Tuttavia i saperi delle mani, i saperi del corpo sono stati espulsi dalle fabbriche contemporanee della conoscenza. Sono divenuti saperi di serie b, relegati ad altri percorsi formativi. Questo processo di per sé non sarebbe negativo, se a questi percorsi formativi pratici non fosse stato attribuito “minor valore”. Si tratta di quel ben noto processo di classificazione dei saperi che ha legittimato una distinzione netta tra coloro che sanno e coloro che “sanno fare”. Il contadino filosofo, l’idraulico ingegnere o il panettiere botanico ci sembrano felici utopie o, perlomeno, eccezioni poco praticabili. Invece, come auspica Gilles Clément, il futuro sembra orientarsi verso i monaci giardinieri, cioè verso coloro che di fronte
al miracolo della natura potranno applicare un “sapere fare” coniugato ad un sapere conoscere e ad un saper essere. In tale futuro non ci sarà posto per diserbanti che aumentino la produttività delle piantine di pomodori mettendo a rischio l’ecosistema e la salute delle altre specie vegetali, animali, perché chi usa i diserbanti avrà studiato anche chimica, medicina e filosofia e saprà ben riconoscere le sostanze che impiega e i loro effetti sull’ecosistema. È dalla sintesi di tutti i saperi ricordati da Delors che può scaturire un tipo di azione sociale in cui il profitto e l’etica pubblica siano due facce della stessa medaglia, senza apparire come due aspetti impossibili da coniugare. Il problema non è più quello della “quadratura del cerchio”, perché il cerchio è già di per sé anche un quadrato. Un altro tema ricorrente nel dibattito sulla scuola è quello della reciprocità di ogni processo educativo. “Chi educa chi?” è un Leitmotiv ricorrente: siamo noi “maestri” ad educare i bambini e le bambine che ci vengono affidate o l’autoeducazione è reciproca? Quanto siamo disposti a riconoscere e ad ammettere che i nostri studenti ci accompagnano in un processo di autoeducazione? Certo questa è una posizione che mette in gioco, che toglie sicurezza e che può suscitare timore. Essa mette in discussione
Ma cosa significa imparare ad essere? A Cartesio che scriveva «cogito ergo sum», Rudolf Steiner rispondeva: «se penso, non sono»
la barriera protettiva del ruolo, ma al contempo permette alla persona “studente” di incontrare la persona “professore”. Permette un dialogo di reciproco rispetto, permette uno scambio, nel quale il saper conoscere è intrecciato e intessuto con il saper fare, con il saper essere e con il saper vivere insieme. È una posizione di equilibrio faticosamente ricercato e rinnovato in ogni momento, dove in un gioco sottile e complesso si ricompone la complessità delle forze che governano la condizione umana, dove l’autorità non ha più basi legittimate a priori dall’appartenenza ad un ruolo e lascia il posto ad una ben più solida autorevolezza fondata sul carisma e sullo spessore morale riconosciuto alla persona. Il problema di un processo educativo affidato all’autorevolezza è che essa si rinnova di volta in volta in un patto di stima reciproca, rispetto e libertà che non può essere dato per scontato una volta per tutte. L’autorità è una proprietà stabilmente inscritta nel ruolo e come tale ascritta per colui o colei che lo occupa. L’autorevolezza invece è una qualità che si acquisisce “sul campo”, nel corso di successive interazioni sociali. L’autorevolezza in tal senso apre ad un rapporto pedagogico sempre in divenire, l’autorità preclude la strada della libertà sia per chi la pratica, sia per chi la subisce. La questione del potere connesso ai processi di educazione è stata al centro della riflessione di don Lorenzo Milani. Nel 1967 con Lettera a una professoressa egli avvia una riflessione critica profonda sul
Rudolf Steiner
ruolo dei processi educativi, sulle funzioni della scuola dell’obbligo, sull’importanza di parlare “correttamente” la lingua italiana:
«Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia la lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo. (…) Quando Gianni era piccino, chiamava la radio “lalla”. E il babbo serio: “non si dice lalla, si dice aradio”. Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola. “Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua”. … L’ha detto la Costituzione pensando a lui». (Milani 1967, p. 19).
Don Lorenzo Milani svelò alle famiglie italiane alcune delle incongruenze più profonde dell’istituzione scuola, così com’era concepita dalla mentalità borghese: perché mai gli alunni si sarebbero dovuti rallegrare quando c’era vacanza? Di quali alunni si stava parlando? In quegli anni, quando non si andava a scuola, bisognava mungere le mucche nella stalla, aiutare nei campi. Ogni giorno di chiusura della scuola, lungi dall’essere “vacanza”, era un giorno di lavoro durissimo per giovani, poco più che bambini. Era un giorno in meno d’istruzione. Quando la scuola funziona, andarci è una gioia, non una costrizione. Milani ha in mente una scuola che riesca a trasmettere la passione per lo studio, l’interesse e l’amore per quello che si fa. Non una scuola del “si deve”, ma una scuola del “si può” e del “si vuole”. Come dimenticare la sua appassionata denuncia contro una scuola dell’obbligo che si permette di bocciare: «Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete”. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate».
I campi e le fabbriche di cui parla don Lorenzo Milani appartengono al passato e l’Italia di oggi è profondamente cambiata. Quelli che bocciamo noi dove finiscono?
La scuola che forma
Lo spazio architettonico come valore educativo di Mario Panizza
Ogni progetto di scuola deriva da un preciso modello educativo e da una specifica realtà urbana. Per interpretarne il valore e la qualità architettonica si deve partire pertanto dalla combinazione tra il rapporto con la città e il riferimento al tipo edilizio, che inquadrano i due principali termini di lettura: chiariscono la ricchezza del progetto e orientano, in prima approssimazione, i riferimenti culturali ispiratori.
A partire dall’impianto scolastico ottocentesco, rivolto soprattutto alla determinazione di un ordine interno dove le aule erano allineate lungo un corridoio, lasciando al dialogo con la città facciate atten-
Ogni progetto di scuola deriva da un preciso modello educativo e da una specifica realtà urbana. Per interpretarne il valore e la qualità architettonica si deve partire dalla combinazione tra il rapporto con la città e il riferimento al tipo edilizio, che inquadrano i due principali termini di lettura: chiariscono la ricchezza del progetto e orientano i riferimenti culturali ispiratori
te a descrivere il valore dell’istituzione, la scuola razionalista ha definito con precisione i due termini – rapporto con la città e tipo edilizio – sia sotto l’aspetto culturale sia sotto quello metodologico, rappresentandone le effettive coordinate progettuali. Chiare sono le premesse urbanistiche e altrettanto chiari sono i principi che guidano l’impostazione dell’impianto edilizio. Nella città razionalista, strutturata per quartieri autosufficienti, dove le funzioni sono separate e riconoscibili, la scuola è distinta per
Walter Gropius, Edwin Maxwell Fry, Scuola secondaria-centro sociale, Impington (Inghilterra), 1939
primo piano
Negli edifici per servizi e attrezzature pubbliche l’insieme delle dotazioni deve essere concepito come il naturale complemento di quanto serve anche alla città. I musei, le biblioteche, i teatri offrono, sempre più, ambienti di uso promiscuo, rivolti ai diretti fruitori, ma anche agli utenti che solo occasionalmente si Mario Panizza avvicinano. Nei musei gli spazi destinati all’accoglienza prevedono punti di ristoro aperti a tutti, collegati alla libreria e all’area per lo shopping; i teatri sono progettati con foyer a separazioni progressive dove, a seconda delle necessità, chi assiste allo spettacolo è l’unico utente oppure, fuori dell’orario di rappresentazione, i comuni passanti possono invadere quei luoghi, talvolta di margine, non destinati a funzioni specifiche. Anche la scuola, seppure in misura minore, è soggetta a questo tipo di “occupazione” dall’esterno; anche se con una certa riluttanza, non può non concedere ambienti, funzioni e servizi. La decisione di aprirsi all’esterno non è però solo ideologica e politica da parte degli insegnanti; essa dipende dall’impostazione tipologica dell’edificio. Questa può essere infatti molto condizionante, limitando i margini di apertura e di collegamento con la città.
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tutto indipendente dal sistema urbano circostante. Essa, per quanto è possibile, è circondata da una fascia di verde che le attribuisce l’immagine di un microcosmo destinato all’educazione, isolata e separata fisicamente dal resto della città. Nella scuola razionalista la tipologia trae origine da una precisa priorità funzionale, dove l’aula, che identifica l’uniDanys Lasdum, Lindsey Alexander Drake, Scuola primaria a Holfield (Inghilterra), 1955 tà compositiva, costruisce di fatto, atordine e grado, dimensionata in base alle aggregatraverso il sistema di aggregazione, più o meno zioni urbane: minime, medie e massime – isolato, complesso, la forma dell’edificio. L’insieme delle quartiere e città –. Sono grandezze riconducibili a aule e il sistema dei percorsi configurano l’impianto planimetrico e rendono esplicite le parti funzionali, dichiarate all’esterno da precisi riferimenti formali. La volontà di inserire la scuola Il riconoscimento della scuola non è affidato alla sua immagine sintetica, ma all’insieme equilibrato nel contesto urbano e di integrarla delle parti, tutte ben connotate, riconducibili a eleformalmente con il resto della città menti semplici che dichiarano il sistema compositisegna il superamento del modello e della vo e funzionale dell’intero impianto.
normativa razionalista. La scuola si trasforma da oasi e paradiso del fanciullo in uno dei poli della città in evoluzione: si apre all’esterno e determina condizioni elastiche di cambiamento
tempi di percorrenza e quindi idonee a determinare, secondo l’età dell’allievo, il numero, il tipo di scuola necessario. La relazione con la città è però solo dimensionale, poiché la forma della scuola è del
Mario Botta, Scuola secondaria, Morbio inferiore (Canton Ticino), 1977
La volontà di inserire la scuola nel contesto urbano e di integrarla formalmente con il resto della città segna il superamento del modello e della normativa razionalista. La scuola si trasforma da oasi e paradiso del fanciullo in uno dei poli della città in evoluzione; si apre all’esterno e determina condizioni elastiche di cambiamento. Ogni opera architettonica, e soprattutto quella per i servizi pubblici, diventa un potenziale polo aggregatore che integra e rende morfologicamente partecipi anche parti di città profondamente diverse. Ogni intervento rappresenta un’occasione per definire il disegno e la forma della città sia nelle zone consolidate sia nelle aree dove la crescita informale ha impedito la costituzione di un sistema urbano. Prende corpo un nuovo modello di scuola che tende al riordino delle aree urbanizzate. Soprattutto in quelle centrali essa diventa uno dei poli principali, sistema guida rivolto alla razionalizzazione del tessuto cittadino, luogo non più astratto, avulso dalla realtà sociale, ma legato alle condizioni del posto. Naturalmente per la scuola il problema non è solo urbanistico, di equilibrio formale e funzionale tra le parti della città, ma anche specifico, direttamente rivolto al sistema educativo. I due motivi di carattere urbanistico e pedagogico si fondono pertanto in un unico obiettivo: la scuola chiusa, estranea alla città, è sostituita da un sistema didatticamente attivo e stimolante e soprattutto più economico nel quadro generale dei servizi sociali, con la spinta, che proviene dall’interno della struttura scolastica, al rinnovamento del sistema educativo. La pedagogia moderna vuole infatti, sempre più, fondere in una unica operazione globale la funzione didattica e la funzione educativa ed esclude che esse siano patrimonio esclusivo della scuola e soprattutto che si svolgano interamente nell’aula. La radicalizzazione di queste teorie ha portato, addirittura,
anche alla formulazione di ipotesi, ormai abbandonate, che prevedevano la distruzione della scuola e dichiaravano l’inutilità degli edifici scolastici, in quanto solo nella comunità era possibile trovare la vera struttura educativa. Naturalmente la condivisione dei servizi con la città circostante è maggiore quanto più è elevato il grado scolastico. Per tale ragione i licei, soprattutto quelli
Per l’edilizia universitaria la condivisione dei servizi è ancora più semplice e diretta in quanto la destinazione dell’offerta non è esclusiva, ma aperta a un pubblico esterno. Per tale ragione gli ambienti di disimpegno devono essere ampi per accogliere e favorire quell’interscambio tra docenti, studenti ed esterni, indispensabile per lo sviluppo della cultura
di grandi dimensioni che si rifanno al modello della scuola secondaria superiore tedesca, possono offrire una serie di servizi aggiuntivi quali la piscina, l’auditorio, la palestra, la biblioteca. Queste strutture, se opportunamente compartimentate, favoriscono un uso differenziato e, soprattutto, rendono possibile un orario di apertura dilatato. Questa opportunità cresce ulteriormente se gli ambienti non sono di tipo specialistico, permettendo una sufficiente flessibilità di utilizzazione. L’esempio più evidente è rappresentato dalla palestra che può essere concepita in termini solo sportivi, costruita con gli spalti come un palazzetto dello sport, oppure, in termini meno agonistici e più sociali, offrirsi per assemblee o spettacoli tipo recite o square dance. Per l’edilizia universitaria la condivisione dei servizi è ancora più semplice e diretta in quanto la destinazione dell’offerta non è esclusiva, ma aperta a un pubblico esterno, che, in alcune occasioni, può anche essere prevalente. Per tale ragione gli ambienti di disimpegno devono essere ampi per accogliere un numero alto di frequentatori e favorire quell’interscambio tra docenti, studenti ed esterni, indispensabile per lo sviluppo della cultura e dei risultati scientifici.
Hubert Bennet, John Bancroft, Scuola secondaria superiore, Pimlico, Londra, 1970
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Educare all’Europa
Il ruolo della scuola nell’immaginario sociale di Francesca Cantù
Il 2014 si presenta come un anno cruciale per interrogarsi su quali siano o possano essere riconosciuti come dati costitutivi della cultura europea, base imprescindibile di quell’identità dell’Europa, che oggi rappresenta uno dei temi più accesi nel dibattito sull’avvenire dell’Unione Europea e sul valore Francesca Cantù della nuova cittadinanza generata dai processi d’integrazione. In quest’anno, infatti, ricorre il centenario della Prima Guerra Mondiale: una guerra terribile, dalla mai prima immaginata forza distruttiva, che segnò una crisi profonda nella coscienza europea, chiamata a dover fronteggiare dopo poco più di un trentennio anche una seconda guerra fratricida, estesa al mondo intero. In quelle drammatiche vicende sembrarono naufragare quegli ideali di civiltà che, pure tra mille contraddizioni, erano cresciuti insieme con la modernità del nostro continente.
In questo stesso anno ricorrono anche i venticinque anni dalla caduta del muro di Berlino con l’epocale riassorbimento dell’aspra frattura tra l’Europa Occidentale e l’Europa Orientale, che aveva caratterizzato l’epoca della guerra fredda e il confronto in armi tra due sistemi ideologici irriconciliabili. Oggi, con l’allargamento a 28 Stati membri si è accentuata la fisionomia multiculturale e multilingue dell’Unione europea, ma sono anche cresciute le paure di dover integrare popoli in condizioni di grande lontananza dal modello culturale europeo fortemente occidentale e occidentalizzato (ad es. la Turchia, che ripropone il problema della presenza dell’Islam entro i confini europei: 53 milioni di aderenti nell’Europa geografica, 17 milioni nell’Unione Europea).
Le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, appena avvenute nel mese di aprile, hanno rappresentato un segnale contraddittorio con l’affacciarsi nella rappresentanza istituzionale di un folto gruppo di euroscettici. L’attuale semestre di presidenza italiana del Consiglio d’Europa vuole autodefinirsi mediante il rilancio della visione intensa e partecipata dei Padri fondatori (1958), ma anche con l’esercizio di una difficile mediazione per rendere più flessibili quei vincoli di bilancio, che nell’attuale crisi socioeconomica tendono a soffocare la visione dell’Europa come patria comune.
Dagli Anni Novanta del secolo scorso la Commissione europea si è resa conto con intensità crescente della necessità improrogabile di elaborare una politica culturale comunitaria al servizio della costruzione di un’identità europea condivisa: quest’ultima, condizione imprescindibile per unire con un vincolo virtuoso tre aspetti ineludibili per la vita dell’UE quali la coesione sociale, l’integrazione politica ed economica, il sistema di governance (e la sua legittimazione). Molti critici sottolineano come deficit democratico del sistema l’assenza di un vero popolo europeo, che però allo stato attuale non può formarsi a prescindere da un forte progetto educativo, che conformi le giovani generazioni a una visione dell’Europa pluralistica e cosmopolita in grado di superare lo schema consolidato e univoco dello Stato-nazione e l’esasperazione del nazionalismo, che vede la nazione come luogo unico, esclusivo ed escludente di formazione ed espressione di una coscienza identitaria collettiva. Per queste ragioni, nell’ottica dei decisori politici di Bruxelles le Università sono diventate un asse portante delle politiche culturali comunitarie e l’ambizioso programma di finanziamento della ricerca scientifica europea, nei suoi aspetti di base e di trasferimento tecnologico, denominato Horizon 2020, vede in quelle stesse Università un luogo strategico per la salvaguardia e la promozione del patrimonio culturale europeo secondo canoni formativi e d’intervento profondamente innovativi e partecipati. Il
Molti critici sottolineano come deficit democratico del sistema l’assenza di un vero popolo europeo, che però allo stato attuale non può formarsi a prescindere da un forte progetto educativo, che conformi le giovani generazioni a una visione dell’Europa pluralistica e cosmopolita in grado di superare lo schema consolidato e univoco dello Stato-nazione
programma Erasmus, affermatosi ormai come lo strumento classico per promuovere e sostenere la mobilità degli studenti e dei docenti all’interno dei sistemi universitari europei diventando, così, lo strumento istituzionale più usato per lo scambio di esperienze formative e linguistiche, ha subito diverse trasformazioni per adattarsi al progredire dell’intensità e del peso della formazione interuniversitaria europea. Nella sua ultima versione, Erasmus Plus, è stato posto principalmente al servizio
Una carta d’Europa del 1700, nella quale si distingue fra “Moscovia Europa” e “Moscovia Asiatica” e fra “Turchia Europa” e “Turchia Asiatica”. Guillaume Delisle, L’Europe dressée sur les observations de Mrs de l’Académie royale des Sciences et quelques autres: et sur les mémoires les plus recens / par G. De L’Isle, A Paris, chéz l’auteur, 1700 (Bibliothèque nationale de France, Paris, Collection d’Anville; 00154)
della realizzazione di titoli di studio doppi o congiunti erogati da due o più Università, superando lo schema degli accordi bilaterali privilegiati per sostituirlo con reti di Università europee costituitesi in consorzio. Appartenendo alle Università in rete, gli studenti possono ormai compiere il loro percorso formativo in più sedi sperimentando nella realtà dei vari insegnamenti disciplinari e metodologici, delle diverse istituzioni universitarie e dei differenti paesi che cosa possa significare vivere in quella che, nello sviluppo del Processo di Bologna, è stata definita come l’European Higher Education Area (Dichiarazione di Budapest, 2010), il cui futuro sarà discusso nel prossimo mese di novembre in un’importante Conferenza internazionale (http://www.ehea.info).
Tra le discipline, che possono vantare una finalizzazione importante per la costruzione dell’Europa nel presente e nel prossimo futuro, accanto al diritto, all’economia, alle scienze politiche e sociali, allo studio delle relazioni internazionali, alle lingue straniere e alle materie scientifiche e tecnologiche, ce n’è sicuramente una, apparentemente priva di efficacia strumentale immediata, eppure centrale per la formazione di un’identità europea e per l’educazione ad un’Europa dialogante, tollerante, democratica
e comunitaria. È la storia d’Europa: disciplina complessa, ricchissima, illuminante, ma anche drammatica, contraddittoria, talvolta tragica, spesso problematica, ma irrinunciabile per conoscere da dove
Le Università sono diventate un asse portante delle politiche culturali comunitarie e l’ambizioso programma di finanziamento della ricerca scientifica europea, nei suoi aspetti di base e di trasferimento tecnologico, denominato Horizon 2020,vede nelle Università un luogo strategico per la salvaguardia e la promozione del patrimonio culturale europeo
viene, dove si trova, dove vorrà andare il nostro continente e, più specificatamente, l’Unione europea nella configurazione plurale dei suoi popoli, delle sue lingue, delle sue culture, della sua civiltà.
Sebbene dell’esistenza di un vasto territorio geografico, dai confini imprecisati e variabili, chiama-
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to Europa, contrapposto alle altre due parti del mondo, Asia e Libia (Africa) e spesso identificato con la Grecia (Erodoto), fossero già avvertiti gli autori dell’Antichità, l’idea d’Europa a cui oggi noi facciamo riferimento nasce e si afferma nell’età
Le storie d’Europa, che hanno variamente formulato queste problematiche e variamente vi hanno risposto, si sono susseguite molteplici nella storiografia del Novecento: da quella del belga Pirenne a quella del francese Febvre, a quella dell’italiano Chabod e dell’inglese Davies, per citarne soltanto alcune, che costituiscono oggi altrettanti classici punti di riferimento. Eppure sorprende il fatto che la storia dell’Europa (e dell’idea di Europa) sia entrata solo recentemente, con la sua denominazione specifica, fra le discipline storiche insegnate all’Università. La storia costituisce, in realtà, un fattore determinante dell’immaginario sociale di un popolo, di una nazione, di uno Stato; ma anche di una comunità transnazionale «Irgendwann fällt jede Mauer». Prima o poi ogni muro cade. Un graffito sul Muro di Berlino. L’immagine (o postnazionale) e fa parte di una galleria di foto scattate nel 1989, alla vigilia della caduta del Muro - di cui quest’anno ricorsovrastatuale quale re il 25° anniversario - dall’allora studente diciassettenne Frederick Ramm© quella costituita dai soggetti appartemoderna con la respublica litterarum degli umaninenti all’Unione europea, che proprio nel sentisti, la scienza politica di Machiavelli, la provocatomento di una storia e di una identità culturale conria scoperta dell’alterità radicale rappresentata dal divisa possono superare il problema di appartenere Nuovo Mondo (America). Nella concatenazione di a un’Europa tuttora frammentata politicamente e questi eventi e di queste realtà si articola la rispopriva di un vero demos (popolo). Problema cruciasta all’interrogativo così ben formulato dallo storile, quest’ultimo, perché senza demos non può esco italiano Federico Chabod: «Quando il nome Euserci democrazia. ropa cominciò a designare non solo un complesso geografico, sì anche un complesso storico; non soLa storia costituisce un fattore lo un determinato fattore fisico, sì anche un determinante fattore morale, politico, religioso, artistico determinante dell’immaginario sociale della vita dell’umanità? E quali furono le caratteridi un popolo, ma anche di una comunità stiche con cui l’Europa si discoprì, moralmente, ai transnazionale e sovrastatuale quale suoi figli; quali, cioè, i lineamenti morali che le furono attribuiti, come propri di essa e di essa sola?». quella costituita dai soggetti appartenenti Se l’italiano di Chabod può suonare, oggi un po’ all’Unione europea, che proprio desueto, non è superato il significato concreto e nel sentimento di una storia e di una simbolico dell’interrogativo da lui formulato nelle sue lezioni universitarie romane tra il 1946 e il identità culturale condivisa possono 1952, di fronte alla tragica memoria di milioni di superare il problema di appartenere morti, alle macerie e alle lacerazioni profonde laa un’Europa tuttora frammentata sciate dalla Seconda Guerra Mondiale. E non è né trascurabile né accessorio il fatto che la generaziopoliticamente e priva di un vero demos ne di coloro che oggi l’Europa Unita considera i suoi padri fondatori sia stata coinvolta e abbia vissuto la tragedia dello scontro ideologico tra il totaTra le diverse risposte che le istituzioni universitalitarismo nazi-fascista (da cui nacque anche la rie europee hanno dato al problema di educare Shoah) e le democrazie liberali. Educare all’Euroall’Europa mediante uno specifico percorso formapa significa ancora conservare la memoria di quetivo basato sulla costruzione di una nuova consapegli interrogativi e di quelle origini. volezza di appartenere a una storia e a una cultura
fondate su valori comuni e condivisi nonché di nuove competenze professionali spendibili in contesto europeo, sostenute da una cultura storica approfondita e sicura, ne vorrei mettere qui in evidenza una, che mi sembra di particolare interesse sia in generale sia per l’Università Roma Tre. Essa consiste nell’attivazione di una Laurea Magistrale congiunta in Storia europea (Joint Master in European Studies), regolata da un Consortium Agreement nato in seno a UNICA (l’Unione delle Università delle Capitali Europee), che riunisce in una rete formativa sette Università appartenenti a cinque capitali: Vienna (Università di Vienna), Berlino (Freie Universität e Humboldt-Universität), Londra (King’s College), Dublino (University College), Roma (Tor Vergata e Roma Tre), a cui si aggiungono in qualità di membri associati l’Università di Tallin e l’Università di Paris VII-Diderot. Il programma degli studi si fonda sull’analisi comparata della storia europea e prevede una formazione avanzata sia dal punto di vista della didattica come della ricerca in grado di dare a studenti qualificati, selezionati secondo le regole interne di ciascuna Università, competenze analitiche e interpretative rispetto alla storia economica, sociale, culturale, intellettuale, religiosa dell’Europa. Sono privilegiate le tematiche della storia della violenza e dei conflitti, della storia coloniale e post-coloniale, della storia della costruzione dello Stato e della nazione, delle relazioni internazionali e transculturali, delle migrazioni. Gli studenti vengono formati all’uso critico, teorico e metodologico, del comparativismo storico, all’utilizzazione delle fonti primarie e alla pratica delle lingue straniere; devono acquisire la capacità d’individuare i temi-chiave del dibattito storiografico e saper presentare le proprie conclusioni e i propri approfondimenti con
originalità e rigore; devono, infine, acquisire le conoscenze necessarie, gli strumenti scientifici e i metodi appropriati per sviluppare individualmente, implementare e valutare i modi efficaci di accostare e risolvere le questioni scientifiche. Nel lavoro di tesi devono dimostrare di aver raggiunto cono-
Roma Tre ha attivato una Laurea Magistrale congiunta in Storia europea (Joint Master in European Studies), che riunisce sette Università appartenenti a cinque capitali: Vienna (Università di Vienna), Berlino (Freie Universität e HumboldtUniversität), Londra (King’s College), Dublino (University College), Roma (Tor Vergata e Roma Tre), a cui si aggiungono in qualità di membri associati l’Università di Tallin e l’Università di Paris VII-Diderot
scenze approfondite, comprensione critica e autorevole capacità d’interpretare i differenti aspetti della storia europea e di condurre in proprio ricerche originali e fondate analisi e riflessioni critiche. Gli studenti devono conseguire nelle Università partner da 30 a 60 crediti dei 120 necessari per ottenere il titolo di studio italiano e quello delle Università consorziate in cui hanno svolto parte della loro formazione. A Roma Tre la Laurea Magistrale in Storia europea è incardinata nella Laurea Magistrale in Storia e società, presso il Dipartimento di Studi Umanistici. L’anno accademico 20132014 è stato quello di prima attivazione e ha visto venire a frequentare i nostri corsi due studenti della HumboldtUniversität di Berlino, la più prestigiosa Università privata della Germania, con un ottimo risultato personale. Posta nelle mani di giovani motivati l’Europa continua ad essere un’affascinante avventura.
Horizon 2020 è un ambizioso programma di finanziamento della ricerca scientifica europea
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La vocazione internazionale dell’università
Lo spazio europeo dell’istruzione superiore di Vincenzo Mannino
La più antica università del mondo, lo Studium di Bologna, è nata come organizzazione libera e laica di studenti che provenivano da tutta Europa. Essi, dopo avere completato gli studi, ritornavano nel Paese di origine ed esprimevano negli studi successivi, nell’attività professionale, quelle comuni conoscenze e quelle uniVincenzo Mannino versali esigenze che avevano imparato a riconoscere, rispettare ed amare attraverso il confronto con i loro colleghi e con i docenti. Dominava l’aspirazione a un sapere senza confini e la dimensione internazionale qualificava gli studi: nella loro proiezione strettamente culturale e in quella professionale. Ciò vale anche oggi, perché la globalizzazione si fonda su una rete di interrelazioni sovranazionali e l’università ha il compito di dotare gli studenti delle conoscenze - di base e specialistiche - indispensabili per essere cittadini del mondo. Deve produrre e trasmettere una conoscenza solida, ma, nello stesso tempo, flessibile e idonea a essere spesa senza confini. L’università ha avvertito in Europa queste esigenze e nella parte conclusiva del secondo millennio ha saputo rilanciare la propria originaria vocazione didattica a dimensione internazionale, dandole voce con la Dichiarazione di Bologna del 1999, quando 29 ministri europei dell’istruzione hanno assunto l’impegno solenne di realizzare lo “spazio europeo dell’istruzione superiore”. Non è stata una scelta estemporanea, ma la conclusione coerente di una serie di precedenti decisioni: a cominciare dalla redazione della Magna Charta Universitatum del 1988, in occasione del 900° anniversario dalla fondazione dell’Università di Bologna. Con essa si era enunciata la volontà di incoraggiare il rafforzamento dei legami tra le istituzioni universitarie europee e contemporaneamente la loro apertura al mondo extra-europeo. La Magna Charta aveva chiaramente indicato nell’istruzione superiore l’elemento di più forte impatto per l’avvenire dell’umanità, evidenziando quali valori fondamentali dell’insegnamento universitario, l’autonomia, la stretta e imprescindibile connessione della didattica con la ricerca, la libertà dei docenti e la trasmissione di una conoscenza priva di limiti geografici e/o politici. La Dichiarazione di Bologna, però, si è posta in linea di continuità anche con quanto si era affermato nel precedente di Lisbona (1997): con l’esigenza di
pervenire in Europa al riconoscimento mutuo dei titoli di studio, alla loro armonizzazione e spendibilità in un mercato del lavoro internazionale, secondo un cliché sviluppato dalla successiva Dichiarazione della Sorbona (1998), con la decisione di omogeneizzare gli studi universitari in due cicli: uno di primo e uno di secondo livello, utilizzando i crediti secondo il sistema ECTS (European Credit Transfer and Accumulation System), articolando gli studi in semestri, creando programmi di studio diversificati e multidisciplinari rispetto a quelli più tradizionali, favorendo l’approfondimento delle conoscenze linguistiche e delle nuove tecnologie informatiche. Sono questi i presupposti che hanno prodotto in Europa lo spazio europeo dell’istruzione superiore, destinato ad assumere sempre maggiore evidenza già all’inizio del terzo millennio: grazie alla consolidazione del Programma Erasmus e alla fissazione di nuovi e ambiziosi obiettivi in una serie di incontri susseguitisi a cadenza biennale. Ne è derivato il riconoscimento, a Praga (2001), dell’istruzione superiore come bene pubblico e del diritto all’apprendi-
La globalizzazione si fonda su una rete di interrelazioni sovranazionali e l’università ha il compito di dotare gli studenti delle conoscenze - di base e specialistiche - indispensabili per essere cittadini del mondo. Deve produrre e trasmettere una conoscenza solida, ma, nello stesso tempo, flessibile e idonea a essere spesa senza confini
mento permanente (secondo una prospettiva fatta propria dal Parlamento e dal Consiglio Europeo nel 2006 con la creazione del Life-Long Learning Programme); la riaffermazione, a Berlino (2003), di un indissolubile collegamento fra didattica di alto livello e ricerca, la configurazione stabile del Dottorato come terzo ciclo dei curricula didattici universitari; l’invito a sviluppare programmi di sostegno per i meno abbienti. La vocazione internazionale dell’università viene ormai percepita come un ineliminabile pilastro della sua funzione didattica e varie evidenze lo confermano in modo inequivocabile. Innanzi tutto, la realizzazione di una convergenza dei cicli di studio e dei titoli. Il primo ciclo è indicato con il nome bachelor e ha una durata triennale, mentre il secondo è denominato master e ha una durata biennale. Il terzo ciclo coincide con il Dottora-
to. Il cosiddetto 3+2 consente l’inserimento nel classifiche generali delle migliori università del mondo del lavoro già alla fine del primo ciclo di stumondo. In queste classifiche la valutazione della didi. Il terzo ciclo ha lo scopo di accrescere la compedattica nella sua proiezione internazionale ha un titività dei singoli e dei Paesi nel mercato globale. ruolo tutt’altro che secondario. Perciò, anche se In secondo luogo, l’introduzione generalizzata del molto si potrebbe discutere sul ruolo e il modus sistema dei crediti, basato sul sistema ECTS. Esso operandi delle agenzie, non si può negare che esse consente la descrizione dei programmi di studio: nella sostanza, sulla valutazione del carico di lavoro richiesto allo studente per raggiungere gli obiettivi di un corso di studi. Il sistema ECTS è facilmente esportabile. Si rivela uno strumento assai incisivo per l’abbattimento delle barriere nazionali e il riconoscimento mutuo dei titoli. Facilita non poco la mobilità degli studenti, con il riconoscimento degli studi compiuti in università diverse da quelle di origine. Accanto al Programma Erasmus, l’internazionalizzazione della didattica ha trovato una formidabile spinta nel Programma Leonardo da Vinci, allo scopo di rendere possibile un primo avviamento alla professione in un contesto internazionale, e nel Programma Tempus, finalizzato a sostenere lo scambio di studenti tra i paesi UE e quelli confinanti. La dimensione internazionale della didattica è stata inoltre favorita dalla diffusione degli accordi inter-universitari per il rilascio di titoli congiunti, doppi e multipli, ma anche dalla pratica della L’ingresso di alcuni studenti nella Natio Germanica Bononiae, il collegio di stucertificazione della qualità degli studi denti tedeschi a Bologna; miniatura del 1497 nei vari Paesi allo scopo di monitorare la qualità della didattica a tutti i suoi livelli, come essenziale strumento in mano alle universiforniscono una fotografia di cui è utile tenere conto. tà per conquistarsi una buona reputazione. QueCertamente nelle scelte in materia di didattica: tanto st’ultima, infatti, rappresenta un elemento decisivo più che l’apertura internazionale della didattica avrà nella competitività globale. La reputazione è la vera nei prossimi anni un peso crescente nella distribu“moneta” dell’istruzione superiore e, perciò, neceszione delle risorse pubbliche, come dimostra il dosita anche di certificazioni esterne ed oggettive. cumento di programmazione triennale 2013-2015 Roma Tre ha aderito in modo convinto al processo del MIUR, dove si prospetta l’attribuzione di un storico fin qui sintetizzato. Ha accettato la sfida 30% del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) dell’internazionalizzazione della propria offerta didelle Università al grado di internazionalizzazione dattica, proponendo diverse attività di counseling, dei singoli atenei italiani. di tutoring, di ri-orientamento, in una dimensione non più solo domestica. Ha introdotto forme di diLa vocazione internazionale dattica-tirocinio attivo inusuali per l’Italia, come dell’università viene ormai percepita quelle della clinic of law. Offre un’ampia rosa di corsi in lingua inglese e in altre lingue, distribuiti come un ineliminabile pilastro della lungo l’asse europeo Laurea triennale-Laurea Magisua funzione didattica e varie evidenze strale-Dottorato, ma anche interi corsi e curricula lo confermano in modo inequivocabile volti al rilascio di titoli congiunti, doppi e multipli. Tutti i corsi si caratterizzano per l’adozione del sistema ECTS e gli studi si svolgono stabilmente in Dobbiamo di conseguenza chiederci se e come l’insemestri, secondo l’organizzazione più diffusa dei ternazionalizzazione della didattica incide sulle percalendari accademici delle università di altri paesi, formances di Roma Tre muovendo da alcuni dati di per favorire ulteriormente gli scambi degli studenti. più immediata percezione. Nonostante questo sforzo, confortato nella sua posiÈ innegabile che un elemento di criticità sia rappretività dal crescente appeal dell’Ateneo e dal recente sentato dalla misura decrescente delle risorse pubingresso nella classifica Times Higher Education bliche destinate in questi ultimi anni al sistema uniche valuta le 100 migliori università del mondo con versitario italiano. Questo insufficiente impegno fimeno di 50 anni d’attività, Roma Tre - come del renanziario ha prodotto esiti nefasti, ma ha avuto efsto la netta maggioranza delle università italiane fetti indubbiamente negativi per un ateneo giovane non compare o ha un posto solo residuale nelle come Roma Tre, che avrebbe avuto bisogno di in-
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vestimenti più adeguati a stimolarne la crescita: anche rispetto alle politiche per l’internazionalizzazione della didattica. Bisogna sperare in un’inversione di tendenza a livello nazionale. Tuttavia, non si può restare fermi. Bisogna avere coraggio e compiere uno sforzo di fantasia, realizzando alcuni interventi lungo l’asse rappresentato dalla capacità di coniugare il rafforzamento della mobilità docente e studentesca internazionale: sia in entrata, che in uscita. In questa prospettiva, alcuni interventi si prefigurano particolarmente promettenti: la stipula di convenzioni che consentano il superamento dei diffusi punti critici nell’accoglienza (riconoscimento del titolo di studio conseguito fuori dell’Italia, permessi di soggiorno, assicurazione-assistenza sanitaria, alloggio etc.); la creazione presso tutti i Dipartimenti, di una stabile e diffusa struttura di supporto ad hoc, affidandone la gestione a studenti con le adeguate conoscenze linguistiche e delle problematiche studentesche, con compiti di accoglienza, da ricompensare con l’attribuzione di crediti formativi; favorire l’iscrizione di studenti stranieri ai ‘corsi singoli’; l’aumento consistente degli insegnamenti in lingua inglese e l’attivazione di interi corsi di studio in lingua inglese, aperti a studenti italiani e di altri paesi; il potenziamento dell’offerta di corsi da parte del Centro linguistico di Ateneo; l’offerta (anche a seguito di accordi con le strutture di governo territoriali) alle comunità di immigrati a Roma, spesso in possesso di titoli accademici non immediatamente riconoscibili, dell’opportunità di iscri-
versi a Roma Tre per ottenere un titolo accademico italiano; il forte stimolo alla partecipazione di Roma Tre alle azioni previste dal programma Erasmus+, destinato ad avare un ruolo chiave nei programmi europei per l’istruzione; l’elaborazione di un regolamento generale di mobilità-studenti Era-
La dimensione internazionale della didattica è stata inoltre favorita dalla diffusione degli accordi inter-universitari per il rilascio di titoli congiunti, doppi e multipli, ma anche dalla pratica della certificazione della qualità degli studi nei vari Paesi allo scopo di monitorare la qualità della didattica a tutti i livelli, come essenziale strumento in mano alle università per conquistarsi una ‘buona reputazione’
smus; il coinvolgimento delle università partner con cui più intensi sono gli scambi in termini di crediti riconosciuti agli studenti in mobilità, per la definizione di ‘pacchetti di crediti’ collegati a curricula precostituiti e riconducibili a diversi semestri; l’estensione del numero dei percorsi didattici volti al rilascio di titoli congiunti, doppi e multipli, anche sfruttando le opportunità aperte dal recente bando Erasmus+, dai bandi dell’Università italofrancese, etc.; l’attrazione di docenti-ricercatori di alto e riconosciuto livello internazionale, che operino in strutture all’estero, anche offrendo un certo numero di posizioni dedicate di visiting professor come volano per l’avvio di nuovi rapporti di collaborazione didattica e scientifica con istituzioni ai vertici del ranking internazionale; l’ampliamento della rete di collaborazioni internazionali con quei paesi emergenti le cui politiche si caratterizzino per il sostegno ai propri studenti che vogliano iniziare o completare il loro percorso di studi in paesi con più consolidate e qualificate tradizioni come l’Italia; l’organizzazione, in collaborazione con le Camere di Commercio, con il Ministero delle Attività produttive e con il Ministero degli Affari esteri, di Master di primo e secondo livello per dotare delle necessarie conoscenze gli studenti che vogliano avviare iniziative imprenditoriali in Italia e all’estero. Molto altro, ovviamente, si potrà e dovrà progettare e realizzare. Una cosa, comunque, deve essere chiara. L’Europa ha fissato l’obiettivo che almeno il 20% dei laureati dovrà avere avuto nel 2020 un’esperienza di mobilità all’estero per studio o per formazione (Lovanio, 2009). La strategia della mobilità per un migliore apprendimento si consoliderà come uno dei pilastri dell’internazionalizzazione di tutta l’istruzione superiore (Bucarest 2012). Roma Tre deve dotarsi di tutti gli strumenti per rispondere a questa ‘sfida’ epocale.
