N°7 dell' e-magazine RUNA BIANCA

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ARCHEOLOGIA STORIA SCIENZA E MISTERO

PA 1 ANNO II GI 8 NE GENNAIO/FEBBRAIO 2012

PER I SOCI

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LA SONDA GALILEO Una bomba termonucleare contro Giove

TORINO: E L’INIZIO FU FETONTE MISTERO: GESÙ VIAGGIA IN ASTRONAVE? ANTROPOLOGIA: UMANO, TRANSUMANO, POSTUMANO

IN QUESTO NUMERO:

2 RUBRICHE 21 ARTICOLI


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editoriale

3’ a cura di Vincenzo Di Gregorio

Un anno sta finendo... Siamo all’inizio di un nuovo anno... e che anno, il fatidico 2012! Insieme al nuovo anno, iniziamo anche l’esperienza dell’Associazione della Runa Bianca. Dalle pagine di questo numero chiederemo a tutti voi di partecipare attivamente nel nostro sforzo di diffondere le ricerche e le esperienze di tanti qualificati ricercatori. Sono aperte, da oggi, le iscrizioni all’Associazione senza scopo di lucro della Runa Bianca. La somma che occorre per iscriversi alla nostra Associazione è, per quest’anno, di 27 euro. I Soci avranno la possibilità di scaricare gratuitamente tutti i 12 numeri della Runa Bianca, ma anche la versione MP3 di tutti gli articoli (ora realizzati con voce “umana”). Ma non solo... Abbiamo in progetto la realizzazione di alcuni numeri monografici (il primo sarà incentrato sulle varie ipotesi intorno al mito di Atlantide). Stiamo anche studiando la possibilità di realizzare convegni su temi specifici, con l’invito di importanti studiosi di fama internazionale. Con il costo di due caffè al mese potrete consentirci di realizzare tutto questo e di far conoscere tale tipo di ricerche ad un sempre maggior numero di persone, per mantenere aperto questo portale di comunicazione pura, libera da qualsiasi filtro e condizionamento. Una scelta redazionale, molto apprezzata da voi lettori, è stata quella di non tagliare gli articoli per esigenze di impaginazione, bensì di suddividerli in “puntate”, che danno vita poi ad un percorso tematico. Uno di questi è quello che stiamo percorrendo insieme al dott. Bencini sui “misteri” della sessualità umana: due puntate incentrate sul famoso punto G nella donna, la terza (che troviamo in questo numero) ci parla dell’analogo punto nel corpo maschile... ancora meno conosciuto. Un altro importante percorso è quello delle medicine integrative con Rosanna Toraldo, che ci indica come è possibile migliorare la nostra salute, equilibrando il nostro sistema psico-fisico attraverso la natura. Segnalo anche la ricerca che ci svela uno dei più eclatanti “errori di valutazione” della Nasa, che ha deliberatamente scagliato una bomba termonucleare da 800 kilotoni contro il pianeta

Runa Bianca

Giove, rischiando la sua accensione come secondo sole; eventualità che avrebbe sicuramente portato alla scomparsa di qualsiasi forma di vita sulla Terra. Il voluto silenzio su questo fatto da parte di tutte le fonti di informazione ci indica l’importanza dell’esistenza di mezzi di comunicazione come la Runa Bianca. Un’altra novità di questo numero è nata dall’interesse che i lettori hanno manifestato, in questi mesi, nello scrivere alla redazione di Runa Bianca per porre domande agli esperti; abbiamo deciso quindi di creare una rubrica, “Lettere alla redazione”, in cui verranno pubblicate tutte le e-mail che arriveranno a redazione@runabianca.it con domande, suggerimenti, consigli … e quant’altro. E’ d’obbligo sottolineare il grande impegno posto nel portare tutti gli articoli in formato audio MP3, sollecitati da alcune associazioni di “non vedenti”, che ci avevano in passato richiesto questo tipo di servizio. Abbiamo quindi accettato ben volentieri di prenderci carico di questo lavoro, consci dell’alto valore sociale e morale che comporta. I “non vedenti” sono, tra l’altro, una categoria di persone che legge molto, ma che per farlo deve attingere a quella letteratura che è tradotta o in brail o in audiolibri (spesso di testi vecchi di vari decenni, per motivi di copyright). Per la prima volta, grazie alla Runa Bianca, adesso è possibile far loro ascoltare alcuni dei più avanzati studi nei più svariati campi di ricerca, dalla psicologia, all’archeologia, alle medicine olistiche, ecc. Inutile dire che questo permetterà a tutti i membri dell’Associazione Runa Bianca di poter scaricare gli MP3 , inserirli in un lettore e ascoltare con tutta comodità i vari articoli. Sono quindi certo che il 2012 sia partito con gli auspici migliori del ben fare e con la passione che ci ha sempre animato e che speriamo di riuscire a trasmettere anche con queste brevi righe. Buon 2012... Buona lettura e a presto! Arch. Vincenzo Di Gregorio

Gennaio/Febbraio 2012 | n.7


sommario

GENNAIO 2012 | N.7

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Editoriale

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Lettere alla redazione

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a cura di Vincenzo Di Gregorio

di Germano Assumma

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RUBRICHE PERLE DI SAGGEZZA

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La Medicina dell’Armonia. Un cammino al centro dell’universo-uomo

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LA BIBBIA SVELATA

Dalle traduzioni letterali della Bibbia ricaviamo che non ci hanno raccontato tutto e nemmeno il vero (VII)

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ARTICOLI

84

La sonda Galileo. Una bomba termonucleare contro Giove

di Giuseppe Di Stadio

20 24

Punto P. L’altra faccia della sessualità maschile

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33

Quid est homo (I)

98

39

Assenzio, la pianta dai mille segreti

di Rosanna Toraldo

di Valter Bencini

43

di Ludovico Polastri

di Massimo Centini

50

La villa monumentale di Aiano-Torraccia di Chiusi

102

Svastica lappone: a Carpino (FG). Scoperto un simbolo unico in Italia

E l’Inizio fu Fetonte. Era per caso un alieno? Leggende sulla fondazione di Torino e gli Egizi

Simbologia/Mistero Alchimia del Mandala di Vally Aries

Apologia del mistero. Riflessione semi-seria su questo Sconosciuto (!) di Hoseki Vannini

Morbo di Morgellons. Nanotecno(pato)logia o altro? di Samuele Venturini

108

Perché tutto questo accanimento contro la Massoneria? di Marco Marafante

110

di Antonia Fumo

54

L’orizzonte culturale del complesso megalitico di Gobleki Tepe

di Danilo Tacchino

A Passeggio nella Naturalità

Umano, transumano, postumano. Antropologia del nuovo millennio

L’itinerario Burdigalense. Le antiche vie del pellegrinaggio di Ezio Sarcinella

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Scienza/Corpo

Storia/Archeologia

Occhio per Occhio! La perfetta fusione tra sacro e profano

Tutti i diritti di riproduzione degli articoli pubblicati sono riservati. Manoscritti e originali, anche se non pubblicati, non si restituiscono. Il loro invio implica il consenso gratuito alla pubblicazione da parte dell’autore. È vietata la riproduzione anche parziale di testi, e fotografie, documenti, etc. senza il consenso scritto dell’autore e della rivista Runa Bianca. La responsabilità dei testi e delle immagini pubblicate è imputabile ai soli autori.

di Marisa Grande

di Vincenzo Di Gregorio

di Giorgio Pattera

La storia perduta delle Americhe di Fabio Calabrese

a cura di Mauro Biglino

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Imitationes e simbologia del Sepolcro di Cristo nel Medioevo di Giuseppe Di Stadio

a cura di Lilly Antinea Astore

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Gli Etruschi (I). Dal seme di Atlantide a Roma caput mundi

Scienza sacra e misteri occulti dell’Eros, dell’Amore e dei suoi opposti

di Giovanni Francesco Carpeoro

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Gesù viaggia in Astronave? di Giuliano Scolesi

Comitato redazionale: Vincenzo Di Gregorio Lilly Antinea Astore Francesca De Salvia Andrea Critelli Sviluppo e progetto grafico: Andrea Critelli Contatti redazionali: redazione@runabianca.it Sito web: www.runabianca.it

di Andrea Grana

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lettere alla redazione Gentile dott. Bencini, malgrado l’intesa perfetta con mio marito non sono mai riuscita ad avere un orgasmo. Questo fatto mi fa’ sentire “imperfetta”. Una mia amica mi ha suggerito di cambiare partner ma secondo lei risolverei il problema? Grazie in anticipo per la risposta ed i miei complimenti per i suoi articoli interessanti e molto utili. Lorena vb Carissima Lorena, la ringrazio per i complimenti e vengo al punto. Cominciamo a dire che l’anorgasmia femminile, o meglio il disturbo dell’orgasmo femminile è classificato, nel DSM IV come un “persistente o ricorrente ritardo, o assenza, dell’orgasmo dopo una fase di eccitazione sessuale normale” (American Psychiatric Association 1994, p. 506). Tale disturbo riconosce cause biologiche, psicologiche, relazionali. Può essere primario (interviene da sempre) o secondario (successivamente ad una certa data); può essere inoltre assoluto (con qualunque partner ed in qualsiasi situazione o stimolazione) o relativo (limitata ad un partner e/o a specifiche situazioni e stimolazioni). Lei comprenderà come tante siano le varianti da conoscere, con lo specifico intento per il clinico di orientarsi su cause organiche (ormonali, genitali, iatrogene), psicologiche (stati depressivi, ansia, vissuto della sessualità, abusi sessuali pregressi, educazione fortemente repressiva e giudicante) relazionali (conflitto di coppia, modalità diverse di approccio al piacere, disturbi sessuali del partner come l’eiaculazione precoce) e quale sia perciò il mio limite nel risponderle con così pochi elementi a disposizione. Dovrei chiederle per una valutazione completa di quanto sopracitato ad esempio da