Una crescita intelligente, sostenibile e solidale Il rilievo strategico dell’orientamento di Massimo Margottini
L’orientamento universitario, nella sua articolazione di orientamento in ingresso, in itinere e in uscita, ha assunto negli ultimi decenni un ruolo sempre più importante all’interno delle politiche di sviluppo degli Atenei. A fondamento del nuovo quadro d’impegni si può collocare il disegno strategico dell’EuMassimo Margottini ropa e dei suoi stati membri di promuovere uno sviluppo economico e sociale centrato sulla “società della conoscenza” che si pone gli obiettivi di «promuovere una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, trovare il modo di creare nuovi posti di lavoro e offrire un orientamento alle nostre società» (Manuel Barroso, 2010, Europa2020). E questo implica, in primo luogo, adeguati livelli d’istruzione e formazione della popolazione in una prospettiva di life long learning, un mercato del lavoro in grado di valorizzare pienamente le risorse umane, una produzione in grado di competere sui mercati internazionali nel rispetto delle persone e dell’ambiente, un’equa distribuzione della ricchezza. In tale direzione dapprima la cosiddetta Strategia di Lisbona del 2000 e quindi, a distanza di un decennio, la nuova strategia Europa2020 propone un articolato quadro di obiettivi per promuovere una crescita intelligente, sostenibile e solidale. In primo piano, l’innalzamento dei livelli d’istruzione secondaria e terziaria dei giovani con un significativo incremento dei tassi di occupazione e riduzione del pernicioso fenomeno del drop out e al tempo stesso una quota maggiore di adulti lavoratori in formazione. Com’è noto, il nostro paese, proprio su questi indicatori, ce lo ricorda annualmente il rapporto Education at a glance, si colloca in fondo alle classifiche dei paesi OCSE. Ciò che colpisce maggiormente è il basso numero di laureati e il costante calo d’immatricolazioni universitarie degli ultimi anni non fa che acuire il dato. E neppure sembrano convincere i giovani, più di tanto, quei messaggi rassicuranti che mostrano come, nel medio e lungo periodo, a un maggior livello di qualificazione corrisponda maggiore probabilità di occupazione e miglior reddito (Esiti occupazionali dei laureati, AlmaLaurea, 2014). Altri dati sembrano colpire di più: il numero crescente di giovani laureati e dottori di ricerca che lascia il nostro Paese per cercare migliori opportunità. Nel 2013 il 31% dei nostri laureati in ingegneria ha trovato lavoro all’estero. E, com’è noto, la
laurea in Ingegneria è quella che registra da tempo tra i più alti livelli di occupabilità. Il fenomeno non s’inquadra neppure, purtroppo, in un virtuoso esempio di mobilità professionale perché deve essere letto insieme al dato che mostra come, nel nostro Paese, solo il 3,3% degli occupati lavora nei settori più innovativi, percentuale sotto la media europea e, ancor più preoccupante, arretra annualmente di uno 0,3% a fronte di un incremento in Europa dello 0,9. Il fenomeno si presenta naturalmente molto complesso perché da una parte richiama l’educational mismatch e lo skill mismatch ossia un disallineamento tra domanda e offerta che riguarda sia i titoli di studio sia le competenze professionali e dall’altro la natura di un sistema produttivo che non sembra in grado di crescere nella direzione richiesta per competere sugli attuali mercati.
L’attuale mondo del lavoro sembra caratterizzato da attività professionali sempre meno definite e prevedibili e le transizioni lavorative risultano essere sempre più frequenti e difficili. Nell’era dell’informazione è sempre più richiesta l’iniziativa personale e l’adattabilità professionale, ovvero quell’insieme complesso di atteggiamenti ed abilità che riguardano l’ottimismo, la propensione a pensare e a pianificare il proprio futuro professionale
Quindi, se è vero che spesso il mondo del lavoro lamenta una congenita difficoltà del nostro sistema formativo a generare livelli di qualificazione professionale direttamente spendibili sul mercato del lavoro, è altrettanto vero che il nostro sistema produttivo sembra incapace di valorizzare, in una prospettiva di crescita e innovazione, il potenziale di risorse umane di cui disporrebbe. Potenziale che, come si diceva sopra, trova invece collocazione altrove, con un bilancio nettamente in negativo tra “intelligenza” esportata e quella importata. Ne consegue che, nell’ultimo decennio, nelle nostre imprese, si è andata costantemente riducendo la percentuale di nuovi assunti con un elevato livello di specializzazione. «Ciò può essere dovuto alla scarsa propensione all’innovazione di cui soffrono le aziende italiane e al basso livello d’istruzione degli imprenditori italiani. Infatti, la propensione ad assumere laureati cresce significativamente in relazione
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alla dimensione delle imprese e al loro grado di internazionalizzazione e innovatività» (Giovanni Solimine, Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia, Bari, Laterza, 2014). Quindi quando parliamo di rilievo strategico dell’orientamento dobbiamo intenderne un duplice ruolo: quello di contribuire alla armonizzazione dei rapporti tra sistemi formativi e mondo del lavoro e quello di promuovere azioni e servizi di supporto al progetto professionale e personale degli individui. Non c’è dubbio infatti che di fronte alle caratteristiche mutevoli del mercato del lavoro, alla esigenza di flessibilità che produce talvolta diffusi fenomeni di precarizzazione, sia necessario rispondere sia attraverso adeguate forme di tutela sia rafforzando nelle persone la capacità di interpretare il cambiamento come opportunità piuttosto che subirne gli effetti. Anche sul piano della ricerca diversi sono stati gli studiosi che si sono occupati di elaborare ed analizzare nuovi modelli di orientamento che potessero rispondere meglio ai nuovi contesti professionali. Di particolare interesse risulta il costrutto della career adaptability di cui Marc Savickas è tra i principali autori. Savickas definisce l’adattabilità professionale come «la propensione ad affrontare in modo adeguato i compiti evolutivi per prepararsi e partecipare al ruolo lavorativo e ad adattarsi alle richieste impreviste dovute ai cambiamenti del mondo del lavoro e delle condizioni lavorative. Riguarda la gestione dei compiti professionali e delle transizioni di ruolo che
Secondo Savickas l’adattabilità professionale si realizza sviluppando le seguenti dimensioni: la preoccupazione verso il futuro, con un atteggiamento orientato ed ottimista, il controllo professionale, la curiosità professionale, la fiducia nelle proprie capacità, ovvero mostrando atteggiamenti di apertura nei confronti degli altri, condividendo e agendo per il bene proprio e altrui
gli individui si trovano ad affrontare e quindi le strategie di coping che utilizzano per fronteggiare questi cambiamenti, ovvero il processo attraverso il quale gli individui costruiscono attivamente la loro vita professionale affrontando i cambiamenti e tenendo conto del contesto sociale in cui sono inseriti». L’attuale mondo del lavoro sembra caratterizzato da attività professionali sempre meno definite e prevedibili e le transizioni lavorative risultano essere sempre più frequenti e difficili. Nell’era dell’informazione, seguendo Savickas, è sempre più richiesta l’iniziativa personale e l’adattabilità professionale,
ovvero quell’insieme complesso di atteggiamenti ed abilità che riguardano l’ottimismo, la propensione a pensare e a pianificare il proprio futuro professionale, la tendenza ad adattarsi alle situazioni e alle richieste impreviste, la curiosità e l’esplorazione professionale, unite ad un senso di autoefficacia nei confronti delle proprie capacità e possibilità. Secondo Savickas l’adattabilità professionale si realizza sviluppando le seguenti dimensioni: la preoccupazione verso il futuro, con un atteggiamento orientato ed ottimista verso il futuro cercando di pianificarlo mettendo insieme passato, presente e futuro; il controllo professionale, ovvero la convinzione a pensare il futuro come controllabile con impegno alla perseveranza; la curiosità professionale, ossia assumendo un atteggiamento proattivo nei confronti dell’ambiente e sviluppando comportamenti adattivi; la fiducia nelle proprie capacità, ovvero la propensione a nutrire fiducia in se stessi e nelle proprie capacità per affrontare sfide e superare gli ostacoli; la cooperazione, ovvero mostrando atteggiamenti di apertura nei confronti degli altri, condividendo e agendo per il bene proprio e altrui. Un individuo adattabile è un individuo in grado di modificare una serie di elementi personali – conoscenze, abilità, disposizioni, comportamenti – per venire incontro alle richieste della situazione in cui è inserito. La capacità di adattarsi ad una situazione in via di cambiamento, come lo sono la società ed il mondo del lavoro odierni, è determinata principalmente da differenze individuali nella predisposizione ad assumere un comportamento attivo rispetto alle situazioni che si vivono. Elevati livelli di adattabilità sono associati ad una personalità di tipo proattivo, ad elevati livelli di locus of control interno, di ottimismo, di persistenza, di capacità di coping e problem solving e di capacità di iniziativa, apertura mentale e ricerca di opportunità. Le teorie e le pratiche dell’orientamento si muovono proprio nella direzione di fornire in un processo continuo, che parte sin dalla scuola, occasioni per conseguire quelle competenze orientative necessarie a progettare il proprio futuro dandosi obiettivi realistici, monitorare e sostenere anche sul piano motivazionale il processo che porta al conseguimento degli obiettivi fissati, compiere scelte consapevoli nei momenti di snodo della propria vita personale e professionale. Sempre su questa strada, il Consiglio europeo, con due importanti risoluzioni (2004, 2008), ha rafforzato la concezione dell’orientamento in prospettiva life long learning. Con tale impostazione si rimarca il rilievo strategico dell’orientamento sia in funzione individuale, per favorire lo sviluppo di atteggiamenti proattivi nella costruzione dei percorsi formativi e professionali personali, promuovere l’inclusione sociale, la parità di genere e la cittadinanza attiva, sia a livello sociale con una molteplicità di obiettivi da quello più generale di contribuire alla
realizzazione dei piani dell’Unione europea in materia di sviluppo economico a quello più specifico di migliorare l’efficienza degli investimenti nella istruzione e formazione professionale potenziando lo sviluppo del capitale umano e della forza lavoro, l’efficienza del mercato del lavoro e della mobilità professionale e geografica. Al tempo stesso però, si deve constatare che negli stati membri la tradizione e lo stato attuale delle concezioni, delle pratiche e dei servizi riferibili all’orientamento è molto eterogenea e con diverso grado di efficacia. Ed è proprio in ragione del rilievo strategico che all’orientamento è attribuito che si rende necessario sviluppare politiche integrate e di rete intorno a quattro principali linee di azione: - favorire l’acquisizione della capacità di orientamento nell’arco della vita, azione che sottolinea il rilievo dell’orientamento nei percorsi formativi da quelli scolastici a quelli di inserimento professionale e che implica da un lato il tema della formazione specifica di insegnanti e operatori dei servizi di orientamento e dall’altro il rilievo di metodologie didattiche in grado di promuovere lo sviluppo di competenze chiave (in particolare: Imparare ad imparare; Competenze sociali e civiche; Spirito di iniziativa e imprenditorialità; Consapevolezza ed espressione culturale) che risultano ancora piuttosto trascurate all’interno della scuola, dell’università e più in generale nei percorsi di istruzione formale; - facilitare l’accesso di tutti i cittadini ai servizi di orientamento, azione che si propone di migliorare, da un lato, la visibilità e conoscenza dei servizi attraverso adeguate forme di informazione e comunicazione e, dall’altra, rendere accessibili gli stessi servizi alle categorie svantaggiate e con bisogni specifici; - rafforzare la garanzia di qualità dei servizi di orientamento, qualità da perseguire almeno su tre piani: quello dell’obiettività dell’informazione e della consulenza sui percorsi professionali in aderenza ai differenti bisogni degli utenti, quello della qualificazione del personale impegnato nei servizi e quello dell’individuazione di standard qualitativi sui quali definire obiettivi, risultati da perseguire, metodi e processi; - incoraggiare il coordinamento e la cooperazione dei vari soggetti a livello nazionale, regionale e locale, azione che sottolinea la necessità di sviluppare politiche integrate e di rete sullo sviluppo dei servizi di orientamento ai diversi livelli: scolastico, universitario, professionale, rivolto a fasce deboli o soggetti con bisogni particolari, ognuno dei quali ha dato origine, nel passato, ad un proprio sistema differenziato. Tale integrazione richiede lo sviluppo, a livello nazionale e locale, di efficaci forme di coordinamento tra i diversi attori coinvolti. E proprio in questa direzione devono essere interpretate le Linee guida del sistema nazionale sull’orientamento permanente che la Confe-
renza unificata Stato e Regioni ha approvato nel dicembre 2013 cui sono seguite, a breve distanza di tempo, quelle del MIUR che ne contestualizzano le azioni all’interno del sistema scolastico e universitario. Gli impegni per l’orientamento, in ambito nazionale, si concentrano su tre obiettivi fondamentali:
Un individuo adattabile è un individuo in grado di modificare una serie di elementi personali – conoscenze, abilità, disposizioni, comportamenti – per venire incontro alle richieste della situazione in cui è inserito
contrastare il disagio formativo, favorire e sostenere l’occupabilità, promuovere l’inclusione sociale. Ma, l’aspetto più rilevante è dato dalla continua sottolineatura di un impegno integrato e condiviso dei diversi attori per realizzare un modello sistemico ed evitare sovrapposizioni se non proprio vere e proprie contraddizioni all’interno del sistema stesso. Questo implica, naturalmente, una governance multilivello (territoriale e nazionale) in cui «ciascun soggetto si riconosce partner corresponsabile di una strategia che, coinvolgendo sia il livello politico istituzionale sia quello tecnico operativo, valorizzi la programmazione e la realizzazione di interventi di orientamento integrati, continui e rispondenti ai bisogni della persona». Le Università sono chiamate a dare un rilevante contributo proprio in quanto soggetti d’intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro proprio a quei livelli richiesti per consentire un salto di qualità da parte nostro sistema produttivo. Nei prossimi mesi, a cominciare dall’attuazione del Piano Garanzia Giovani, anche le Università con il Mondo del lavoro, Regioni, autonomie locali e parti sociali saranno chiamate a dare consistenza ed efficacia all’applicazione del Piano attuativo, che prevede l’impegno di ingenti risorse economiche (1,5 miliardi di euro) proprio per promuovere azioni efficaci a sostegno dell’occupazione favorendo una corretta informazione, nuove opportunità di formazione professionale, stage e tirocini, l’apprendistato e supporto all’imprenditorialità, per i giovani tra i 15 e 29 anni. Per dare consistenza nel tempo alle opportunità aperte dal Piano garanzia Giovani è necessario che le azioni di orientamento, poste alla base del programma attuativo, siano improntate a promuovere proprio quei comportamenti proattivi e di fiducia che sono alla base di una buona adattabilità professionale, senza però dimenticare che alla flessibilità si devono associare politiche capaci di dare sicurezza, proprio nella direzione di quella flexicurity così cara alle politiche europee per il lavoro.
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L’autoeducazione del “potenziale umano”
L’attualità e l’internazionalità del modello Montessori di Clara Tornar
Maria Montessori rappresenta uno dei rari casi di donne che, nel panorama scientifico di fine Ottocento e inizio Novecento, raggiunsero una notorietà a livello internazionale. Prima donna in Italia a svolgere la professione di medico, prima a ottenere la libera docenza in Antropologia pedagogica, combattente al Clara Tornar servizio di cause difficili e nobili, ha costruito una pedagogia che, fin dal suo apparire all’inizio del nuovo secolo, si è straordinariamente diffusa in paesi e in culture anche lontane da quella europea. Frequentando come assistente volontaria l’Istituto di psichiatria della Regia Università di Roma, la giovane dottoressa aveva condiviso fin dai primi anni di attività professionale il clima di fiducia nel potere sociale della scienza, che in quegli anni di fine secolo contraddistingueva l’approccio del Positivismo ancora vivo nelle Facoltà scientifiche nel nostro paese. Proprio attraverso il contatto con quell’ambiente particolarmente prestigioso e aperto alle nuove frontiere della ricerca inizieranno a prendere corpo le sue indagini per lo sviluppo di un “metodo medico-pedagogico” volto al recupero dei bambini frenastenici, oggetto dei suoi primi interessi in campo educativo. Due anni di esperimenti, successivamente estesi ai bambini “normodotati”, le consentiranno di delinea-
re le basi teoriche ed operative di un modello educativo che si propone di fornire risposte specifiche ai bisogni psicologici dell’infanzia. Ma di una “nuova” infanzia, all’interno della quale il bambino è visto come soggetto protagonista del proprio sviluppo e dotato di grandi potenzialità creative. Il Metodo della Pedagogia Scientifica, pubblicato nel 1909, viene conosciuto nel giro di un decennio
Le principali premesse del modello pedagogico di Maria Montessori sono la fiducia riposta nelle potenzialità d’apprendimento dell’infanzia e l’individuazione di criteri scientifici per l’organizzazione di un ambiente d’apprendimento appropriato a rispondere ai bisogni espressi nelle diverse fasi dello sviluppo
pressoché in tutto il mondo: nel 1912 é tradotto in inglese e pubblicato negli Stati Uniti (con introduzione del prof. H. W. Holmes, della Harvard University); dello stesso anno è la traduzione francese (pubblicata sotto gli auspici dell’Istituto J. J. Rousseau e con la prefazione di P. Bovet); del 1913 le edizioni tedesca, polacca e russa; e tra il 1914 e 1917 escono le edizioni irlandese (con presentazione curata da due studiosi del Trinity College di Dublino), spagnola (con presentazione di J. Palau Vera), giapponese, romena, olandese e danese. È l’inizio di un vasto movimento d’interesse internazionale che, seppure con alterne vicende (specie per quel che riguarda il nostro paese) non si è spento nel corso degli anni: secondo una stima complessiva, sono circa 22.000 le scuole Montessori esistenti nel mondo, ed oltre 110 i paesi dei cinque continenti nei quali esse hanno trovato diffusione. Per comprendere l’attualità del modello pedagogico di Maria Montessori dobbiamo innanzitutto considerarne le principali premesse: la fiducia riposta nelle potenzialità
d’apprendimento dell’infanzia e l’individuazione di criteri scientifici per l’organizzazione di un ambiente d’apprendimento appropriato a rispondere ai bisogni espressi nelle diverse fasi dello sviluppo. Il bambino che si manifesta all’osservazione della pedagogista è un soggetto attivo, dotato di una potente spinta motivazionale che gli consente - se adeguatamente sostenuto dall’ambiente con cui interagisce - di apprendere con impegno ed entusiasmo difficilmente uguagliabili dall’adulto. Sotto tale aspetto, Montessori ha offerto un importante contributo alla definizione di un nuovo profilo psicologico del bambino, ricco di interessanti elementi precursori rispetto a consapevolezze soltanto successivamente acquisite dalla ricerca in campo psicologico. Ad esempio, che la mente del bambino sia completamente diversa da quella dell’adulto, che lo sviluppo si evolva secondo una serie di stadi corrispondenti a cambiamenti significativi, che esso sia attraversato da particolari “periodi sensitivi” nel corso dei quali la mente appare particolarmente disponibile a certi tipi di acquisizioni. È sulla base di questa concezione dell’infanzia che la studiosa costruisce la propria denuncia nei confronti di quegli interventi nei quali l’adulto si sostituisce al bambino sottraendo spazio alla sua attività. Considerato non più un semplice recettore di stimoli o un passivo esecutore di attività preordinate, ma un attivo costruttore della propria conoscenza, quest’ultimo diviene il vero protagonista del processo educativo. Sul piano pedagogico, ciò corrisponde alla offerta di strumenti adatti a favorire la costruzione delle conoscenze, piuttosto che nell’intervenire indicando direttamente la strada da percorrere o le modalità con cui gli ostacoli incontrati possono essere superati. Scopo dell’insegnamento, scriverà in l’Autoeducazione, «non dovrà essere quello di far imparare le cose al bambino», bensì quello di «mantenere sempre viva quella luce in lui che si chiama intelligenza».
Il bambino che si manifesta all’osservazione della pedagogista è un soggetto attivo, dotato di una potente spinta motivazionale che gli consente - se adeguatamente sostenuto dall’ambiente con cui interagisce - di apprendere con impegno ed entusiasmo difficilmente uguagliabili dall’adulto
In tale ottica, gli obiettivi che contraddistinguono l’ambiente d’apprendimento montessoriano sono: promuovere le capacità di autonomia attraverso una organizzazione razionale degli stimoli; favorire l’autoapprendimento fornendo al soggetto che apprende le chiavi per esercitare il controllo dei propri processi; promuovere lo sviluppo delle potenzia1ità individuali dando la possibilità di esercitare la propria attività sulla base di una libera scelta; garantire una stretta corrispondenza tra capacità e
materiali d’apprendimento, in base alla quale il bambino sia posto sempre di fronte a stimoli e compiti d’apprendimento adeguati ai suoi bisogni di sviluppo.
Una scuola Montessori di Francoforte (1956)
Nella “Casa dei Bambini”, come è denominata la scuola dell’infanzia ad approccio montessoriano, l’organizzazione dell’ambiente è improntata alla valorizzazione dei processi sensoriali e motori alla base dello sviluppo cognitivo nell’infanzia, condotta attraverso materiali e mezzi “scientificamente determinati”, senza porre limite alle curiosità esplorative del bambino. Nel passaggio alla scuola elementare, il bisogno di esplorazione infantile si manifesta come vera e propria “fame di cultura”, sostenuta dalla potenza dell’immaginazione e dalla capacità di astrazione e ragionamento tipiche del passaggio alla nuova fase evolutiva. Ne consegue l’affermazione dell’importanza di una “educazione dilatatrice”, in grado di prospettare gli orizzonti “sconfinati” della conoscenza, capace di colpire l’immaginazione del bambino e di suscitare il suo entusiasmo più profondo: «Il segreto di un buon insegnamento è di considerare l’intelligenza del bambino come un campo fertile in cui si possono gettare delle sementi, perché germoglino al calore fiammeggiante della fantasia», scriverà la studiosa in Come educare il potenziale umano. L’educazione “cosmica” sarà la sua risposta alle esigenze formative dei soggetti in questa fascia d’età: non più discipline artificiosamente distinte, ma una progressiva scoperta del mondo come occasione per esplorare i molteplici campi del sapere.
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Le acquisizioni della ricerca psicopedagogica e didattica consentono oggi di analizzare con maggior consapevolezza il carattere di attualità del modello montessoriano e di coglierne gli elementi precursori rispetto ad istanze che, per molti versi, soltanto in tempi successivi a quelli in cui la pedagogista è vissuta si sono affacciate nel dibattito pedagogico. In questa chiave è possibile esaminare i principali apporti che tale modello è in grado di recare alla qualità del processo educativo: lo stretto legame tra scienza e pedagogia e il rispetto per l’infanzia, che sono alla base del suo approccio pedagogico, insieme all’attenzione prestata alla qualità dell’ambiente educativo e alla qualità dei processi che vi si svolgono, sono elementi che presentano spunti di riflessione di notevole interesse in relazione alle esigenze educative del nostro tempo. Obiettivo prioritario della pedagogia montessoriana è promuovere lo sviluppo dell’autonomia, facoltà che il bambino viene messo in condizione di esercitare organizzando per lui un ambiente d’apprendimento nel quale possa essere libero di scegliere il tipo di esperienza da condurre e nel quale possa esercitare un autocontrollo della propria attività attraverso la manipolazione di materiali scientifici e la possibilità di cimentarsi con compiti d’apprendimento adeguati ai suoi bisogni di sviluppo. In relazione a tale aspetto, è opportuno richiamare l’attenzione che il dibattito attuale rivolge alla necessità di promuovere nella scuola lo sviluppo di quei processi cognitivi e socio-affettivi che mettono l’individuo in grado di saper gestire il proprio apprendimento e di impossessarsi di quelle competenze chiave che lo metteranno in grado di affrontare, in una prospettiva di lifelong learning, i compiti e le situazioni che gli si presenteranno in ogni campo. Il modello Montessori appare improntato all’esigenza prioritaria di favorire proprio il conseguimento di questo tipo di competenze trasversali: l’autonomia, la capacità decisionale, la capacità di
Una scuola Montessori olandese, anni Venti del Novecento
autocontrollo, il rispetto per le regole sociali in un clima di libertà. Si tratta, di obiettivi che rispondono a una esigenza imprescindibile della scuola attuale, in vista della promozione della capacità di imparare a imparare, efficacemente espressa nel motto del bambino montessoriano, «aiutami a fare da solo», che è anche sintesi e allo stesso tempo nucleo centrale della pedagogia montessoriana.
Scopo dell’insegnamento, scriverà in l’Autoeducazione, «non dovrà essere quello di far imparare le cose al bambino», bensì quello di «mantenere sempre viva quella luce in lui che si chiama intelligenza»
Non sempre la pedagogia di Maria Montessori è stata compresa. Ciò è vero in particolare per l’Italia, dove ha scontato la colpa di essere andata contro corrente rispetto alla cultura pedagogica dominante, e per certi versi anche quella di aver precorso i tempi affrontando questioni oggi cruciali, preannunciate con straordinaria sensibilità. Per esempio la necessità di promuovere le cosiddette “competenze per la vita” come l’autonomia e la capacita di controllo dei propri processi, l’attenzione posta alla valorizzazione delle potenzialità d’apprendimento individuali, alla interculturalità, alla gestione non direttiva dell’insegnamento: problematiche alle quali fornisce un contributo che si contraddistingue anche per la sua capacità di fornire le metodologie e gli strumenti atti ad affrontarle operativamente. Oggi che andiamo scoprendo la straordinaria attualità di questo modello educativo dobbiamo prendere atto della suo scarso successo nel nostro paese. Il dato di una sempre maggiore diffusione di scuole Montessori all’estero non corrisponde alla realtà italiana, come mostrano i dati di una rilevazione condotta dal Centro di studi montessoriani del Dipartimento di Scienze della formazione (i dati possono essere consultati on line: www.montessori.uniroma3.it). È un fatto su cui riflettere, non solo in vista del conseguimento di una auspicabile pluralità dell’offerta formativa, ma anche in vista di un obiettivo di accrescimento della qualità del processo educativo, a cui questo modello pedagogico potrebbe recare un contributo rilevante.
L’educazione internazionale dei bambini
Il pensiero di Jean Piaget di Merete Amann Gainotti
In questo breve contributo si intende ricordare un lato meno conosciuto dell’attività scientifica e sociale di Jean Piaget (18961980), studioso e ricercatore in psicologia dello sviluppo di fama mondiale e fondatore dell’epistemologia genetica, ossia l’impegno da lui profuso nel periodo tra la prima e la Merete Amann Gainotti seconda guerra mondiale nel campo dell’educazione e più specificatamente dell’educazione internazionale, un argomento quanto mai attuale nei nostri giorni. Nel 1929 venne offerto a Piaget, che insegnava ed era direttore delle ricerche nell’Institut Jean-Jacques Rousseau di Ginevra, di ricoprire, oltre ai suoi numerosi incarichi accademici, anche il posto di direttore del Bureau International de l’Education (BIE), con sede anch’esso a Ginevra. Ginevra è da sempre stata una città a vocazione internazionale e, in quegli stessi anni, era anche sede della Société des Nations, un organismo creato nel 1925, dopo la fine della prima guerra mondiale, con l’obiettivo fondamentale di promuovere il dialogo e la pace attraverso l’educazione per cui dispiegò la sua azione in molteplici direzioni, dalla politica alla diplomazia, all’economia, dalla sanità all’educazione. Negli anni Trenta, la Société des Nations fece esplicita richiesta a Jean Piage di organizzare e di promuovere dei corsi di formazione destinati agli insegnanti di ogni ordine e grado (dai maestri elementari ai docenti universitari), ai funzionari e agli ispettori dei Ministeri dell’istruzione pubblica, sul tema: “Come fare conoscere La Société des Nations e sviluppare lo spirito di cooperazione internazionale”. In risposta a tale richiesta Piaget, nella sua veste di direttore del BIE, fece personalmente, e in seguito pubblicò (Piaget, 1930a, 1930b, 1931a, 1931b, 1932, 1934) una serie di Conferenze, ben note agli addetti ai lavori di lingua francese, ma purtroppo non tradotte in italiano. In questi scritti Piaget elabora una visione teorica e generale dell’uomo internazionale capace di adeguarsi alle interconnessioni molteplici del mondo contemporaneo. In modo originale avanza una serie di riflessioni e di considerazioni sui rapporti tra i meccanismi dello sviluppo psicologico, al cui studio aveva cominciato a dedicarsi intensamente presso l’Institut JeanJacques Rousseau di Ginevra e che proprio negli anni tra le due guerre avrebbe portato alla pubblicazione di testi fondamentali che lo resero in breve
tempo famoso nella comunità scientifica internazionale, e l’auspicabile traguardo educativo di un essere umano capace di autentico spirito di relazione e di reciprocità su scala internazionale, indispensabile garanzia di dialogo e di pace in un mondo e in un’epoca in cui le interconnessioni e le interdipendenze tra gli uomini e tra le nazioni erano divenute sempre più rapide ed estese su dimensione planetaria. Il ciclo di Conferenze si chiuderà tuttavia con un intervento di Piaget dal tono pessimista (siamo ormai nel 1934) Une éducation à la paix est-elle possibile? (È possibile una educazione alla pace?). A questo punto può essere interessante dare uno sguardo in Italia e stabilire un parallelismo con alcuni eventi che si verificavano nello stesso periodo. Il nostro Paese era in pieno periodo fascista e, nel 1923, la riforma del filosofo Giovanni Gentile, che ricopriva la carica di Ministro dell’istruzione pubblica, soppresse l’insegnamento della psicologia in tutte le scuole secondarie comprese le scuole di pedagogia (o istituti magistrali) sostituendolo con un programma di letture di testi filosofici e pedagogici e causando un allontanamento della psicologia dalla cultura italiana in senso lato (Luccio, 1978). Basti pensare che alla caduta del fascismo vi erano solo due cattedre di psicologia rimaste in Italia, quella di Ponzo a Roma e quella di Gemelli all’Università cattolica di Milano. È in questo frangente che emerge la grande figura di Maria Montessori, che non è una psicologa, ma una eminente educatrice, la quale, proprio in quel periodo e a più riprese, interviene sul tema del’educazione alla pace ed è di estremo interesse ricordare che Maria Montessori e Jean Piaget si sono trovati più volte, nel 1932 a Nizza, e nel 1934, a Roma, a partecipare agli stessi convegni sul tema dell’educazione alla pace (Amann Gainotti, 2004). Nel 1934 l’educazione secondo Maria Montessori viene bandita in Italia da Mussolini e la studiosa lascia l’Italia per farvi ritorno soltanto alla fine della seconda guerra mondiale. Mentre Jean Piaget se ne torna a Ginevra dove prosegue la sua brillante carriera scientifica.