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quanto tempo avverte il disturbo, se capitava anche con partner precedenti, se raggiunge l’orgasmo con la stimolazione clitoridea manuale od orale, se raggiunge mai l’orgasmo durante il sogno? A parte la stimolazione specifica del punto g, dovrei poi in ogni caso tenere conto che l’orgasmo coitale, è caratterizzato dalla stimolazione di un tessuto meno innervato rispetto al clitoride ed è quindi necessariamente legato maggiormente ad aspetti psicologici quali un buon vissuto della penetrazione da parte della donna sia per educazione che per le esperienze precedenti al riguardo, ad un’accettazione amorosa reale del compagno, ad un buon rapporto con il desiderio e l’eccitazione, per cui dovrei chiederle notizie sul valore che lei dà alla penetrazione, se avverte fastidio o dolore durante l’atto, se avverte tensioni specie ai genitali o nel bacino, se si sente chiusa al momento della penetrazione, se c’è piacere durante l’atto o totale mancanza, se pensa che una durata diversa da parte del compagno potrebbe cambiare la situazione, come avviene il vostro rapporto, se ciò che fa il partner durante i preliminari o il rapporto la eccita o la blocca, se ritiene di venir eccitata a sufficienza. Per capire poi altri aspetti della dinamica della

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lettere alla redazione coppia e conseguenti aumenti d’ansia dovrei porre domande su come il partner vive la sua anorgasmia, se è interessato a risolverla insieme, è soddisfatto lo stesso oppure è frustrato, se si colpevolizza o se le rivolge accuse. Oltre al colloquio poi risulta fondamentale l’osservazione corporea ed integrare così le informazioni verbali, con quelle che derivano dal linguaggio del corpo: come si muove, come respira, che postura ha, quali zone di tensione presenta, come vive la propria femminilità, che abbigliamento porta, che accessori ha, che profumi mette. In pratica, nonostante l’anorgasmia, vive positivamente il suo essere donna o lo nasconde anche nell’aspetto? In generale, lasciando perdere le cause organiche, a cui si rimanda per la terapia specifica da caso a caso, devo rilevare che nella maggior parte dei casi il disturbo dell’orgasmo si accompagna spesso a trattenersi, ipercontrollo, mancanza della capacità di lasciarsi andare e incapacità di sentire pienamente le sensazioni sessuali, con il realizzarsi e l’auto-mantenimento di un’ansia da prestazione. A livello individuale consiglierei di risolvere con una terapia breve il quadro d’ansia, oppure un ciclo di psicoterapia, se dovessi accorgermi, e spesso è così, che ci sono vissuti più profondi della semplice ansia da prestazione. Nelle psicoterapie corporee oltre al verbale, si può dare spazio ad un lavoro sul respiro, sul movimento, sulle posture, sul massaggio decontratturante atto a sciogliere l’ipercontrollo, a ripristinare la capacità di lasciarsi andare e di ”sentire”. A volte è la dinamica di coppia che richiede attenzione. Il partner può necessitare un lavoro individuale e di coppia per l’eiaculazione precoce, ma anche per situazione opposte di lunga durata, perché se, vive come una ferita profonda del proprio maschile l’anorgasmia della partner , in quanto incapace di soddisfarla, e si produce in prestazioni amatorie da guinness dei primati, aspettandosi il risultato dell’”orgasmo di lei”, questo non farà che aumentare l’ansia e lo stress della partner ed il suo sentirsi sempre più inadeguata. L’anorgasmia ha bisogno di calma e accettazione propria e da parte dell’altro per vedere risultati positivi. Nella donna c’è la profonda ferita di sentirsi incompleta, come traspare anche nella sua lettera, dove addirittura entra in scena un suo “giudice

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severo” interiore, che la fa sentire “imperfetta” e che penso le aumenti l’ansia di risolvere la situazione. Questa “imperfezione” addirittura si scontra con una intesa definita “perfetta”. Faccia un gioco, la prego, mandi in vacanza questo giudice, stia con se stessa, senza giudicarsi e accettandosi in quello che percepisce. Devo rilevare anche una contraddizione, da non sottovalutare, quando mi pone il quesito dell’amica e mi chiede se andare con un altro uomo risolverebbe la situazione. Il fatto che lei presti attenzione al suggerimento e mi chieda un parere, significa che l’equazione perfezione dell’intesa = imperfezione sua non è così perfetta, scusi il gioco di parole. C’è una lettura della realtà, che sicuramente merita attenzione e approfondimento. Da una parte lei assolve suo marito e la relazione, prendendosi le responsabilità dell’anorgasmia e sentendosi “imperfetta” , dall’altra è pronta a valutare il consiglio dell’amica, che in qualche modo sposta le colpe sul marito. Che posso dirle al momento, conoscendo così poco la sua storia ? Lungi da un moralismo, che non mi appartiene, le dico soltanto, per esperienza personale e di psicoterapeuta, di ascoltare soltanto se stessa. Sono scelte individuali. Una relazione si instaura se ci sentiamo di farlo, se questo è il nostro desiderio, se la passione e l’emozione ci portano là, se, in caso di una relazione extraconiugale, non diamo più possibilità di miglioramento e recupero alla vecchia storia che viviamo. Cambiare partner, con l’ottica che pare consigliare, in maniera molto facile, la sua amica, quasi come se si dovesse provare una medicina nuova, non so quanto potrà sinceramente giovarle. Certamente cambia la situazione e potrebbe trovarne giovamento, ma non so se cambia il suo vissuto intimo e personale del problema e se non sblocca, l’ansia potrebbe aumentare e peggiorare anche la sua sensazione di inadeguatezza. Ascolti se stessa, il miglior maestro che può avere al riguardo! Per il resto valuti se nelle spiegazioni molto generiche che le ho dato, ci siano spunti in cui può riconoscere elementi della sua storia e nel caso, se ritiene opportuno, rivolgersi ad un terapeuta per un percorso individuale o di coppia. Dott. Valter Bencini

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Perle di saggezza

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a cura di Lilly Antinea Astore

La Medicina dell’Armonia Un cammino al centro dell’universo-uomo

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gni concezione tradizionale della medicina deriva direttamente da una visione tradizionale universale del mondo, tramandata attraverso i testi sacri (Veda, Bibbia, ecc.). Per queste dottrine, l’essenza precede la sostanza, il pensiero precede la manifestazione, l’infinito precede il finito. L’ordine cosmico parte direttamente da quell’informatore informale a cui si dà a volte il nome di Dio, osservando la natura e deducendone le leggi. La grande Legge Universale, che si ritrova in tutti i regni della natura, dall’atomo alle galassie, passando dalla biosfera, è quella della polarità. Essa può essere definita come l’espressione di un’unità in movimento. Ogni movimento suppone almeno due punti di vista: il punto di partenza e quello di arrivo. Dunque due interpretazioni: un allontanamento e un avvicinamento. L’allontanamento (forza centrifuga) costituisce il fenomeno che gli orientali chiamano Yin, e l’avvicinamento

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(forza centripeta) rappresenta il fenomeno Yang. Yin e Yang sono due termini che riassumono tutti i fenomeni osservabili nel mondo della manifestazione e della relatività. Nell’infinito e nell’assoluto essi si confondono: non esistono infatti che l’unità ed il vuoto. Da questa polarità, che è essa stessa in movimento, deriva ogni ritmo ed ogni vibrazione, da cui l’universo è costituito. Il cosiddetto “numero” è il concetto essenziale che rende conto dei ritmi: essi si spiegano nell’immensità cosmica e seguono alcune leggi cicliche e numeriche, che si traducono in forme. La forma universale è sicuramente la spirale, e la maggior parte delle vibrazioni può essere rappresentata con curve spiraloidi (elicoidali). Queste curve sono quelle della traiettoria degli astri nello spazio. Questo tipo di forma si ritrova nella struttura delle galassie, nelle nebulose come nel cuore della materia vivente, negli aminoacidi e nella stessa struttura del dna, elemento fonda-

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La Medicina dell’Armonia

Lilly Antinea Astore

mentale di ogni organismo. dicina), dopo aver analizzato profondamente i I differenti tipi di vibrazioni e le loro combinaprocessi di sviluppo della vita, ne concluse che zioni sono all’origine di ogni forma. Quando San essa è il prodotto di una dialettica tra il caso e Giovanni scrive: “All’inizio era il verbo e per mezzo la necessità. Naturalmente, il termine “caso” non di Lui tutto è stato creato”, egli traduce la legge fa che nascondere la nostra ignoranza; il termine fondamentale della creazione universale attra“necessità” non prova né spiega niente, se non verso la vibrazione, ossia “il suono divino proferiche esistono nell’universo alcune obbligatorietà, to”. La vibrazione è quindi il direttore d’orchestra che noi possiamo chiamare “leggi cosmiche”, e dell’universo. La scala delle vibrazioni è straordiche sono all’origine della vita. Monod è un uomo nariamente ampia, dai raggi cosmici alla materia di logica, quasi violentemente ostile ad ogni inpiù densa. Si distinguono sette piani principali tervento trascendente, ed è perciò cieco ad ogni della scala vibratoria, dall’increato fino alla mamessaggio di questa trascendenza. La sincerità e teria fisica, più densa. Tutto ciò che esiste sul piala purezza della logica, è luogo comune ricordarno fisico è di fatto la materializzazione di realtà lo, non bastano a colmare il cuore umano... Pascal spirituali che si esprimono successivamente nei ci ricorda: “Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione sette piani della creazione, dal pensiero puro alla non conosce”. L’amore, per esempio, è un caso o sostanza. Questa trama della creazione forma le una necessità? Il solo fatto che lo spirito e il cuore cosiddette “gerarchie spirituali”; Rudolf Steiner di certi uomini si rifiutino di lasciarsi imbrigliare (creatore dell’Antroposofia) è uno degli iniziati in taluni schemi logici, non è la già la prova che che ha saputo mettere in luce, con linguaggio esista qualcos’altro che giustifica la parola “mescientifico, l’influenza e l’intervento dei diversi tafisica”? In altre parole, le leggi cosmiche non piani di questa gerarchia, non solo sul mondo sono anche, ed innanzitutto coscienza, amore, fisico ma anche sull’origine e lo sviluppo di ogni libertà e vita divina? forma di vita. Da un punto di vista strettamenQual’è allora il punto di vista spirituale e cote oggettivo e materiale, dobbiamo constatare smico dell’essere umano? La Bibbia fa dire agli che il corpo umano, come quello di ogni essere uomini creatori: “Facciamo l’uomo a nostra imvivente, costituisce una macchina meravigliosa, magine e somiglianza”; ma gli stessi Elohim (dèi complessa e anche molto delicata. Ma, nonominori) erano “ad immagine e somiglianza” dei stante tutto... una macchina. loro fratelli maggiori nell’ambito dell’evoluzione. Gurdjieff affermava che “L’uomo è una macDi fatto, le stesse leggi e gli stessi archetipi anichina cosmica per trasformare alimenti”. Wiener mano ad un tempo il cosmo nel suo insieme e diceva più specificamente che: “Quando paragociascuna parte di esso; possiamo dire che ciascuno l’organismo vivente ad una macchina non voglio dire assolutamente che i processi chimici, fisici e spirituali della vita, così come li conosciamo di solito, siano gli stessi di quelli delle macchine. Ciò significa semplicemente che gli uni e gli altri sono degli esempi di processi antientropici locali, processi di cui è possibile trovare le numerose manifestazioni al di fuori della fisica e della meccanica”. FIG. 1: SIMBOLOGIA SPIRITUALE DELLA CONCEZIONE YIN-YANG CHE MOSTRA LA VISIONE Monod (premio Nobel ENERGETICA DELL’UOMO RIFERITA ALL’ANTICA CONCEZIONE DEI QUATTRO ELEMENTI. I per la fisiologia e la meTRIANGOLI YANG E YIN SI ESPRIMONO IN ONDE.

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Lilly Antinea Astore

La Medicina dell’Armonia

na particella dell’universo (particella che forma un tutto, proprio come un organismo vivente) è ad immagine dell’intero universo. Da questo derivano le nozioni di macrocosmo e microcosmo. L’uomo è dunque microcosmo ad immagine del macrocosmo: per questo si può affermare che ogni organo del corpo umano è la materializzazione di una funzione cosmica. Noi possediamo 7 corpi, ciascuno dei quali corrisponde ad una frequenza vibratoria, dalla più sottile e rapida (luce) alla più densa e pulsante (materia). 1. Corpo di Gloria (spiritualizzazione del corpo fisico-eterico) 2. Corpo Buddhico (spiritualizzazione del corpo astrale) 3. Corpo Causale (o mentale superiore) 4. Corpo mentale (inferiore) 5. Corpo Astrale (o corpo dei sentimenti, interviene in tutti i fenomeni che mettono in gioco l’affettività) 6. Corpo Eterico (corpo di vitalità: e a livello di questo corpo che avviene la maggior parte dei processi di malattia e dei processi di guarigione) 7. Corpo Fisico (corpo visibile e tangibile: dimora di tutte le forme di energia più sottili che, in ultima analisi, costituiscono e animano l’uomo) L’insieme fisico-eterico è esso stesso formato dalla gerarchia quaternaria degli elementi: 1. Fuoco (o stato igneo-plasmatico) 2. Aria (o stato gassoso) 3. Terra (o stato solido) 4. Acqua (o stato liquido) Preciso come questi 4 elementi siano il prodotto diretto della legge di polarità. Il ritmo che ne deriva può essere rappresentato da una curva: lo sviluppo della polarità si traduce in una doppia curva (la doppia elica del dna). L’incontro del fuoco (Yang) discendente) e dell’acqua (Yin) ascendente forma l’aria al di sopra dell’asse delle

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FIG. 2: IL GRANDE YIN (FUOCO) ED IL GRANDE YANG (ACQUA)

curve e la terra al di sotto dello stesso asse. Il medico Empedocle, al quale si attribuisce la teoria dei 4 elementi, afferma che questi devono il loro riposo o la loro attività all’influenza di 2 principi superiori: l’amicizia e la discordia. L’interazione dei 4 elementi forma la trama di tutti i fenomeni ciclici dell’universo materiale. Il corpo umano, da essi formato, è dunque sottomesso ai loro ritmi. I 7 livelli dell’universo (o piani della manifestazione divina) che si trovano nei 7 corpi (interpenetrati e interdipendenti) sono parallelamente connessi ai 7 centri di forza, che gli indù chiamano Chakra, o ruota della vita, o ruote cosmiche. Essi indirizzano nel corpo umano, dai livelli più materiali a quelli più sottili (e viceversa), l’energia di origine cosmica, sono in relazione con i plessi (complessi nervosi) e agiscono attraverso il sistema psico-endocrino.

FIG. 3: YANG E YIN SI SOVRAPPONGONO E SI INTERSECANO DANDO ORIGINE ALLA “STELLA DI SALOMONE”

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La Medicina dell’Armonia

La corrispondenza dei Chakra con gli organi del corpo (non si tratta della localizzazione anatomica reale dei diversi plessi, ma della loro rappresentazione coordinata dal punto di vista della trasmissione dell’energia) e la loro struttura

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ricorda il caduceo di Mercurio, simbolo della medicina, e si tratta di una rappresentazione di una stessa realtà: due correnti (Yin e Yang) che attraversano tutti i piani dell’universo, li vivificano e li armonizzano. La leggenda racconta che Mercu-

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10 rio separò un giorno, con la sua bacchetta, due serpenti che lottavano; il caduceo formato dalla sua bacchetta e dai suoi serpenti è diventato il simbolo della concordia. Esso è l’attributo di chi opera nella medicina ed è al servizio della salute. Il nono arcano dei Tarocchi (l’Eremita) mostra un vecchio saggio che porta una lampada all’altezza degli occhi ed un bastone attorno al quale un serpente pare che si avvolga “come attorno a quello di Esculapio” spiega Wirth: “Si tratta in effetti del simbolo di correnti vitali che il taumaturgo capta per esercitare la medicina degli iniziati”. I Chakra corrispondono ad una specifica funzione vitale che è essenziale per l’evoluzione spirituale degli esseri: • Chakra Coronale (centro, alla sommità del capo): continuità della coscienza • Chakra Frontale (terzo occhio): chiaroveggenza • Chakra della Gola: chiarudenza (esatta percezione del Logos, quindi espressione esatta attraverso la parola: la gola è chiusa quando la verità non riesce ad esprimersi) • Chakra Cardiaco: comprensione • Chakra Ombellicale: sensazione • Chakra Splenico: spostamento • Chackra della Radice: sede dell’Energia Co-

Lilly Antinea Astore È una studiosa eclettica con interessi in svariati campi che spaziano dalle scienze di confine, all’esoterismo, dall’archeoastronomia, all’arte ed all’ufologia. È cavaliere dell’ Ordine Mistico Rosacrociano. A soli 15 anni intraprende il suo percorso di ricerca partecipando con un’innovativa relazione sul tema del “ Rinnovamento “, alle conferenze presso le Università di Bologna e di Camerino, organizzate da Massimo Inardi, Peter Kolosimo, Roul Bocci ed il Conte Pelliccione di Poli. Il campo esoterico collabora con il “Centro Studi” di Lecce di Franco Maria Rosa dalla quale apprende ed approfondisce le Medicine Olistiche. In campo culturale è Rappresentante internazionale della “Synergetic-Art”, movimento artistico-culturale fondato

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smica che si sviluppa attraverso Kundalini. Il plesso solare, all’altezza del diaframma, è particolarmente importante: è il centro principale degli assi nervosi, regola il movimento dei visceri e dei vasi sanguigni; è la torre di controllo della rete nervosa, che ci permette di esprimere le emozioni e che accompagna quelli che chiamiamo “istinti”. E’ lo stesso plesso solare che regola le variazioni biologiche e biochimiche legate alla paura e al desiderio. E’ il generatore più importante della personalità dinamica, che sente ed esprime i nostri amori, i nostri rancori, i nostri desideri e le nostre ambizioni. Nel presente articolo abbiamo compiuto il primo passo in un percorso che ci porterà alla scoperta di una scienza medica della totalità dell’essere umano, uno studio che non si limita al descrittivo o al teorico, e che non concentra esclusivamente il suo obbiettivo sull’”uomo malato” o sulla “malattia”, o sulla lotta per il trattamento dei sintomi patologici, ma apporta all’essere umano una disciplina esistenziale e metodi appropriati di addestramento della personalità. Una scienza dell’uomo dell’avvenire, che si fondi sull’integrazione armoniosa dell’essere umano con sé stesso, con il mondo e quindi con l’universo.

da Marisa Grande, che si prefigge come obbiettivo finale la ricomposizione globale, una conoscenza collettiva, coniugando tra loro nuovi ed antichi saperi ed annullando i rigidi settorialismi accademici. Nell’ambito ufologico ha partecipato per anni a numerosi simposi e convegni del settore e collaborato con l’associazione no-profit : Rete-Ufo, dedita allo studio dell’ extraterrestrialismo. Dal 1990 è creatrice e conduttrice del programma radiofonico “DIMENSIONEX: Indagini nel Mistero” . Un programma radiofonico che affronta in maniera sinergica numerose e controverse tematiche per lo più ignorate dalla scienza ufficiale e dall’informazione generalista e che la consacra tra le principali divulgatrici in Italia delle tematiche legate al mistero, all’esoterismo, all’ufologia e all’archeo astronomia. Attualmente fa parte della redazione della Runa Bianca.

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La Bibbia svelata

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a cura di Mauro Biglino

Dalle traduzioni letterali della Bibbia ricaviamo che non ci hanno raccontato tutto e nemmeno il vero (VII)

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egli articoli precedenti abbiamo dedicato la nostra attenzione ad un elemento che caratterizza duemila anni di pensiero teologico, e precisamente alla convinzione diffusa che la Bibbia sia un libro ispirato da Dio e che dunque non possa contenere errori, incertezze, dubbi interpretativi… La realtà si presenta decisamente diversa, proprio a partire anche da questioni di ordine linguistico, sia dal punto di vista generale che specifico, ridotto cioè ai singoli termini. Nella tradizione religiosa dottrinale si dà per assodato che sia esistito il popolo degli Ebrei, discendenti di Abramo, e che questi parlassero ovviamente la “lingua” ebraica. A questo tema ho dedicato un capitolo intero ne “Il dio alieno della Bibbia”, evidenziando come la questione sia molto più complessa di come la si vuole rappresentare dal punto di vista etnografico. Ma, anche dal punto di vista linguistico, ciò

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FOTO: BIBBIA EBRAICA

che si pensa di sapere non è così scontato, anzi… In questa visione semplicisticamente unitaria, ad esempio, si narra della cacciata degli Ebrei dall’Egitto e di Mosè che li guidava; si analizza il famosissimo tetragramma che rappresenta il nome impronunciabile di “dio”, cioè YHWH, che si vuole vocalizzare e dunque pronunciare come YAHWEH. Su di esso poi si sono sviluppati, nei secoli, studi e tentativi di interpretazione, elaborazioni mistiche e misteriche, attribuzioni di significati esoterici e iniziatici… Ma ciò che bisogna sapere è che, quando quel nome è stato pronunciato per la prima volta (Genesi 4,26), la lingua ebraica non esisteva neppure. Non esisteva nemmeno quando quell’appartenente al gruppo degli Elohìm (i nostri “formatori” provenuti da altri mondi) ripeté il suo nome a Mosè dopo l’uscita dall’Egitto e durante la permanenza nel deserto. Egli disse: “Questo è il mio nome” (Esodo 3,14-15).