Tornando invece a Piaget e alle sue Conferenze per gli insegnanti davanti alla Société des Nations. Come si può dunque “formare” lo spirito internazionale? Quali sono i principi di base che dovrebbero guidare l’educazione internazionale? La risposta di Piaget è collegata alla scoperta che deriva dai suoi studi osservativi ed empirici sull’infanzia, condotti a partire dal 1920, che i bambini tendono ad evolversi naturalmente da una posizione sociocognitiva che egli chiama “egocentrica” ad una capacità crescente di decentrarsi dal proprio punto di vista per coordinarsi progressivamente con le pro-
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spettive degli altri. È possibile dimostrare ciò osservando, per esempio, come cambino le modalità del gioco col crescere dell’età: i bambini un po’ più grandi manifestano spontaneamente la capacità di elaborare in comune delle regole e di rispettare le regole cui attenersi, senza alcuna imposizione esterna. L’educazione allo spirito internazionale per risultare efficace, dovrà dunque assecondare e valorizzare questa generale tendenza del processo evolutivo del bambino. Sintetizzando il pensiero di Piaget, potremmo dire che l’educazione deve soprattutto agire nelle seguenti direzioni:
- l’educazione internazionale deve dare concretezza all’esperienza del bambino: «Si è molto parlato di un insegnamento della solidarietà (…) Ma le migliori lezioni resteranno lettera morta se non si basano sull’esperienza stessa, così come capire le leggi della fisica è impossibile senza manipolazione di un materiale concreto. Ora è necessario che il bambino rifaccia lui stesso l’esperienza della solidarietà, poiché le esperienze degli altri nell’ambito spirituale ancora più che nell’ambito materiale - non hanno mai istruito nessuno (…)» Non basta dunque parlare in classe delle istituzioni internazionali, e neanche la pur pregevole iniziativa di stimolare i contatti tra scuole di nazionalità differenti è sufficiente. I grandi ideali di solidarietà e di giustizia, spiega Piaget, devono essere vissuti prima di essere oggetto di riflessione «(... doivent etre vécus avant d’être objet de réflexion (…)»;
- l’educazione internazionale deve allargare il ventaglio degli interscambi e delle esperienze, ed insegnare a sormontare le barriere poste al contatto con l’altro, dall’abitudine, dai pregiudizi, dalla mentalità e dalla diversità dell’altro;
Jean Piaget
«(…) Si capisce quale debba essere lo sforzo della pedagogia per mettere gli individui nello stato d’animo necessario per capire gli altri, quando l’insieme dei fattori affettivi e delle tradizioni collettive fanno pressione sul loro pensiero e impediscono loro di ragionare con obiettività».
Per concludere, nei suoi testi e nelle sue considerazioni sull’educazione internazionale, Piaget pone esplicitamente l’esigenza di una forma mentale rinnovata, in grado di coordinare i differenti punti di vista che interagiscono sulla scena mondiale e di sottrarsi alla rigidità di schemi di pensiero propri dell’egocentrismo delle collettività nazionali – poiché «nous sommes tous des individus déjà formés, pour ne pas dire déformés, par nos différentes mentalités collectives» (siamo tutti degli individui già formati, per non dire deformati dalla nostre diverse mentalità collettive). Dalla sua carica di direttore del BIE e di interprete, nel campo dell’educazione, dello spirito e delle finalità della Società delle Nazioni, Piaget identifica nei nazionalismi degli anni Trenta la forma politica e mentale nello stesso tempo di questo egocentrismo pericoloso, ostacolo alla pace e al dialogo tra i popoli su scala mondiale. A tale proposito è utile segnalare un’ultima citazione di Piaget: «Il compito di un bambino svizzero non è di farsi una mentalità planetaria o mondiale che egli applicherebbe alla meno peggio sulla sua, ma é di collocare il suo punto di vista tra gli altri possibili e di comprendere il piccolo tedesco, il piccolo francese etc., tanto bene quanto se stesso. E questa messa in relazione dei punti di vista, che noi chiamiamo cooperazione, in opposizione alla loro uniformizzazione o alla ricerca utopica di un punto di vista assoluto. Ora, questa comprensione reciproca è affare di educazione intellettuale, quanto di educazione morale. Vi è dunque un’educazione della solidarietà intellettuale che è importante perseguire e di cui bisogna studiare i requisiti psicologici». È l’auspicio che formulava Piaget negli anni 19301934 poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Non si può fare a meno di pensare quanto siano attuali queste sue considerazioni sull’educazione internazionale adesso che i bambini europei crescono in una Europa composta da 28 nazioni e che la metà della popolazione scolastica di molte scuole proviene da varie nazioni europee oltre che da nazioni extra europee. Come ultima annotazione vorrei aggiungere che nel 1951, Piaget pubblica, insieme ad A. M. Weil, un articolo dal titolo Le développement chez l’enfant de l’idée de patrie et des relations avec l’étranger (lo sviluppo nel bambino dell’idea di patria e di relazioni con l’estero) in cui gli autori affrontano le suddette problematiche con una ricerca empirica. L’articolo è diventato famosissimo ed è il punto di partenza di tutte le ricerche attuali in psicologia sulle nozioni e rappresentazioni infantili di altre nazioni e altri popoli, compreso quelle che vengono condotte dal mio gruppo di ricerca nell’ambito delle attività del laboratorio di “Educazione e formazione all’Europa” nel Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università Roma Tre.
La cultura è uno strumento di liberazione La pedagogia degli oppressi di Paulo Freire di Massimiliano Fiorucci
«Pensare la storia come possibilità significa riconoscere l’educazione come possibilità. Significa riconoscere che, anche se l’educazione non può fare tutto da sola, può però certo raggiungere qualche risultato. La sua forza sta nella sua debolezza» Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi Si può considerare ancora attuale la pedagogia di Freire? Il suo metodo educativo può contribuire alla chiarificazione dei problemi educativi nelle odierne soMassimiliano Fiorucci cietà consumistiche e globalizzate? Perché continuare a leggere Freire? Era esattamente questo il titolo della prefazione di Moacir Gadotti alla nuova edizione italiana de La pedagogia degli oppressi apparsa nel 2002 a distanza di più di trent’anni dalla prima edizione del 1971 curata e introdotta da Laura Bimbi (Mondadori, 1971). Oggi la domanda di Moacir Gadotti rimane ancora valida: è necessario leggere e/o rileggere Freire perché sono ancora tante le forme di oppressione (più o meno evidenti) presenti nelle nostre società e Freire ci ricorda che l’educazione, la cultura, la scienza sono prima di tutto uno strumento di liberazione. Non è possibile in questa sede individuare tutte le forme di oppressione presenti nella nostra società ma sicuramente possono essere individuate alcune categorie di soggetti oppressi: coloro che sono in possesso di deboli livelli di istruzione e che non sono in grado di effettuare scelte del tutto libere e consapevoli, i migranti che si vedono costretti ad accettare e a svolgere i cosiddetti lavori delle 5P (precari, pesanti, poco pagati, penalizzati socialmente, pericolosi) in un quadro generale di integrazione “subalterna”, le donne che a parità di titoli di studio guadagnano meno degli uomini e solo raramente riescono a raggiungere posizioni apicali, i giovani e i precari e così via. Qualche dato sull’istruzione può aiutare a meglio definire la questione. Se si considera la popolazione italiana di 15 anni e oltre, come evidenzia il CENSIS, sulla base di dati ISTAT, nel suo 46° Rapporto 2012, si ha che il 22,5% è senza titolo alcuno o con la sola licenza elementare e il 31,9% con il solo diploma di scuola secondaria di primo grado. Complessivamente il 54,4% degli italiani in età superiore ai 15 anni dispone al massimo della licenza media inferiore: il possesso esclusivo di questo titolo di studio attesta una condizione non altrimenti definibile se non in termini di analfabetismo moderno, nel senso che i soggetti che ne sono afflitti non dispongono delle conoscenze e delle competenze necessarie per far fronte alla complessità della vita di oggi.
Una situazione così grave non caratterizza solamente la scuola. Se si considera il numero di quanti sono in possesso di un titolo di studio universitario, l’Italia nel 2012 si colloca in fondo alle classifiche europee. Nella fascia d’età 25-34 anni la quota di laureati è del 21%: dato che vede l’Italia al penultimo posto tra i 34 Paesi Ocse, davanti solo alla Turchia
L’opera di Paulo Freire si caratterizza come una visione pedagogica complessiva: una sorta di pedagogia dell’uomo e del dialogo densa di aspetti e di riferimenti antropologici, sociologici e filosofici
(17%). La media OCSE è del 38%. Se si prende in considerazione la fascia d’età 25-64 anni, l’Italia è al 15% di laureati, come il Portogallo e solo davanti alla Turchia (13%). La media OCSE è del 32% e la situazione per l’Italia si va addirittura aggravando. Gli iscritti all’Università sono passati da 338.000 a 280.000: negli ultimi dieci anni l’Università italiana, come ha sottolineato efficacemente il CUN, ha perso complessivamente 58.000 iscritti e cioè un terzo di coloro che si iscrivevano nell’a.a. 2003/2004. Vi è poi un dato ancora più preoccupante: nel 2009, in Italia, risultavano fuori dal circuito formativo e lavorativo poco più di 2 milioni di giovani: il 21,2% della popolazione tra i 15 e i 29 anni. I cosiddetti Neet (Not in Education, Employment or Training) – né al lavoro, né a scuola, né in formazione professionale – nel 2008 erano il 19,2% a fronte di un valore medio per i Paesi UE aderenti all’OCSE del 12,2%. Nel 2013, secondo l’ISTAT, il dato si è ulteriormente aggravato ed è ora del 23,9%. È un quadro talmente drammatico da non richiedere d’essere ulteriormente commentato, senza voler neppure considerare il fondamentale settore della formazione professionale che presenta una situazione che si caratterizza per un elevato grado di complessità e problematicità. Un ultimo dato riguarda la popolazione adulta e quello che viene definito analfabetismo funzionale: i cittadini italiani si collocano in fondo alla classifica sui saperi essenziali per orientarsi nella società del terzo millennio. Nell’ultima classifica stilata
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dall’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), e recentemente resa pubblica dall’Isfol, sulle competenze principali degli adulti il nostro Paese figura all’ultimo posto. Ci collochiamo in fondo alla classica - ultimi tra 24 paesi - per competenze in lettura e al penultimo posto sia per competenze in matematica sia per capacità di risolvere problemi in ambienti ricchi di tecnologia, come quelli delle società moderne. L’esistenza di un sistema sociale e formativo come quello italiano – che ancora opera una distribuzione differenziata delle conoscenze sulla base di fattori di ordine sociale, di genere, territoriale e di nazionalità – contraddice l’autorappresentazione che la nostra società ha di sé stessa come di una società moderna che a tutti fornirebbe le stesse opportunità di vita e di lavoro. Si tratta in altri termini di una società ancora fortemente divisa in oppressori e oppressi. Cosa può dirci allora oggi Paulo Freire? L’opera di Paulo Freire si caratterizza come una visione pedagogica complessiva: una sorta di pedagogia dell’uomo e del dialogo densa di aspetti e di riferimenti antropologici, sociologici e filosofici. Freire, infatti, fu un alfabetizzatore ed educatore degli adulti non solo in Brasile, ma anche in Cile e nell’Africa delle ex colonie portoghesi, mentre allo stesso tempo teneva contatti con Università e altre istituzioni educative nordamericane, svizzere e anche italiane. Anche in conseguenza di questi elementi vi è chi ne ha parlato come di un vero e proprio “educatore del mondo” (Tagliavia, 2011). Tra i tanti riferimenti del pensiero freireano vi sono il personalismo cristiano del filosofo francese Jacques
Freire individua due concezioni dell’educazione tra loro contrapposte: l’educazione “depositaria” (termine con cui viene tradotto il portoghese bancária) e l’educazione “problematizzante”. L’una conserva e conferma, l’altra produce consapevolezza critica ed è il presupposto della liberazione. L’educazione, diventa un percorso di liberazione
Maritain (1882-1973) – un’influenza che appartiene soprattutto alla prima fase della sua elaborazione; le teorie sul linguaggio dello psicologo culturale sovietico Lev Semenovic Vygotskij (1896-1934) – con particolare riferimento alla parte del lavoro specificamente dedicata al Metodo Paulo Freire; la teoria dell’egemonia e della subalternità del filosofo e politico italiano Antonio Gramsci (1891-1937), che
peraltro avvicina il pedagogista brasiliano alla corrente degli studi post-coloniali. Paulo Freire, nel quadro delle pedagogie del Novecento, rappresenta senza dubbio uno degli autori che possono essere definiti come pensatori critici. L’importante pedagogista brasiliano, infatti, durante tutta la sua attività scientifica e militante individua due concezioni dell’educazione tra loro contrapposte: l’educazione “depositaria” (termine con cui viene tradotto il portoghese bancária) e l’educazione “problematizzante”. L’una conserva e conferma, l’altra produce consapevolezza critica ed è il presupposto della liberazione. L’educazione, infatti, diventa per Paulo Freire un percorso di liberazione. Freire scrive la sua opera principale, La pedagogia degli oppressi, nel 1968. Egli è un testimone significativo dell’America Latina degli anni ’60: un contesto oggetto di molti mutamenti politici e di svolte autoritarie che a volte portarono, come nel caso del Brasile nel 1964, a violente dittature militari. Freire, dopo aver partecipato come educatore all’ISEB (Istituto Superiore di Educazione Brasiliana) e a varie iniziative di alfabetizzazione delle popolazioni rurali, fu costretto all’esilio: visse dapprima in Cile, dove pubblicò La pedagogia degli oppressi e altre opere fondamentali della sua produzione – tra cui L’educazione come pratica della libertà – e poi in Svizzera. L’educazione depositaria, secondo Freire, è un modello di educazione direttiva e ingiusta, in cui l’educatore educa e gli educandi sono educati, l’educatore sa e gli educandi non sanno, l’educatore parla e gli educandi ascoltano docilmente. L’educazione problematizzante, al contrario, «è intenzionalità, perché risposta a ciò che la coscienza profondamente è, e quindi rifiuta i comunicati e rende essenzialmente vera la comunicazione… In questo senso, l’educazione liberatrice, problematizzante, non può essere l’atto di depositare, o di narrare, o di trasferire, o di trasmettere conoscenze e valori agli educandi, semplici, pazienti, come succede nell’educazione depositaria, bensì un atto di conoscenza» (Freire, 2002, pp. 67-68). Questa concezione dialogica dell’educazione e dell’atto di insegnare, fondamentale nel pensiero freiriano, verrà ripresa anche in uno degli ultimi scritti del pedagogista brasiliano, Pedagogia dell’autonomia, interamente dedicato al tema della formazione docente, in cui egli afferma che «chi insegna, nell’atto di insegnare apprende, e chi apprende nell’atto di farlo, insegna» (Freire, 2004, p.21). E ancora: «insegnare, apprendere e ricercare hanno a che fare con questi due momenti del ciclo gnoseologico: quello in cui si insegna e si apprende la conoscenza già esistente, e quello in cui si lavora all’elaborazione della conoscenza che ancora non esiste. La «do-discenza» – la docenza-discenza – e la ricerca finiscono così con l’essere pratiche essenziali – e inseparabili – di questi momenti del ciclo gnoseologico» (Ivi, p.25).
Le tematiche principali affrontate da Freire nel volume La pedagogia degli oppressi riguardano l’interpretazione della realtà come dinamica di oppressione/liberazione, la concezione problematizzante dell’educazione, il concetto di dialogo e di anti-dialogo, gli aspetti metodologici del processo di alfabetizzazione. Quest’ultimo viene ritenuto centrale non solo come metodo “scientifico” per imparare a leggere e a scrivere, ma anche come condizione prioritaria per la partecipazione politica, e la conseguente liberazione, dell’oppresso. La dialettica oppresso/oppressore richiama, come evidenzia esplicitamente Freire stesso, la dialettica Paulo Freire hegeliana servo/signore: l’oppresso, per Freire come per Hegel, acquistando la propria umanità con il processo di liberazione, restituisce umanità anche al proprio oppressore, liberandolo. Le due fonti principali del pensiero di Freire sono dunque il personalismo cri-
L’educazione depositaria, secondo Freire, è un modello di educazione direttiva e ingiusta, in cui l’educatore educa e gli educandi sono educati, l’educatore sa e gli educandi non sanno, l’educatore parla e gli educandi ascoltano docilmente
stiano di J. Maritain e il marxismo (la realtà come dialettica oppressori/oppressi e l’educazione come strumento di trasformazione della realtà). Per quanto riguarda, in particolare, il metodo Paulo Freire, esso si basa sulle “parole generatrici” e sui “quadri-situazione”. Queste due strategie permettono di focalizzare l’attenzione su un tema che permette dapprima un processo di “coscientizzazione”, da parte dell’analfabeta, della sua condizione di oppresso – tramite la discussione su temi suscitati da un dibattito: la casa, la salute, il lavoro, la natura, i processi culturali, ecc. – e in seguito il processo di scrittura e di alfabetizzazione, che conduce a ciò che Freire chiama “liberazione”. La liberazione non avviene mai in solitudine: è tutta la comunità del “circolo di cultura” che insieme si libera, prendendo coscienza dei meccanismi ingiusti della società. Il contributo di Freire è connesso, inoltre, con le tematiche dell’educazione interculturale in quanto il suo approccio pedagogico può definirsi “decostruttivo”: esso tende, appunto, a decostruire miti, pregiudizi, schemi mentali – sulla superiorità dei ricchi sui poveri, dei bianchi sui neri, dei leader politici sulle masse – che si sono diffusi in profondità in molti Paesi del Sud del mondo colonizzati dall’Occidente. Inoltre, è molto importante il concetto di “cultura” come sforzo creatore continuo dell’uomo, che mai si staticizza in un blocco monolitico ed è in
costante mutamento e movimento. «L’invasione culturale è la penetrazione degli invasori nel contesto culturale degli invasi, senza rispetto verso le potenzialità dell’essere, che essa condiziona, quando essi impongono la loro visione del mondo e frenano la creatività, inibendo l’espansione degli invasi» (Freire, 2002, p.149). Per contro, “nella sintesi culturale, che è l’opposto dell’invasione culturale, gli “attori” non arrivano al popolo come invasori, mentre nell’invasione culturale gli attori entrano dal loro mondo in quello degli invasi, portandovi un contenuto tematico per l’azione ricavato dai loro criteri di valore e dalla loro ideologia. Nella sintesi culturale gli attori, anche se arrivano da un “altro mondo”, arrivano per conoscerlo col popolo e non per “insegnare”, o trasmettere, o consegnare qualcosa al popolo (Ivi, p.180). Tutto ciò è affermato da
Nella Pedagogia dell’autonomia, interamente dedicato al tema della formazione docente, Freire afferma che «chi insegna, nell’atto di insegnare apprende, e chi apprende nell’atto di farlo, insegna». E ancora: «insegnare, apprendere e ricercare hanno a che fare con questi due momenti del ciclo gnoseologico: quello in cui si insegna e si apprende la conoscenza già esistente, e quello in cui si lavora all’elaborazione della conoscenza che ancora non esiste»
Freire nella convinzione che «ogni azione culturale è sempre una forma sistematica e deliberata di azione che incide sulla struttura sociale, ora nel senso di mantenerla com’è, ora nel senso di trasformarla… L’azione culturale, o è al servizio della dominazione (cosciente o incosciente da parte dei suoi agenti) o è al servizio della liberazione degli uomini» (Ivi, p.179).
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Un medium del Novecento
Il ruolo della televisione pubblica nei processi educativi di Enrico Menduni
La tv è la sorella della radio, e anche il servizio pubblico è nato con la radio. Da essa dobbiamo partire se vogliamo capire la tv. Quando nacque la radio (nel nostro senso moderno di broadcasting, cioè di trasmissione circolare), nei primi anni Venti, negli Stati Uniti si affermò un modello imprendiEnrico Menduni toriale e commerciale: la fruizione della radio è gratuita, l’attività radiofonica (produzione e diffusione di programmi) è finanziata prima dalla vendita degli apparecchi, poi dalla pubblicità, e permette all’imprenditore di realizzare un profitto. Questa esigenza di profitto richiede di convocare masse crescenti di spettatori davanti all’apparecchio radio: più ampia sarà la platea, più elevate le tariffe della pubblicità. La programmazione deve essere quindi fortemente improntata all’intrattenimento leggero, mettendo in ombra tutto ciò che può risultare “noioso”. In Europa fu scelta un’altra strada. La radio sarà un servizio pubblico, svolto in regime di monopolio da aziende parastatali, con fini educativi, e finanziato dagli ascoltatori tramite il canone, oltre che da aiuti dello Stato. L’inventore di questa formula
In realtà la funzione educativa della televisione non stava nella sua sostituzione all’istituzione scolastica, quanto piuttosto nella sua capacità di offrire stili di vita nuovi, che indirettamente sollecitavano alla mobilità sociale, proponendo una socializzazione anticipatrice di un benessere ancora non generalizzato
fu John Reith, un uomo politico conservatore britannico, scozzese, direttore di una vacillante compagnia radiofonica privata, la BBC, British Broadcasting Company. Fu Reith a coniare il trinomio che costituisce la missione del servizio pubblico: educare, informare, intrattenere. Educare, informare, intrattenere: in rigoroso ordine di apparizione. Il servizio pubblico sarà affidato ad nuovo ente parastatale, che si chiamerà sempre BBC ma come Bri-
tish Broadcasting Corporation. Che Reith andrà a dirigere. La scelta del servizio pubblico fu ammantata di motivazioni etiche, ma era l’unica possibile in Europa; infatti fu adottata da quasi tutti i paesi, compresi quelli retti da regimi autoritari, come era allora l’Italia. In nessun paese europeo - allora - vi sarebbero state le condizioni di mercato per far vivere la radiofonia. Una missione, ma anche una scelta obbligata.
La tv è sempre stata più orientata all’intrattenimento della radio. L’avvento delle tv private non è stata la calata dei barbari, e comunque i “barbari” hanno trovato le porte aperte da un modello di intrattenimento già popolare. La vera domanda, piuttosto, è se sia ancora presente la funzione educativa, in forma di socializzazione anticipatrice, svolta dalla tv italiana nella sua storia
Il servizio pubblico, quando opera in regime di monopolio, non ha bisogno di sedurre l’ascoltatore con l’intrattenimento, né di misurare quantitativamente l’ascolto, perché non ci sono tariffe pubblicitarie. Un programma colto e ritenuto utile alla formazione del pubblico può convocare pochi ascoltatori, che non hanno il diritto di scegliere, ma ciò non è ritenuto determinante: è solo un parametro di cui tener conto insieme ad altri. La televisione, che è figlia del secondo dopoguerra, è un servizio erogato dagli stessi enti parastatali europei, o dalle stesse imprese private americane, che trasmettevano la radio, e prosegue la dicotomia tra Europa e America. Una televisione andragogica. In cui un gruppo di intellettuali, diretti da “uomini di fiducia” del governo, decidono quello che è bene per il popolo. “L’uomo di fiducia” è il titolo dell’autobiografia del dominus della tv italiana, Ettore Bernabei. Una dieta equilibrata fra cultura e sano intrattenimento, tra divulgazione culturale e spettacolo. La griglia dei programmi è chiamata in Italia “palinsesto”. Un termine che testimonia della buona cultura classica dei dirigenti, ma anche delle continue cancellature e riscritture dovute a pressioni, censure, autocensure di origine politica. Il presupposto della tv pubblica è il monopolio. Gli spettatori possono spegnere l’apparecchio, ma non
Alberto Manzi in Non èmai troppo tardi
scegliere un programma come potrebbero scegliere un film al cinema, perché il fornitore è unico. La televisione in Italia comincia le sue trasmissioni nel 1954. L’Italia è ancora un paese di analfabeti. Il censimento del 1951 ci mostra un tasso di analfabetismo che dall’1% del Trentino-Alto Adige arriva al 32% della Calabria. Un preoccupante 12,9% di media. Il nuovo medium, la televisione, mostra se stessa come un’agenzia di alfabetizzazione. Tra il 1959 e il 1968 la Rai trasmette un programma che si chiama Non è mai troppo tardi, è dedicato agli analfabeti, ed è condotto da un maestro elementare, Alberto Manzi. Un’icona della tv italiana, presentata anche da una fiction televisiva in due puntate, dal sapore agiografico, trasmessa da Rai Uno nel febbraio del 2014. In realtà il ruolo di Manzi è stato diverso, più limitato. Diventò il monumento vivente alla funzione educativa della tv soltanto molto dopo la sua trasmissione, che allora incontrò un “successo moderato” (Aldo Grasso). Non esiste alcuna pubblicazione dell’epoca, ufficiale o non, ministeriale o RAI, che permetta di ricostruire esattamente quanti allievi presero la licenza elementare grazie a Non è mai troppo tardi e, più in generale, il suo impatto sugli analfabeti: certo ebbe una funzione profondamente rassicurante per la classe dirigente italiana, che voleva essere rassicurata sul carattere andragogico della tv. In realtà la funzione educativa della televisione non stava nella sua sostituzione all’istituzione scola-
stica, quanto piuttosto nella sua capacità di offrire stili di vita nuovi, che indirettamente sollecitavano alla mobilità sociale, proponendo una socializza-
La televisione non esprime più lo spirito del tempo, anche se resistono grandi cerimonie mediali e momenti periodici nei quali il paese si ritrova davanti alla tv per seguire eventi e competizioni, come quelle elettorali
zione anticipatrice di un benessere ancora non generalizzato. Le tesi più accreditate nella Rai degli anni Sessanta sono quelle di Wilbur Schramm (Mass Media and National Developement, Stanford, Stanford University Press, 1964) per il quale i media nel loro complesso e la televisione in particolare sono “grandi moltiplicatori”, che permettono l’apertura di società chiuse e arcaiche essenzialmente attraverso il confronto con altre realtà più aperte e moderne, presentate come seducenti e attrattive. Queste tesi, educative più che scolastiche, furono in Italia fatte proprie da Sabino Acquaviva, dalla Fondazione Olivetti e da Francesco Alberoni. Conviene anche riflettere sul fatto che, dopo la guerra, la radio italiana era stata ricostruita dalle macerie del fascismo guardando all’e-
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sempio inglese della BBC. La televisione invece fu creata con numerosi viaggi di studio di dirigenti Rai negli Stati Uniti, in cui ebbero come guida un giovane e disinvolto italo-americano che lavorava nel programma italiano della Voice of America, la radio del Dipartimento di Stato Usa, Mike Bongiorno. Mike è presente nella prima giornata dalla televisione italiana (il 3 gennaio 1954) con una sua rubrica, “Arrivi e partenze”, dedicata alle personalità internazionali che arrivano in Italia, magari per lavorare alla “Hollywood sul Tevere” e agli italiani che partono (registi, romanzieri etc.). Un classico della mediazione interculturale. Bongiorno praticamente non lascerà mai lo schermo e la vera icona della Tv italiana sarà lui, molto lontano dal modello Manzi che ci rimanda, semmai, al suo collega del libro “Cuore”. La tv è sempre stata più orientata all’intrattenimento della radio. L’avvento delle tv private non è stata la calata dei barbari, e comunque i “barbari” hanno trovato le porte aperte, o almeno socchiuse, da un modello di intrattenimento già popolare. La vera domanda, piuttosto, è se sia ancora presente la funzione educativa, in forma di socializzazione anticipatrice, svolta dalla tv italiana nella sua sto-
Mike Bongiorno ai suoi esordi nella tv italiana
ria. Certo questa funzione non si è arrestata con l’avvento delle private e poi del cosiddetto “duopolio” Rai-Fininvest (poi Mediaset), con altrettanta sicurezza si può affermare che essa non è più operante. Se essa continua a interessare una larga fetta della popolazione e c’è ancora un’Italia pigra
Dov’è lo spirito del tempo? Dobbiamo cercarlo dalle parti di Internet, soprattutto nella sua componente di social networking. La tv rimane un medium del Novecento
che tende a seguire i consigli che le vengono dal teleschermo, è altrettanto vero che i giovani l’hanno abbandonata o la ascoltano come un’abitudine, piuttosto che come una maestra, buona o cattiva che sia. La televisione non esprime più lo spirito del tempo, anche se resistono grandi cerimonie mediali e momenti periodici nei quali il paese si ritrova davanti alla tv per seguire eventi e competizioni, come quelle elettorali. Tuttavia invano cercheremmo una funzione educativa e socializzante diffusa, anche se esistono programmi, momenti, episodi in cui essa continua ad avere tale funzione, magari non proprio dai programmi dell’emittente pubblica. È un paradosso che una trasmissione che si chiama “Servizio pubblico” non ne faccia, a rigore, parte essendo diffusa da una rete nazionale privata. Come La 7. Né la si trova nella interessante varietà di canali tematici, specialistici, di nicchia, spesso migliori dei loro corrispondenti generalisti ma sicuramente senza l’ambizione di rappresentare tutta la società. Dov’è lo spirito del tempo? Dobbiamo cercarlo dalle parti di Internet, soprattutto nella sua componente di social networking. La tv rimane un medium del Novecento.
Collettività e connettività Le leve dell’apprendimento digitale di Roberto Maragliano
Me lo ricordo bene, e non sono certo l’unico a farlo, anche se ormai noi si appartiene ad una specie in estinzione: le prime volte che scrivevo al computer, io che venivo da anni e anni di composizione a macchina, cercavo con la mano e la testa, vedendo avvicinarsi la fine della riga, una qualche leva per andare a Roberto Maragliano capo. Insomma, il residuo di quel mondo e soprattutto di quel modo tutto meccanico di concepire e praticare la scrittura m’era rimasto dentro. In seguito, nuovi automatismi vennero ad inscriversi sui precedenti, al punto che ora, se mi si chiedesse ora di battere un testo a macchina, farei una gran brutta figura. Va riconosciuto, comunque, queste faccende mettono in gioco qualcosa di più e di diverso rispetto a fatti puramente tecnici. Piaccia o no il digitale e la rete stanno cambiando il nostro rapporto con la scrittura: le procurano nuovi spazi e figure, ma intervengono anche in profondità contribuendo a ristrutturare l’ambiente stesso entro il quale troviamo, riceviamo, produciamo comunicazione tramite segni. Nessuno potrebbe negare che apertura, mobilità ed elasticità siano tratti costitutivi dell’orizzonte sociale e mentale di chi ricorre, oggi, alla scrittura né occorre grande acume filosofico per riconoscere che quelle non appartengono al bagaglio delle idee forti della cultura industriale e meccanica.
Piaccia o no il digitale e la rete stanno cambiando il nostro rapporto con la scrittura: le procurano nuovi spazi e figure, ma intervengono anche in profondità contribuendo a ristrutturare l’ambiente stesso entro il quale troviamo, riceviamo, produciamo comunicazione tramite segni
Altra questione è se le pedagogie di settore oggi più diffuse, quelle spontanee della vita d’ogni giorno e quelle “riservate” della scuola e dell’accademia, siano all’altezza della metamorfosi tecnologiche e culturali intervenute. Comunque, da quel che si dice, e soprattutto da come luttuosamente lo si fa, il
raggiungimento di un simile obiettivo sembra essere ancora molto lontano. Si accetta che possa essere utile dare ai giovani consapevolezza di come funzionano determinati meccanismi della scrittura digitale ma si fa molta difficoltà a riconoscere e far loro riconoscere il portato concettuale di quei meccanismi. Perché? Dove stanno le resistenze? Nelle menti o nelle istituzioni? Sia qui che là, non c’è dubbio.
Indubbiamente la rete è uno spazio di esercizio dell’apprendimento. Basti pensare ai social network. Ci si sta per curiosità, ma anche per condividere esperienza, ricevere e dare conoscenza, il tutto in una logica collettiva e connettiva
Del resto, sarebbe da ingenui pensare che il passaggio al nuovo modo ambiente educativo possa avvenire in armonia. Molte impalcature sono destinate a cadere, se davvero si va nella direzione del cambiamento, e con esse non poche abitudini e maniere di pensare svanirebbero, senza lasciare traccia alcuna di sé e rischiando addirittura di diventare preistoria una volta scomparsi gli ultimi testimoni delle storie del mondo di prima, cioè noi. Normale che si registrino reazioni, e pure aggressive, da parte degli interessati. Ad una economia della scrittura costruita sulla povertà dello spazio, sulla fatica realizzativa e, soprattutto, sulle dimensioni individuali della produzione si va sostituendo una che sembra proiettare i suoi adepti in direzioni opposte. Chi è nato dentro questa nuova economia non coglie la qualità del cambiamento intervenuto e trova dunque naturale l’universo contemporaneo della scrittura, chi invece ha conosciuto e considerato naturale l’universo precedente non può non vedere nel nuovo elementi di artificialità e costrizione. Loro e noi, insomma. I preistorici titubanti sulla soglia del nuovo tempo, noi, e loro che ci sono nati dentro. Di qui le resistenze, nostre, che proponiamo pedagogie scadute e vorremmo che non lo fossero, e loro, che sentono quelle pedagogie del tutto aliene rispetto a quel che ormai è il loro mondo. Cosa ben più grave, siamo tutti ugualmente vittime di un conflitto, che rischia di diventare insanabile, fra la pedagogia informale della scrittura, quella che cresce autonomamente e massicciamente fuori delle istituzioni pedagogiche, e la pedagogia formale di tali istituzioni, che stenta a fare i conti con le novità e che, anche per il peso che subisce dall’impianto istituzionale, non riesce e talvolta nemmeno vuole darsi un diverso assetto.