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Dalle traduzioni letterali della Bibbia... (VII) Ma noi ci dobbiamo chiedere: che lingua parlavano Mosè e le genti che lo hanno seguito? Da secoli, le famiglie cui appartenevano quelle persone erano stanziali in Egitto, per cui è probabile parlassero una qualche forma di egiziano del tempo. Nella migliore delle ipotesi, essi parlavano una forma di amorreo, molto diffuso al tempo, o di aramaico, che si stava allora affermando. Ma tutto farebbe propendere per l’egiziano. Gli studi del Dipartimento di Filologia Semitica dell’Università La Sapienza di Roma - specificatamente i lavori pubblicati dai docenti Prof. Giovanni Garbini (anche membro dell’Accademia dei Lincei) e Prof. Olivier Durand – documentano che l’ebraico non sarebbe la lingua originaria delle tribù israelitiche, ma che si sarebbe formato verosimilmente verso il X sec. a.C. Sappiamo che l’uscita di Mosè dall’Egitto viene collocata dai vari studiosi in un periodo che varia dal XVI al XIII sec. a.C., pertanto la lingua sua e del suo popolo non poteva ovviamente essere l’ebraico, che si è sviluppato come elaborazione di un dialetto sudfenicio, e le cui prime documentazioni epigrafiche appartengono all’VIII sec. a.C. Dal momento che quelle genti sono uscite dall’Egitto, l’ipotesi più verosimile porterebbe a pensare che parlassero la lingua di quella nazione. Anche dopo lo stanziamento in terra di Canaan, la lingua ebraica era parlata sostanzialmente solo da coloro che vivevano nel regno di Giuda (a sud quindi), mentre i sudditi ebrei del regno di Israele (a nord) usavano perlopiù i dialetti dei territori fenici, cui erano geograficamente attigui. Siamo dunque di fronte a un tetragramma che nella Bibbia è stato scritto diversi secoli dopo essere stato stato pronunciato, e che è stato riportato con le consonanti di una lingua che, quando è stato formulato, non esisteva ancora. È quindi un’invenzione originale degli Ebrei? È un prodotto della fantasia monoteista della classe sacerdotale gerosolimitana? Possiamo rispondere di no, e parlare piuttosto di assimilazione o acquisizione. La conoscenza del tetragramma infatti, indipendentemente dalla sua formulazione espressa di fronte a Mosè, è documentata da fonti extrabi-

Runa Bianca

Mauro Biglino bliche. Nell’antico territorio corrispondente agli attuali Libano e Siria, prima della comparsa degli ebrei in Palestina, si era sviluppata una civiltà conosciuta come cultura ugaritica, dal nome della città di Ugarit, il suo più importante centro urbano, corrispondente all’attuale Ras Shamra, sul Mediterraneo. A questa civiltà appartengono degli ostraka, ciottoli di ceramica contenenti scritture beneauguranti, ritrovati dagli archeologi. In alcuni di essi, ci si rivolge a dei viaggiatori che si accingevano a scendere verso sud e ai quali viene detto: «Vi possano accompagnare Yahwèh del Temàn e la sua Asheràh». In questi scritti, apparentemente banali, ci sono in realtà due indicazioni sorprendenti. Innanzitutto, la cultura ugaritica conosceva Yahwèh come “signore del Temàn”, termine che in lingua semitica indica il sud, ed è noto che Israele e il Sinai si trovano a sud rispetto al Libano e alla Siria. Ci troviamo quindi nel territorio in cui Mosè incontrò il suo Elohìm, e i viaggiatori che vi si recavano venivano affidati alla protezione di quel “Signore” che lo governava. Ma si dice anche che l’Elohìm chiamato Yahwèh aveva una Asheràh, cioè una “compagna”. La presenza di una compagna è attestata anche in ambito strettamente ebraico: materiale molto importante in tal senso è stato infatti trovato in un sito localizzato nel sud, tra il Neghev e il Sinai: Kuntillet Ajrud. Si tratta di un santuario attivo ancora tra il IX e l’VIII secolo a.C., occupato da israeliti che esercitavano funzione profetica: vi sono state trovate invocazioni rivolte a Yahwèh e alla sua paredra, conosciuta ancora una volta con il nome di Asheràh. I giudei egizi risiedenti a Elefantina (Egitto) non avevano alcuna difficoltà a rivolgersi a Yahwèh e alla sua compagna AnatYahu ancora nel V secolo a.C. L’archeologia e la paleografia ci hanno anche dato modo di verificare che il nome Yahwèh era presente nel territorio posto a sud della Palestina (Neghev e Sinai) sino dal III e II millennio a.C., nelle forme Ja/Ya, Jaw/Yaw, Jahu/Yahu, Jah/Yah: era dunque un governatore localmente conosciuto e adorato in quelle aree. Sono attribuite inoltre a questi millenni (molto tempo prima quindi di Mosè e dell’esodo degli Ebrei) iscrizioni con il tetragramma di Yahwèh (YHWH) e con la scrittura Yaw-rad, che significa “discesa”. L’epigrafia amorrea di Mari (Mesopotamia),

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Mauro Biglino databile intorno al XVIII secolo a.C., presenta numerose documentazioni di nomi composti con YAHWI o YAWI, o anche semplicemente YA. La persistenza del culto a questo governatore locale è poi documentata nei secoli successivi, quando Porfirio (storico fenicio del III secolo d.C.) scrive che a Berito (Beirut) era venerato un dio di nome Ιευω (Ieuo). Siamo quindi di fronte a un culto presente in quel territorio a partire almeno dall’inizio del II millennio a.C., e seguito sia dalle popolazioni nomadi che stanziali: quel governatore locale era dunque ben conosciuto da chi aveva a che fare con quell’area geografica soggetta al suo controllo. Data la sua presenza in ambito non mosaico e in forme varie, non è possibile che il termine Yahwèh non richieda interpretazioni in ebraico, perché rappresenta semplicemente il tentativo di trasporre in quella lingua il suono del nome proprio? Non è possibile che gli autori biblici non abbiano fatto altro che cercare di riprodurre il suono attraverso la scrittura delle consonanti di cui disponevano? Che cosa succederebbe se un occidentale dicesse semplicemente il suo nome a una popolazione che possiede un sistema di scrittura totalmente diverso dal nostro e magari solo consonantico? Come verrebbe graficamente rappresentato quel suono tanto lontano da quelli ai quali la popolazione è abituata?

Mauro Biglino Realizza prodotti multimediali di carattere storico, culturale e didattico per importanti case editrici italiane, collabora con varie riviste, studioso di storia delle religioni, è traduttore di ebraico antico per conto delle Edizioni San Paolo: dalla Bibbia stuttgartensia (Codice di Leningrado) ha tradotto 23 libri dell’Antico Testamento di cui 17 già pubblicati. Da 30 anni si occupa dei testi sacri nella convinzione che solo la conoscenza e l’analisi diretta di ciò che hanno scritto gli antichi redattori possa aiutare a comprendere veramente il pensiero reli-

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Dalle traduzioni letterali della Bibbia... (VII) Che tipo di analisi, deduzioni, ipotesi produrrebbe uno studioso che trovasse poi quel nome molti secoli dopo, senza avere riferimenti precisi e documentati circa tempi e modalità delle sua origine? Non dimentichiamo che la trasposizione in forma scritta è avvenuta secoli dopo il momento in cui quel termine è stato pronunciato, perché in quel momento l’ebraico ancora non esisteva. Come sempre accade quando si esaminano le cosiddette verità religiose alla luce dei testi da cui le si vuol fare derivare, bisogna prendere atto di un fatto: la tradizione dottrinale presenta una visione apparentemente unitaria e indiscutibile, nonostante la storia e la conoscenza dei fatti non lo consentano. Ma sappiamo che non potrebbe essere diversamente: le esigenze della religione dogmatica impongono chiarezza anche a scapito della verità. Quest’ultima deve essere celata, quando si presenta nella sua evidenza decisamente più articolata e quindi anche contraddittoria, ma soprattutto ricca di sfumature che rendono la storia molto più affascinante nella sua complessità. Comprendiamo che il monoteismo unitario, che ha attribuito a YAHWEH e al suo nome valenze universali, non ha fondamento documentato ma è frutto di elaborazioni successive, che hanno sempre dimenticato, o più spesso volutamente accantonato, questioni che rendono di fatto impossibile la costruzione dottrinaria che da secoli viene diffusa.

gioso formulato dall’umanità nella sua storia. Tra i suoi libri ricordiamo: Resurrezione reincarnazione. Favole consolatorie o realtà? Una ricerca per liberi pensatori (Uno Editori, 2009), Chiesa romana cattolica e massoneria. Realmente così diverse? Una ricerca per liberi pensatori (Uno Editori, 2009), Il libro che cambierà per sempre le nostre idee sulla Bibbia (Uno Editori, 2010) e...