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Del resto, si tratta di passare da un ordine mentale e operativo costruito, ad esempio, attorno al divieto della copiatura o all’economia della cancellatura ad uno in cui questi vincoli sono caduti e ciò che ad essi si collega passa dall’essere inteso come disvalore ad esserlo come valore.
modalità del tutto informali, quasi anarchiche. Lo si fa, appunto, dentro la diversità, il movimento, il rumore, la confusione, tutti elementi che nella logica di prima sarebbero barriere, ma che lì fungono da cornici per l’attivazione dei filtri con cui selezionare e fissare attivamente dei contenuti. Come c’è il social writing dei wiki, cioè una dimensione partecipata della scrittura digitale che non ha pari negli spazi della scrittura fisica, allo stesso modo c’è un social learning, cioè un’esperienza tipica dell’universo digitale che solo in parte il mondo fisico è in grado di ricalcare. Il tutto sotto l’insegna dell’apertura, della mobilità, dell’elasticità. Di qui, io credo, dovremmo muovere, chiedendoci in che misura quest’altra dimensione e soprattutto quest’altra logica dell’apprendere, poco conosciute fin qui, ma oggi molto praticate negli spazi esterni delle istituzioni, e non solo per il diletto o il consumo, possano rientrare ed essere positivamente accolte dentro strutture, come le scoQuesta è, al 2 di aprile alle ore 13, la home page del blog #PARLIAMONE del Laborato- lastiche e universitarie, abituate e rio di tecnologie audiovisive (Dipartimento di Scienze della formazione): http://LTAonli- poggiare i loro principi di identità ne.wordpress.com e i loro impianti organizzativi sulla dimensione e la logica dell’inseQuesto è il compito che ci attende. E le posizioni in gnamento e su apprendimenti formali in tutto e per campo, da parte dell’educatore che vorremmo imtutto dipendenti da quell’insegnamento. pegnato ad affrontarlo, non sono che tre: quella di Una volta data la risposta positiva, occorrerà che chi rifiuta l’impegno perché lo giudica infondato (la convinciamo noi stessi di quanto sia riduttivo pencultura è una cosa, il rumore è altro), quella di chi sare di risolvere tutto con un semplice cambio di lo accetta e lo piega all’esigenza di mantenere le veicolo. Certo, all’inizio di un’esperienza di e-learconcettualizzazioni del modo precedendo aggiorning il problema che generalmente ci poniamo è conandone solo alcuni aspetti di superficie e quella di me riprodurre lì i meccanismi cui siamo avvezzi: chi fa suo questo programma, cercando di orientarne l’attuazione attraverso la messa a punto di nuove Come c’è il social writing dei wiki, cioè trame concettuali. Non è una novità. Uno afferma “niente motorino”, uno vuole “prima la bicicletta” e una dimensione partecipata uno si dice “va be’, subito il motorino ma con un della scrittura digitale che non ha pari adeguato corredo di sicurezze e precauzioni”: il prinegli spazi della scrittura fisica, allo mo non dà cittadinanza, il secondo fa finta di concederla, il terzo si impegna a farla maturare. Questesso modo c’è un social learning, sto, almeno, è quanto io penso. cioè un’esperienza tipica dell’universo Vi chiederete a questo punto se non ho sbagliato ardigitale che solo in parte il mondo fisico gomento. Dovevo trattare di e-learning e invece mi sono dilungato sui temi dello scrivere, aggiungenè in grado di ricalcare. doci pure la questione del motore. No, non ho deIl tutto sotto l’insegna dell’apertura, viato. Lo capite subito se nei brani che avete letto della mobilità, dell’elasticità fin qui provate a sostituire al termine “scrittura” e i suoi derivati il termine “apprendimento” con tutti i suoi derivati. Il discorso regge ancora. andremo dunque alla ricerca di cosa mettere al poPerché indubbiamente la rete è uno spazio di esercisto delle lezioni (ad esempio dei video), cosa al pozio dell’apprendimento. Basti pensare ai social netsto di una parte dei manuali cartacei (e avremo gli work. Ci si sta per curiosità, ma anche per condivioggetti didattici multimediali), cosa al posto delle dere esperienza, ricevere e dare conoscenza, il tutto prove di esame (i test, no?), cosa al posto del dialoin una logica collettiva e connettiva. Anche lì si apgo docente/studente (dei forum potrebbero risultare prende dalle cose, in ultima istanza, ma solo perché utili). L’orizzonte mentale ed operativo che prevale, gli altri le mediano: insomma si trae succo dagli in questa fase, non andrebbe oltre le dimensioni esiti ma anche e soprattutto dalle dinamiche deldell’e-teaching e non sarebbe infrequente che chi vi l’apprendimento altrui. Comunque si apprende, in si impegni, docente o studente, vada alla ricerca di
ciò che non c’è, né ci potrebbe essere, come facevo io con la leva mancante del mio primo computer. In altri termini, in simili contesti prevale, dell’e-learning, quanto esso avrebbe in meno rispetto all’insegnamento fisico (del resto, ciò che effettivamente gli manca è proprio la fisicità dell’insegnamento fisico) mentre resta nell’ombra proprio ciò che avrebbe in più e di diverso rispetto alla situazione di prima, vale a dire la possibilità di accogliere e promuovere apprendimenti attivi e partecipati, e di modulare e modellare l’impegno didattico su tali dinamiche. Appurato che quella leva non c’è, ed elaborato il lutto, potremmo seriamente decidere se investire energie, mentali e culturali e orga- Rappresentazione tridimensionale dello spazio entro il quale collocare un’esperienza di nizzative, sull’impresa. Si tratta e-learning. Tre sono gli assi organizzativi, corrispondenti a scelte in termini di qualità allora di accettare che vengano po- delle attrezzature soprattutto software, di articolazione dei contenuti, di modelli per l’ape l’insegnamento. Ancora tre sono i tipi di competenze richiesti a docenti e sti in discussione molti dei presup- prendimento studenti, precisamente di tecnica, enciclopedia, esperienza. Due risultano essere le matriposti del nostro insegnare e far ap- ci, a seconda che ci si orienti a ricalcare ordinamenti esistenti (Riproduzione) o a speriprendere. Come per la scrittura, mentarne di nuovi (Produzione). L’immagine è realizzata da Andrea Patassini, del Labopassando al contesto nuovo è ne- ratorio di tecnologie audiovisive cessario aprirsi alle prospettive di Scelte umane (e pedagogiche) e opzioni tecnologimutamento di spazi, modelli, stili, dinamiche, e alche sono un tutt’uno, da che esiste l’individuo che l’idea che non solo gli oggetti ma anche i soggetti scrive, e che scrive per l’altro. in scena assumano tratti di flessibilità e reciproca È questo uno dei principi cui fa riferimento l’impeintercambiabilità. gno di ricerca, comunicazione e formazione del LaNel digitale si apprende dall’apprendimento dell’alboratorio di Tecnologie Audiovisive, attivo dal 1990 tro, e questo vale anche per il docente; lì il contenunell’area educativa dell’Università Roma Tre e imto dell’apprendimento assume forme aperte, dove i pegnato dal 1999 in esperienze di didattica di rete legami tra i nodi sono più significativi dei nodi (la figura 1 riproduce l’home page attuale del blog stessi, e questo tocca il problema della riarticolaziodel Laboratorio). Tra i prodotti più recenti del grupne dei saperi; lì, ancora, l’esito delle dinamiche di po c’è la mappa riprodotta nella figura 2: una rapapprendimento/insegnamento è comunque un propresentazione tridimensionale dello spazio entro il dotto collettivo e connettivo, e questo segna una quale individuare la collocazione di ipotetiche pratigrosso elemento di sfida per la didattica. che di e-learning di stampo diverso, da quelle che Si può dunque decidere, in ambito universitario, di anche sul piano istituzionale intendono ricalcare le non aprire questa partita, perché la si considera perofferte e le strutture esistenti (le si troverà più vicine dente per l’identità (o la dignità) dell’istituzione. Poall’angolo della Riproduzione) a quelle che più se ne sizione legittima, ma, io credo, rischiosissima. Anche se si è fermamente convinti che la rete sia il luogo del massimo smarrimento e della massima distrazioNel digitale si apprende ne, non si può sfuggire al dato di fatto che i giovani e gli adulti che contattano le università già oggi sono dall’apprendimento dell’altro, e questo segnati e sempre più lo saranno domani da quel tipo vale anche per il docente; lì il contenuto di esperienza e da quel modo di concepire e praticare dell’apprendimento assume forme la conoscenza. Una difesa orgogliosa e rigida delle attuali modalità dell’insegnare metterebbe a repentaaperte, dove i legami tra i nodi sono glio la sopravvivenza stessa dell’istituzione. più significativi dei nodi stessi, Dunque, la via sembrerebbe segnata. Naturalmente e questo tocca il problema la si può percorrere in tempi e modi diversi, per esempio sostenendo prima esperienze di e-teaching della riarticolazione dei saperi e poi facendo maturare al loro interno soluzioni più avanzate in direzione reticolare, oppure sintonizallontanano (situandosi più vicine all’angolo oppozandosi subito e direttamente su questa seconda sto della Produzione). Va da sé che le esperienze naprospettiva. zionali delle Università telematiche figureranno In ogni caso è importante che non se ne faccia un molto vicine a R mentre quelle internazionali del problema esclusivo di macchine, e che si eviti di MOOCs se ne discosteranno, andando a trovare colrappresentare il passaggio come una subordinazione locazione nella metà dell’asse più vicina a P. di scelte umane a opzioni tecnologiche.
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C’è bisogno di ricerca Cambiare la valutazione d’ingresso di Benedetto Vertecchi
Se il dibattito sulle prove d’ammissione all’università non fosse viziato da un’eccessiva attenzione ad alcuni aspetti contingenti, e tenesse in considerazione una più ampia prospettiva temporale, si potrebbe giungere a conclusioni molto diverse da quelle che si sentono, spesso ossessivamente, ripetere e, Benedetto Vertecchi soprattutto, si capirebbe meglio qual è il nesso che collega la valutazione per passaggio dalla scuola secondaria all’università allo sviluppo complessivo dei sistemi educativi. Sarebbe, infatti, possibile ricostruire il cambiamento intervenuto da situazioni nelle quali, per lo scarso numero di allievi coinvolti, ma anche, e soprattutto, per la loro appartenenza sociale, la valutazione non aveva una funzione di particolare rilievo, limitandosi per lo più a fungere da elemento regolatore della didattica, alle condizioni attuali, nelle quali certe pratiche valutative hanno un rilievo centrale nello sviluppo di un percorso di studi e conseguenze sulle condizioni successive di esistenza degli allievi. I sistemi educativi contemporanei (mi riferisco ai paesi europei e a quelli che altrove ne hanno ripreso la cultura) sono riconducili a due principali tradizioni. La prima risale alla Riforma religiosa avviata da Lutero con l’affissione, il 31 ottobre del 1517, delle sue 95 tesi alla porta della Cattedrale di Wittenberg. Può sembrare strano, e per molti versi lo è, che si indichi non solo l’anno, ma anche il mese e il giorno in cui ha preso avvio un fenomeno così complesso, che per raggiungere le dimensioni che oggi lo caratterizzano ha impiegato circa mezzo millennio. Il fatto è che, al di là degli aspetti religiosi, la Riforma rompeva una concezione della cultura delle popolazioni alla quale era estranea l’idea del possesso diffuso di un repertorio di competenze simboliche. Richiamando il popolo cristiano a riflettere senza intermediari sul messaggio delle Scritture, Lutero apriva, per un verso, un contrasto con la Chiesa di Roma, dall’altro poneva un’esigenza, per così dire, tecnica, quella di saper leggere. Improvvisamente, l’apprendimento formale diventava, nell’Europa riformata, un aspetto non rinunciabile nel profilo delle popolazioni. La valutazione assumeva rilevanza soprattutto perché funzionale allo sviluppo di una proposta didattica rivolta a tutti, senza differenze di status o di censo. Ciò non comportava, tuttavia, che la valutazione assumesse il ruolo sociale che è venuta acquisendo successivamente e che,
per molti versi, possiede ancora. Se l’acquisizione di competenze alfabetiche di base costituiva una condizione che doveva essere uniformemente posseduta, i processi di differenziazione sociale potevano continuare a svilupparsi per altre vie, come, in effetti, è avvenuto dove si è affermata la Riforma. La valutazione ha incominciato ad assumere la rilevanza che oggi le si riconosce quando almeno parte della differenziazione sociale si è caratterizzata per il possesso di un cultura formale di qualche consistenza, a cominciare, ovviamente, dalle competenze alfabetiche. È un fenomeno che non si è verificato in modo sincrono, ma si è manifestato in concomitanza o all’interno di altri cambiamenti significativi nelle condizioni di vita delle popolazioni. Per esempio, sarebbe
Le università hanno la responsabilità di non aver definito autonomamente in che modo assolvere al loro compito valutativo, ma di averlo affidato a società di servizio che per lo più si sono limitate a replicare le prove partendo da alcuni modelli internazionali
difficile immaginare la razionalizzazione intervenuta nell’organizzazione di alcuni stati europei nel Settecento senza supporre l’esistenza di una cultura distribuita in parti della popolazione di qualche consistenza, così come i progressi dell’industrializzazione hanno richiesto che il profilo dei lavoratori non si limitasse soltanto alla forza fisica e alla capacità di eseguire compiti su base esclusivamente sapienziale. Da un punto di vista sociale e valutativo, il quadro si è complicato quando si è incominciato a ragionare di educazione formale non solo per l’esigenza che occorreva soddisfare (immateriale nel caso della Riforma, materiale negli altri), ma nell’ambito di una diversa visione dei diritti e dei doveri delle persone: l’educazione ha assunto rilevanza politica, e la valutazione è diventata strumento perché le scelte effettuate non fossero solo enunciati privi di conseguenze. Così, per esempio, uno dei principi della Rivoluzione francese è consistito nell’affermare il diritto all’istruzione. Ma, se l’istruzione era un diritto, e non solo un modo per soddisfare questa o quell’esigenza, come stabilire fino a che punto tale diritto dovesse estendersi? Per salvarsi l’anima bastava saper leggere le Scritture, ma per partecipare alla vita sociale esprimendo al meglio le proprie capacità quanto si sarebbe dovuto proseguire negli studi? È significativo che a questi interrogativi sia stata data per lo più una risposta indiretta. Per restare in Francia, in piena età napoleonica incominciavano a
sollevarsi polemiche circa la certificazione degli studi secondari. Alcune delle domande che l’opinione pubblica si poneva non erano apprezzabilmente diverse da quelle che oggi si continuano a porre, e cioè se il sistema degli esami non finisca per favorire una apprendimento ripetitivo e privo di spessore critico, se gli allievi non finissero per impegnarsi solo in ciò che sarebbe stato verificato agli esami e in funzione del modo in cui tale verifica si sapeva che sarebbe avvenuta e così via. Quel che sorprende non è che si potessero porre simili domande, ma che fossero poste in un contesto in cui solo una frazione minima della popolazione potenziale concludeva il percorso degli studi secondari. L’asprezza del dibattito sugli esami che in molti paesi si è manifestata già nel corso dell’Ottocento, se apparentemente si collegava a enunciati educativi magniloquenti, era molto più realisticamente da collegare a una funzione di moderazione della mobilità sociale. Attraverso gli esami conclusivi della scuola secondaria si poteva disciplinare l’accesso alle università, e di conseguenza all’assunzione di ruoli sociali di livello elevato. È nota la polemica che si trovò a contrastare Horace Mann come segretario del Board of Education nello Stato del Massachusetts attorno al 1840. La questione riguardava la qualità degli studi e le posizioni che si opponevano erano le stesse che hanno continuato a proporsi successivamente, e cioè se la crescita del numero degli allievi delle scuole secondarie non fosse causa del decadimento degli studi. Quel che è interessante notare, perché rappresenta il punto critico nel dibattito sugli esami, è che non ci si chiedeva (e si continua a non chiedersi) perché determinati esiti non corrispondono alle attese, ma solo se non corrispondono. La differenza è sostanziale. Se ci si pone la prima domanda, si intende capire i processi e le trasformazioni che sono in atto al loro interno, ma se ci si limita a costatare se vi sia corrispondenza tra risultati attesi e risultati osservati il criterio di giudizio è sottratto all’analisi delle condizioni nelle quali ha operato l’educazione. Vale la pena di osservare che nel corso del Novecento il confronto sugli esami finali della scuola secondaria è stato il principale tema di contrapposizione tra conservatorismo e innovazione nei sistemi scolastici. Non che la questione si sia presentata nei termini politici ora indicati. Si è, invece, per lo più ammantata di considerazioni metodologiche e tecniche. Anzi, proprio da tali considerazioni ha avuto origine il precisarsi della sistematica valutativa che ha dato luogo al precisarsi, nell’ambito della conoscenza educativa, di una disciplina autonoma (la docimologia). Dopo la Prima Guerra Mondiale in molti paesi (non in Italia, dove si esprimevano gli intenti malthusiani della riforma Gentile) si verificò una rapidissima crescita della popolazione delle scuole secondarie. Un aspetto comune era che dappertutto gli esami che concludevano quel livello degli studi (comunque fossero denominati: Abitur, baccalauréat, General Certificate of Education eccetera) avevano assunto una grande rilevanza. Molti si chiedevano quale fiducia potesse aversi nei confronti dei risultati: la sistematica valutativa prima menzionata ebbe origine proprio da una serie di ricerche promosse per dare risposta a tale interrogativo. Contemporaneamente si
incominciava a profilare quella necessità di comparare gli esiti dei sistema educativi (nei quali il passaggio tra il livello secondario e quello terziario costituisce uno snodo fondamentale) che si sarebbe nel seguito manifestata in modi sempre più pressanti. L’ulteriore crescita delle quote di popolazione scolarizzata dopo la Seconda Guerra Mondiale ha spostato l’asse dell’attenzione dalla certificazione degli studi secondari all’ammissione all’università. Nei paesi industrializzati larga parte della popolazione in uscita dalle scuole secondarie tendeva a proseguire gli studi nelle università (o in strutture terziarie). Ancora una volta, la questione degli esami diventava il punto di partenza per un nuovo sviluppo della ricerca educativa. Alla fine degli anni quaranta un importante congresso dell’American Educational Research Association (Aera) decideva di introdurre criteri comuni per l’ammissione alle università. Il compito di predisporre la piattaforma teorica per tale operazione fu affidato a una commissione coordinata da Benjamin Bloom, uno studioso che ha avuto un ruolo di primo piano nello sviluppo della ricerca educativa della seconda metà del Novecento. Il rapporto prodotto da Bloom conteneva l’indicazione degli obiettivi che si sarebbero dovuti accertare per l’ammissione all’università. Quel rapporto ha avuto un grande merito, quello di aver tentato di sottrarre alla casualità e alle mode contingenti i criteri di giudizio, ma anche il limite di aver accreditato soluzioni strumentali che, specialmente in paesi come l’Italia, nei quali manca una tradizione autonoma di ricerca valutativa, hanno finito con l’essere considerate le uniche possibili. Le università italiane quando si sono trovate di fronte a una richiesta di accesso alla quale non erano in grado di rispondere hanno fatto ricorso alla soluzione più banale, che era quella di riprodurre le prove che nell’immaginario collettivo corrispondevano alle pratiche più diffuse al di là dell’Atlantico. Le università hanno la responsabilità di non aver definito autonomamente in che modo assolvere al loro compito valutativo, ma di averlo affidato a società di servizio che per lo più si sono limitate a replicare le prove partendo da alcuni modelli internazionali. Sarebbe stato necessario impegnarsi nella ricerca, ma si è preferito seguire la via più facile, senza considerare che i cambiamenti in atto nella conoscenza e della metodologia stavano investendo anche la valutazione. Oggi abbiamo logiche e strumentari arcaici: non sarebbe il caso di guardarsi intorno e di tentare, anche in Italia, nuove vie?
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Prospettive di placement Diritto all’apprendimento e all’occupabilità di Giuditta Alessandrini
Il diritto all’apprendimento é correlato significativamente – secondo gli indirizzi europei – al diritto di cittadinanza e si “espande” nell’intero arco di vita della persona come diritto a vedere riconosciute e valorizzate le competenze formali (i titoli conseguiti) e non formali (l’esperienza). È questo Giuditta Alessandrini nodo che acquista un valore centrale come istanza di giustizia sociale e contrasto alle disuguaglianze in quanto diritto all’occupabilità. Nelle Università accanto ai compiti della ricerca e della docenza, si sta radicando oggi la terza missione, cioè il trasferimento e la diffusione della conoscenza in stretto rapporto con il territorio (il tessuto produttivo, la pubblica amministrazione, i corpi intermedi). L’investimento nel raggiungimento delle competenze è – dunque – uno strumento di sviluppo del capitale umano. Ma come scorgere la situazione del paese rispetto allo sviluppo di questo capitale? Dalle indagini di settore (OCSE) emerge che l’Italia è penalizzata per le prospettive di investimento in capitale umano alla luce del divario con altri paesi che presentano quote di occupati di formazione terziaria (laurea magistrale) in misura maggiore che il nostro. In altri termini siamo un paese a rischio competitivo e con un basso livello di qualificazione del capitale umano rispetto alla media dei paesi UE (37,5% contro il 19,5%). La debolezza della richiesta di persone qualificate nel mondo del lavoro è legata da noi ad una specializzazione produttiva in settori a tecnologia matura, e, soprattutto, alla piccola dimensione delle imprese. Secondo l’Employment Outlook dell’OCSE (luglio 2013) sono due le preoccupanti caratteristiche del mercato del lavoro italiano (cfr. anche la tavola seguente): • la disoccupazione è destinata a crescere anche nel corso del 2014, quando toccherà il 12,6%, in contrasto con le previsioni della media OCSE che prospetta per la fine del 2014 un lieve miglioramento dall’attuale 8% al 7,8%. In cinque anni il tasso di disoccupazione in Italia è raddoppiato, passando dal 6,2% del 2007 al 12,2% del giugno 2013; • mentre il tasso di occupazione più “anziana” continua a crescere, il tasso di disoccupazione giovanile sale in maniera preoccupante, per effetto del-
la mancata nuova occupazione e dei licenziamenti dei lavoratori precari. Il tasso di disoccupazione tra i 15 e i 24 anni è passato nello stesso periodo dal 35,4% al 37,5%. Il 52,9% dei giovani fra i 15 e i 24 anni è occupato a tempo determinato.
Per far fronte a questa situazione dal 1° gennaio 2014 verrà istituita in via sperimentale presso il Ministero del Lavoro una “struttura di missione” per dare attuazione agli obiettivi fissati a livello europeo dal piano c.d. Garanzia per i giovani (Youth Guarantee) di cui alla Raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea del 22 aprile 2013 (l’obiettivo in estrema sintesi: garantire agli under 25, entro quattro mesi dal termine degli studi o dalla perdita di un impiego, una buona offerta di lavoro, un corso di perfezionamento, un contratto di apprendistato o un tirocinio di qualità).
3. Le politiche di Roma Tre Il quadro normativo in riferimento al tema del placement universitario nasce dalla Legge 30 ed il D.L. 276 (art. 1, comma 2, lettera l), secondo cui le università sono tra i soggetti da includere nel regime autorizzatorio o di accreditamento per gli intermediari pubblici. Si ricorda anche che il D.lgs. 276/03, art. 6, comma 1, (Regimi particolari di autorizzazioni) autorizza «allo svolgimento delle attività di intermediazione le università pubbliche e private, comprese le fondazioni universitarie che
Nelle Università accanto ai compiti della ricerca e della docenza, si sta radicando oggi la terza missione, cioè il trasferimento e la diffusione della conoscenza in stretto rapporto con il territorio
hanno come oggetto l’alta formazione con specifico riferimento alle problematiche del mercato del lavoro». L’occupabilità – insomma – é parte integrante della qualità dell’offerta curricolare di un Ateneo: secondo la Legge 01/09, art. 4, il 7% del FFO é descrivibile come “quota premiale”. L’Indicatore A5 è la percentuale di laureati occupati a tre anni dal conseguimento del titolo. Ciò significa che ogni Ateneo è valutato anche per il livello di occupabilità che riesce a generare nei suoi laureati. Negli ultimi anni, un notevole impulso è stato dato dalla partecipazione dell’Ateneo ad alcuni progetti (Fixo, Un ponte rosa, Soul, TIPO, Start-up) che hanno permesso di acquisire risorse finanziarie e Know how per un costante sviluppo dei servizi e di
attivare inoltre, attraverso tirocini retribuiti, occasioni di inserimento professionale per i giovani laureati. In particolare, la partecipazione ai bandi regionali, con l’avvio del Progetto SOUL in partnership con La Sapienza, ha reso possibile la realizzazione di alcuni ambienti informatici che oggi con-
Negli ultimi anni, un notevole impulso è stato dato dalla partecipazione dell’Ateneo ad alcuni progetti (Fixo, Un ponte rosa, Soul, TIPO, Start-up) che hanno permesso di acquisire risorse finanziarie e Know how per un costante sviluppo dei servizi e di attivare inoltre, attraverso tirocini retribuiti, occasioni di inserimento professionale per i giovani laureati
sentono ai nostri studenti di partecipare al matching diretto con le imprese. A tale scopo la piattaforma Jobsoul favorisce l’incontro fra i laureati in cerca di occupazione e le imprese registrate ed è inoltre in grado, grazie agli ultimi aggiornamenti, di gestire per intero il processo di attivazione, svolgimento e rendicontazione dei tirocini (www.jobsoul.it). I più recenti aggiornamenti della piattaforma hanno consentito inoltre di sviluppare una versione di Ateneo del portale jobsoul attraverso la quale assolvere in tempi rapidi agli obblighi di pubblicazione dei curricula dei laureati. Nel 2010 è stato dato avvio al progetto biennale Start Up, progetto finanziato dalla Regione Lazio Per lo svolgimento delle attività il nostro Ateneo si è costituito in ATS con i partner “La Sapienza Università di Roma” e “IRFI – Istituto di Formazione della Camera di Commercio”. Un plauso in particolare come buona pratica del nostro ateneo allo sviluppo e il rafforzamento di reti di rapporti interni a cui si è dedicato l’ufficio job placement grazie ai nuovi servizi attivati. Un altro punto di forza di Roma tre é l’attività di collaborazione con AlmaLaurea, attiva già dal 2004. AlmaLaurea ha ceduto complessivamente 450.000 curricula ad aziende italiane e straniere (54.000 nominativi in questi anni provenienti dal nostro Ateneo). Inoltre, tutti i CV sono resi disponibili in lingua inglese consentendo così la massima visibilità all’estero dei curricula dei laureati. Inoltre, il 47% dei laureati dell’Ateneo ha utilizzato i servizi disponibili sul si-
to di AlmaLaurea (aggiornamento del curriculum, invio della propria candidatura ad annunci di lavoro presenti in bacheca. Vedasi: www.almalaurea.it). Un altro punto di interesse negli ultimi due anni, il programma “Formazione e Innovazione per l’Occupazione FIxO Scuola & Università” promosso dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e realizzato grazie all’’assistenza tecnica di Italia Lavoro. FIxO è un programma di durata triennale (dicembre 2011/dicembre 2013). Attraverso il rafforzamento e la qualificazione dei servizi di placement sono state sviluppate attività mirate all’occupabilità di giovani laureati e favorire la diminuzione dei tempi di transizione dal sistema della istruzione e formazione a quello del lavoro. L’Ateneo Roma tre ha inoltre dato via all’apertura del Centro per l’Impiego Provinciale in via Ostiense 169. La Provincia di Roma in collaborazione con SOUL ha offerto in questo modo ai nostri laureati, laureandi e ai giovani presenti sul territorio per motivi di studio, la possibilità di avere a disposizione un ulteriore punto di riferimento per confrontarsi con il mondo del lavoro e soprattutto per stabilire un primo contatto con le imprese. Il sistema universitario italiano certamente può essere utile, ma da solo non porterà alla soluzione dei problemi relativi alla presenza di un sistema produttivo che non riesce adeguatamente ad innovarsi e ad investire nei settori portanti dell’economia. La scarsa diffusione dell’apprendistato di alta formazione – soprattutto nel centro Sud – tra le aziende, nonostante gli incentivi, evidenzia il disinteresse delle imprese a profili professionali di alto livello. Molta strada occorre percorrere per generare forme di collaborazione innovative tra università ed impresa che giungano anche a dar vita a spin off e start up valorizzando profili ad alta qualificazione come i dottori di ricerca ed i ricercatori. Ciò che é essenziale é generare una nuova cultura della partnership tra mondo produttivo ed Atenei tesa a sviluppare concreti percorsi di integrazione su percorsi formativi che valorizzino forme di apprendimento immersivo e partecipativo del giovane laureato nei contesti produttivi anche incentivando l’orientamento all’imprenditorialità.
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La poetica dell’educare La parola chiave è condivisione di Gilberto Scaramuzzo
Non c’è nulla di originale nel congiungere l’arte poetica all’educazione: nella Grecia antica queste due realtà erano già saldamente legate. Eppure, forse, un riflettere nuovo, e non del tutto scontato, si può aprire se si guarda da una segnata angolazione ai due fattori che compongono il binomio. Gilberto Scaramuzzo Si può, infatti, guardare a chi svolge l’azione educativa (un insegnante, un educatore, un formatore) come a qualcuno che esercita una poetica, e provare a descrivere quel che si riesce a vedere guardando da quella prospettiva. Questo modo di ripensare il legame che unisce la poesia e l’educazione può prendere avvio dalla rilettura di una pagina nota di Aristotele – Poetica 4. 1448 b4 ss. –, quella in cui l’autore rivela perché l’essere umano è in grado di fare poesia, e presenta una serie di cause tutte naturali che si possono sintetizzare come segue: a) l’essere umano tra tutti gli animali eccelle per la qualità del suo fare mimesis (è, cioè, il migliore tra gli animali per il modo in cui sa rendersi simile a qualcuno o a qualcosa; come è anche il migliore nel trovare e nel costruire le somiglianze); b) il cucciolo dell’uomo inizia l’attività mimesica fin dall’infanzia (si pensi a quel giocare del bambino in cui egli fa come se fosse la mamma, la maestra…), e si procura attraverso di essa gli apprendimenti e le comprensioni fondamentali; c) tutti traggono piacere osservando o ascoltando le mimesis prodotte dagli altri (anche se queste rivelano situazioni che nella vita reale ci farebbero orrore) perché attraverso il godimento di queste opere si può apprendere e comprendere, e questo è ciò che piace all’essere umano. La riflessione che Aristotele propone intorno al fare poesia dell’uomo si articola, dunque, attraverso tre concetti chiave: mimesis, apprendere/comprendere, piacere. Se proviamo a passare dal piano teorico a quello dell’agire pratico, ci accorgiamo immediatamente di
come questi tre concetti rivelino tre nodi fondamentali e problematici dell’agire educativo. Guardiamo, dunque, all’operare di un insegnante: possiamo pensare alla sua lezione come a una mimesis (una sorta di opera d’arte che rappresenta qualcosa che si vuole venga compreso) creata magistralmente grazie alla sua capacità mimesica (quella capacità che consente all’insegnante di trovare, per
A scuola si fatica a provare piacere durante le lezioni (questo può valere sia per gli insegnanti sia per gli studenti); il processo dell’apprendere/comprendere appare alquanto problematico e spesso non soddisfacente; sembra sussistere una sottovalutazione (una profonda ignoranza della rilevanza?) del dinamismo che esprime la terza parola chiave: mimesis
esempio, le parole adatte per spiegare un concetto); possiamo pensare ai suoi studenti come eccellenti ascoltatori mimesici in grado, attraverso questo stesso dinamismo (mimesis), di apprendere e comprendere la lezione presentata dall’insegnante (di assimilarla); e possiamo pensare alla lezione che li vede coinvolti come la celebrazione di un atto piacevole (qualunque sia il tema trattato, anche il più umanamente atroce) perché attraverso questa comunione si produce un processo di apprendimento e di comprensione, che è quel che l’essere umano naturalmente ricerca. Intorno ai tre concetti chiave proposti da Aristotele – piacere, apprendere/comprendere, mimesis – sembra ruotare la crisi che segna oggi il mondo dell’educativo. A scuola si fatica a provare piacere durante le lezioni (questo può valere sia per gli insegnanti sia per gli studenti); il processo dell’apprendere/comprendere appare alquanto problematico e spesso non soddisfacente; sembra, inoltre, sussistere una sottovalutazione (una profonda ignoranza della rilevanza?) del dinamismo che esprime la terza parola chiave: mimesis. E se proprio in questa ultima sottovalutazione risiedessero le cause della crisi educativa attuale? Se,
cioè, a causare l’inefficacia (così come l’efficacia) di tante azioni educative, fosse proprio la dis-attenzione (oppure l’attenzione) al fatto che l’apprendere e il comprendere hanno una natura mimesica, e che questa costituisce il procedimento naturale in cui essi si realizzano?
Proviamo dunque a rivalutare mimesis rileggendo le cause naturali indicate da Aristotele per giustificare il fare poesia umano. L’essere umano tra tutti gli animali eccelle per la qualità del suo fare mimesis
Aristotele qui – nella Poetica – propone una definizione di essere umano che non ha avuto, nella riflessione che in Occidente si è sviluppata intorno al problema dell’educare, la stessa fortuna di un’altra definizione di essere umano presentata dallo stesso autore nella Politica – l’uomo è un animale razionale –. La definizione della Poetica – che riconosce l’essere umano come animale mimesico per eccellenza – non pone l’essere umano in contrapposizione con gli altri animali, come, invece, evidentemente fa quella della Politica – affermando la razionalità come esclusivo possesso umano –, ma ne rivela soltanto una misteriosa perfezione. Che succederebbe se nel processo che fa di un bambino un adulto educato ci si prendesse cura della sua natura mimesica oltre che della sua natura razionale? Su un’antropologia mimesica, una volta rivalutata e sviluppata in sinergia con quella razionale, potrebbe anche fondarsi un’altra qualità della convivenza tra gli esseri umani? E quella dell’essere umano con gli altri esseri?
Che succederebbe se nel processo che fa di un bambino un adulto educato ci si prendesse cura della sua natura mimesica oltre che della sua natura razionale?
Sarebbe questa una ri-fondazione che potrebbe donare all’agire educativo un respiro vasto, che vada ben oltre quanto può essere contenuto dall’esempio relativo all’insegnante a cui abbiamo accennato poc’anzi? Ri-fondare la riflessione educativa su un homo riconosciuto come mimesico, oltre che razionale, può creare prospettive ricche di implicazioni positive per il processo dell’apprendere/comprendere che si realizza in
Poesia e mimesis, Libreria Arion, via Veneto, Roma. Mimesis Lab
ambito scolastico; ma può fare anche molto di più: può aprire prospettive per una ri-qualificazione del relazionarsi umano con l’altro da sé (sia esso un altro umano o altro dall’umano): una riqualificazione che abbia come principio e come fine il com-prendere.