Il Dio Alieno della Bibbia Uno Editori, 2011

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VINCENZO DI GREGORIO

La sonda Galileo

Una bomba termonucleare contro Giove

FOTO: IL PIANETA GIOVE CON UNA MACCHIA ANOMALA IN SUPERFICIE (FONTE: OLIVIER MEECKERS)

I

l 19 Ottobre del 2003 un astrofilo dilettante, Olivier Meeckers, nel fotografare il pianeta Giove si è accorto che, vicino alla linea del suo equatore, si era formata una macchia nera di origine sconosciuta. Furono formulate in quel momento diverse ipotesi, che si rivelarono tutte prive di un riscontro scientifico. Si parlò dell’ombra proiettata da una delle sue lune sulla superficie del pianeta. Ma dai primi rudimentali calcoli fu verificato che la macchia nera non era della grandezza giusta per essere l’ombra di un pianeta, e che “ruotava” seguendo la velocità di rotazione di Giove e non delle sue lune, confermando che era proprio una specie di “buco” aperto sulla sua superficie. Si pensò ad un impatto con qualche corpo celeste, come quello avvenuto nel 1994 con la cometa Shoemaker-Levy. Ma anche questa ipotesi fu scartata perché,

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se vi fosse stato un corpo celeste di dimensioni tali da creare un “buco” su Giove di quelle dimensioni, sarebbe stato avvistato settimane o mesi prima dell’impatto (cosa che non è accaduta). Le dimensioni infatti di quel buco erano approssimabili a quelle del nostro pianeta. Qualcosa quindi di incredibile era accaduto su quel pianeta, qualcosa che non ha mai avuto una spiegazione ufficiale da coloro che gestiscono l’informazione pubblica e dalla NASA in primis. Eppure, loro avrebbero avuto molte cose da dire su questo argomento, preferendo invece che questo “mistero” si perdesse nell’oblio. Tuttavia, qualcuno aveva previsto questo evento qualche mese prima dei fatti, ma non fu creduto. Questo articolo cercherà di chiarire i retroscena di questa vicenda, e di condurre il lettore a capire come quell’evento avrebbe potuto cambiare, se non cancellare, in un attimo tutte le specie viventi sul nostro pianeta.

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La sonda Galileo Torniamo indietro a qualche anno prima. Il 18 ottobre 1989 la NASA lancia la sonda battezzata “Galileo” (in onore del celebre astronomo italiano Galileo Galilei, il primo ad osservare i satelliti gioviani), facendogli fare il primo “passo” in quel lungo cammino dalla “pancia” dello Space Shuttle Atlantis nella missione STS-34. La sonda Galileo giunse in prossimità di Giove circa 6 anni dopo, attraverso un lungo percorso, al fine di prendere la velocità orbitale necessaria sfruttando le forze gravitazionali sia della Terra che di Venere. A questa sonda dobbiamo diversi “primati” e successi, quali quello di aver scoperto il primo satellite di un asteroide e di essere stata la prima sonda ad orbitare intorno a Giove. La sua missione primaria era quella di studiare il “sistema” gioviano, ovvero Giove e le sue lune, sulle quali effettuò dei flyby ravvicinati. In uno di questi “incontri ravvicinati”, la sonda Galileo si portò a meno di 180 Km da Io il 15 dicembre 2001. Le radiazioni che circondano questa luna, però, danneggiarono irreparabilmente la sonda, che fu “tenuta in vita” sino al 21 settembre del 2003, data in cui fu fatta precipitare nell’atmosfera di Giove. Ma questa decisione fu presa solo in ultimo momento, in quanto originariamente essa si sarebbe dovuta schiantare sul suolo di Europa, una delle lune/satelliti gioviani. Tuttavia, proprio su Europa, la sonda aveva scoperto un probabile oceano di acqua liquida, nascosto sotto una spessa coltre di ghiaccio e che avrebbe potuto contenere da 4,5 miliardi di anni una ricca forma di vita aliena. Nel 2002 quindi fu cambiato, da parte della NASA, il modo in cui porre fine alla vita della sonda, per prevenire una contaminazione biologica di Europa. Possiamo leggere la dicitura esatta delle motivazioni nel rapporto del Consiglio Nazionale delle Ricerche Scientifiche della NASA,

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Vincenzo Di Gregorio

FOTO: L’ANOMALA IN MOVIMENTO (FONTE: OLIVIER MEECKERS)

che cita testualmente: “Questa procedura si è resa necessaria per salvaguardare l’integrità scientifica di studi futuri sul potenziale biologico di Europa” . Ma che problemi avrebbe potuto avere il “potenziale biologico di Europa” dall’impatto della sonda Galileo sulla lastra di ghiaccio di quel pianeta? Non è stato molto pubblicizzato il fatto che la sonda, al fine di poter avere la sufficiente energia per durare svariati anni in un tratto di spazio dove la luce solare non sarebbe bastata per essere utilizzata da pannelli solari, sia stata dotata di un carico di ben 48 chili di plutonio. Quando la NASA, dunque, annunciò la sua intenzione di far impattare la sonda Galileo su Giove, un ingegnere olandese, Jacco van der Worp, fece osservare come questo impatto poteva essere molto pericoloso, proprio per il contenuto del motore di Galileo. Egli infatti dimostrò come il materiale fissile contenuto nella sonda poteva trasformarsi in una bomba nucleare della portata di 800 megatoni. Un’esplosione nucleare che sarebbe avvenuta all’interno dell’atmosfera gioviana, prevalentemente costituita da idrogeno (notoriamente un gas esplosivo), col rischio di aumentare la forza della deflagrazione e di poter “accendere” Giove e trasformarlo in un secondo sole.

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La sonda Galileo

I dettagli di questi studi si possono leggere su questo sito: http://yowusa.com/space/2003/space-2003-09a/1. shtml In questa pagina web è riportata la data del 7/settembre/2003: qualche settimana PRIMA del 21 settembre 2003, giorno in cui la sonda fu fatta impattare sulla superficie gioviana. E’ inutile dire come la NASA ebbe un atteggiamento di totale indifferenza di fronte a queste teorie, anzi di aperta denigrazione... sino al 19 ottobre del 2003. In quella notte, un astronomo dilettante in Belgio, Olivier Meeckers, utilizzando il CCD di una webcam ed un piccolo telescopio rifrattore, scoprì e fotografò una macchia scura sul bordo meridionale di Giove, noto come “cintura nord equatoriale”, lasciando una debole “coda” a sud-ovest. Mezz’ora dopo, Meeckers prese una seconda serie di fotogrammi, in cui si vede molto chiaramente come la “macchia” era ancora presente, anche se con la veloce rotazione di Giove si era spostata di migliaia di chilometri più a est. Molti astronomi allora pensarono: “Peccato che FOTO: TRAIETTORIA DI IMPATTO DELLA COMETA SHOEMAKER-LEVY SU GIOVE non ci sia più la sonda Galileo ad osservare questo curioso ed del tutto infondate. insolito fenomeno sulla superficie di Giove, chissà Se osserviamo la struttura della sonda Galileo, che immagini ad alta risoluzione avremmo avuto possiamo constatare la totale assenza di pannelli a disposizione...”. A qualcuno allora sovvenne che, solari atti a prelevare dell’energia dall’esterno. Al appena un mese prima, la sonda Galileo si era suo interno era stato infatti dotato di un motoimpattata sulla sua superficie, e che un ingegnere in grado di sprigionare un’elevata quantità di re olandese (Jacco van der Worp) aveva qualche energia grazie ai famosi 48 chili di plutonio-238 mese prima messo in guardia dal pericolo di un inseriti in un “generatore termico di radioisotopi”, innesco dei 48 chili di Plutonio della sonda. o RTG (vedere foto). I particolari della vicenda su questo sito: Ma vediamo cosa è il plutonio 238 o, come si http://www.enterprisemission.com/NukingJupisuol definirlo, PU-238. ter.html Il PU-238 decade tramite emissioni di raggi Le ipotesi “pessimistiche” si erano rivelate non

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che impedisse ai vari “pellets” di unirsi in una massa unica o superiore ai 4 chili. Ma ciò fino a quando la sonda non si è impattata con l’atmosfera galileiana. Se confrontiamo la data dell’impatto su Giove e quella di formazione del “buco nero” sulla sua superficie (21 settembre – 19 ottobre), ci accorgiamo di come la sonda abbia avuto quasi un mese di tempo per raggiungere una zona interna del pianeta Giove che abbia avuto due determinate caratteristiche fondamentali: temperatura e pressione. Nel nostro pianeta c’è una FOTO: RICOSTRUZIONE SONDA IN ORBITA INTORNO A GIOVE (FONTE: WIKIPEDIA) crosta di materiale solido alfa e gamma. I suoi derivati sono anche alta(sulla quale viviamo), ma su Giove no. E’ un piamente radioattivi, e rimangono tali per lunghisneta costituito solo da gas... ma che risponde alle simo tempo. Il motore RTG cattura questa radiastesse leggi del nostro pianeta. Più si va verso il zione in un meccanismo di scambio termico e la suo centro, più si alzano sia la temperatura che trasforma in energia. Questa unità RTG fornisce la pressione. Vi è stato un momento in cui quequindi una quantità elevata di energia per molti sto connubio ha corroso, distruggendolo, il riveanni. Questo tipo di motori son stati già testati da precedenti sonde, quali i famosi Pioneer e Voyager. In nessun altro modo, infatti, avrebbero potuto continuare a trasmettere dati per oltre 30 anni, come in effetti hanno fatto. Ma il Plutonio 238 è un po’ l’isotopo “canaglia” nella famiglia plutonio. E’ infatti il “meno desiderato” degli isotopi di plutonio per la realizzazione di centrali nucleari, o addirittura per la costruzione di bombe nucleari. Infatti questo elemento è molto instabile, e raggiunge molto presto quella che si chiama “massa critica”, cioè quella concentrazione che innesca un processo irreversibile di scissione nucleare, “deflagrando”. Si è calcolato che la massa critica del Plutonio 238 sia di pochi chilogrammi (da 2 a 4 kg)... nella sonda Galileo ce n’erano 48! Per evitare che il PU-238 all’interno del motore della sonda deflagrasse ancor prima di partire dalla Terra, la NASA ha avuto l’accortezza di suddividere il plutonio in tanti piccolissimi elementi, rivestendoli di uno scudo protettivo FOTO: LA STRUTTURA DELLA SONDA GALILEO