Il cucciolo dell’uomo inizia l’attività mimesica fin dall’infanzia, e si procura attraverso di essa gli apprendimenti e le comprensioni fondamentali
Qui Aristotele ci consente di capire in maniera semplice che cosa sia fare mimesis. L’attività mimesica è quel giocare che mettono in atto i bambini di oggi, così come quelli di ieri, quando fanno come se fossero la mamma, un leopardo, un aereo, un’onda del mare… Fare la mimesis di qualcuno, o di qualcosa, può essere definito come il rendersi simile a quel qualcuno o a quel qualcosa (cf. Platone, Repubblica, 3. 313 c ss.); l’attività mimesica ci appare come un processo di apertura dell’esserci del bambino, cosicché l’altro da sé si voglia in lui come lui per se stesso lo vuole. Un misterioso fare e farsi fare dalla realtà che si rappresenta (basti
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pensare al bambino che gioca a essere un cavallo: in questo suo agire, quanto le caratteristiche che appartengono al cavallo sono a fondamento del suo modellarsi? Eppure egli, in qualche modo, guida questa sua espressione…); un misterioso agire, di cui parlano molti artisti e filosofi quando descrivono l’atto creativo, in cui mentre si agisce si è anche agiti: un atto che sembra essere assieme volontario e necessario. Potremmo riconoscere la mimesis come una certa intensità nel ri-vivere la realtà che si
Ri-fondare la riflessione educativa su un homo riconosciuto come mimesico, oltre che razionale, può creare prospettive ricche di implicazioni positive per il processo dell’apprendere/comprendere che si realizza in ambito scolastico; può aprire prospettive per una ri-qualificazione del relazionarsi umano con l’altro da sé, una riqualificazione che abbia come principio e come fine il com-prendere
va esprimendo, un vivere – questo – che comporta il rendersi intimamente e originalmente simili all’altro che, attraverso l’atto mimesico, si viene a manifestare. Non sarà soltanto dovuto al caso che molti ex-studenti dichiarano, a distanza di anni dagli insegnamenti ricevuti, di aver dimenticato quasi tutto quel che i loro insegnanti volevano che essi apprendessero durante il percorso scolastico (e per cui al tempo si erano ricevute anche buone valutazioni). Mentre affermano di ricordare quegli insegnamenti che furono comunicati a loro vivi, da un’insegnate che aveva la capacità di vivere con passione (potremmo quasi dire: un insegnante che aveva la capacità di farsi intenzionalmente e intimamente simile a) quel che stava insegnando; oppure quelli in cui si era stati guidati, da un insegnante che evidentemente conosceva profondamente la poetica dell’apprendere/comprendere, a ricercare in proprio una qualità vera e viva di incontro con l’oggetto di studio.
Tutti traggono piacere osservando o ascoltando le mimesis prodotte dagli altri (anche se queste rivelano situazioni che nella vita reale ci farebbero orrore) perché attraverso il godimento di queste opere si può apprendere e comprendere, e questo è ciò che piace all’essere umano.
Questa ulteriore causa naturale che Aristotele utilizza per giustificare il perché del fare poesia umano, ci conduce a riflettere su qualcosa di fondamentale per ri-pensare l’azione educativa: l’essere umano ricerca l’apprendere e il comprendere perché in questa attività trae piacere. Non c’è, dunque, nulla da forzare o da deviare affinché uno studente che fre-
quenta la scuola si direzioni naturalmente verso il comprendere; ma c’è, piuttosto, un dinamismo (che ogni insegnante, o educatore, deve pre-occuparsi di conoscere a fondo) da servire appropriatamente, ed è proprio quello stesso dinamismo che Aristotele ha riconosciuto essere presente in maniera eccellente – rispetto agli altri animali – nell’animale-umano. Così come, da bambino, l’essere umano prova piacere quando ri-conosce facendone la mimesis questa o quella persona (la madre, la maestra…), questo o quel personaggio (un mostro dei cartoni, l’Uomo ragno…), questa o quella realtà (un cavallo, un’onda…); così crescendo egli può intensificare questo piacere, finalizzato al comprendere, estendendo la mimesis (il proprio farsi simile) dalle cose che colpiscono i suoi sensi, o la sua fantasia, a qualunque concetto, o a qualunque opera dell’ingegno umano, che disvela una più complessa realtà, anche puramente teorica o astratta. Ri-pensare al ruolo giocato dalla mimesis nella dinamica educativa potrebbe aprire la via a un’educazione che possa ri-conoscersi come poetica? Un’educazione, cioè, in cui chi insegna (o chi, a qualunque titolo, svolga un’azione educativa) si faccia egli stesso, attualmente, a immagine e somiglianza di quel che attualmente comunica; e chi è insegnato (o, più in generale, educato) venga supportato a crescere nella sua intenzionalità di ri-vivere in sé quel che viene scelto come materiale da apprendere/comprendere. Quali giovamenti potrebbe portare alla convivenza un’educazione che rivaluti appropriatamente la natura mimesica umana? Da alcuni anni il MimesiLab – Laboratorio di Pedagogia dell’Espressione del Dipartimento di Scienze della formazione ha attivato una serie di sperimentazioni. Queste si sono realizzate in scuole (un progetto particolarmente ricco è stato realizzato presso l’Istituto
La riflessione che Aristotele propone intorno al fare poesia dell’uomo si articola, dunque, attraverso tre concetti chiave: mimesis, apprendere/comprendere, piacere
Comprensivo “Daniele Manin” di Roma, dove sono stati coinvolti bambini e insegnanti di tutte le classi, dalla scuola dell’infanzia alla scuola media, e gli adulti stranieri che frequentano il CTP); in ospedali; in centri per rifugiati e in altre realtà sociali del territorio; in musei e in istituti culturali. I risultati sembrano evidenziare le prospettive edificanti che un’educazione poetica potrebbe aprire per la convivenza tutta. Il rendersi simile all’altro per comprenderlo – quel dinamismo che è il proprio dell’atto mimesico – sembra essere qualcosa che è bene allenare con cura in un momento complesso (e, forse, triste) come quello attuale: questa attività potrebbe, infatti, fornire coordinate utili a ridonare bellezza e giustizia al vivere dell’uomo con l’uomo.
Una stanza tutta per noi Venti anni di rigoroso lavoro di Sveva Magaraggia
Comunemente si dice che il sapere delle donne sia un sapere legato all’esperienza, un sapere quindi che matura e si sviluppa a partire dalle proprie esperienze di vita, mentre quello maschile sia un sapere teorico, che abbia un diverso radicamento nelle esperienze di vita quotidiana. Una tra le principali Sveva Magaraggia cause di questa differenza sta nel fatto che sino a poco tempo fa le donne non avevano accesso alle università, al sapere teorico – soltanto nel 1874 venne permesso l’accesso delle donne alle università. Le donne hanno colmato questa ingiustizia attraverso le esperienze e l’autodisciplina. Virginia Woolf, nel suo magnifico saggio Una stanza tutta per sé, pubblicato nel 1929 mette in luce le motivazioni che hanno spinto gli uomini a costruire un mondo che escludesse le donne dalla sfera pubblica. I numerosi trattati sull’inferiorità delle donne scritti nel recente passato hanno la funzione di sancire la superiorità maschile, di cementare quella fiducia in se stessi necessaria per sentirsi adatti alla vita. Il modo più rapido per aumentare questa fiducia, dice la Woolf, è quello di pensare gli altri come inferiori. «Perciò è così importante, per un patriarca il quale deve conquistare, il quale deve governare, la possibilità di sentire che moltissime persone, la metà della razza umana infatti, sono per natura inferiori a lui. Anzi, deve essere questa una delle fonti principali del suo potere». Oggi, in un orizzonte sociale in cui si iscrivono all’università più donne che uomini, dobbiamo chiederci come queste memorie di genere si rispecchino nella produzione dei saperi. Sempre più anche gli uomini stanno imparando a tenere conto della propria differenza sessuale, si sono ormai accorti della scomodità della posizione di neutro, di «prototipo unico della specie umana», per usare le parole di Lea Melandri. Cercano nella controparte femminile, non solo una funzione di «specchio magico e delizioso in cui si
rifletteva la figura dell’uomo, raddoppiata», bensì un polo di dialogo capace di critica costruttiva. Infatti, in questi ultimi anni alcuni gruppi di donne e uomini si confrontano su cosa significhi essere esseri sessuati e produrre sapere, fare politica e costruire relazioni. Si interrogano a partire, ad
Il maschio bianco, eterosessuale e normodotato ha scoperto di essere parziale tanto quanto lo sono le donne, o i maschi non bianchi, non eterosessuali e non normodotati
esempio, dal linguaggio, cercando di sottrarre all’oblio dell’ovvietà e del senso comune parole che hanno assunto nel tempo significati stereotipati e inflessibili. Ri-articolano parole non solo per esprimersi in modi diversi, bensì anche per dare forme diverse agli orizzonti simbolici, per provare a nominare, spiegare, delimitare le relazioni sociali con enunciati diversi, per sovvertire le formazioni discorsive di Foucaultiana memoria. Per, in altre parole, rivoluzionare le strutture simboliche nel loro insieme. Un sapere deve essere in grado di tenere conto delle differenze che ci contraddistinguono, soprattutto oggi, in una società in cui le istituzioni e i processi economico-sociali che determinavano la tradizionale divisione di genere si stanno sgretolando – penso ad esempio al mercato del lavoro che non è più capace di produrre un male breadwinner, unica e sufficiente fonte di reddito per tutta la famiglia – e con esse anche le forme del maschile e del femminile delle passate generazioni - penso ad esempio alle identità maschili che non si possono più costruire prevalentemente attorno alla sfera pubblica, incapace di fornire sufficiente spazio di riconoscimento. La crisi sociale che sta caratterizzando la nostra contemporaneità potrebbe esser l’occasione per provare a ridefinire i nostri paradigmi e per iniziare a ricostruire delle relazioni sociali capaci di mettere in luce le somiglianze piuttosto che le differenze. Il maschio bianco, etero-
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sessuale e normodotato ha scoperto di essere parziale tanto quanto lo sono le donne, o i maschi non
che giocano un ruolo cruciale per l’affermazione di un particolare senso comune. I fronti su cui agire sono quindi molteplici; partiamo da queste consapevolezze e con umiltà proviaLa sfida sta proprio nell’individuare mo a costruire un sapere inclusivo e realmente capace sia di costruire una progressiva ridefinizione dei similitudini nelle parzialità, parametri che strutturano il nostro orizzonte sia di punti in comune piuttosto che differenze accogliere e dare voce ai policromi modi di conotra uomini e donne e partire da qui scere legati ai vissuti e alle esperienze individuali. Un esempio concreto di questo percorso è rappreper costruire un sapere che non abbia sentato dai recenti dibattiti sulla violenza maschile la fallace velleità di essere universale, contro le donne. Il dialogo tra i generi su queste tema che aneli ad essere plurale matiche sta trasformando radicalmente i paradigmi di questo discorso, e sta permettendo di indagare la e che comporti una ricerca di nuove violenza maschile non come un’emergenza che riforme di universalità che siano guarda alcuni gruppi devianti, bensì come una forconcrete, situate e corporee ma strutturale esistente nelle relazioni tra uomini e donne «che è incorporata nel linguaggio, nella divisione sessista del lavoro, nelle tradizioni religiose bianchi, non eterosessuali e patriarcali, nei sistemi politici non normodotati. E se l’occule nelle strutture materiali e tamento simbolico dietro cui si simboliche più profonde», coè celato il sapere del maschile me sostengono Barbara Mapelsi sta svelando, allora possiali e Marco Deriu. mo supporre che le dinamiche Questo dialogo tra saperi sesdi potere stiano mutando. Insuati sta permettendo, quindi, fatti, il silenzio è l’espressione di definire la violenza maschistessa del potere: che sia il le non come violenza originabianco quando si parla di etria che abbisogna della cultura nie, l’età adulta quando si disper essere sconfitta, bensì cocute di età o la maschilità in me radicata nella cultura: coambito di genere, il polo più me una conferma esacerbata di forte in questi binomi è semun ordine culturale. pre rimasto taciuto, neutro, inÈ grazie alla creazione di spazi visibile. Non è un caso che aldi dialogo tra i generi, nonché cuni dei progressi compiuti al prezioso lavoro svolto dalle nella democratizzazione dei donne a partire dai primi movirapporti sociali siano stati otmenti femministi, che si è potenuti proprio quando queste tuto interrogare la violenza cocategorie cruciali sono state Sonja Kovalewskaja, matematica e fisica russa, fu me una questione culturale prima donna in Europa ad ottenere una cattedra problematizzate, articolate e la profonda. Partire dall’analisi universitaria (1889, Svezia) rese visibili. dei nostri diversi posizionaLa sfida sta proprio nell’indimenti di fronte al mondo, viduare similitudini nelle parzialità, punti in comudall’assunzione quindi di uno sguardo riflessivo e ne piuttosto che differenze tra uomini e donne e critico, è la condizione indispensabile per lo sviluppartire da qui per costruire un sapere che non abbia po di una consapevolezza sociale che renda esplicila fallace velleità di essere universale, ma che aneli te le diverse forme di complicità, di tolleranza e di ad essere plurale e che comporti una ricerca di nuove forme di universalità che siano concrete, siSarebbe una vittoria per la nostra tuate e corporee. civiltà poter festeggiare i 150 anni Sappiamo che per trasformare il senso comune e le sue rappresentazioni serve un confronto discorsivo dell’ammissione delle donne fra le rappresentazioni della realtà offerte da cernelle accademie italiane registrando chie sociali diverse. La forma che assume il nucleo una rifondazione profonda dei saperi centrale del senso comune dipende dall’esito dei conflitti e delle negoziazioni che si realizzano tra queste visioni. Quando una rappresentazione ha la giustificazione che tutti e tutte noi mettiamo in meglio sulle altre si trasforma in assunto di fondo campo nella nostra vita quotidiana. della cultura, acquisisce un carattere prescrittivo e Sarebbe una vittoria per la nostra civiltà poter fel’intero processo dialettico viene dimenticato. È in steggiare i 150 anni dell’ammissione delle donne questo campo di battaglia simbolico, in cui la posta nelle accademie italiane non solo registrando la in gioco è l’ovvietà, che stanno dialogando nuove scomparsa della segregazione verticale, bensì anche forme del sapere. Sappiamo anche che i media soregistrando una rifondazione profonda dei saperi. no un luogo di articolazione di discorsi pubblici caAbbiamo dinanzi a noi venti anni di oneroso ma stipaci di trascendere i confini delle singole cerchie e molante lavoro!
Idoli di bontà
Il genere come norma nella storia dell’educazione di Chiara Meta
Idoli di bontà di Carmela Covato raccoglie, in maniera rielaborata, temi e problemi affrontati dall’autrice in un lungo arco di tempo e analizza, da diverse angolature, sia dal punto di vista della storia del costume educativo sia per quanto riguarda la tradizione storiografica, la questione relativa all’«imperativo delChiara Meta la bontà», che insieme a quello della «docilità, dell’obbedienza, dell’oblatività e del silenzio è stato inscritto nei dispositivi pedagogici, religiosi e morali» destinati alle donne anche «in contesti storici e sociali assai lontani e differenti». L’autrice si sofferma ad analizzare come quello stereotipo inteso come dispositivo di regole finalizzate a normare il comportamento individuale e collettivo di uomini e donne sulla base di connotazioni attribuite in modo prescrittivo all’identità sessuale di appartenenza, non permetta minimamente di sfiorare la varietà e complessità del mondo femminile. Piuttosto si tratta di una rappresentazione astratta propria della cultura dominante (maschile), sempre tesa a «arginare i pericoli derivanti da un possibile protagonismo delle donne fuori dalla sfera della vita privata, percepito come possibile sovvertimento degli assetti simbolici e delle gerarchie sociali ufficiali». In particolare nella storia del pensiero occidentale, nel passaggio tra Settecento e Ottocento, pur in presenza di grandi mutamenti sociali e politici, come il declino dei valori della società dell’ancien régime, lo svilupparsi, nelle sue molteplici manifestazioni, di un pensiero illuminista fondato sulla critica del pregiudizio e della schiavitù, non si assiste, nell’immaginario collettivo a «un significativo ribaltamento delle forme di disuguaglianza (politiche, etiche, ed educative), implicite in un dimorfismo sessuale ancora basato su forme di determinismo biologico, tese a giustificare l’inferiorità intellettuale delle donne e la fragilità intrinseca nella natura femminile». Al di là del perdurare di una prassi educativa, che si manifesta a livello sociale, familiare e istituzionale, in forme fortemente differenziate in base al genere di appartenenza sia nelle élites sia nei ceti popolari, «questa tendenza si esprime in una serie di elaborazioni teoriche di tipo filosofico, giuridico e religioso che concorrono alla costruzione di una idea e di una rappresentazione del “femminile”, al-
la quale vengono concessi, solo “lumi smorzati”». L’educazione delle donne, e in particolare delle fanciulle, come l’autrice ripercorre attentamente nel secondo capitolo del libro, continuerà a lungo ad essere improntata ad una rigida prescrittività. Seppure a partire dal XVIII secolo nell’ambito della trattatistica pedagogica emerga una nuova visione di un universo infantile dotato di autonoma soggettività, in connessione anche con un nuovo processo di scolarizzazione infantile su scala di massa, numerose permangono le rappresentazioni di una bambina ideale destinata a svolgere un preciso ruolo normativo. Emblematiche da questo punto di vista, come il testo riporta efficacemente, sono sia la trattatistica pedagogica minore rivolta alle fanciulle per educarle al loro ruolo materno sia la produzione editoriale destinata specificatamente alle bambine, particolarmente ricca nell’Italia dell’Ottocento, in cui «gli ammaestramenti morali e religiosi si legano a consigli riguardanti la cura della casa e l’igiene corporale».
Nella storia del pensiero occidentale, nel passaggio fra Settecento e Ottocento, pur in presenza di grandi mutamenti sociali e politici, non si assiste, nell’immaginario collettivo, a «un significativo ribaltamento delle forme di disuguaglianza (politiche, etiche ed educative), implicite in un dimorfismo sessuale ancora basato su forme di determinismo biologico, tese a giustificare l’inferiorità intellettuale delle donne»
Questa identificazione della donna con il suo ruolo di moglie e madre viene ampiamente indagata nel terzo capitolo del volume. Sono proprio il pensiero illuminista prima e il Romanticismo dopo, sottolinea bene l’autrice, a contribuire a dare «nuova linfa all’equazione fra natura e destino femminile, corpo e maternità».Ciò che affiora, a partire dall’ideale di Rousseau, è l’esaltazione della necessità di una oblatività femminile dedotta dalla temuta pericolosità di un potere femminile giocato sulla seduzione. Tale assetto educativo si ripercuote necessariamente sull’educazione sentimentale sia delle donne sia degli uomini. In particolare nella vicenda amorosa del primo amore, sottolinea l’autrice nel quarto ca-
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pitolo, «che assume una valenza iniziatica», si misura tutta la forza dei codici normativi e valoriali assimilati, in contrasto con la volontà autonoma di progettazione esistenziale, soprattutto in quel tornante storico tra Sette e Ottocento che segna l’evoluzione della famiglia da patriarcale e ancora legata alla storia dei matrimoni combinati, a quella coniugale intima, dove trova spazio una nuova relazione affettiva tra coniugi anche grazie al diffondersi del cosiddetto matrimonio d’inclinazione. Numerose sono, nella storia delle letteratura, nella diaristica e nella saggistica del tempo, le testimonianze che documentano «il conflitto tra impulsi del cuore e convenzioni sociali, sui quali non solo la riflessione psicoanalitica ma anche l’indagine storiografica e antropologica si sono soffermate negli ultimi decenni». Nella storia della modernità europea poi «le modalità di costruzione del rapporto fra autorità e potere, così come esse si sono manifestate […] in una storia secolare delle relazioni familiari sono state connesse all’istituto giuridico della patria potestà che dall’antichità fino a tempi recenti, ha rigidamente regolato non solo la scena della vita pubblica, ma anche gli interni della vita domestica». Nonostante infatti gli eventi rivoluzionari del 1789 abbiano messo in discussione principi e giurisdizioni secolari, «con il Codice Civile napoleonico del 1804 (in gran parte recepito nel primo Codice Civile emanato nell’Italia postunitaria) viene disciplinato il matrimonio con un ripristino parziale di vecchie norme». La parte conclusiva del volume è dedicata all’analisi del nesso tra una «mistica della femminilità» - secondo la felice espressione che Betty Friedan ne diede nel 1963 e intesa sia come funzione mitica da attribuire alla donna slegata dalla sua storia reale sia come valore regolativo cui adeguarsi nelle relazioni familiari e sociali - e le implicazioni che sul piano storiografico la codificazione di un ruolo astratto ma fortemente subalterno della donna ha comportato in termini di mancanza di un punto di vista soggettivo e autonomo di guardare alla storia del mondo, al fine di rintracciare la propria presenza da parte delle donne. Anche se, va detto, grandi
sono stati i mutamenti metodologici verificatisi nel corso del Novecento in termini di possibilità di modificare l’idea stessa di memoria storica e che hanno permesso l’individuazione di nuovi terreni d’indagine storiografica. In particolare «la storia delle donne […] anche grazie agli impulsi provenienti dal movimento femminista ha compiuto, nell’ultimo trentennio, un lungo cammino, caratterizzato dalla presenza di indirizzi di ricerca non sempre omogenei», come acutamente l’autrice sottolinea riportando le diverse posizioni di storiche: da G. Duby e M. Perrot, autori dell’importante Storia delle donne, in cinque volumi editi da Laterza; a G. Bock, attenta a riconoscere la presenza del “genere” nella storia che permette una riconsiderazione della “storia generale”; a J. Scott, tra le prime storiche ad aver indagato la questione del “genere” in modo non elusivo «nei confronti dei limiti o dei fraintendimenti possibili in quella che si delineava come un’avventura conoscitiva di grande rilievo culturale», e a L. Tilly che rimprovera a Scott una concezione troppo totalizzante dello statuto della storia delle donne, anche se riconosce la valenza euristica
Sono il pensiero illuminista prima e il Romanticismo dopo a contribuire a dare «nuova linfa all’equazione fra natura e destino femminile, corpo e maternità»
del concetto di gender teso a controbilanciare il determinismo biologico. Quello che comunque va sottolineato è che la storia delle donne resta «una “questione di confine” […] sia perché pone l’esigenza di una interrelazione costante fra discipline diverse sia perché solleva di fatto la necessità di una critica radicale delle categorie dominanti in quelle scienze sociali che si sono a lungo basate su un’idea di neutralità ambigua e solo apparente e sulla tendenza a relegare le donne in una dimensione lontana dai confini della storia».
Buona o perversa? A partire dal lungo Ottocento, nella storia della cultura occidentale, ogni nuova forma di protagonismo delle donne fuori dalla sfera della vita privata viene percepita come possibile sovvertimento degli assetti simbolici e delle gerarchie sociali in essi implicite. Sia la rappresentazione di una femminilità silenziosamente sottomessa sia l’immagine della donna peccatrice non ci permettono, tuttavia, nemmeno di sfiorare le identità reali ma solo l’immaginario della cultura dominante su di esse. Il volume intende prendere in esame i paradigmi pedagogici e i modelli educativi nei quali il genere diviene norma ed è frequente il ricorso allo stereotipo della bontà e della ritiratezza come antidoto all’emancipazione culturale e sociale.
Carmela Covato, Idoli di bontà. Il genere come norma nella storia dell’educazione, Milano, Unicopli, 2014
«To be a man, to be a real man»
La ricerca contemporanea di Gurdjieff per il risveglio dell’uomo nella sua integralità di Carla Di Donato
Georgii Ivanovich Gurdjieff intendeva qualcosa di ben più che non la Gurdjieff è un maestro sola consapevolezza e/o il funzionamento della spirituale greco-armeno mente. Egli sostiene che la capacità di coscienza che rimane ancora oggi necessita di una fusione armonica delle distinte una figura per molti energie dei tre centri presenti nell’individuo – la oscura. Egli ha formumente, il sentimento ed il corpo – ed è solo questo lato in Oriente, poi apche può consentire l’azione all’interno dell’uomo di plicato e trasmesso in quelle influenze superiori associate a nozioni tradiOccidente, uno degli zionali quali nous, buddhi o atman. Da questa proinsegnamenti spirituali spettiva, l’uomo così com’è nella vita di tutti i giorcontemporanei più ni è un essere non completo che non opera nella sua complessi e penetranti. integralità in quanto i tre centri sono divisi ed asinGurdjieff nacque ad croni, egli vive guidato inconsciamente dal suo Aleksandropol da macondizionamento automatico (automatismo) sotto il Carla Di Donato dre armena e padre gredominio di stimoli esterni, ovvero: in stato di sonco (il padre era un ašowł: cantastorie e poeta). Da no. L’uomo, perciò, nella sua condizione quotidiana ragazzo fu educato da insegnanti appartenenti alla (che può durare tutta la vita, se non viene risvegliachiesa ortodossa e fu precocemente istruito alla vita to) è in grado unicamente di re-agire, ma totalmenreligiosa ed alla medicina. Convinto che la radice te incapace di agire. della perenne conoscenza esoterica fosse ancora preservato in qualche luogo, non proseguì sul senL’Istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo di tiero teorico per andare alla ricerca delle risposte Gurdjieff aprì le sue porte nell’ottobre del 1922 in definitive: per circa vent’anni (1894-1912) perseguì Francia, a Fontainebleau - Avon, nei pressi di Parila sua ricerca, alla scoperta dell’essenza delle antigi, nella sede di un ex monastero dei priori riadattache tradizioni, con il gruppo dei cosiddetti “Cercato: lo Château du Prieuré des Basses-Loges. tori di Verità”, soprattutto nel cuore dell’Asia CenLì si riunì, volontariamente, la comunità di uomini trale ed in Medio Oriente. La sua formazione, così e donne, perlopiù intellettuali, artisti, medici, sciencome alcuni eventi significativi di questo periodo ziati, scrittori, archeologi, che riconosceva in Gurdella sua vita, sono riportati nel romanzo “autobiodijeff il proprio maestro, realizzando concretamengrafico” Incontri con uomini straordinari. Nel 1912 te, giorno dopo giorno, un lavoro per diventare caGurdjieff comparve a Mosca con un insegnamento paci di vivere un’esistenza libera dagli automatismi, completamente sviluppato, ed iniziò ad organizzare in cui la coscienza agisce quindi come strumento e intorno a sé gruppi di allievi, provenienti in gran metodo per tale liberazione, oltreché come scopo. parte dall’intellighenzia, uno fra tutti, lo scrittore «Il programma dell’Istituto per lo sviluppo armonirusso Piotr Demianovich Ouspenskij, uno dei suoi co dell’uomo comporta numerose branche. […] Il primi discepoli, nonché autore di opere di riferimenprogramma generale dei lavori comprende lo studio to che hanno anticipato alcune delle questioni chiadel ritmo armonico, delle arti, dei mestieri e delle ve del XX secolo in filosofia, psicolingue; parallelamente viene condotlogia e religione. to lo studio approfondito dell’uomo Gurdjieff era considerato da coloro e dell’universo in tutte le sue relache lo conobbero un maestro di vita, zioni, seguendo le conoscenze delle in grado di “risvegliare” gli uomini. scienze europee e dell’antica scienza Egli applicò in Occidente un modelorientale. […] Il programma si divilo integrale di conoscenza esoterica de in […] sezioni: Teorica – Corsi e – o “ricerca contemporanea” – e laConferenze –; Pratica […]. Poi si sciò dietro di sé una scuola ed un insuddividono gli allievi – anche i posegnamento che contiene una metotenziali – dell’Istituto in tre categodologia specifica per il risveglio delrie; infine, si dà conto degli argola coscienza, appunto: la cosiddetta menti delle conferenze previste nella “Quarta Via” che, diversamente dagli prima parte del 1924: esse hanno caaltri tre percorsi spirituali – monaco, denza settimanale, e, ogni quindici yogi, fachiro – per il risveglio delgiorni, sono tenute da M. Gurdjieff». l’uomo, non richiede l’allontanamenIl lavoro quotidiano all’Istituto si to o l’isolamento dell’individuo dalla svolge lungo due assi, il primo costisocietà. Con il termine coscienza Georges Ivanovič Gurdjieff tuito dal lavoro fisico, attività manua-
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li, impegnative ed onerose, con compiti individuali prestabiliti, assegnati di giorno in giorno da Gurdjieff stesso a ciascun membro, il secondo dalla pratica anch’essa quotidiana dei “Movimenti” (o Danze Sacre) da parte di tutti gli allievi che aveva come via e direzione, secondo la terminologia più tardi utilizzata da René Daumal, “l’azione cosciente”. Quest’ultimo versante perciò, si presenta a tutti gli effetti come una via del lavoro su se stessi dell’uomo, con le parole di Gurdjieff: dell’Uomo Reale («To be a Man = To be a Real Man»). L’Istituto dunque, fu di fatto, potremmo dire, “una comunità di uomini e donne che volontariamente postisi sotto la guida di un maestro spirituale (Gurdjieff) lavorarono per diventare capaci di vivere liberi dagli automatismi”. Essi lavorano sull’essere umano, che qui può svilupparsi nella sua integralità. Un laboratorio di ricerca pratico sull’uomo, o meglio, dell’uomo su se stesso. Occorre mettere subito a fuoco la corretta prospettiva storiografica che centri il territorio di pertinenza di questa esperienza emblematica, oltre che storica, anche al fine di evitare di confonderla con una corrente new age, oggi di facile consumo. Nell’alveo dell’Istituto e della prima comunità gurdjieffiana hanno un ruolo di spicco Alexandre e Jeanne de Salzmann, entrambi con una biografia teatrale di grande rilievo (quella di Alexandre soprattutto) precedente all’incontro con il maestro, avvenuto a Tiflis, in Georgia, nel 1919. Essi fecero parte del nucleo “storico” degli allievi di Gurdijeff, furono tra i suoi collaboratori più stretti e rappresentarono due figure fondamentali per la diffusione e per la trasmissione dell’insegnamento di Gurdijeff: Alexandre Salzmann, attirando a sé il primo allievo in Francia, il poeta surrealista René Daumal, Jeanne de Salzmann, dopo la morte del marito nel 1934, con l’attività svolta con il gruppo di Sèvres (i coniugi Daumal, Philippe Lavastine, Henri e Henriette Tracol). Successivamente, alla morte di Gurdjieff (1949), Jeanne assunse ufficialmente il compito di mantenere in vita e trasmettere l’eredità del pensiero spirituale e dell’insegnamento del maestro dedicandosi, tra l’altro, alla ricostituzione della memoria dei 39 “Movimenti” creati da Gurdjieff. Anima degli Istituti Gurdjieff nel mondo e fondatore di quello di Parigi fino al 1990, anno della sua mor-
Gurdjieff sulla terrazza dell’Istituto per lo Sviluppo Armonico dell’Uomo allo Château du Prieuré di Fontainebleau-Avon, ottobre 1922
te, a 101 anni, fu grazie a Jeanne che il patrimonio spirituale di Gurdjieff ebbe un punto di riferimento autorevole e fedele ed una guida sicura. Peter Brook, il regista inglese che, già famoso in Gran Bretagna con regie shakespeariane di successo, si trasferì poi a Parigi, negli anni Settanta conobbe personalmente Jeanne e ne divenne allievo. Verso la fine degli anni Settanta, Madame de Salzmann collaborò alla sceneggiatura ed alla realizzazione del film di Brook, tratto dalla biografia di Gurdijeff, Incontri con uomini straordinari. La vera domanda è: “Chi sono Io?” Non importa il modo in cui lo chiedo, sono sempre ricondotto a questo punto centrale: “Chi sono Io?” All’Istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo, uno dei 39 aforismi di Gurdjieff recita: «Qui non ci sono russi, né inglesi, ebrei o cristiani, ma solo coloro che perseguono un obiettivo: essere capaci di essere».
Ma Gurdjieff è ancora più chiaro: «L’uomo è un essere multiplo. Solitamente, parlando di noi stessi, diciamo “io”. Diciamo, “io” faccio questo, “io” penso quello, “io” voglio fare quell’altro. Ma è un errore. […]ci sono centinaia, migliaia di piccoli “io”. […] In un certo momento agisce un “io”, il momento dopo un altro “io”». E dunque, a proposito dell’educazione al risveglio dell’essere umano integrale, spiega, in questo noto parallelo (vero) attore-(vero) uomo: «Per recitare occorre innanzitutto essere un artista. Un uomo può essere ritenuto un attore solo se è capace, per così
La vera domanda è: “Chi sono Io?” Non importa il modo in cui lo chiedo, sono sempre ricondotto a questo punto centrale: “Chi sono Io?”
dire, di produrre la luce bianca. Un vero attore è colui che crea, che riesce a riprodurre integralmente i sette colori dello spettro. […] Per essere un vero attore, bisogna essere un vero uomo. Un vero uomo, può essere un attore, e un vero attore può essere un uomo. Tutti dovrebbero cercare di essere attori. È una meta molto elevata. La meta di ogni religione, di ogni conoscenza, è di essere attori». Il teatro dunque, nel progetto spirituale-educativo di Gurdjieff, è campo d’interesse principale per l’osservazione, l’analisi e la messa a nudo dei processi e dei fenomeni della vita “in stato di sonno” nonché sede privilegiata per affacciarsi sul ‘Mondo Reale’. Parallelamente, l’attore è il modello per l’educazione dell’uomo integrale che risponde alla domanda fondamentale, l’unica reale: “Chi sono Io?”. Questo discorso sull’attore, pronunciato in pubblico da Gurdjieff a New York nel marzo 1924, nel periodo di massima diffusione del suo insegnamento in/all’Occidente, quali riflessioni e considerazioni può indurre oggi, quasi un secolo più tardi, sul valore, il ruolo e la funzione sia dell’educazione allo sviluppo armonico dell’essere umano sia del teatro e dell’attore?