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Vincenzo Di Gregorio stimento protettivo dei “pellet” al plutonio della sonda Galileo, permettendo al materiale fissile di unirsi e SUPERARE la massa critica, autoinnescandosi e deflagrando. Le dimensioni della “macchia nera” fotografata sulla superficie gioviana ci da l’idea della potenza dell’esplosione che è avvenuta all’interno del pianeta. Risultato? Un bel “BUCO”… e tanto spavento! Ma cosa abbiamo rischiato? In tutti i libri di scuola si legge come Giove sia quella che si definisce una “stella mancata”. Praticamente, il nostro sistema solare sarebbe potuto essere un sistema binario, cioè un sistema con DUE SOLI. Giove è il più grande dei pianeti del sistema solare, con un raggio di 71.500 km (11 volte maggiore di quello della Terra). La sua composizione chimica, però, è molto più simile a quella del Sole che a quella dei pianeti rocciosi: infatti è prevalentemente gassoso, con abbondanza di idrogeno ed elio. L’accensione di un sole avviene quando due o più nuclei di idrogeno vengono compressi, sino a far prevalere la repulsione elettromagnetica, unendosi tra loro ed andando a generare un nucleo di massa maggiore dei nuclei reagenti. Il processo di fusione è il meccanismo che alimen-

La sonda Galileo ta il Sole e le altre stelle. Infatti, in esso, la fusione di due atomi di idrogeno avviene nel nucleo più interno solo grazie alle enormi pressioni e temperature che vi si raggiungono (dell’ordine di milioni di gradi). Nel pianeta Giove queste pressioni e temperature sono “leggermente” al di sotto dell’autoaccensione. Il grosso rischio che abbiamo corso nell’ottobre del 2003 è stato che l’enorme deflagrazione nucleare del plutonio della sonda Galileo avrebbe potuto fungere da INNESCO e far superare al nocciolo gioviano la sua massa critica, trasformandolo in un sole. Se questo fosse successo, avremmo avuto uno stravolgimento dell’intero sistema solare, a partire dai satelliti/lune gioviane. Lo spesso strato di Europa si sarebbe immediatamente sciolto, e le ipotetiche forme biologiche di vita aliena contenute nei suoi mari si sarebbero risvegliate alla luce accecante di un nuovo sole. Ma le razze biologiche presenti sulla Terra sarebbero state spazzate via da un’onda d’urto dalle conseguenze devastanti. Infatti, quando si accende un sole, il suo diametro si riduce bruscamente contraendosi, ed

FOTO: PROPORZIONI DEL PIANETA GIOVE CON IL PIANETA TERRA

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esso espelle nell’accensione la parte esterna della sua atmosfera, con conseguente di perdita di massa. Milioni di tonnellate di idrogeno infuocato si sarebbero sparse in ogni direzione, colpendo l’atmosfera terrestre alla velocità di oltre 1000 chilometri al secondo. Il risultato sarebbe stato catastrofico. Lo strato esterno della nostra atmosfera sarebbe stato modificato, provocando un bombardamento di raggi letali provenienti dal “vecchio” Sole che, perdurando per settimane o mesi, avrebbe reso sterili tutte le forme di vita (vegetale o animale) presente sulla Terra, o le avrebbe uccise lentamente con malattie indotte da radiazioni. FOTO: MOTORE RTG (RADIOSOTIPO TERMOELETTRICO GENERATORE) MONTATO SULLA Ma nessuna delle “autoriSONDA GALILEO (FONTE: HTTP://WWW.MOONGLOW.NET/FAMILY/JPL2003/) tà competenti” ha reso pubIl commento più idoneo che ci viene in mente blico tutto questo. Siamo quindi in presenza di a conclusione di questa vicenda è che l’informaun vero e proprio cover-up teso a coprire questo zione debba essere LIBERA e non “veicolata” o madornale errore di valutazione della NASA, a controllata da chi detiene il potere (economico/ cui ha fatto seguito la totale assenza di informapolitico/scientifico). È arrivato il momento in cui zione nei mass media e nelle numerose riviste noi tutti dobbiamo ascoltare più fonti d’informascientifiche e di settore. Per fortuna tutto questo zione, per arrivare alla creazione di una coscienscenario apocalittico non si è realizzato, ma siaza e di una conoscenza condivisa universale. mo stati ad un passo dal farlo.

Vincenzo Di Gregorio Architetto ed imprenditore, da sempre appassionato di archeologia, noto come scopritore delle cosiddette “piramidi di Montevecchia” i cui studi sono stati pubblicati nel libro dal titolo Il Mistero delle Piramidi Lombarde (Fermento, 2009). Fondatore di Antikitera.net (uno dei più noti siti web di news archeologiche e di misteri) e della rivista Runa Bianca (www.runabianca.it). Per le sue ricerche si avvale di foto aeree sia nel visibile che nell’infrarosso, fondando una società finalizzata alla ricerca

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chiamata “ludi ricerche” che fa capo al sito web: www.aereofoto.it. Suoi studi son stati mostrati in diverse riviste di settore, e su reti televisive quali: Voyager (rai2), Mistero (italia1), Mediolanum Chanel (Sky), OdeonTV.

Il Mistero delle Piramidi Lombarde Fermento, 2009

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A Passeggio nella Naturalità tra Alchimia e Floriterapia

FOTO: L’ENERGIA DELL’ACQUA

...Proprio nel tempo attuale è inutile dire “Non aver paura” o “Non esser malato”. E’ necessario spiegare loro perchè hanno paura, perchè sono malati e dar loro l’antidoto... (Edward Bach)

M

artedì 27 dicembre 2011, ore 7.00. Apro la finestra della mia camera aspettandomi una giornata, a detta del meteo, uggiosa e nuvolosa... Invece le mie previsioni non sbagliano mai. Stelle splendenti e Pianeti come Giove e Venere, vicini a questo lembo di terra, ultima frontiera della Valle dell’Idria quale è il Salento, già preannunciavano un cielo come quello che ho di fronte: azzurro ed illuminato da raggi dorati che Padre Sole ci invia costantemente. I prati, coperti di Calendula e bianchi Tordilium, chiamati anche ombrellini minori, mi scaldano il cuore e la ferma decisione di uscire ad inebriarmi di Energia mattutina, prima di se-

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dermi a cercare di far arrivare al viandante che passeggia e si ferma tra le pagine di Runa Bianca questo amore che ho dentro, questo desiderio di comunicare visioni di una Natura invernale vestita a Festa di Primavera, attraverso semplici parole. Difficile devo dire mettere in linea cuore, visione sottile e la materia che ho di fronte, convogliare e divulgare. So solo che ora prendo barattoli, olio d’oliva ed acqua, riempio lo “Zaino Alchemico” e vado fuori, chiudendo la porta a feste natalizie che oramai, in questo tempo di non tempo, servono solo a chi vuole rimanere attaccato ad usi e costumi di un epoca che nulla ha a che vedere con la Nuova Era. Chiudo la porta al vecchio ed entro nell’Antico Mondo Alchemico di Gaia, con la sua giovane Energheja, che accoglie e riconosce in me l’Essere di Natura a Lei simile, co-creatrice figlia di un tempo lineare che ha compreso come attraver-

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A Passeggio nella Naturalità tra Alchimia e Floriterapia sare la soglia del vuoto. Alla “naturale” maniera della Chiara Tradizione Alchemica, prendo solo carta e penna e mi siedo a continuare un lavoro di divulgazione verbale iniziato nello scorso numero di questa meravigliosa rivista, che apre le porte allegramente anche a materie altresì di difficile comprensione, rendendole fluide e dinamiche a tutti. E viandante tra i viandanti o, come tutti mi chiamano, “Strega Buona”, vi conduco per mano sulla Via dei Fiori. D’accordo con la redazione, ho deciso di inoltrarvi tra le strade alchemiche che per ogni fiore confluiscono tra Oleoliti ed Essenze… ecco perché oggi introduco l’argomento “Floriterapia sorella dell’Aromaterapia”: per convogliare ad una visione di 360° per ogni fiore utilizzato nei rimedi salentini, di cui vi parlerò. “La floriterapia è il ponte che aiuta ad attraversare il nostro fiume interiore, a riconoscere il disequilibrio, conseguenza di emozioni negative e lontani vissuti.” (da scritti di R.T.) Riconosciuta come tecnica della Medicina Integrativa dall’OMS nel 1976, oggi rappresenta una delle branche più importanti della Medicina Biologica. Ha lo scopo di riequilibrare le emozioni negative, rimettendo la persona in grado di gestire la propria vita e le relazioni con chi gli vive intorno. E’ un aiuto strategico in quelle situazioni in cui l’individuo, a causa di difficoltà temporanee oppure caratteriali, vive alcuni aspetti della propria vita come difficili da affrontare, dimensionare e risolvere. Se si ha il coraggio d’inoltrarsi nelle dinamiche personali accompagnati da questo meraviglioso sostegno, può essere un valido mezzo per ri-conoscersi e comprendersi a fondo, senza spaventarsi della propria “zona d’ombra”, anzi palesando e valorizzando potenzialità in essa celate o coperte dal sipario di schemi comportamentali acquisiti nel tempo, ma dannosi e limitanti. Questo percorso è adatto tanto agli adulti quanto ai bambini e agli anziani. Nasce dal concetto olistico secondo cui ogni individuo è composto di un corpo, di una mente e di uno spirito; pertanto, la malattia altro non è che un allontanamento dal proprio centro spirituale o Sè, all’interno del quale è custodito lo scopo della propria esistenza. Ogni Anima e Animus arrivati su questo Pianeta hanno uno scopo ben preciso da svolgere nel corso della propria vita: è prioritario

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Rosanna Toraldo

il “risveglio” per Comprenderlo ed Accettarlo, ed “Esperenziare” come Esseri Divini, prolungamento della Divinità che ci comprende e ci compenetra, chiamata da molti Dio. E’ necessario attuarlo operando in tutti gli anni che ci sono stati assegnati, serenamente. Conoscendo le proprie potenzialità e i propri limiti, l’individuo impara a non sopraffare nè dominare gli altri Esseri Viventi che vivono nel suo stesso habitat. Dato che la vita scorre attraverso una serie lunghissima di rapporti con le altre persone, imparare a conoscere sé stessi, per poter equilibrare e gestire i propri schemi comportamentali, risulta di fondamentale importanza per evitare di ammalarsi e mantenere una buona salute. Maestro Spirituale della mia vita dopo Gesù ( come Cristo Cosmico) è stato Paracelso, che nella famosa frase: “L’uomo è un mondo che contiene il cielo e la terra, l’aria e l’acqua e tutti i vari principi che costituiscono il regno minerale, quello vegetale e quello animale, ed il più alto agisce sul più basso” mi ha aiutata a comprendere non gli altri ma soprattutto me stessa, andando a leggere tra i meandri del mio inconscio, scoprendo giornalmente ogni parte corporea dolente, attraverso cui dovevo staccare blocchi emozionali che mi tenevano incatenata a cumuli di macerie irrisolte. Vederle, sentirle è stato molto doloroso ma istruttivo, perché attraverso ogni anello che sentivo cadere a terra, pesantemente, mi accorgevo che la visione era più chiara, reale e le intuizioni più forti e veritiere. Dunque la mia pelle in quanto corporeità e la mia anima sono state le prime a sperimentare nel travaglio di questi primi 8 anni di vita le Essenze Floreali e gli Oleoliti Alchemici. Da buona ricercatrice spirituale ed indipendente era naturale mettere a disposizione prima me stessa… e la floriterapia, essa è entrata con ogni merito a far parte della schiera di metodologie efficacemente impiegate per affrontare e risolvere situazioni di disagio psicofisico. La letteratura è ricca di dettagliate descrizioni della storia della tecnica e dei repertori dei fiori impiegati. Nessun floriterapeuta rinuncia mai, didatticamente, a raccontare in dettaglio la storia del “padre” della floriterapia, il dottor Edward Bach, a descrivere i principi che lo guidarono nelle sue scoperte e, naturalmente, a proporre un dettagliato repertorio di rimedi floreali corredato di

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precise prescrizioni. Aggiungo che, essendo stato il primo a cui ho rivolto il mio sguardo cerebrale, l’ho trovato non solo simile a me in quanto pensiero ma fondamentale per quello che è stato il mio lavoro negli ultimi 8 anni. Purtroppo molti dimenticano di parlare dei fondamenti teorici che la floriterapia presuppone per una corretta applicazione, e cioè gli aspetti psicologici delle patologie emotive e i meccanismi che le generano. Medico gallese, Edward Bach (1886-1936), negli anni ‘30, si accorse, nel corso della sua lunga esperienza di medico, che una stessa terapia non sempre curava i medesimi sintomi in ogni paziente; anzi, per una stessa sintomatologia, somministrando lo stesso rimedio, si avevano reazioni diverse. Il principio su cui si basa è fondato sulla considerazione della “malattia” vista come reazione e mezzo rivelatore di uno squilibrio energetico che si manifesta con disturbi psichici e fisici. Osservò anche che certi pazienti con carattere e personalità simili spesso reagivano nello stesso modo ad un dato sintomo. Ipotizzò che per la cura della malattia era più importante tener conto della personalità individuale che dei sintomi fisici. Concluse che era l’atteggiamento mentale che modificava l’armonia dell’equilibrio nell’organismo: questa alterazione si manifestava poi con la malattia, disturbo o sintomo. Quindi, e ci ritroviamo con la Medicina Alchemica e con quello che ho anticipato nell’Aromaterapia Alchemica, la malattia o il malessere che generano il sintomo non sono altro che l’espressione di un disagio profondo che coinvolge la persona a livello sia fisico che psichico, ed è proprio questo disagio che dovrebbe essere analizzato e affrontato. Naturalmente non scordiamo che ognuno di noi vibra a suoni ben precisi ed

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elabora attraverso archetipi. Ecco che l’archetipo/ fiore/ nota collabora con la parte più intima nel nostro Essere Divino e lo aiuta a denudarsi delle proprie difficoltà oggettive, che lo costringono spesso a fermarsi sulla tortuosa via dell’Illuminazione. Il pensiero è energia, e come tale influenza noi stessi. Tutto quello che è intorno a noi, se negativo, nuoce alla salute. Le Essenze Floreali come gli Oleoliti Alchemici sono in grado di entrare in vibrazione con tali onde perché possiedono le medesime energie. Così come ogni fiore ha una vibrazione ben identificata, con una propria frequenza vibratoria: quando le vibrazioni armoniose dei fiori entrano in contatto con quelle umane, ne annullano la disarmonia riportandole ad una situazione ottimale, riequilibrando il contatto con il nostro Sé superiore. Un aiuto concreto che affianca Aroma e Floriterapia è l’uso delle Acque di Luce bianca, ma di questo parleremo in seguito; certo è che l’Acqua trasposta le nostre memorie, lavando l’Antico ed introducendo il Nuovo. L’acqua è una sostanza importante per la vita del nostro Pianeta, ne copre i due terzi e costituisce il 99% delle molecole che formano il corpo umano. Sono stati fatti molti studi sulle proprietà fisiche dell’acqua, ma fino a non molto tempo fa poco si sapeva delle sue proprietà energetiche sottili. La maggior parte delle testimonianze su queste speciali proprietà deriva dagli studi sugli effetti della “terapia con l’imposizione delle mani” degli anni ‘60. I primi studi sulle speciali qualità dell’Acqua sono stati fatti dal Dr. Bernard Grad dell’Università Mc Gill di Montreal. Egli voleva capire le reali capacità partendo da come i guaritori o gli operatori energetici caricavano l’acqua di prana e poi la davano a bere ai pazienti, i quali iniziavano a sentirsi bene. Masaru Emoto è lo scienziato giapponese che ha dimostrato la capacità dell’acqua di memorizzare le in-

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A Passeggio nella Naturalità tra Alchimia e Floriterapia formazioni che riceve dall’ambiente, dando forma a cristalli diversi per ogni tipo di “messaggio”. Dunque, Acqua e Olio sono veicoli meravigliosi per i Fiori che attraversano il nostro Essere Alchemico Divino, in un Viaggio che ha come Destinazione l’Illuminazione. Mi sembra giunto il momento di volgere lo sguardo e continuare il discorso sulle Essenze di Lavanda e Borragine. Se ricordate, per chi ha seguito e letto il precedente numero di Runa Bianca, vi ho parlato dell’oleolita alchemico del fiore di Lavanda e di Borragine. LAVANDA, a livello Archetipale, elabora e migliora la comunicazione, sublima la sessualità repressa, liberando ciò che è giusto che sia. Il Respiro che dà vita diviene fluido e leggero. Interagisce tra materia e spirito, facendosi da ponte. (Come Essenza Floreale Alchemica), agisce sullo Spirito e sull’Anima/Animus portando vento di freschezza mattutina, aiutando a far cadere condizionamenti acquisiti fin dall’infanzia, conduce per mano il Bambino o la Bambina ferita a “lasciar andare tristi pensieri”, a fortificare il Cuore e collegarlo con la parte più alta del nostro Essere di Luce. BORRAGINE, a livello Archetipale, agisce sull’umore innalzando la vibrazione personale. Aumenta l’autostima, libera da parole non pronunciate per non ferire e ferirsi. Migliora la predisposizione dell’Essere Umano a comunicare con l’altro, specchio della propria anima/animus. Come Essenza Floreale Alchemica, simile all’oleolita, migliora la comunicazione con il Sè, debole soprattutto per chi soffre di tiroiditi o proble-

Rosanna Toraldo E’ Naturopata, diplomata presso la Scuola Federico II, Dipartimento Ospedaliero Sperimentale ASL di Trani e Master Teacher Reiki Usui. Ha frequentato per 2 anni la Scuola di Biotransenergetica-Psicologia Traspersonale di Lecce, del Dott. Lattuada, dove ha fatto un percorso di consapevolezza e di completamento per i suoi studi di ricerca sugli Archetipi delle Piante e dei fiori. Altri corsi di formazione sono stati in Anatomia e Fisiologia Sottile, che insegna nella sua Scuola di Reiki. Ha

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Rosanna Toraldo

mi di gola (V° chakra – Vishudda). Come pianta Giovina porta ilarità e gioia. Aiuta a comunicare all’altro/a i propri sentimenti e rancori, con ferma dolcezza, lasciando andare la rabbia. Sostiene le mamme nei primi mesi in cui la nascita di un nuovo essere le fa sentire “fuori fase e non “all’altezza”, conducendole sulla via di una comprensione “esterna” con il proprio figlio/a. Spesso alcune giovani puerpere mi chiamano disperate perché non capiscono quando il neonato piange e si dispera, vorrebbero quasi trovare un linguaggio comune, sentono la loro paura e la traducono in ansia. L’Essenza Floreale di Borragine aiuta a trovare un punto d’accordo tra madre e figlio/a, ma anche tra i due genitori che devono ritrovarsi come uomo e donna. L’azione dell’oleolita è diversa dall’essenza: il primo agisce dalla struttura/materia per poi arrivare all’emozione come blocco; la seconda invece inizia dall’emozione, come parte più sottile di noi, per arrivare al corpo. Dunque entrambi sono utili rimedi naturali con una propria energia che si pone in ascolto dell’Essere di Natura che chiede loro aiuto. Bene. Ora, in punta di piedi, mi alzo da questa pietra antica, satura di ricordi di Ere e Passaggi epocali, ringrazio Padre Sole che tramonta in un’ondata dorata e rossa come il fuoco del mattino che si sta spegnendo. Mi avvio piena di me e d’amore lasciandomi dietro passi argentati di una Luna già presente nel Cielo. Ringrazio Madre Terra, sfiorando cespugli ed arbusti e, “surridendo al cielo” mi avvio nella segreta dimora, centro dell’ Essere: il mio Cuore. lavorato nel campo dell’Aromaterapia Alchemica. Ha Frequentato corsi monotematici di Floriterapia Spagirica, Alchimia, Radiobiologia e Radionica, facendone una base di ricerca nel campo sia degli Oleoliti Alchemici che delle Essenze Floreali Mediterranee Spagiriche, che porta come materie di studio, oltre all’Alchimia Cellulare, in qualità di docente nell’istituto IS.ME.NA. (Istituto di Medicina Naturale di Lecce). Inoltre ha partecipato, con gli stessi temi, a Conferenze e Tavole Rotonde in Liguria e Piemonte. In Puglia, ha lavorato a fianco di eminenti docenti come il Dott. Sergio D’Antonio, conosciuto e riconosciuto nel campo dell’Omeopatia e dell’Aromaterapia Alchemica.

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Punto P

L’altra faccia della sessualità maschile

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os’è e dov’è il punto P? Ed il punto L dove si trova? Sono la stessa cosa? Sotto il frenulo c’è una zona di intenso piacere: è corretto chiamarla punto g maschile o clitoride maschile?