Francisco Varela: conoscere la conoscenza di Francesca Gisotti
È stato fra i più importanti biologi del Novecento; autore, insieme al suo maestro e collega Humberto Maturana, di uno dei testi fondamentali per lo studio dei processi cognitivi: L’albero della conoscenza. Parliamo di Francisco Varela, filosofo, oltre che scienziato, cileno, prematuramente scomparFrancesca Gisotti so all’età di 55 anni. Nato a Santiago del Cile, nel 1946, Varela studia medicina e biologia, conseguendo un PhD in biologia presso l’Università di Harvard. Diventato buddista tibetano nel 1970, dopo il colpo di stato di Pinochet, trascorre sette anni in esilio negli Stati Uniti, per poi tornare nel proprio Paese e dedicarsi all’insegnamento universitario. Nel 1984, insieme a Maturana, elabora il concetto di “autopoiesi” che diventerà poi il fulcro di gran parte del suo pensiero successivo. Secondo i due studiosi, ogni essere vivente è concepibile come un’unità autonoma capace di conservare e preservare il proprio ciclo vitale e la propria organizzazione interna. Una posizione che va a scontrarsi con le tradizionali teorie della scienza di allora per le quali, invece, è l’ambiente a determinare le reazioni degli esseri viventi, secondo il classico schema input/output. Per Varela e Maturana, invece, sono i singoli sistemi a selezionare dalla realtà circostante gli stimoli e le informazioni necessarie ad innescare, di volta in volta, i propri cambiamenti strutturali, secondo un processo che ne garantisca l’au-
Francisco Varela
tonomia interna. Tale osservazione risulterà il punto di partenza fondamentale per tentare di spiegare le dinamiche alla base del processo conoscitivo. Un processo che, partendo sempre e comunque dal soggetto, implica una indissolubile autoriflessività. Conoscere significa infatti indagare il mondo esterno per poi interiorizzarlo e, attraverso l’alterità, scoprire costantemente nuove possibilità dell’essere in esso. «Ogni azione è conoscenza e ogni conoscenza è azione», ogni esperienza determina un movimento di uscita dal proprio nucleo strutturale verso lo spazio definito dal linguaggio e dalla comunicazione. Una potenzialità che, se anche non esclusiva dell’essere umano, in esso trova la sua massima espressione e applicazione. Ecco allora che, se il sistema nervoso opera secondo un determinismo strutturale indipendente dall’ambiente, funzionando «come una rete chiusa di cambiamenti di relazioni di attività fra i suoi componenti»; la mente e la coscienza, che esistono in noi, ma che non sono localizzati in alcuna parte specifica, «appartengono al dominio di accoppiamento sociale ed è lì che si realizza la loro dinamica». A dire cioè che solo attraverso il confronto, lo scambio di informazione con altri esseri umani, la condivisione di esperienze e l’acquisizione di determinati comportamenti sociali e conoscenze culturali, l’essere umano può trovare la sua completa realizzazione. Vivere e non semplicemente esistere, utilizzare il linguaggio non semplicemente per comprendere il mondo esterno ma per concepirsi come parti integranti di esso. Una convinzione che contiene in sé un imperativo categorico per ogni uomo: quello di abbandonare credenze e idiomi fissati per sempre, aprendosi ad un’indagine dinamica e alla ricerca di una prospettiva più ampia. Così ha vissuto Francisco Varela, affrontando l’esistenza come un continuo percorso di scoperta, con quel coinvolgimento in “ prima persona” che ha adottato anche come metodologia basilare per ogni indagine fenomenologica. Un approccio che, rifiutando mappe stabilite aprioristicamente e in maniera astratta, trova nell’esperienza diretta la conferma della costante comunicazione fra “cervello/corpo/mondo” e della loro indissolubile, reciproca implicazione.
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Alcuni fondatori dell’Università degli Studi Roma Tre Bianca Maria Tedeschini Lalli
Prof. Tedeschini Lalli, lei è stata il primo Rettore del nostro Ateneo e ha svolto pertanto un ruolo fondamentale nella nascita e nella crescita di Roma Tre. Qual è stato il mandato intellettuale degli esordi? Il mandato di Roma Tre degli esordi è stato fondamentalmente un mandato politico-culturale nato in clima di riforma universitaria nazionale e alla luce delle elaborazioni della Commissione d’Ateneo per la sperimentazione scientifica e didattica della Sapienza degli anni Ottanta. A questo si aggiungeva, indubbiamente, l’accordo universitario europeo dall’89. Quali sono state, a suo giudizio, le peculiarità del contributo culturale e scientifico che Roma Tre ha saputo sviluppare? Il contributo ricevuto da molto di quanto si è ricordato e che si è tentato di trasmettere, è stato quello di un buon rapporto con il territorio (sia nella zona in cui l’università si collocava, sia nella città di Roma). Buon rapporto che ha fortemente influito sulla fantasia e l’efficacia del nostro insediamento con, ovviamente, il contributo culturale e scientifico apportato dalle nuova università.
Come è cambiato l’approccio degli studenti all’università? Non so dare una risposta a questa domanda, anche se, riferendomi ai primi sei anni dell’università di cui mi si chiede, so confermare in parte l’approccio di accoglienza e collaborazione con i nostri studenti, di un’università a misura minore della nostra Alma Mater.
In questi anni il sistema universitario italiano è cambiato molto; tra le tante novità, oggi l’università si interfaccia in maniera dinamica con il mondo del lavoro; sono cambiate le aspettative degli studenti nei confronti dell’università ed è cambiato il modo di fare docenza. Quale ruolo intravede per l’università di domani? Non tocca al primo Rettore di Roma Tre intervenire sul ruolo intravedibile per l’università di domani. È un argomento di cui si potrebbe dibattere.
Carlo Melograni
Prof. Melograni, lei è stato il primo preside della nostra Facoltà di Architettura, quindi è indubbio che lei abbia dato un grande contributo per la nascita e poi per la crescita del nostro
Ateneo. Quale è stato il mandato intellettuale degli esordi? Io sono stato molto fortunato perché allora la situazione generale era molto diversa. Intanto gli studenti al primo anno erano duecento, poi il secondo quattrocento e così via, perché io ho fatto il preside nei primi cinque anni dopo la fondazione della Facoltà e di anno in anno si attivava il corso successivo e quando sono andato via, erano ormai attivi tutti e cinque gli anni e c’erano mille studenti. Avevamo il numero chiuso di duecento, che era un numero facilmente governabile. Eravamo un nucleo di persone che erano venute volontariamente e le cose erano più facili. Noi ci siamo proposti, in particolare io, ma mi sembra un po’ tutti, di costituire una Facoltà che formasse dei professionisti in grado di dare un contributo a migliorare le condizioni dell’abitare, nelle case, negli alloggi, nei servizi, in particolare nella scuole, nei luoghi di lavoro e così via. Io credo che il compito degli architetti sia quello appunto di - per quello che possono naturalmente, nei limiti delle loro competenze - però di impegnarsi, di non dimenticare l’impegno di contribuire a migliorare le condizioni di vita e, per quanto mi riguarda, le condizioni dell’abitare appunto. E invece più in generale, quali sono state le peculiarità del contributo culturale e scientifico che Roma tre ha saputo sviluppare? Si identifica un po’ con quello che dicevo, e in quel periodo oltretutto, sempre tra i vantaggi che ho avuto in quel tempo, non c’erano le indicazioni che ci sono adesso per rinnovare il corpo docente.
Quindi la situazione era un po’ più fluida sostanzialmente… Era molto fluida. Poi siamo andati quasi sempre d’accordo. Per quanto riguarda la sede sono andato anche in minoranza, ma insomma questo fa parte della democrazia e bisogna sapersi adeguare al volere della maggioranza. Per quanto riguarda le altre decisioni da prendere, c’è stata una grande concordia, dovuta proprio a quelle condizioni che dicevo prima. Persone di valore, romani, che insegnavano nelle altre sedi ce n’erano molte, naturalmente il loro desiderio, di tutti, era quello di tornare a Roma ad insegnare dopo essere stati fuori, c’era un po’ l’imbarazzo della scelta e noi abbiamo veramente, nel complesso, potuto chiamare persone di notevole qualità. E invece per quanto riguarda gli studenti, perché in questi anni anche gli studenti sono cambiati molto, o quanto meno è cambiato l’approccio e l’attenzione che l’università nello specifico rivolge agli studenti...
Io non conosco i cambiamenti. Ormai dal ’97 sono fuori dalla Facoltà e le cose sono molto cambiate; sono passati molti anni, più di 17 anni… Come sono cambiati gli studenti? 17 anni è il tempo di una generazione e non posso saperlo. Devo dire che abbiamo sempre avuto, essendo una Facoltà così giovane, come principale obiettivo il miglioramento della didattica e gli studenti questo l’hanno sentito. Io ricordo sempre, con grande gratitudine e una certa emozione anche, il giorno che sono andato via, gli studenti mi hanno, diciamo così, festeggiato, non solo gli studenti, ma c’erano amici e c’era anche il corpo docenti. Ricordo in particolare uno studente, che parlava anche a nome dei suoi colleghi, il quale disse che era rimasto colpito dal discorso che pochi giorni prima io avevo fatto per accogliere le matricole: forse le matricole non avevano capito tutto quello che io dicevo, però avevano sentito che c’era amore verso di loro. Ecco, io gli studenti li ho amati e questa è una cosa che credo che i giovani avvertano subito quando sentono che c’è un professore, che magari sta pure in cattedra, però che vuole loro bene e cerca di dare quanto più aiuto sia possibile.
Assolutamente sì. Tornando di nuovo al generale, sappiamo che l’università è cambiata tanto, si interfaccia molto di più, per esempio, con il mondo del lavoro e di conseguenza appunto, come dicevamo prima, è cambiato anche il rapporto con gli studenti. Ora, la sua è anche una prospettiva privilegiata perché ha avuto una grande esperienza all’interno dell’accademia e, come diceva poco fa, è da qualche anno uno spettatore privilegiato. Ecco, all’interno di questo sistema che è molto cambiato, quale ruolo intravede per l’università di domani? Non saprei dire. Non ho abbastanza conoscenza della nuova situazione universitaria ed è ormai qualche anno che non progetto più. Non mi sento in grado di dare indicazioni per il futuro e l’unica cosa che posso dire è che secondo me c’è da accentuare il più possibile il valore dell’impegno sociale del lavoro dell’architetto, perché quello è la chiave anche per trovare consenso sufficiente nell’opinione pubblica. Ecco, io la cosa che vorrei per il futuro è che l’università contribuisse molto a ristabilire un contatto, una concordia diciamo, tra le esigenze sociali e il nostro lavoro, una corrispondenza diciamo tra le esigenze sociali e le domande della società a cui noi siamo in grado, responsabilmente, di rispondere.
Marco Fontana
Prof. Fontana, lei è stato uno dei protagonisti della nascita e della crescita del nostro Ateneo. Qual è stato il mandato intellettuale degli esordi? Posso rispondere ricordando le motivazioni, gli ideali e le aspettative che mi hanno portato nel 1992 ad esercitare l’opzione per il trasferimento a Roma Tre e ripercorrendo i primi passi della mia attività nel nuovo Ateneo.
Ho seguito, sin dalla pubblicazione del decreto di istituzione, le fasi preparatorie su mandato del Dipartimento di Matematica “Guido Castelnuovo”. In tale ruolo ho avuto modo di sondare le intenzioni dei colleghi matematici e poi di coordinare le loro opzioni e di partecipare alle riunioni preparatorie che si tenevano nella sala del Senato Accademico della Sapienza. In presenza di grandi incognite e poche certezze, le opzioni dei matematici furono molto limitate in numero ma di notevole livello scientifico, con competenze variegate da coprire in modo minimale i principali settori della matematica e con motivazioni ed idee convergenti su innovazione e qualità nella didattica e nella ricerca. Inoltre, il piccolo gruppo dei fondatori matematici era molto coeso e ciò, nella fase iniziale, ha reso possibili decisioni rapide, molto innovative e di notevole impatto per la creazione del nuovo Dipartimento. Essendo la componente matematica la più piccola della Facoltà di Scienze, le nuove risorse furono molto limitate e le chiamate, che furono possibili, furono fatte con criteri di estremo rigore e portarono a Roma Tre colleghi di assoluto livello internazionale, principalmente giovani. Personalmente, al di fuori dell’attività di ricerca, ho dedicato tutte le mie energie agli “affari interni” ed in particolare all’organizzazione della didattica, ricoprendo per vari mandati l’incarico di presidente dei Corsi di Studio in Matematica. Per noi matematici è stato un periodo di grande impegno ideale. A parte una profondissima riorganizzazione e razionalizzazione dell’offerta didattica furono introdotti già nel primo biennio insegnamenti, e corsi di laboratorio, allora “innovativi” legati agli sviluppi ed applicazioni più recenti della matematica come la probabilità, l’informatica, la teoria dei numeri e la crittografia. Furono sperimentati ed introdotti nuovi e più moderni canali di comunicazione con gli studenti, come la pubblicazione del fascicolo “Benvenuto@Matematica” che conteneva, con una veste grafica innovativa, informazioni tempestive e pratiche sull’offerta didattica, articoli divulgativi sul ruolo e le applicazioni della matematica nella società, assieme ad una presentazione dei membri del Dipartimento, della loro formazione e della loro attività scientifica. Furono subito introdotti a matematica, molti anni prima che ciò diventasse una prassi a livello nazionale, i questionari di valutazione dell’offerta didattica da parte degli studenti, che furono molto utili per una migliore programmazione dei corsi e furono di stimolo alla docenza. Fu sperimentato con successo il servizio di tutorato svolto dagli studenti seniores, cioè studenti scelti principalmente tra i migliori studenti o laureandi i quali animavano (ed animano tutt’ora) classi di studio assistito sotto la supervisione dei titolari dei corsi, abituando rapidamente gli studenti dei primi anni all’importanza della frequenza regolare alle lezioni e ad interagire con i docenti. Nei primi anni Novanta, fu istallato a matematica (nell’edificio di Via Segre) probabilmente il primo server all’interno dell’Ateneo collegato alla rete internet, inizialmente
per la gestione autonoma della posta elettronica (allora in fase pionieristica) e poi come portale del Dipartimento e dei corsi in matematica. Le grandi potenzialità del canale web anche a supporto della didattica furono utilizzate già a partire da quegli anni. Furono introdotte le gare di Matematica ed il concorso legato alla immatricolazione gratuita per gli studenti particolarmente meritevoli, precedendo di molti anni i provvedimenti ministeriali di promozione ed incentivazione delle lauree scientifiche. Venne attuato il trasferimento a Roma Tre (dalla Sapienza) della sede delle selezioni per le Olimpiadi internazionali della Matematica rendendo il nuovo Ateneo un polo di attrazione dei migliori studenti della provincia di Roma, interessati alle discipline scientifiche. Come può vedere, furono anni di grande innovazione e di grandissimo impegno che hanno tracciato la strada seguita negli anni successivi dall’area matematica nell’Ateneo Roma Tre. Quali sono state, a suo giudizio, le peculiarità del contributo culturale e scientifico che Roma Tre ha saputo sviluppare? Credo che la mia risposta alla domanda precedente includa in parte anche una risposta a questa questione, almeno per quanto riguarda il settore della matematica. Come ho detto sopra, per mia scelta e per le ragioni sopra ricordate, ho incentrato la mia attività all’interno dell’area matematica. Quindi, non ho maturato esperienze significative a livello centrale che mi permettano ora di esprimermi con adeguata cognizione di causa su aspetti più generali. Sicuramente uno spirito pionieristico di grande partecipazione e di ricerca di innovazione diffuso in gran parte di coloro che esercitarono l’opzione fu alla base della nascita, dello sviluppo e dell’affermazione di questo Ateneo nell’area romana.
Come è cambiato l’approccio degli studenti all’università? Non mi sembra facile rispondere a questa domanda in termini generali, in quanto le motivazioni ed aspettative di ciascuno studente sono sempre state molto variegate e del tutto personali, legate principalmente alla propria formazione, cultura ed estrazione sociale. Probabilmente, negli ultimi anni si nota tra gli studenti, anche tra i più giovani, una maggiore consapevolezza delle enormi difficoltà nell’inserimento nel mondo del lavoro e della difficilissima congiuntura economica. Da questa consapevolezza discendono reazioni molto differenti tra loro come quella, probabilmente maggioritaria, di una maggiore coscienza dell’importanza di una formazione di alta qualità e quella purtroppo negativa ed opposta dell’abbandono degli studi universitari.
In questi anni il sistema universitario italiano è cambiato molto; tra le tante novità, oggi l’università si interfaccia in maniera dinamica con il mondo del lavoro; sono cambiate le aspettative degli studenti nei confronti dell’università ed è cambiato il modo di fare docenza. Quale ruolo
intravede per l’università di domani? Innanzitutto, ritengo che l’università debba rinnovarsi mantenendo però il suo ruolo fondamentale quale centro della formazione avanzata, della ricerca e dell’innovazione. Per questi scopi, che i paesi a maggiore sviluppo reputano di interesse strategico, mi auguro che lo Stato tornerà a scegliere di investire in modo adeguato e selettivo. Ovviamente, gli strumenti per perseguire questo ruolo, le modalità di esercizio della docenza e quelle della divulgazione e trasmissione del sapere dovranno rinnovarsi continuamente per sfruttare pienamente i nuovi strumenti di comunicazione, di raccolta e gestione dati, e di insegnamento a distanza (e-learning). Sarà necessario puntare ad una maggiore integrazione principalmente nell’ambito dell’UE sia dal punto di vista della ricerca che della didattica, sviluppando accordi per diplomi congiunti tra più università di vari paesi. Infine, un ruolo decisivo, che purtroppo ancora oggi appare marginale, potrà essere svolto dall’università nell’attività di apprendimento ed aggiornamento permanente (lifelong learning) che – come facilmente prevedibile – verrà richiesto in forma sempre più ampia e continuativa da una società in rapido sviluppo non solo tecnologico.
Raffaele Simone
Prof. Simone, lei è stato uno dei protagonisti della nascita e della crescita del nostro Ateneo. Qual è stato il mandato intellettuale degli esordi? Non so se sono stato uno dei protagonisti. Sicuramente fui tra i primissimi e, inoltre, contribuii a spingere la collega Tedeschini Lalli a presentare la sua candidatura a rettore, col risultato che Roma Tre (che agli inizi si chiamava Terza Università, come del resto ancora la chiamano alcuni) ebbe la prima capostruttura donna. Il mandato era quello di sfollare La Sapienza, che del resto si comportò come nutrice nei nostri confronti, anche se non fu affatto una nutrice affabile. Ci fissò un nome (che però nessuno usò mai: Università Tiberina) e per diverso tempo trascurò (a non dir peggio) di trasferire la documentazione amministrativa del personale migrato. Alla fine si scoprì che La Sapienza non era stata sfollata, ma che si era creata una formula di università imprevista, che alla Sapienza cominciò a fare una concorrenza molto seria, che dura tuttora. Agli inizi non c’era assolutamente niente, salvo un palazzotto in viale Marconi. La bravura della prima amministrazione consistette per l’appunto nel creare una sede fisica (cosa che accadde in due o tre anni) e nell’impiantarvi servizi, didattica, laboratori e così via.
Quali sono state, a suo giudizio, le peculiarità del contributo culturale e scientifico che Roma Tre ha saputo sviluppare? Roma Tre ha sviluppato il moderno concetto di una city university, o se preferisce di un’università cittadina, risvegliando l’interesse del quadrante Roma Sud (più di un milione di persone) che non avevano
mai pensato di frequentare una scuola universitaria. Inoltre, senza neanche prevederlo, ha ridato vita a un quartiere abbandonato, ancorché percorso da una delle due linee di metropolitana, che ha ora ripreso a esistere ed è diventato uno dei più vivaci della città. Dal punto di vista scientifico, si sono aggregati a Roma Tre numerosi studiosi e ricercatori di valore, vecchi e giovani, si sono create delle scuole, si sono attratti stranieri (studenti e docenti), tutti attratti dal fatto di frequentare un’università non così affollata come altre romane né così lontana dal consorzio umano. In vent’anni non è male per niente, anche se – si sa – per creare una tradizione universitaria importante ci vuole ben di più…
Come è cambiato l’approccio degli studenti all’università? Gli studenti sono aumentati di numero (anche se in Italia sono sempre troppo pochi in rapporto alle coorti di età), ma purtroppo non di qualità. La cultura giovanile non è amica dello studio e dell’applicazione a discipline difficili e un professore antico come me verifica che ogni anno si scende un piccolo gradino nella qualità dell’apprendimento. C’è poco da digitalizzare la didattica: le teste sono spesso distratte e poco concentrate sulla qualità. Agisce su questo anche la triste consapevolezza, che questi giovani hanno, che il mondo del lavoro offre poco per loro. La struttura 3+2, politicamente utile perché omogeneizza i corsi di quasi tutt’Europa, è un disastro dal punto di vista dell’apprendimento. Un sapere complicato non si trasmette in moduli distribuiti su tre anni. Le cose cambiano di molto al livello magistrale, dove gli studenti sono selezionati e già preparati, e naturalmente a quello dottorale, dove spesso si incontrano veri talenti, anche se sono convinto che al dottorato non si dedichi sufficiente attenzione, né in Italia né nel nostro Ateneo.
In questi anni il sistema universitario italiano è cambiato molto; tra le tante novità, oggi l’università si interfaccia in maniera dinamica con il mondo del lavoro; sono cambiate le aspettative degli studenti nei confronti dell’università ed è cambiato il modo di fare docenza. Quale ruolo intravvede per l’università di domani? So di dire una cosa impopolare, ma sono convinto che le università italiane dovrebbero distinguersi in primo livello (solo corsi triennali) e università comprensive (tutti i corsi, incluso il dottorato). Dovrebbero inoltre collegarsi col mondo del lavoro, ma in senso lato, non pensando come sempre si fa solo a ingegneri, giuristi e architetti. Esistono anche gli storici dell’arte, gli archeologi, i filologi, i linguisti e mille altre specialità avanzate. Il compito dell’università è non solo quello di identificare i luoghi in cui queste specialità si possono impiegare, ma anche di crearli o contribuire a crearli. Invece in Italia, come in molti altri posti, l’università è spesso vista come un’azienda che vive in quanto ha clienti. L’università è la casa dei saperi speciali, non una scuola popolare; non ha l’obbligo di guadagnare, ma quello
di far quadrare i conti; ha l’obbligo di scoprire e formare le intelligenze. Come diceva Carlo Cattaneo, gestisce un capitale invisibile che non va nel bilancio, ma che contribuisce a formare il bilancio economico e morale di un intero paese. Una parte della depressione in cui l’Italia versa dipende dalla depressione in cui si trova la sua università.
Carlo Maria Travaglini
Qual è stato il mandato intellettuale e culturale degli esordi di Roma Tre? La nostra università è stata voluta soprattutto da Antonio Ruberti che, quando era ministro, sulla base della sua esperienza come rettore de La Sapienza, ha sostenuto con molta decisione la costituzione di una terza università a Roma. L’esperienza di Tor Vergata era stata molto faticosa e la capacità attrattiva di quell’Ateneo si è verificata solo in anni più recenti anche in relazione al consolidarsi della struttura edilizia. Nacque allora questo progetto di creare una nuova università statale a Roma che doveva avere caratteri generalisti con un orientamento particolare e il sistema che fu adottato fu un sistema innovativo: il sistema della gemmazione. Fu uno dei primi casi di gemmazione di università. Non più quindi, come era avvenuto con Tor Vergata, la creazione di un comitato ordinatore eletto dalle varie università in funzione delle Facoltà che dovevano essere istituite ma era l’Ateneo madre che generava attraverso le opzioni dei docenti, la nuova università. Questo per garantire un decollo più agevole della nuova struttura grazie, almeno in una fase iniziale, al collegamento con una struttura ben consolidata che poteva aiutare il nuovo nato a muovere i primi passi. Fu anche deciso, da parte del governo, di trasformare l’ex Facoltà di Magistero della Sapienza in una nuova Facoltà di Lettere della costituenda università di Roma Tre. Nel giro di pochi mesi si avviò questo processo che ebbe all’inizio esiti non molto equilibrati. Nella fase di attivazione dell’Ateneo, nel novembre 1993, la situazione era molto variegata: erano previste solo le Facoltà di Lettere, Economia, Scienze politiche, Giurisprudenza, Scienze e Ingegneria, ma mentre per Economia, Ingegneria e Scienze ci fu un numero rilevante di opzioni, nelle altre Facoltà non ci furono sostanzialmente adesioni per la nuova struttura. Queste ultime partirono in una fase successiva quando le omologhe Facoltà de La Sapienza chiamarono dei colleghi ad hoc. Non fu un inizio facile perché si era in un periodo difficile della vita economica del paese: il 1992 fu l’anno di una grossa crisi economica, quindi un periodo di tagli severi. La dotazione iniziale di Roma Tre è stata debole rispetto al fatto che non c’era un programma concordato con l’amministrazione comunale. Il ‘92 è stato poi anche l’anno del passaggio dalla prima alla seconda repubblica: un anno delicato, a Roma ci fu una giunta indagata, lo scio-
glimento del consiglio comunale, mancavano anche interlocutori politici per avere chiarezza su dove localizzare l’Ateneo. L’ipotesi che era stata fatta da La Sapienza era quella di un’articolazione su due aree: Ostiense e Santa Maria della Pietà, aree diversificate e distanti tra loro (all’epoca Santa Maria della Pietà non era neanche ancora raggiungibile dalla linea ferroviaria). Invece gli organi di governo dell’Ateneo si orientarono per concentrare l’insediamento dell’università sull’area dell’Ostiense. Si cercò di non considerare affatto esclusiva l’indicazione venuta dal governo, e in parte anche dall’amministrazione comunale, di una concentrazione dell’Università nell’area di San Paolo, che com’è noto presenta dei problemi perché in alcune parti è al di sotto del livello del Tevere. Un progetto preliminare prevedeva infatti edifici a forma di palafitte. Il problema drammatico che il primo rettore dell’università si trovò ad affrontare, e lo fece con grande determinazione, fu quello di trovare delle sedi dove far svolgere l’attività didattica. Tuttavia l’università, riattivando il dialogo con il comune, riuscì, attraverso una serie di accordi di programma, ad attivare una politica di acquisti; ottenne gli edifici in concessione dal comune con un canone modesto e insomma riuscì a decollare.
Qual è stata la peculiarità del contributo di Roma Tre nella riqualificazione del territorio? Il vantaggio è stato quello di essere vicino al centro storico. L’idea fu quella di non farsi rinchiudere nel Valco San Paolo, ma di scegliere l’Ostiense in generale. L’università ha modificato l’area valorizzando una serie di proprietà immobiliari, innescando una molteplicità di attività in questa zona, che invece conosceva processi anche di abbandono, in assenza di un intervento pubblico capace di risanarla. L’operazione pubblica più importante da svolgersi in quest’area è ancora bloccata da tanti anni: quella dei mercati generali. Laddove ci sono state innovazioni queste sono dovute alla nostra università. Innovazioni importanti si sono verificate anche nell’area del Mattatoio, a Testaccio. Questa è un’area che dovrebbe essere tutta risanata, ci sono tanti problemi aperti ma l’università ha impedito che diventasse una grande speculazione. Io credo che su questo tema del rapporto tra università e città il nostro Ateneo dovrebbe continuare a impegnarsi. È uno degli elementi che caratterizzano il nostro modello di università, che non è un recinto, neanche in senso figurato. Si è investito su questa scelta assumendo un atteggiamento più dinamico, introducendo elementi di innovazione rispetto ad una realtà consolidata e necessariamente più rigida come La Sapienza.
Questo anche dal punto di vista scientifico? Anche dal punto di vista scientifico c’è stato più dinamismo, nella ricerca di rapporti con l’esterno ad esempio. Certo c’è stato il fatto negativo del partire con risorse inadeguate, ovviamente ci sono Facoltà che per loro struttura sono più leggere: le scienze
umane e sociali hanno un impatto meno pesante nell’investimento di strutture e laboratori rispetto a Scienze o Ingegneria. La Sapienza su questo aveva anche una tradizione, una storia completamente diversa, né abbiamo avuto una legge ad hoc di istituzione, di finanziamento pluriennale, come ha avuto Tor Vergata. Siamo nati poveri e siamo purtroppo cresciuti a tempi di vacche magre, è stata una lotta sul piano delle risorse umane e tecnico-amministrative. Ora grazie al mutamento tecnologico tante cose si possono apprendere dalla rete ma le risorse sono indispensabili in ogni caso. Il dinamismo dell’università, la sua posizione, i servizi, l’attenzione che ha rivolto agli studenti, la capacità di interagire con l’esterno ha consentito all’università di crescere rapidamente.
Tornando agli studenti, questi anni di vita di Roma Tre sono stati anni in cui successive riforme universitarie hanno introdotto anche un cambiamento nell’approccio degli studenti all’università. Nella sua attività di docente ha avuto modo di riscontrarlo e come è cambiato secondo lei l’approccio allo studio accademico degli studenti? Non vedo profondi cambiamenti. La riforma del 3 più 2 non so quanto sia stata felice, soprattutto per le modalità con cui è stata realizzata, non come progetto unitario ma come una realizzazione prima del tre e poi, a distanza di tempo, del due. La realizzazione del tre è avvenuta secondo me in un modo che è stato deleterio. Tutti coloro che insegnavano nel quadriennio hanno teso a introdurre la presenza delle proprie discipline in forme più ridotte nell’ambito del triennio. Se si fosse fatto triennio e biennio insieme questa pressione a voler riempir il triennio di tanti esami si sarebbe potuta evitare. Questo ha avuto caratteristiche diverse da sede a sede, però è stato un elemento sicuramente presente. Inoltre non c’è un continuum tra triennio e biennio, talvolta si perde tempo. Per la verità è vero che c’è stata una sperimentazione importante però c’è stata una tendenza a irrigidire tutto il sistema. Questa macchina della programmazione didattica è diventata una cosa estremamente complicata. L’attenzione che c’è stata, molto forte, nei confronti degli studenti si è attenuata in parte anche a causa della mancanza di risorse sia finanziarie che personali. In questi anni il sistema universitario è stato chiamato a interagire in modo più attivo con il mondo del lavoro. Quale prospettive intravede, quale ruolo per l’università da qui al prossimo futuro? È importante che l’università dialoghi con il mondo del lavoro. Attualmente l’università deve dare una formazione di base. Ho molte riserve sul fatto che l’università debba essere orientata a una formazione professionale. Ci sono servizi che l’università svolge in questo senso, ad esempio a livello di master. A livello di lauree triennali e magistrali ci sono dei profili professionali che vengono costruiti con ap-
proccio critico, offrendo strumenti analitici che permettono agli studenti di svolgere un lavoro che cambia in continuazione. Il dialogo con il mondo del lavoro, con la società è comunque molto importante. Ricordo con grande nostalgia la mia esperienza di studente, in particolare la didattica di uno dei miei maestri che prevedeva nel suo corso, una volta alla settimana, incontri con esperti di alto profilo impegnati nella gestione della politica economica finanziaria. Era un modo per dialogare con la realtà del paese, con i problemi che si andavano affrontando. In Facoltà, quando ero preside, abbiamo cercato di organizzare job meeting per insegnare agli studenti come scrivere il curriculum, come dialogare con le imprese. E gli stage sono importanti in questo senso, forse non sempre sono valorizzati adeguatamente.
Luigi Moccia
Prof. Moccia, lei è stato uno dei protagonisti della nascita e della crescita del nostro Ateneo. Qual è stato il mandato intellettuale degli esordi? Della crescita, forse; mentre per la nascita di Roma Tre sono personalmente grato alle colleghe e ai colleghi che mi hanno preceduto. Sono arrivato a Roma Tre a fine 1996, dopo aver insegnato dapprima nell’Università di Perugia, poi nell’Università di Macerata, dove vinsi (come usava dire nel secolo scorso) la cattedra di Diritto privato comparato, nel 1985, mantenendo sempre un collegamento con la Facoltà di Giurisprudenza di Roma “La Sapienza”, dove mi sono laureato e dove ho continuato, in seguito, a svolgere per molti anni attività di ricerca. A parte le tante altre esperienze di studio e di lavoro che, subito dopo la laurea, ho avuto modo di svolgere: in Europa e fuori (dagli USA alla Cina). Dico questo per sottolineare, insieme con le mie molteplici appartenenze accademiche (com’era normale a quei tempi), il fatto che l’arrivo a Roma Tre ha rappresentato per me più che un approdo, un nuovo inizio, avendo alle spalle esperienze umane e professionali che mi hanno segnato e insegnato davvero molto. Ogni mandato che si rispetti, più che darselo, uno lo riceve. A volte, per noi docenti, anche dai nostri studenti. Nel mio caso, insegnando corsi opzionali poco frequentati, e in materie un po’ eccentriche (come Diritto comparato e Diritto europeo) che offrivano occasione di guardare a orizzonti nuovi o diversi, è stato possibile avviare un dialogo con i pochi frequentanti che sceglievano di seguire quei corsi, motivati e curiosi di apprendere, con effetti che ogni volta sono stati di vantaggio reciproco e di aiuto a una migliore definizione di obiettivi sia di ricerca che formativi. L’arrivo a Roma Tre è avvenuto in un momento propizio. In un Ateneo nato ancora da poco e con dimensioni ancora contenute, che permetteva di condividere, tra colleghe e colleghi, come pure con il
personale e la direzione amministrativa, entusiasmo e spirito d’iniziativa. La voglia di fare, di costruire e… di pensare fuori dagli schemi era assai contagiosa. I tempi, d’altronde, lo richiedevano: già dal 1998 (con la dichiarazione della Sorbona del maggio di quell’anno, all’origine del successivo Processo di Bologna del 1999) era iniziata la grande stagione della riforma degli ordinamenti didattici. In un clima che era di forte sollecitazione e di sfida, che ha coinciso con la mia elezione alla presidenza della Facoltà di Scienze politiche (e successivi incarichi nazionali), dandomi così l’opportunità di contribuire direttamente al processo di cambiamento. Ciò detto, per quanto riguarda la mia personale esperienza, il mandato che ho sempre pensato di dover onorare, è stato quello di pensare all’università, più che come un contenitore, come un contenuto di innovazione, cercando di resistere a ogni forma di “accademismo pseudo-scientifico”, come pure di centralismo burocratico, per aggiungere, ove possibile, di mio, qualche elemento di praticità e creatività, sul piano sia organizzativo che di visione dell’insieme.
Quali sono state, a suo giudizio, le peculiarità del contributo culturale e scientifico che Roma Tre ha saputo sviluppare? Vorrei dire, innanzitutto, qualcosa della mia esperienza decennale come preside della Facoltà di Scienze politiche (1988-1998). Parlando della mia Facoltà (anche per un omaggio doveroso, sebbene un po’ nostalgico, a quel nome “Facoltà”, e al mondo da esso evocato, che non vorrei sparisse per via dell’abolizione del nome stesso), ritengo che un contributo rilevante sia stato quello di interpretare e valorizzare in modo significativo il mix disciplinare degli studi politico-sociali, storici, giuridici, economico-statistici e linguistici. Ad esempio, con iniziative d’avanguardia, come quella del primo master, in Italia, di studi sulla pace e la sicurezza internazionale (“Peacekeeping and Security Studies”, sin dall’inizio diretto e coordinato dalla collega Maria Luisa Maniscalco), nato da una collaborazione con le istituzioni e le professionalità impegnate nelle operazioni sul campo, che ha aperto la strada ad altre iniziative similari, nel nostro come in altri atenei italiani. Un altro aspetto qualificante è stato quello, appunto, del collegamento con le realtà esterne. In particolare con il mondo istituzionale delle amministrazioni (centrali e periferiche) e delle autonomie territoriali; dando vita a molteplici iniziative e attività finalizzate alla realizzazione di quella che oggi si chiamerebbe la “terza missione”. Parlando più in generale dell’Ateneo, ritengo che la reputazione e la visibilità di Roma Tre si siano rafforzate proprio sul piano di un diffuso e importante radicamento nel territorio, traendone occasioni e strumenti di crescita, in termini sia di apporti scientifico-culturali che di acquisizione di risorse. Vorrei aggiungere che il contributo culturale e scientifico che il nostro Ateneo ha saputo dare nel corso degli anni è stato anche il risultato di un mo-
dello organizzativo basato su un grado elevato di autonomia interna (al livello delle singole strutture e articolazioni). Un modello altresì calibrato su dimensioni medio-grandi, tali da rendre compatibili, almeno tendenzialmente, i rapporti proporzionali tra componenti e strutture, risorse e obiettivi.
Come è cambiato l’approccio degli studenti all’università? Così com’è formulata, trovo arduo, per me, dare una risposta alla domanda. Proporrei quindi di rovesciarla. In questi ultimi tempi, a partire dalle riforme prima evocate, è cambiato molto il quadro e il tipo di offerta formativa dell’università verso gli studenti; e, comunque, è cambiata l’università. Penso all’ampia scelta di corsi e percorsi, assieme alla possibilità di esperienze di studio in altri paesi europei (i programmi di mobilità Erasmus). Penso a una maggiore facilità, per uno studente oggi, di relazionarsi con il mondo intero. Penso, inoltre, alla possibilità di altre esperienze formative (i tirocini), e, soprattutto, all’offerta di corsi di specializzazione post-laurea, di primo e secondo livello, fino ai corsi di dottorato. Tutti questi sono fattori che, mentre concorrono a fare della formazione universitaria un asset strategico di crescita e sviluppo, pongono lo studente medio, per così dire, di fronte a delle sfide che richiedono una capacità di orientamento, una spinta motivazionale, una propensione critica assai superiori che in passato. Dal mio osservatorio, mi pare di vedere che siamo in una fase di transizione; dove occorre lavorare per riallineare “domanda e offerta” di formazione. Nel senso di contemperare le legittime aspettative di inserimento nel mondo del lavoro, con altrettanto legittime esigenze di eccellenza che portino i nostri studenti a sfruttare al meglio i fattori e le opportunità di cui detto sopra. In questo senso auspico che l’approccio degli studenti cambi, più di quanto non sia in parte già avvenuto, nel senso di una maggiore consapevolezza sul piano delle scelte e dell’impegno, per fare di questa loro esperienza di studi al livello universitario un vero modo di maturazione personale, di crescita culturale e di formazione professionale.
In questi anni il sistema universitario italiano è cambiato molto; tra le tante novità, oggi l’università si interfaccia in maniera dinamica con il mondo del lavoro; sono cambiate le aspettative degli studenti nei confronti dell’università ed è cambiato il modo di fare docenza. Quale ruolo intravede per l’università di domani? Come ho cercato brevemente di dire prima, l’università è cambiata; ed è vero che le aspettative degli studenti sono cambiate o sono in via di cambiamento. Gli studenti e l’università che li accoglie, in quanto comunità di cui gli studenti pure sono parte, devono interagire sulla base di altri registri che non sia quello di un preteso efficientismo legato all’idea pseudo-aziendalistica del rapporto tra chi eroga “servizi” e chi ne fruisce come “utenza”. La formazione, nel senso anche di educazione come suo con-
tenuto sociale, civile e morale, in tanto ha valore di bene comune, in quanto è espressione di un impegno collettivo, di cui ogni componente della comunità universitaria nel suo complesso è e deve sentirsi parte attiva e responsabile. Se l’allusione ai nuovi modi d’insegnamento, contenuta nella domanda, riguarda in particolare l’uso delle tecnologie informatiche e di comunicazione a distanza, penso che l’impiego di questi strumenti avviene, oramai, a ritmi e livelli di diffusione tali da farne un fenomeno inarrestabile di cambiamento. Per cui le università statali, pur continuando, anzi, a mio avviso, dovendo continuare ad essere rette dal principio dell’insegnamento in presenza, dovranno tuttavia munirsi di dotazioni e strutture per un’offerta formativa telematica, indirizzata verso obiettivi e ambiti selezionati, come ad esempio il recupero di studenti fuori corso, oppure corsi di aggiornamento (lifelong learning). Il problema semmai è quello di non confondere il mezzo con il fine; vale a dire, come ho già detto in precedenza, di non fare dell’università (pubblica) un mero contenitore di innovazione, a scapito della sua natura e funzione di luogo di ricerca ed elaborazione di contenuti nuovi e innovativi. Venendo al ruolo del nostro Ateneo in un futuro molto prossimo, penso a due scenari, soprattutto. Quello dell’Europa unita, e quello delle sfide della globalizzazione, in un ottica, di nuovo, europea. Entrambi strettamente coniugabili sul fronte delle attività formative e di ricerca, con una rilevante proiezione esterna (territorio, istituzioni, mondo produttivo e società civile). Le relazioni tra università, territorio, istituzioni nazionali ed europee, che fino a qualche tempo fa potevano presentarsi come una semplice opzione, sono divenute una scelta obbligata, un target specifico di una azione da potenziare e valorizzare, autonomamente, rispetto alle relazioni internazionali. Ciò allo scopo di garantirsi sbocchi, in termini di acquisizioni di risorse e realizzazioni di attività, sul piano formativo e scientifico, capaci di rappresentare, a regime, un obiettivo di ulteriore qualificazione del nostro Ateneo. Le sfide della globalizzazione si giocano su vari piani di incidenza. Come viene bene chiarito sulle pagine di un precedente numero di questa rivista (da un contributo di Giacomo Marramao), il fallimento sia del modello assimilazionista che di quello multiculturale, denunciato anche da alcuni leader politici europei, pone il problema di una “terza via” che l’Europa, il Consiglio d’Europa e la Commissione europea in particolare, hanno deciso di imboccare con il progetto sperimentale di azione congiunta delle “città inter-culturali”. Penso che, non solo Roma possa e debba partecipare a questa importante iniziativa, ma che Roma Tre possa e debba farsi artefice di iniziative e darsi una propria agenda di lavoro incentrate sull’idea di università a vocazione interculturale, che, con piena consapevolezza delle implicazioni dei fenomeni migratori e del dramma di popolazioni in fuga dalla miseria, dalla violenza e dalla guerra (Lampedusa docet), prepari le presenti e future generazioni nella
prospettiva di una società aperta e inclusiva, capace di fare delle diversità culturali, in particolare nell’area euro-mediterranea, un valore aggiunto di sviluppo e di progresso civile.
Alfonso Miola
Prof. Miola, lei è stato uno dei protagonisti della nascita e della crescita del nostro Ateneo. Qual è stato il mandato intellettuale degli esordi? Ricordo perfettamente le riflessioni e le discussioni avvenute intorno all’estate del 1992 all’interno e tra i vari Dipartimenti della Sapienza per definire le opzioni verso il nuovo Ateneo. Considerando che il primo obiettivo posto dall’istituzione della terza università di Roma era il decongestionamento de La Sapienza, obiettivo previsto senza adeguate risorse, posso dire che molti di noi che optarono la ritenevano una “avventura”, una vera sfida per riuscire a costruire un Ateneo compiutamente generalista sia nella didattica sia nella ricerca. Infatti il mandato culturale di quel momento risentì certamente dei limiti istituzionali citati che ebbero inevitabilmente molte ripercussioni negative specie sul fronte della ricerca in tutti i settori scientifici diversi da quelli della Facoltà di Lettere, che venne istituita con il trasferimento da La Sapienza dell’intera Facoltà di Magistero. Tuttavia, pur in questa anomala situazione asimmetrica di avvio, per un certo periodo di tempo noi docenti optanti abbiamo portato con noi il nostro bagaglio di interessi scientifici e un grande entusiasmo nella costruzione di una nuova realtà. In questo senso una grande opportunità nell’avventura. Gli anni di avvio, con il rettorato di Bianca Maria Tedeschini Lalli (primo rettore donna in Italia), furono connotati da molti interventi, assolutamente riusciti, per la necessità di affermare l’esistenza didattica e scientifica della nuova università, con la valorizzazione delle nuove realtà scientifiche diverse da quella della Facoltà di Lettere e del peso dei Dipartimenti nella ricerca ma anche nel governo dell’Ateneo. Successivamente, dal 1998, con il rettorato di Guido Fabiani, si è avuto un grande sviluppo dell’intera struttura dell’Ateneo che ha registrato una evidente e significativa capacità di crescita e di affermazione nonostante un susseguirsi di interventi legislativi, non sempre sufficientemente meditati, e un alternarsi di alti e bassi nelle risorse assegnate al sistema universitario. Quali sono state, a suo giudizio, le peculiarità del contributo culturale e scientifico che Roma Tre ha saputo sviluppare? L’attenzione posta dalla politica della ricerca, anche attraverso le iniziative delle conferenze di Ateneo sulla ricerca, ha consentito opportunità di sviluppo di tutte le potenzialità scientifiche presenti determinando l’emergere di vere eccellenze in al-
cuni settori anche con significativi incrementi dei finanziamenti esterni ottenuti per la ricerca. Gli aspetti dell’internazionalizzazione insieme con la sensibilità per il rapporto con le realtà istituzionali, locali e regionali, e le realtà produttive del territorio hanno certamente rappresentato una specificità del nostro Ateneo. In questo senso mi piace ricordare, come emblematica della nostra presenza identitaria a Roma, l’iniziativa del Teatro Palladium che oggi è una realtà culturale e scientifica cittadina e non solo. Come è cambiato l’approccio degli studenti all’università? Devo premettere che la mia visuale sugli studenti universitari è ovviamente quella di docente di una realtà come quella di Ingegneria dove i cambiamenti di approccio sono stati meno evidenti essendo relativamente meno variabili le motivazioni della scelta degli studi di Ingegneria. In generale mi pare evidente sottolineare come in questi ultimi dieci anni di crisi economica, sociale e del lavoro tutti i giovani siano alla “ricerca del futuro”. Ciò richiede a noi docenti di garantire tutta la presenza e la dedizione possibili nelle nostre attività didattiche e nel rapporto con gli studenti per poter offrire loro le migliori capacità di crescita delle competenze e delle professionalità. In questa direzione voglio comunque rimarcare come Roma Tre continui a presentare un’offerta didattica e una struttura organizzativa in grado di facilitare e semplificare l’approccio dei nostri studenti all’università. In questi anni il sistema universitario italiano è cambiato molto; tra le tante novità, oggi l’università si interfaccia in maniera dinamica con il mondo del lavoro; sono cambiate le aspettative degli studenti nei confronti dell’università ed è cambiato il modo di fare docenza. Quale ruolo intravede per l’università di domani? Come dicevo gli studenti hanno grandi aspettative. In molti casi, anche da noi a Roma Tre, gli studenti trovano risposte. Penso ai legami, ormai strutturali, con molte realtà produttive dove i nostri studenti possono trovare opportunità di esperienze lavorative nel periodo dei previsti tirocini a cui, molto spesso, seguono contratti lavorativi. Ancora una volta penso prevalentemente agli studenti di Ingegneria. Ma devo esprimere un mio preciso convincimento maturato in questi venti anni di Roma Tre. I colleghi dei settori umanistici lamentano spesso di sentirsi esclusi da opportunità di accesso a progetti di ricerca così come a rapporti di collaborazione con il mondo produttivo. Credo che si debba cambiare questo atteggiamento verso le opportunità di accesso esistenti: in alcuni settori come quello dei beni culturali ciò già avviene con successo. Le opportunità ci sono per tutti i settori sia a livello regionale, nazionale e internazionale come previsto anche dai bandi della Unione Europea.
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Solo la bellezza potrà salvare il mondo Intervista a Mario Botta
incontri
di Alessandra Ciarletti
Mario Botta. Foto di Beat Pfändler©
Mario Botta nasce a Mendrisio, nel Canton Ticino nel 1943. Dopo un periodo d’apprendistato presso lo studio degli architetti Carloni e Camenisch a Lugano, frequenta il liceo artistico di Milano e prosegue i suoi studi all’Istituto Universitario d’Architettura di Venezia, dove si laurea nel 1969 con i relatori Carlo Scarpa e Giuseppe Mazzariol. Durante il periodo trascorso a Venezia, ha occasione di incontrare e lavorare per Le Corbusier e Louis I. Kahn. La sua attività professionale inizia nel 1970 a Lugano. Da sempre impegnato in un’intensa attività didattica, nel corso degli ultimi anni si è attivato come ideatore e fondatore dell’Accademia di architettura di Mendrisio. Il suo lavoro è stato premiato con importanti riconoscimenti internazionali tra i quali il Merit Award for Excellence in Design by the AIA per il museo d’arte moderna a San Francisco, l’IAA Annual Prix 2005, International Academy of Architecture di Sofia per la torre Kyobo a Seul, l’International Architecture Award del Chicago Athenaeum Museum of Architecture and Design e lo European Union Prize for Cultural Heritage Europa Nostra per la ristrutturazione del Teatro La Scala di Milano.
Prof. Botta, lei è un architetto di fama internazionale: ha realizzato opere importanti come il MoMa di San Francisco, il Mart di Rovereto, la Biblioteca delle scienze dell’università Tsinghua, la Chiesa di Seriate, solo per citarne alcune, ma soprattutto ha fatto della memoria il mandato essenziale della sua creatività, ci spiega perché? L’architettura è una forma espressiva che parla del presente. Il presente contempla la storia e la memoria del passato che hanno via via modellato lo spazio di vita dell’uomo.
Nella sua architettura la luce è un elemento essenziale, partecipa alla definizione dei volumi. Eppure ho la sensazione che ci sia dell’altro: mi piacerebbe che lei ci raccontasse quella notazione in più che riconosce alla luce. La luce è la vera generatrice dello spazio. Senza luce non vi è percezione dello spazio. Partendo da questa considerazione è evidente come il fatto architettonico si modella attraverso i materiali e le geometrie che sottolineano il trascorrere della luce lungo il quotidiano ciclo solare.
Mi ha molto colpita leggere che nella sua Accademia, si può essere ammessi anche senza essere in possesso di titoli scolastici consueti, ma dando prova di formazione ed esperienze significative nei diversi ambiti applicativi dell’architettura. Il che pur essendo una sintesi eccellente di una visione unitaria dei saperi pratici con quelli intellettuali, al tempo stesso è purtroppo rara e spesso disconosciuta. Cosa l’ha portata a farne
un carattere denotativo della sua scuola? L’ammissione all’Accademia è subordinata al conseguimento della maturità liceale ma viene concessa l’iscrizione, su presentazione di un “dossier”, nei casi in cui il candidato dimostri una particolare attitudine verso la disciplina. Nella mobilità che caratterizza la vita degli studenti di oggi mi sembra che questa apertura sia ragionevole. La figura dell’architetto è fin dalle sue origini una figura poliedrica: è al tempo stesso un tecnico, un matematico e se vogliamo un poeta che con maestria e competenza applica le leggi della fisica per dar forma a nuove prospettive di relazione. È per questo che nella sua scuola si insegna anche filosofia? È la via per un nuovo umanesimo? Siamo convinti che per rispondere alla complessità e alla rapidità delle trasformazioni in atto, per gli architetti sia importante una formazione umanistica piuttosto che una unicamente tecnica. Vorremmo offrire un curriculum in grado di evidenziare i problemi della disciplina piuttosto che le soluzioni. Una scuola dove gli aspetti umanistici risultano strutturali rispetto al processo progettuale. Qual è la lezione più significativa che ha imparato nella vita? Lavorare, lavorare, lavorare!
Viviamo in un’epoca sovrastata dalla tecnica, che con i suoi mezzi ci dà l’illusione del dono dell’ubiquità e la presunzione di poter conoscere il
Area ex-Appiani, Treviso, Italia (1990-2012). otografia Enrico Cano©
Chiesa del Santo Volto, Torino, Italia (2001-2006). Fotografia Enrico Cano©
Cappella Granato, Zillertal, Austria (2011-2013). Fotografia Enrico Cano©
mondo senza mai affacciarci dalla finestra. Detto in altre parole si fa molta architettura d’interni e sempre meno interventi dedicati alla collettività. Eppure la storia ci insegna che è proprio dal rapporto fisico con lo spazio che l’uomo sviluppa il proprio universo etico ed estetico di riferimento. Quali sono oggi le qualità fondamentali di un architetto? L’architetto è sempre chiamato ad interpretare la storia, le aspirazioni, le speranze, talvolta perfino le illusioni del proprio tempo. Secondo lei nella nostra società c’è ancora spazio per la bellezza? Nutro la convinzione che, come diceva Dostoevskij, «solo la bellezza potrà salvare il mondo».
MART museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto (1988/1992-2002). Fotografia Pino Musi©
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«A chiunque abbia fatto la quinta elementare» Intervista ad Adele Corradi di Michela Monferrini
La Scuola di Barbiana fu un’esperienza di insegnamento avviata negli anni Cinquanta, in provincia di Firenze, da don Lorenzo Milani. La scuola era rivolta a giovani con difficoltà economiche o di altro ge-
era stata dedicata – memoir a tessere, a frammenti, senza la pretesa della ritrattistica, ma anzi con la delicatezza, il riserbo che contraddistinguono Corradi: «Si parla di lui» ha scritto riferendosi a don Milani, «ma non se ne racconta la storia. Chi la volesse conoscere dovrà rivolgersi altrove». Abbiamo voluto incontrare di nuovo Adele Corradi, interrogarla ancora sul passato e non solo, tra Barbiana e “dopo Barbiana”. Cos’è l’educazione per Adele Corradi? Vorrei abolire questa domanda come vorrei abolire ogni forma di educazione.
Cosa aveva di speciale l’esperienza di Barbiana, cosa la catturò quando arrivò lì la prima volta? Mi riesce difficile seAdele Corradi è stata insegnante a fianco di don Milani negli anni più difficili e avvincenti della Scuola di Barbiana. Ha seguito i suoi ragazzi e l’intero lavoro di redazione collettiva della Lettera a una parare i ricordi del priprofessoressa. Feltrinelli ha pubblicato Non so se don Lorenzo (2012). mo giorno da quelli dei giorni successivi. Ricordo bene una carnere, e non mancò di suscitare, presto, critiche nate tina dell’Africa dove i Paesi che avevano ottenuto in seno all’ambiente cattolico e a quello laico. Don l’indipendenza erano stati evidenziati in rosso, con Milani rispose alle critiche scrivendo – assieme ai tonalità più scure quelli che l’avevano ottenuta per suoi ragazzi – la celebre Lettera a una professoressa. primi, via via più chiare quanto più recenti erano le date. Il 26 giugno 2012 la Facoltà di Lettere e Filosofia Nella mia scuola (era una scuola pubblica) si pendell’Università Roma Tre ha organizzato e co-prosava di insegnare facendo lezioni frontali e interromosso con il MIUR un convegno dal titolo «Salire gazioni. Per dire ai miei scolari quel che diceva a Barbiana: 45 anni dopo». Era stato pensato soquella cartina avrei dovuto costringerli ad ascoltaprattutto come incontro di alcune realtà scolastire più di una lezione frontale annoiandoli a morte che, universitarie, territoriali (anche con disagio senza ottenere nessun risultato. Per memorizzare sociale), con Adele Corradi, quell’insegnante cui il infatti (era questo lo scopo che si voleva raggiunprimo arrivo a Barbiana, il 29 settembre del 1963, gere) quel che io avrei detto sull’indipendenza dei aveva cambiato tanto la vita da convincerla istintipaesi africani i ragazzi avrebbero dovuto impevamente a restar lì per anni, diventando della gnarsi a casa per un bel po’ di tempo con la consaScuola una colonna e restandovi anche oltre la pevolezza sottintesa che, entro non più di un memorte di don Milani, avvenuta nel 1967. setto, avrebbero dimenticato ogni cosa. Nel febbraio precedente al convegno Adele Corradi Con un’occhiata a quella cartina si capiva invece e ha pubblicato il suo Non so se don Lorenzo (Feltrisi memorizzava tutto per sempre e il ragazzo o i nelli), diario ondivago – degli anni a Barbiana, dei ragazzi che avevano raccolto le informazioni ne“metodi” scolastici, della nascita della Lettera a cessarie e l’avevano fatta non si erano certamente una professoressa, che non si riferiva a lei, ma a lei annoiati neanche un pochino.
Lezione sotto il pergolato, 1960, Ammannati, Archivio FDLM
Ci sono ancora degli errori di giudizio legati alla Scuola di Barbiana o crede che la filosofia della Scuola e la figura di don Milani siano state comprese? Se si facesse un bilancio ho il dubbio che si scoprirebbe che la scuola e la figura di don Milani sono state più spesso fraintese che intese. Non parlo del fraintendimento di tutti quelli che hanno giudicato e giudicano don Milani così rivoluzionario, così “magico” da esser responsabile della trasformazione della scuola italiana da buona che era prima di lui in una scuola senz’altro cattiva. Mi sembra un fraintendimento così grossolano che non merita che ci si perda tempo a contraddirlo. Che le idee di un maestro notoriamente esigentissimo e severo, inventore di una scuola nella quale ragazzi dagli undici ai quindici anni studiavano astronomia e genetica, abbiano generato una scuola permissiva e cialtrona è ovviamente un’ipotesi che non sta in piedi. I fraintendimenti più gravi, secondo me, sono quelli accompagnati dall’ammirazione. Quasi mai vengono messi in luce perché gli elogi non insospettiscono e così chi non conosce don Milani li prende per buoni. I primi a fraintendere furono gli studenti del ‘68. La critica alla scuola partita da Barbiana fu sfruttata per reclamare il “6 politico”. Le critiche a Pierino mosse dai ragazzi di Barbiana passarono sulle teste dei Pierini senza neppure sfiorarle. Caddero nel vuoto e nessuno le raccolse. Anche più gravi mi sembrano i fraintendimenti cari
alle gerarchie ecclesiastiche e ai cattolici di stretta osservanza. In questi ambienti si ama esaltare don Milani come prete obbedientissimo alla sua Chiesa perché don Milani si vantava di esserlo per difen-
Che le idee di un maestro notoriamente esigentissimo e severo, inventore di una scuola nella quale ragazzi dagli undici ai quindici anni studiavano astronomia e genetica, abbiano generato una scuola permissiva e cialtrona è ovviamente un’ipotesi che non sta in piedi. I fraintendimenti più gravi, secondo me, sono quelli accompagnati dall’ammirazione
dersi dalle critiche. Da morto occorre, come ho detto, difenderlo soprattutto dagli elogi se si vuole capire il suo pensiero, il suo operato e la sua storia. Ascoltando le gerarchie ecclesiastiche e i cattolici di stretta osservanza non si riesce infatti a capire, per fare un esempio dei più banali, come mai un prete povero, che non guardava le donne perché era addirittura misogino (lo dicono in tanti!), devoto e obbediente, sia stato cacciato a trent’anni in una parrocchia senza acqua, senza luce, senza tele-
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fono e perfino senza strada. Per portare i suoi libri lassù don Milani dovette infatti servirsi di un carro trainato da buoi e senza ruote perché nessun veicolo con le ruote sarebbe potuto arrivare alla casa parrocchiale. Ho sentito un giorno il segretario del
I primi a fraintendere furono gli studenti del ‘68. La critica alla scuola partita da Barbiana fu sfruttata per reclamare il “6 politico”. Le critiche a Pierino mosse dai ragazzi di Barbiana passarono sulle teste dei Pierini senza neppure sfiorarle. Caddero nel vuoto e nessuno le raccolse
cardinale Florit dire che in questo fatto non c’era niente di straordinario perché a tutti i preti giovani poteva capitare di essere destinati a una parrocchia scomodissima se i parrocchiani avevano bisogno di un prete. Non ricordava, il segretario del Cardinale, che a Barbiana i parrocchiani erano diventati così pochi che era stato deciso che nessun prete poteva essere sprecato per una parrocchia così. Sembrò poi adatto un prete santo, colto e intelligente che aveva saputo raccogliere intorno a sé tutti i giovani del paese dove era stato viceparroco.
L’approccio educativo e formativo di Barbiana sarebbe adatto a una scuola sempre più multiculturale come quella attuale? Dicendo che l’approccio educativo e formativo di Barbiana sarebbe adatto a una scuola multiculturale si direbbe ben poco. La scuola di Barbiana era di fatto una scuola multiculturale. Ho ascoltato a Barbiana due anarchici raccontare ai ragazzi la loro vita. Per me, che conoscevo gli anarchici solo per sentito dire, ed era un dire a vanvera, furono una scoperta. Erano interessantissimi. E se facessi l’elenco delle persone interessanti che ho ascoltato parlare ai ragazzi lassù ci si troverebbe, in quell’elenco, credenti e non credenti, cattolici e protestanti, uomini politici e contadini, un discepolo di Gandhi, un testimone di Geova e un prete cattolico cinese. Un giorno, mentre si faceva scuola, arrivò un giovane keniota. Ci disse che lo aveva indirizzato a Barbiana un amico che don Lorenzo conosceva bene. Aveva la valigia e si capì che aveva intenzione di fermarsi.
Quando se ne andò scrisse che dormendo a Barbiana gli era sembrato di dormire nella capanna del villaggio dove viveva la sua famiglia. Si chiamava Daniele. Lo ricordo impegnato a insegnar qualcosa a Marcello, il più piccino. I ragazzi più grandi stavano finendo di scrivere la Lettera a una professoressa. «Abbiamo fatto centro!» mi disse un giorno don Lorenzo, «Abbiamo fatto centro! La nostra Lettera piace anche a Daniele!». È uscito dunque da quella scuola anche un libro multiculturale. Ho conosciuto un frate francescano che lo leggeva ai Guarany.
La rete e i social network sarebbero uno strumento utile per riportare a scuola la metodologia della scrittura collettiva sperimentata a Barbiana? Ho fatto più volte, con i miei scolari, scrittura collettiva. L’ho fatta anche in una scuola in Spagna benché conoscessi pochissimo lo spagnolo. A me toccava soprattutto il compito di dare la parola a chi voleva parlare. E nessuno stava zitto. Prima o
Anche più gravi mi sembrano i fraintendimenti cari alle gerarchie ecclesiastiche e ai cattolici di stretta osservanza. In questi ambienti si ama esaltare don Milani come prete obbedientissimo alla sua Chiesa perché don Milani si vantava di esserlo per difendersi dalle critiche. Da morto occorre, come ho detto, difenderlo soprattutto dagli elogi se si vuole capire il suo pensiero, il suo operato e la sua storia
poi parlano tutti. Bravi e ciuchi, timidi e sfrontati. È come dirigere un’ orchestra. Non mi riesce immaginare un’ orchestra sparsa in rete. Quando facevo scuola a tempo pieno i ragazzi sceglievano di fare scrittura collettiva nel pomeriggio perché le ore del pomeriggio erano le più faticose ma con la scrittura collettiva passavano velocissime. In certi momenti, quando si cerca la parola più giusta per dire quello che si ha in testa, o la correzione migliore per una frase che non ci contenta, la tensione si tocca con mano. «Mi fuma la testa» mi disse una volta una bambina. Mi è capitato di sentire il più bravo dire entusiasta: «È vero! È così!» per un suggerimento del ragazzo più sprovveduto. Sono momenti magici. Non insegna solo a scrivere la scrittura collettiva. Insegna a discutere, insegna ad ascoltare attentamente e a riflettere su ogni proposta, su ogni dubbio. Non so dire se tutto questo può succedere in rete. Io ho novant’anni. * Si ringraziano Adele Corradi per la disponibilità e gentilezza estreme e Raimondo Michetti (Dipartimento di Studi umanistici, Università Roma Tre) per la collaborazione.
Rai Educational e la formazione continua Intervista a Silvia Calandrelli di Alessandra Ciarletti
cazione non solo televisiva ma fortemente crossmediale), sulla capacità di affascinare e dunque di conquistare e conservare l’attenzione del pubblico (quello che oggi è di moda chiamare storytelling, e che in italiano potremmo rendere con l’espressione “forza narrativa”), nonché su un forte coordinamento con le altre istituzioni formative e con le maggiori istituzioni culturali del paese. Credo di poter dire che questi quattro aspetti – qualità, innovazione, storytelling, collaborazione – siano i più importanti nel valutare l’efficacia e l’importanza del contributo che RAI Educational può dare alla crescita culturale e civile del paese.
Di recente Rai Scuola, il canale dedicato al mondo dell’UniverSilvia Calandrelli, direttore di Rai Educational, Rai Storia e Rai Scuola sità, della scuola e della ricerca ha lanciato un nuovo programDirettore lei dal 2011 dirige Rai educational, il ma RAI Edu Scienza; ce ne può parlare? canale che negli anni ha incarnato più degli altri Più che di un singolo programma, si tratta di un’al’impegno formativo che la buona televisione inzione coordinata per rafforzare l’attenzione rivolta a dubbiamente svolge. Quando lei pensa alla teleun campo di centrale importanza: quello della culvisione e pensa alla formazione, quali sono gli tura e della comunicazione scientifica. Si tratta di aspetti fondamentali che non debbono venire un settore nel quale il nostro Paese può vantare ecmeno? cellenze internazionali di altissimo livello, ma nel La RAI non è semplicemente un’azienda impegnaquale purtroppo investiamo ancora troppo poco, e ta nel broadcasting televisivo, ma è anche – e direi che è ancora troppo poco noto al grande pubblico. in primo luogo – l’azienda concessionaria del serSi parla spesso di “analfabetismo” scientifico e tecvizio pubblico radiotelevisivo. Questo significa nologico: il termine è forse troppo estremo, ma seche una componente importante del nostro lavoro è gnala senz’altro un bisogno formativo specifico, e deve essere dedicata a produrre contenuti “di serche è importante contribuire a colmare. RAI Educavizio”, che rispondano a bisogni effettivi del Paetional si è sempre occupata di scienza, ma abbiamo se. E credo che il bisogno di cultura e di formaziodeciso di cambiare passo: l’attenzione verso il monne – e di una formazione di qualità – sia uno dei do della ricerca scientifica e tecnologica deve essebisogni più importanti del paese. Un bisogno il cui re sistematica, finalizzata, basata su un progetto corilievo è ancor maggiore in un passaggio delicato e municativo di larga portata. Un progetto che, anche difficile come quello che stiamo affrontando, in in questo caso, non coinvolge solo la televisione ma cui innovazioni radicali nel mondo del lavoro e anche la rete e l’insieme dei media digitali. È quello della comunicazione si associano a una crisi ecoche stiamo cercando di fare in questi mesi. nomica di larga portata, dalla quale non è affatto semplice uscire. In questa situazione, la formazioIn base alla sua esperienza, cosa chiedono magne (intesa anche come long life learning e formagiormente oggi i giovani, i cosiddetti nativi digizione informale) e la cultura rappresentano insietali, alla televisione? me bisogni diffusi e risorse essenziali. RAI EducaNon c’è dubbio che per le giovani generazioni il tional è lo strumento principale – anche se non l’uruolo della televisione sia molto diverso da quello nico – attraverso il quale la RAI cerca di rispondedel passato. Possiamo dire, certo con il rischio di re, e di rispondere al meglio, a questi bisogni. Ma qualche semplificazione, che oggi la televisione attenzione: lavorare nel campo della cultura e della non è più il medium principale e privilegiato: queformazione non significa produrre contenuti noiosi sto ruolo è sempre più spesso affidato alla rete. Ma o di nicchia. Al contrario, significa lavorare sulla la televisione non scompare: non solo perché – pur qualità, sull’innovazione (e dunque su una comuniin un panorama mediatico più ricco – conserva co-
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Zettel, di Muarizio Ferraris
munque la sua importanza e la sua pervasività, ma anche (e soprattutto) perché la televisione è ormai essa stessa in rete, parte dell’universo comunicativo digitale. Dal broadcasting tradizionale si passa così sempre più spesso ai contenuti on demand, e dal programma televisivo considerato come unità autonoma e autosufficiente si passa a una televisione fortemente contaminata dai nuovi media, presente sui social network: una televisione che diventa social TV e connected TV. Di questa vera e propria rivoluzione, RAI Educational è e vuole essere non solo parte, ma protagonista. E credo che ci stiamo riuscendo: per dare solo qualche dato, i nostri canali televisivi sono oggi di gran lunga quelli con maggior percentuale di utenza via web di tutta la programmazione RAI. La nostra presenza su social network è decuplicata in due anni. E in azienda siamo stati i primi a sperimentare strumenti come i magazine multimediali per tablet o gli e-book multimediali.
Numerosi sono i programmi culturali di Rai Edu inseriti nei palinsesti dei tre canali Rai. Due sono i canali digitali, Rai Scuola e Rai Storia, entrambi gratuiti. Perché proprio la storia e la scienza? Il canale RAI Storia risponde a un interesse diffuso – quello verso la storia del nostro paese – e in un certo senso corrisponde a una funzione fondamentale del medium televisivo, perché la storia è prima di tutto narrazione fondata su fatti, documenti, interpretazioni. Nella storia, la dimensione narrativa è dunque essenziale. Ma il canale RAI Storia non è e non vuole essere solo un canale che racconta il passato: la storia rappresenta la più importante risorsa che abbiamo a disposizione nell’interpretare il presente e progettare il futuro. E – pur utilizzando l’immensa ricchezza del materiale di repertorio delle teche RAI – RAI Storia non è e non vuole es-
sere un canale “nostalgia”: è un canale impegnato nella rivisitazione del passato sempre in una prospettiva di riflessione, proiettata sulla nostra società e sulla sua evoluzione nel tempo. Quanto a RAI Scuola, non si limita naturalmente al campo della
Si parla spesso di “analfabetismo” scientifico e tecnologico: il termine è forse troppo estremo, ma segnala senz’altro un bisogno formativo specifico, che è importante contribuire a colmare. RAI Educational si è sempre occupata di scienza, ma abbiamo deciso di cambiare passo: l’attenzione verso il mondo della ricerca scientifica e tecnologica deve essere sistematica, finalizzata, basata su un progetto comunicativo di larga portata
comunicazione scientifica ma cerca di individuare ed esplorare l’insieme dei principali bisogni formativi e culturali del paese, offrendo strumenti e contenuti che aiutino sia il sistema della formazione formale (scuola e università) sia quello della formazione informale. Non è solo un canale per le scuole, anche se certo offre molti contenuti anche a insegnanti, studenti e famiglie. Cerca ad esempio di rispondere anche a bisogni formativi e culturali nuovi legati all’idea di cittadinanza consapevole. La stessa attenzione verso il mondo della ricerca scientifica e tecnologica è una conseguenza di questa impostazione. Anche per questo stiamo riflettendo sulla possibilità di cambiare il nome e in parte la fisionomia del canale, collegandolo ancor di
più all’idea di un apprendimento attivo e coinvolgente, rivolto a tutti, e non solo a una formazione “scolastica” nel senso tradizionale del termine. La presenza sui canali generalisti si affianca a quella su RAI Scuola e RAI Storia, e propone non solo i contenuti di maggior impegno e rilievo, ma anche contenuti che possano fornire un’occasione di incontro con il nostro lavoro, in televisione e in rete, portando gli spettatori a scoprire l’insieme della produzione di RAI Educational.
Qual è secondo lei il programma del passato che ha meglio declinato il mandato culturale della televisione pubblica? E quello di oggi? Beh, per quanto riguarda il passato è difficile non far riferimento a quello che è stato senz’altro il programma simbolo dell’impegno della RAI nel campo dell’educazione e della formazione: Non è mai troppo tardi, il programma del maestro Manzi. È un programma lontano nel tempo, ma la sua ispirazione è ancora con noi: pensiamo ad esempio alla necessità di alfabetizzazione nel campo dei nuovi media. Il mondo anglosassone parla a questo proposito di “information litteracy”, alfabetizzazione informatica: un settore che richiede un grande impegno sia per sfruttare al meglio le possibilità offerte dalle nuove tecnologie digitali, sia per evitare svantaggi e gap formativi, e colmare quelli che indubbiamente esistono. Quanto ai programmi di oggi, è un po’ come chiedermi di scegliere fra diversi figli: ovviamente sono molto legata a tutti, e i progetti nuovi sono sempre quelli che in ogni momento impegnano di più. Per questo, se dovessi rispondere oggi parlerei forse proprio del lavoro che stiamo facendo nel campo delle scienze e della divulgazione scientifica. Ma sono molto legata anche al progetto Il tempo e la storia, uno dei più impegnativi perché prevede trasmissioni quotidiane e il lavoro – che va organizzato e gestito – di un comitato di storici fra i più noti e qualificati del nostro paese (e non solo, dato che abbiamo anche alcuni membri non italiani). Per formazione, venendo da studi filosofici, sono poi molto legata al nostro programma filosofico, Zettel, di Maurizio Ferraris, che credo abbia dimostrato – anche con il notevole successo avuto in rete e sui social network – che si può parlare di filosofia in maniera affascinante e comprensibile, senza rinunciare alla qualità.
Quali sono le linee guida dei progetti per il futuro? Intendiamo rafforzare ancor di più l’attenzione verso la crossmedialità, proponendo progetti che siano sempre a cavallo fra televisione, mondo della rete e social
Il tempo e la storia
media. Lo faremo ad esempio in uno fra i progetti più impegnativi che ci aspettano nel prossimo futuro, quello relativo alle celebrazioni della Prima Guerra Mondiale. Un anniversario che affronteremo, in stretto collegamento con le altre televisioni europee, attraverso una serie di appuntamenti quotidiani che permetteranno, giorno per giorno, di ripercorrere i conflitto e le sue tappe, ma anche di riflettere a fondo sulle sue cause e sulle sue conseguenze. Sarà l’occasione per sperimentare nuovi
Non c’è dubbio che per le giovani generazioni il ruolo della televisione sia molto diverso da quello del passato. Possiamo dire, certo con il rischio di qualche semplificazione, che oggi la televisione non è più il medium principale e privilegiato: questo ruolo è sempre più spesso affidato alla rete
format, allargare ad esempio la nostra produzione nel campo degli e-book multimediali, affacciarci spero in un campo completamente nuovo, quello della cosiddetta augmented reality, la realtà aumentata. E naturalmente faremo lo stesso anche in altri settori: abbiamo ad esempio altre novità in cantiere proprio nel campo della divulgazione scientifica e dei nuovi media.
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Palladium
Il Teatro Palladium e Roma Tre: intervista al Rettore Mario Panizza
rubriche
a cura di Federica Martellini
Roma Tre e il Teatro Palladium: una storia che ha compiuto dieci anni. Si potrebbe dire che questa esperienza rappresenta un po’ la cifra di un intervento fecondo dell’Ateneo nel contesto cittadino? Sì certamente. L’intervento di Roma Tre nella gestione e poi nella proprietà del Palladium ha segnato senza dubbio una virtuosa controtendenza nel destino di questo luogo rispetto a quello di altri analoghi edifici realizzati, come il Palladium, negli anni Venti o nel dopoguerra, che sono stati successivamente alterati o irrimediabilmente compromessi da inappropriate trasformazioni, adeguamenti di diversa natura, disinvolte ristrutturazioni. Roma Tre ha, al contrario, promosso una conservazione e valorizzazione della struttura originaria attraverso un restauro accorto e un piano articolato di eventi culturali rivolti alla città, al quartiere e alla comunità degli studenti e dei docenti. Il Palladium è riuscito così, tramite il contributo e il prestigio della Fondazione RomaEuropa e la preziosa collaborazione con il Comune, la Provincia di Roma e la Regione Lazio, a inserirsi in questi anni in un circuito nazionale e internazionale di altissimo livello culturale. Essere riusciti a riscattare il Palladium dal degrado e da radicali trasformazioni funzionali dà il segno di come questa esperienza sia stata l’occasione per riqualificare una struttura pubblica attraverso l’adozione di differenti soluzioni architettoniche e gestionali, capaci di cogliere le potenzialità di questo spazio. Così come in altre esperienze di recupero del patrimonio edilizio promosse dall’Ateneo (solo per citare le ultime, l’ex Vasca Navale e l’ex Mattatoio, attuali sedi dei Dipartimenti di Ingegneria e di Architettura), anche per il Palladium sono state elaborate proposte progettuali riconoscibili a livello architettonico e fruibili a livello pubblico, capaci di utilizzare le strutture esistenti valorizzandone le specificità in rapporto alle nuove funzioni. Nel caso del Palladium alla tutela e al recupero degli edifici si è accompagnato un programma di intervento ampio e articolato che ha portato questi spazi a essere nuovamente protagonisti della vita della città. Il Palladium è diventato, in qualche modo, una finestra dell’Ateneo verso la città (e viceversa), uno degli spazi in cui l’università esercita, nel senso più ampio, la propria funzione culturale e formativa, non solo nell’ambito della comunità accademica ma verso una comunità più ampia, che è quella cittadina… Il rapporto con la città è da sempre tra gli impegni più sentiti di Roma Tre che ha investito sin dagli esordi, oltre che sulla didattica e sulla ricerca, su strutture in qualche modo strategiche per lo sviluppo urbanistico e culturale della città. Il Palladium è al centro di questa politica e la sua programmazione è stata sempre rivolta alla sperimentazione con l’obiettivo di sostenere e rendere concrete le relazioni tra
studenti e cittadini su temi culturalmente qualificati e innovativi. Il Teatro, con sempre maggiore continuità e non solo nei tempi delle rappresentazioni serali, sarà impegnato a proporre spettacoli di qualità, dibattiti scientifici, incontri con personalità, scambi di esperienze e a sostenere la formazione e la produzione teatrale, cinematografica e musicale, con particolare attenzione alle iniziative dei più giovani. Questa prospettiva intende rafforzare l’impegno culturale e sociale della comunità accademica di Roma Tre, rivolgendosi alla promozione di quelle opportunità educative e didattiche che sono la missione primaria dell’università. La crisi finanziaria, che ha imposto a molte Amministrazioni Pubbliche di comprimere la loro offerta di servizi, non riguarderà il Palladium, che rimane al centro del nostro impegno formativo. Nei programmi di Roma Tre prevale infatti la convinzione che le “Stagioni del Palladium” debbano essere sempre più piene e che non si debba smarrire il livello qualitativo garantito in questi dieci anni. Il nostro Ateneo è determinato su questo obiettivo e, oltre a confermare risorse importanti, è impegnato a cercare contributi e sostegni esterni. È in corso una convenzione con la Regione Lazio per la costituzione di una scuola per il teatro. Qual è, dal punto di vista più specificamente didattico e formativo, la valenza di una risorsa come il Palladium per Roma Tre? La disponibilità, anche a fini didattici, di uno strumento come il Teatro Palladium garantisce senza dubbio agli studenti di Roma Tre il conseguimento di specifiche competenze professionali, irraggiungibili in altri contesti universitari, in particolare per quei settori formativi che si legano più direttamente alle discipline delle arti, della musica e dello spettacolo, settori nei quali l’Ateneo può vantare un’ampia e consolidata attività didattica e di ricerca e che rappresentano una realtà di grande importanza nell’ambito di un territorio, come quello romano, che ospita così numerose agenzie produttive nei settori dello spettacolo, del cinema e della comunicazione. Il Palladium rappresenta una straordinaria opportunità per gli studenti delle discipline dello spettacolo, che possono entrare in contatto con il vivo svolgersi dell’attività di un teatro, assistere a prove aperte, vedere attori e musicisti al lavoro, confrontarsi con la ricerca teatrale e musicale, assistere agli spettacoli ottenendo così, in prospettiva, un notevolissimo arricchimento del proprio percorso di apprendimento. In particolar modo per tutte quelle attività di taglio non esclusivamente teorico, ma più marcatamente pratico-produttivo, che mirano a trasmettere anche le competenze “artigianali”, legate più direttamente al saper fare, il Palladium costituisce un valore aggiunto ai percorsi formativi di Roma Tre. www.uniroma3.it/page.php?page=palladium
Ultim’ora da Laziodisu
Torno subito. Un fatto positivo per le giovani generazioni del Lazio
di Carmelo Ursino
“Torno Subito”, programma promosso dall’Assessorato alla Formazione, ricerca, scuola, università della Regione Lazio e finanziato con risorse residue del Fondo sociale europeo del POR Lazio 20072013, si è rivelato un grande successo. Il programma, alla prima edizione, gestito da Laziodisu, ha impegnato 5.400.000 euro per finanziare a fondo perduto progetti di formazione formale e informale e/o di work experience, per studenti universitari o laureati, di età compresa tra i 18 e i 35 anni, residenti e/o domiciliati nel Lazio da almeno 6 mesi, ai quali viene data l’opportunità di realizzare un’esperienza di mobilità nazionale ed internazionale, della durata massima di 12 mesi, finalizzata al reimpiego delle competenze acquisite fuori regione all’interno del territorio regionale, presso aziende, associazioni ed enti pubblici. La risposta da parte dei giovani è stata importante. Circa 800 progetti presentati, di cui circa 500 verranno finanziati e così, a partire dal prossimo settembre, i ragazzi potranno partire per le destinazioni prescelte. “Torno Subito” ha l’obiettivo di sostenere la crescita individuale dei giovani favorendo percorsi di autonomia e partecipazione, di incentivare l’acquisizione di competenze e relazioni in ambito nazionale ed internazionale ed il loro impiego nel contesto regionale, di investire le nuove competenze e valorizzare le risorse esistenti per lo sviluppo locale del Lazio. Il programma finanzia una borsa di lavoro (o di studio) a copertura dei costi di vitto, alloggio e mobilità per il periodo di mobilità fuori regione (la cui entità varia a seconda della destinazione), l’eventuale acquisto di corsi di formazione, master, etc. fino ad un massimo di 7.000 Euro, nonché per il periodo di reimpiego delle competenze nel Lazio un’indennità di 400 euro mensili. Dando un po’ di numeri, lo staff di assistenza tecnica di “Torno Subito”, operante presso gli uffici di Laziodisu in Via De Lollis 22 a Roma, ha fornito a 545 ragazzi un servizio di assistenza tecnica personalizzato ed ha erogato un servizio informativo a circa 1300 ragazzi. Oltre 600 persone hanno partecipato all’evento di presentazione del Programma del 13 marzo 2014 e ben 80 enti e 300 giovani hanno partecipato a “A/R – Il Bar Camp di Torno Subito” del 1 aprile 2014. Lo staff del programma, al fine di promuovere l’iniziativa e coinvolgere le comunità locali del Lazio, ha percorso oltre 2000 kilometri nei 23 Eventi del Torno Subito Tour: Roma (Centro Sperimentale di Cinematografia,
Municipi V, VII, Campus X di Tor Vergata, Università Roma Tre, Centro Culturale Tunisino) Rieti, Viterbo, Frosinone, Formia, Ostia, Maenza, Priverno, Cassino, Stimigliano, Guidonia Montecelio, Poggio Mirteto, Civitavecchia, Frascati, Ladispoli, Paliano, Aprilia. Durante questi eventi, inoltre, si è fornita assistenza tecnica a 393 ragazzi. Sono stati realizzati, infine, 72 incontri di presentazione del progetto con Comuni, Centri per l’impiego, aziende del profit e del no profit, coinvolgendo circa 275 Enti, di cui 150 sono diventati partner dell’iniziativa. Il sito www.tornosubito.laziodisu.it e la pagina facebook sono diventati strumenti informativi importanti e luoghi di interazione continua con i giovani interessati. “Torno Subito”, quindi, è un programma fortemente innovativo e rappresenta la prima sperimentazione concreta avviata da una regione italiana di un “reddito minimo al cittadino in formazione”; i ragazzi, infatti, non dovranno produrre nessuna rendicontazione delle spese sostenute (tranne che per l’acquisto eventuale di un corso di formazione) ma avranno un reddito a disposizione per praticare l’autonomia e la responsabilità. “Torno Subito” è’ un progetto in sperimentazione e in divenire. Questa prima edizione rappresenta un numero zero su cui lavorare, aprirsi all’esterno, individuando criticità e cose da correggere, cose buone e meno buone, per progettare in modo sempre più partecipato le prossime edizioni. Questo numero zero, inoltre, è anche l’occasione per raccontare le storie di andate e ritorno che si attiveranno nei prossimi mesi, per confrontarsi con i ragazzi e con gli enti ospitanti per comprendere fino in fondo il valore e le difficoltà di questa avventura. Sicuramente sarà un cammino, speriamo fruttuoso e utile per le giovani generazioni che abitano il Lazio.
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Non tutti sanno che...
È stato rinnovato il protocollo dell’Osservatorio di studi di genere tra le università romane: intervista a Francesca Brezzi a cura della redazione
Perché un Osservatorio di studi di genere tra le quattro principali università romane? Sarei tentata di rispondere: lo chiede l’Europa, e non sarebbe solo una battuta o una risposta evasiva perché con questa iniziativa recepiamo le indicazioni che provengono dall’Unione Europea, la quale considera la promozione delle pari opportunità una delle priorità della propria politica, da realizzare in ogni contesto e ci collochiamo sulla scia di molte altre Università europee, per le quali si tratta di una prassi già da tempo consolidata.
Come è nata questa idea e quali gli scopi? L’Osservatorio di Studi di genere, parità e pari opportunità (GIO) è nato Francesca Brezzi nel 2009 ad opera delle delegate dei Rettori alle pari opportunità delle Università Roma Tre, La Sapienza, Tor Vergata e Roma Foro Italico, ed è stato recentemente rinnovato, con l’adesione convinta dei Rettori; l’obbiettivo principale consisteva nel creare sinergie e proseguire un confronto a più voci all’interno degli Atenei romani in relazione agli studi e alle ricerche sulle problematiche di genere; si voleva incentivare la riflessione e l’indagine sul pensiero femminile, sulla storia delle donne, sulla presenza e rappresentanza femminile nella società al fine di arricchire il dibattito in corso, organizzando incontri, seminari e convegni. Sottolineo con piacere che questo è stato il primo Osservatorio universitario in Italia, al quale molti altri simili si sono aggiunti, con nostra soddisfazione, perché si tratta sempre di fecondare un ambito significativo della nostra cultura universitaria.
Come vi ponete quindi nei confronti del sapere accademico e delle “sue rigidità”? Innanzi tutto vorrei rilevare come in questi anni di continue trasformazioni dell’Università la presenza dell’Osservatorio può rappresentare un punto di riferimento importante non solo sulle tematiche attinenti le pari opportunità tra uomo e donna, ma altresì per focalizzare l’attenzione e la prassi all’effettiva parità tra persone, per combattere le discriminazioni sociali e politiche, dal momento che ha fatto irruzione il tema delle differenze di cultura, di etnia, di lingua e di religione. Quindi l’Osservatorio rappresenta
la risposta dell’Università alle sollecitazioni che emergono nella realtà contemporanea. In secondo luogo, con esplicito richiamo alla trasversalità degli studi di genere (a me piace affermare che essi sono indisciplinati) l’Osservatorio realizza una collaborazione interdisciplinare fra docenti ed esperti, di differenti discipline accademiche, articolando un confronto nelle diverse aree umanistiche e scientifiche, incrementando la costituzione di reti con associazioni, istituzioni, servizi pubblici e privati, finalizzate allo scambio e alla circolazione di informazioni e alla progettazione di interventi comuni. Ne deriva il carattere di fecondo intreccio tra varie discipline realizzatosi nell’Osservatorio, che- ribadendo l’autonomia dei saperi- ha attuato e continuerà a proporre una riflessione che eviti omologazioni, per giungere a una riformulazione del sapere dato. E l’Osservatorio si presenta quale laboratorio per rielaborare gli scopi e la funzione dell’alta formazione, iniziando, quindi, una riflessione critica sul soggetto conoscente, in particolare la donna e sul suo posto nel contesto istituzionale contemporaneo. Quali le iniziative? Sarebbe lungo rispondere, né del resto vorrei proporre un arido elenco, si trovano molte notizie sul nostro sito recentemente rinnovato grazie al contributo di Monica L’Erario, - l’indirizzo è: www.giobs.it -; vorrei tuttavia sottolineare come nelle nostre iniziative si sia cercato di tessere una sorta di tela di Penelope, volendo tuttavia osservarne il rovescio: se questa rappresenta in certo senso la tradizione culturale in cui l’apporto femminile è assente, nascosto, misconosciuto o non riconosciuto nella sua autorevolezza, esaminare la parte non visibile della tela sta a significare cogliere tanti fili ingarbugliati, anche molti nodi, ma scorgere altresì l’intreccio di fili diversi, segni e cifre di lavori in corso. Considerare il rovescio consente di apprezzare un cantiere aperto, in cui si sono organizzati incontri che spaziavano dalle tematiche economiche, lavoro, welfare femminili al sessismo e al potere discriminatorio delle parole, per combattere gli stereotipi sulle donne nei media, dalla riflessione su Donne e scienza, alla filosofia interculturale con molti eventi (la realizzazione di vari progetti europei “Tempus” in partenariato con Marocco Francia, relativi a Genere e cittadinanza fra le due rive del Mediterraneo), e altresì molta attenzione si è prestata alla presenza delle donne nell’agorà politica, da noi esaminata da varie prospettive, non ultimo è stato affrontato il tema della violenza contro le donne. Dopo questo percorso quale il risultato? Possiamo con compiacimento affermare che questi anni di vita dell’Osservatorio hanno rappresentato un cammino di crescita di molte di noi ed anche
dell’Università. Guardando indietro siamo soddisfatte di aver dato vita a questa avventura, perché di un’avventura si tratta, con tutte le incognite, difficoltà, ma anche realizzazioni che un viaggio – più o meno avventuroso – comporta, avendo come bussola unicamente la volontà di aprire spazi e luoghi a saperi, temi, contenuti e metodologie nuove, talvolta nate fuori dai circuiti consueti, ma necessariamente intrecciati con il pensiero nelle sue diverse articolazioni (umanistico, scientifico, economico). Ma si tratta di un pensiero da intendere quale sapienza incarnata, o meglio per ricordare Hannah Arendt, un pensiero appassionato, in cui pensare e vivere si mostrano quale un prisma che unisce ragione e cuore, filosofia e storia, filosofia e politica. Tutte noi esercitiamo senz’altro il pensare e il comprendere, ma cerchiamo una modalità espressiva
che concili in sé il rigore e la passione. Riteniamo che la riflessione teorica non sia mai puro esercizio speculativo, ma adesione intensa del pensiero alla vita, esigenza profonda dell’essere alla ricerca di risposte vitali del quotidiano. E i nostri inquieti tempi richiedono forse un sovrappiù di attenzione e di risposte. Il Comitato scientificodell’Osservatorio: Francesca Brezzi (delegata alle pari opportunità di Roma Tre) presidente; Marisa Ferrari Occhionero (delegata alle pari opportunità e alle politiche di genere della Sapienza Università di Roma); Elisabetta Strickland socia fondatrice, già delegata alle pari opportunità di Tor Vergata, vicepresidente del CUG); Lucia De Anna (delegata alle pari opportunità Università Roma Foro Italico); Laura Moschini, docente a Roma Tre; Mariella Nocenzi, docente a La Sapienza.
Il Centro di ascolto psicologico di Roma Tre
Andrea, Lucia, Chiara e tanti altri studenti - ogni anno sempre più numerosi - arrivano alla Palazzina Rosa (così è chiamata familiarmente dagli studenti di Roma Tre la sede dove è collocato il Centro di Ascolto Psicologico) per chiedere un appuntamento. Nomi di finzione, ovviamente, perché la preoccupazione per la privacy è al centro di tutto il lavoro degli psicoterapeuti che offrono colloqui di consultazione psicologica focalizzati alla risoluzione dei problemi che possono nascere nell’incontro dei giovani con la vita universitaria. Più in generale l’équipe del Centro è disponibile all’ascolto di tutte le esperienze che fanno parte dell’arco di vita della generazione dei nostri studenti. Andrea arriva dicendo che non riesce più a studiare, ormai sono già sei mesi. Nel corso del colloquio emerge un suo stato d’animo di profondo avvilimento rispetto al quale non riesce a reagire: una situazione che, prolungandosi, potrebbe configurare un rischio di inizio depressione. Avere la possibilità di ricorrere ad un Centro di ascolto psicologico consente ad Andrea, nel corso di quattro colloqui, una messa a fuoco delle vicende e delle percezioni che lo hanno indotto a nutrire dei dubbi sulla validità della scelta del corso di studio fatta al momento dell’iscrizione. In virtù di questa nuova chiarezza Andrea può ora riprendere in mano se stesso e le sue scelte. Sono già quattro mesi che Lucia soffre di crisi di panico: non sapeva a chi rivolgersi perché il suo medico di base le aveva proposto una consultazione con uno psichiatra e lei non se la sentiva, covava nel fondo di sé l’idea di poter essere malata se la soluzione doveva passare per una visita psichiatrica. L’aver scoperto l’esistenza del Centro le dà una possibilità diversa: è un luogo dedicato a persone come lei che non sono e non si sentono malate ma stanno attraversando un periodo difficile e hanno bisogno di un interlocutore che abbia disponibilità e competenza nelle dinamiche di crisi della sua generazione. Qualcuno che sappia che alla sua età Lucia non può più fare riferimento solo alla famiglia ma, nel contempo, non ha ancora acquisito l’esperienza necessaria a districarsi nell’offerta dei servizi sociali. La chat line, invece, si rivela particolarmente preziosa per poter entrare in contatto e, successivamente, aprire un dialogo e una consultazione psicologica soprattutto con gli studenti fuorisede i quali per motivi di residenza o per mancanza di familiarità con l’ambiente hanno maggiori difficoltà a raggiungere il Centro. Il sito web dedicato (http://host.uniroma3.it/ uffici/ascolto/) chiarisce tutte le modalità per entrare in contatto per prenotare un colloquio in modo che a ognuno venga assicurata puntualità e riservatezza dell’incontro e contiene altresì un elenco dettagliato e aggiornato dei servizi di consultazione presenti a Roma e nel Lazio. La sensibilità verso la dimensione della vita quotidiana degli studenti dentro l’università è stata d’altra parte presente tra i docenti e i ricercatori fin dagli inizi della costituzione di Roma Tre testimoniata dal fatto che il Centro di ascolto psicologico (tra i primissimi in Italia) è nato pochi anni dopo la stessa nascita di Roma Tre sulla scia delle esperienze maturate da decenni negli Stati Uniti e diventate parte integrante di ogni struttura universitaria d’oltreoceano già negli anni Quaranta e Cinquanta. Attualmente il Centro, oltre a collaborare con le attività dell’Ufficio orientamento, dell’Ufficio studenti con disabilità e gli altri servizi della Divisione politiche studenti, sta direzionando la propria ricerca verso la progettazione di attività specificamente rivolte alla prevenzione dell’abbandono del percorso universitario degli studenti che hanno messo in discussione la scelta del corso di Laurea effettuato all’inizio: un progetto di ri-orientamento.
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Nell’educazione un tesoro
Jacques Delors. Estratto dal Rapporto all’UNESCO della Commissione internazionale sull’educazione per il XXI secolo L’utopia dell’educazione
documenti
• L’educazione è un mezzo prezioso e indispensabile che può consentire di raggiungere gli ideali di pace, libertà e giustizia sociale. • L’educazione può svolgere un ruolo fondamentale nello sviluppo personale e sociale. • L’educazione deve promuovere una forma più profonda ed armoniosa di sviluppo umano (riducendo povertà, esclusione, ignoranza, oppressione e guerra). • L’educazione è un mezzo straordinario per lo sviluppo personale e per la costruzione di rapporti tra individui, gruppi e nazioni.
L’educazione e le giovani generazioni
• L’educazione è anche un’espressione d’amore per i bambini e i giovani, che dobbiamo sapere accogliere nella società offrendo loro, senza alcuna riserva, il posto che appartiene loro di diritto: un posto nel sistema educativo, ovviamente, ma anche nella famiglia, nella comunità locale, e nella nazione.
Le tensioni del XXI secolo • • • •
La tensione tra il globale e il locale La tensione tra l’universale e l’individuale La tensione tra tradizione e modernità La tensione tra considerazioni a lungo termine e a breve termine • La tensione tra il bisogno di competizione e la preoccupazione dell’uguaglianza delle opportunità • La tensione tra l’espressione straordinaria delle conoscenze e la capacità degli esseri umani di assimilarle • La tensione tra spirituale e materiale
L’educazione tra crescita personale e sviluppo professionale
• L’educazione si colloca al centro dello sviluppo sia della persona sia della comunità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di sviluppare pienamente i propri talenti e di realizzare le proprie potenzialità creative, compresa la responsabilità per la propria vita e il conseguimento dei propri fini personali.
Apprendere per tutta la vita • • • •
Imparare a vivere insieme Imparare e conoscere Imparare a fare Imparare ad essere
Suggerimenti per il futuro
• L’interdipendenza planetaria e la globalizzazione rappresentano dei fattori importanti nella vita contemporanea. Essi richiedono una riflessione d’insieme, proietta ben oltre i campi dell’educazione e della cultura, sui ruoli e sulle strutture delle organizzazioni internazionale. • Il pericolo maggiore è che si apra un abisso tra una minoranza di individui capaci di trovare con successo la loro strada in questo nuovo mondo che si sta creando e la maggioranza cha ha la sensazione di trovarsi in balia degli eventi e di non avere voce in capitolo nel futuro della società, insieme ai rischi di un regresso della democrazia e del diffondersi della rivolta. • Bisogna dirigere il mondo verso una maggiore comprensione reciproca, una maggiore senso di responsabilità e una maggiore solidarietà, attraverso l’accettazione delle nostre differenze spirituali e culturali. L’educazione, fornendo a tutti l’accesso al sapere, ha precisamente questo compito universale: aiutare gli uomini a capire il mondo e a capire gli altri.
Dalla coesione sociale alla partecipazione democratica
• La politica educativa deve essere sufficientemente diversificata e deve essere concepita in modo tale da non diventare un ulteriore fattore di esclusione. • La socializzazione degli individui non deve essere in conflitto con lo sviluppo personale. Coniugare i pregi dell’integrazione con il rispetto dei diritti individuali. • L’educazione da sola non basta, ma piò contribuire ad incoraggiare il desiderio di vivere insieme e favorire la coesione sociale. • L’educazione all’esercizio consapevole e attivo dei propri diritti e doveri di cittadino deve cominciare dalla scuola. • Per incrementare la partecipazione democratica è necessario fornire punti di riferimento e aiuti per l’interpretazione, in modo da rinforzare le facoltà di comprensione e di giudizio. • È compito dell’educazione fornire a bambini ed adulti le basi culturali che consentano loro, nei limiti del possibile, di comprendere i cambiamenti che si verificano. • I sistemi educativi devono rispondere alle molteplici sfide della società dell’informazione, nella prospettiva di un arricchimento continuo dei saperi e di un esercizio dei diritti e dei doveri del cittadino in maniera adeguata alle esigenze del nostro tempo.
Dalla crescita economica allo sviluppo umano
• Coniugare il nuovo modello di sviluppo con un maggiore rispetto per la natura e la ristrutturazione dei tempi della persona. • Una verifica più ampia dello sviluppo che prenda in considerazione tutti gli aspetti coinvolti. • Creazione di nuovi legami tra politica educativa e politica dello sviluppo rafforzando le basi delle conoscenze e delle abilità necessarie: incoraggiamento dell’iniziativa, del lavoro di gruppo, sviluppo delle risorse locali, del lavoro personale e dello spirito imprenditoriale. • Miglioramento dell’educazione di base.
I quattro pilastri dell’educazione
• L’educazione nel corso della vita è basata su quattro pilastri: imparare a conoscere, imparare a fare, imparare a vivere insieme e imparare ad essere. • Imparare a conoscere, combinando una conoscenza generale sufficientemente ampia con la possibilità di lavorare in profondità su un piccolo numero di materie. Questo significa anche imparare ad imparare, in modo tale da trarre beneficio dalle opportunità offerte dall’educazione nel corso della vita. • Imparare a fare, allo scopo d’acquistare non soltanto un’abilità professionale, ma anche, più ampiamente, la competenza di affrontare molte situazioni e di lavorare in gruppo. Ciò significa anche imparare a fare nel contesto delle varie esperienze sociali e di lavoro offerte ai giovani, che possono essere informali, come risultato del contesto locale o nazionale, o formali, che implicano corsi dove si alternano studio e lavoro.
• Imparare a vivere insieme, sviluppando una comprensione degli altri ed un apprezzamento dell’interdipendenza (realizzando progetti comuni e imparando a gestire i conflitti) in uno spirito di rispetto per i valori del pluralismo, della reciproca comprensione e della pace. • Imparare ad essere, in modo tale da sviluppare meglio la propria personalità e da essere in grado di agire con una crescente capacità di autonomia, di giudizio e di responsabilità personale. A tale riguardo, l’educazione non deve trascurare alcun aspetto del potenziale di una persona: memoria, ragionamento, senso estetico, capacità fisiche e abilità di comunicazione. • I sistemi educativi formali tendono a sottolineare l’acquisizione delle conoscenze a detrimento di altri tipi d’apprendimento; ma ora è di fondamentale importanza concepire l’educazione in una maniera più globale. Una tale visione deve informare e guidare le future riforme e politiche scolastiche, in rapporto sia ai contenuti che hai metodi.
L’educazione per tutta la vita
• Il concetto di educazione per tutta la vita è la chiave d’accesso al XXI secolo. Esso supera la distinzione tradizionale tra educazione iniziale ed educazione permanente. Esso si collega con un altro concetto spesso presentato, quello della società educativa. • L’educazione permanente deve aprire possibilità di apprendimento a tutti. • L’educazione per tutta la vita deve valorizzare tutte le opportunità che la società può offrire.
Jacques Delors, presidente della Commissione europea dal 1985 al 1995, ha presieduto la “Commissione per l'educazione per il XXI secolo" dell’UNESCO dal 1995 al 1998
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The Women’s Table
Un monumento per le studentesse di Yale
recensioni
di Francesca Gisotti
Pietra e acqua. Sono questi i due elementi scelti dall’architetto Maya Lin per la realizzazione del monumento che commemora l’ammissione delle donne all’Università di Yale. The Women’s Table, questo il nome dell’opera, è stata commissionata all’artista nel 1989, dal Preside Benno Schmidt, in ocFrancesca Gisotti casione del ventennale della coeducazione. All’artista di origine cinese, nota per aver progettato il Vietnam Veterans Memorial a Washington Dc, a soli 21 anni, è spettato l’arduo compito di lasciare una traccia della presenza femminile all’interno di uno dei più prestigiosi istituti d’America e, al tempo stesso, di testimoniare un’assenza perpetuata troppo a lungo. Da qui la scelta di creare una scultura non solo da guardare, ma che richiedesse uno sforzo ulteriore ai suoi osservatori, quello dell’interpretazione. Nell’uso comune, un tavolo può assumere molteplici funzioni. La prima idea che viene in mente è quella di uno spazio fisico intorno a cui riunirsi, sostegno ad una convivialità familiare nel momento del pasto e della conversazione quotidiana. Il tavolo è anche il luogo intorno al quale vengono prese le decisioni istituzionali, tessute le sorti dei Paesi e dei rapporti internazionali. Infine è, per eccellenza, un piano d’appoggio per attività culturali. Su di esso si studia, si scrive, si alimenta una conoscenza che richiede concentrazione, fatica, passione, spesso isolamento. Quello della Lin è un tavolo ellittico di granito verde che poggia su una base nera dello stesso materiale. Una presenza che, nella sua solidità, richiama l’attenzione di chi si trova a passare per i viali dell’Università; migliaia di ragazzi che, anno dopo anno, cercano di porre le basi per il proprio futuro. Ecco allora che tale passaggio viene richiamato dall’acqua che incessantemente scorre lungo il tavolo, un fluire ininterrotto che sembra scandire il tempo di una delle istituzioni universitarie più antiche degli Stati Uniti. Ma il valore simbolico della scultura impone un’osservazione che va ben oltre la
superficie dell’immediatamente visibile, che implica un coinvolgimento dello spettatore in profondità. Sotto l’increspatura dell’acqua, incisa sulla pietra, compare una spirale di numeri che attraversa l’intero tavolo. Sono i numeri delle donne iscritte a Yale, anno per anno, dalla fondazione dell’Università, nel 1701, fino al 1993, anno della conclusione dell’opera. A partire dal centro corre una lunga serie di zero, interrotta solo dal numero 13 in corrispondenza del 1873, data in cui si riteneva che le prime ragazze avessero avuto accesso ai corsi post-lauream. Come sottolineato dal sito ufficiale di Yale, nuovi studi hanno rivelato, invece, che le prime studentesse dell’Istituto furono le sorelle Silliman, inscritte al corso post-lauream di Belle Arti nel 1869 ( bisognerà attendere altri cento anni perché le prime donne possano accedere ai corsi di laurea). Nonostante questa incongruenza, The Women’s Table soddisfa comunque tutte le funzioni per cui era stato pensato. È sicuramente un punto di incontro, in quanto ogni giorno cattura gli sguardi di giovani studenti provenienti da tutto il mondo, quegli stessi che, probabilmente, si siederanno sulla sua base per scambiare due chiacchiere fra una lezione e l’altra. Ha un valore istituzionale, essendo stato commissionato dall’Istituto stesso per ricordare l’arduo percorso intrapreso dalle donne per accedere al mondo dell’istruzione. Ha soprattutto un valore culturale e simbolico. È l’espressione artistica di una battaglia che ancora continua ad essere combattuta, quella per una parità di diritti che si realizzi in ogni ambito della società, da quello formativo a quello professionale. The Women’s Table è un’opera monumentale che, come sottolineato dalla stessa Lin, ha in sé i caratteri dell’antimonumentalità. La spirale, che la caratterizza, può essere osservata in due sensi fra loro opposti. Dall’interno verso l’esterno, per prendere consapevolezza del progressivo aumento delle donne iscritte a Yale e dell’enorme potenzialità che le stesse rappresentano per la vita culturale non solo degli Stati Uniti; dall’esterno verso l’interno per soffermarsi su tutti quegli zeri che hanno marcato un’assenza ingiustificata e indelebile. Sono numeri che parlano, come non hanno potuto fare, per anni, quelle giovani studentesse a cui era lecito partecipare alle lezioni solo come silent listeners. Uditrici non parlanti a cui alla fine, dopo tanti anni, è stata restituita una voce.
UniversitĂ degli Studi Roma Tre - via Ostiense, 159 - www.uniroma3.it