Premessa Abbiamo visto come, per il punto G nella donna, ci sia, in ambito scientifico, una discussione sulla sua stessa esistenza, ma l’area dove si dovrebbe localizzare è estremamente chiara e determinata (parete anteriore della vagina, a circa 5 cm dall’apertura); per il punto P nell’uomo, ma direi per la sessualità maschile in generale, l’indeterminazione regna sovrana. Se svolgiamo una ricerca su internet, le spiegazioni sul punto P sono più di una, talvolta in contraddizione tra loro e aprono possibilità interpretative che, come la concatenazione del-

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le scatole cinesi, mostrano quanto sia in realtà complessa la sessualità maschile, generalmente considerata estremamente semplice ed in taluni casi superficialmente “bollata” come grossolana, caratterizzata da un semplice periodo di carica, acme, scarica. La nostra ricerca sul web ci parla di punto P posizionato nella prostata; si trova notizia poi di un punto L, da taluni indicato come sinonimo di punto P, ma che in realtà è avvertibile in altra parte del corpo con una pressione nel tratto del perineo, tra ano e testicoli, e stimolabile peraltro attraverso l’uretra, con particolari tecniche, nel coito orale. A complicare poi le cose, si trova notizia che, secondo alcuni, l’omologo del punto G non sarebbe il punto P prostatico ma un punto del pene alla base del glande definito, forse non molto correttamente, addirittura “clitoride maschile”. Gli interventi nei forum aggiungono spesso confusione alla confusione.

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Punto P

Metodologia Cercherò, in assenza di una nomenclatura scientifica precisa, di fornire delle informazioni sulle aree erogene descritte, su ciò che intendono al riguardo i diversi autori che le hanno studiate, su come stimolarle, sulle loro differenze di tessuto e di risposta. Inoltre, come abbiamo visto per il punto G, vedremo se ci sono degli elementi che possono far considerare l’esperienza sessuale di questi punti un viaggio iniziatico, oltre che erotico.

Ano: zona di tabù o zona erogena La sessualità dell’uomo è sempre stata vista come penetrante, martellante. Il pene è deputato, nel pensiero comune, a portare all’esterno in maniera esplosiva il “frutto” della eccitazione maschile. In realtà, se guardiamo il 1° chakra nel suo complesso, c’è anche una parte ricettiva, femminile; è la zona erogena che corrisponde all’ano. E’ una realtà conclamata, che molti uomini non riescono ad accettare, il fatto che questa parte sia una zona di piacere, una zona erogena come ce ne sono tante altre; basti pensare alle parolacce, alle barzellette, ai proverbi, ai luoghi comuni che vengono rivolti a questa parte del corpo. Ci sono due grandi tabù che impediscono di vivere una sessualità felice e consapevole dell’ano. Il primo è quello dell’omosessualità; il secondo, quello secondo cui la zona è considerata “sporca”. Ci sono uomini che affidano il contatto con questa parte soltanto alla carta igienica o alle salviette igieniche, altri che hanno scoperto il piacere nell’accarezzarlo durante la masturbazione ma si vergognano a dirlo o a chiedere alla compagna di essere stimolati proprio lì. Manca una cultura della cura di questa zona, che è invece presente in oriente sia nel Tantrismo che, soprattutto, nel Taoismo. Nel Tao un indicatore dell’età biologica è la condizione dell’ano, ovvero dei muscoli dello sfintere anale. La stessa unità energetica delle ghiandole sessuali sovraintende anche alla muscolatura anale; per il Taoismo, lo stato delle ghiandole sessuali si riflette sulla muscolatura anale e viceversa. I Ci-

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Valter Bencini nesi erano arrivati non soltanto a misurare l’età biologica, ma anche a modificarne il fisiologico invecchiamento grazie ad esercizi particolari, come quello del “Daino”, a cui rimando nei testi specifici sul Tao, citati in bibliografia. Dettagliate e minuziose poi le descrizioni per la pulizia della zona, da effettuarsi in posizione accovacciata, penetrando nel retto con il dito indice per almeno 5 cm, ruotandolo per pulire le pareti ed esercitando, ove possibile, piccole pressioni sulla prostata. Sconsigliato usare i normali saponi sul dito; preferibile invece una soluzione oleosa o una crema solubile in acqua. Molte persone trascurano il retto, in quanto lo sentono troppo sudicio per riuscire a toccarlo; in realtà, non c’è niente di più sporco che lasciar sporca una parte del nostro corpo. Consideriamo, peraltro, che il 25% di tutte le forme di cancro nell’uomo hanno origine nella prostata e nel retto. La questione della pulizia accurata non riguarda soltanto l’uomo; pulire il retto accuratamente nella donna risulterà preventivo per molte potenziali infezioni che dall’intestino si trasferiscono in vagina. Nel Taoismo inoltre, in maniera estremamente empirica, veniva sfruttata la qualità germicida dell’esposizione al sole. Vera o no, questa usanza dimostra il particolare culto che nel Tao è dedicato a questa parte.

Esercizio di Adorazione al Sole

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Valter Bencini L’esercizio rituale si chiama “Adorazione al sole”: invece di chinarsi, come ci si potrebbe aspettare, in direzione del sole, si rivolge l’ano verso di esso. 1. Si rivolge la schiena al sole 2. Ci si piega in avanti in modo che la luce solare arrivi all’orifizio (va effettuato ovviamente senza abiti) 3. Si percepisce il tepore penetrare nei tessuti L’esercizio può essere effettuato anche da sdraiati, purché l’orifizio sia toccato dal sole.

Il punto P (Prostatico) Per i maestri Tantrici e Taoisti, il punto P designa la prostata. Inquadrata in senso psicosomatico, la tabuizzazione di questa zona porta a tensioni croniche nell’ano, nel perineo, nei glutei e nella zona lombare. Dopo i 50 anni, questa zona è soggetta spesso a disturbi fastidiosi, talvolta dolorosi, in alcuni casi a patologie gravi. Sembra quasi che la nostra parte femminile del piacere in qualche modo voglia dare segno di sé, reclamando quell’attenzione che per anni gli è stata negata. Femminile? Si perché, come il punto G contiene residui embrionari prostatici, così la prostata contiene l’”Utricolo”, un piccolo utero, vicino all’incrocio dei dotti eiaculatori, anche esso residuo di quel periodo embrionale in cui maschile e femminile erano un tutt’uno. In questo senso, anche il punto P può essere definito un punto sacro. Un viaggio all’esplorazione del piacere di questa zona diventa perciò, oltre che un viaggio erotico, un viaggio iniziatico. La prostata si stimola dall’interno attraverso l’ano o dall’esterno con pressione profonda sul perineo (più difficile). Qualsiasi disturbo della prostata (prostatite, ipertrofia etc) richiede di consultare il proprio medico o lo specialista urologo prima di stimolarla. La stimolazione della prostata può portare ad un orgasmo molto simile a quello femminile, tant’è vero che viene raggiunto senza stimolare mai il pene, che può rimanere anche flaccido. E’ un orgasmo che apre a spazi interiori impensati, molto largo, esteso, duraturo, ed è una via per l’uomo per accedere ad esperienze estatiche.

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Punto P Nelle fasi iniziali del massaggio ci può essere lieve bruciore, sensazione di dover urinare, alternarsi di vari sentimenti ed emozioni (rabbia, pianto etc).

La tecnica del massaggio 1. Prendersi almeno due ore di tranquillità 2. L’uomo si sdraia supino e rilassato 3. Ci si lascia andare, attraverso il respiro, dimenticando ogni preconcetto sulla sessualità maschile e sull’orgasmo. Non c’è da raggiungere nulla di prefissato, bisogna solo aprirsi a qualcosa di nuovo. 4. La donna respira in maniera diaframmatica e rimane centrata su sé stessa. UOMO SUPINO: La donna inizia a massaggiare la testa, la nuca, la schiena nella parte delle spalle, le gambe, fino ad arrivare alla zona genitale; qui si prenderà cura del pube (con un massaggio in cerchi), la parte bassa dell’inguine ed il perineo. Passa ogni tanto una mano sul resto del corpo, estendendo così la carica energetica del perineo ovunque. Poi si prende cura del pene, attuando il “massaggio rilassante dei genitali”. Il suo fine non sarà l’eccitazione e l’erezione, che ci potrà essere come no. Il pene viene tirato delicatamente in due direzioni opposte; una variante può essere quella di portare il pene in alto e stirare in basso delicatamente i testicoli dopo averli circondati con le dita ad anello, può poi strizzare il membro come fosse un asciugamano bagnato o rotolarlo tra le mani come fosse un bastone. Alla fine del massaggio, una mano tocca il perineo e l’altra il terzo occhio, nel mezzo della fronte. Le mani vibrano in questi due punti, quasi ad attivare una corrente energetica che porterà le sensazioni dal chakra più fisico (I°) a quello più intuitivo e spirituale (VI°). A questo punto, l’uomo si gira e si sdraia a pancia in giù. UOMO PRONO: L’uomo deve essere perfettamente rilassato, prima di procedere pienamente nell’esperienza. La donna massaggerà i glutei, il perineo e la periferia dell’ano, mentre con l’altra mano distribuirà l’eccitazione alla schiena. Poi la mano inizia

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Punto P a tastare l’ano e rimane ferma lì. E’ il momento di utilizzare un gel o una crema lubrificante e, se non si vuole usare le dita nude, un guanto o un preservativo.

Valter Bencini le nove, le tre, le dodici (coccige) le sei (perineo). Le eventuali sensazioni di calore acuto possono essere controllate dall’uomo, immaginando di respirare dentro questa sensazione. UOMO DI NUOVO SUPINO: L’uomo si gira lentamente fino a mettersi supino con dei cuscini sotto la testa, posizionati precedentemente dalla donna, tanto da assumere una posizione quasi seduta.

Posizione prona Il dito medio penetra lentamente nell’ano. La donna non deve mai premere contro la tensione, ma rimane fino a che il muscolo si rilassa da solo. A questo punto si incontra dopo mezzo centimetro lo sfintere esterno, un muscolo che si può stirare e dilatare; i movimenti dovranno essere lenti ma decisi, in tutte le direzioni. Più in profondità si arriva allo sfintere interno, che può essere dilatato in tutte le direzioni anch’esso, con movimenti che lo tirano verso l’esterno. Iniziano poi le pressioni sui punti dell’orologio immaginario:

Il contatto con la prostata dal retto

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Posizione nella terza e ultima fase del massaggio Il dito va alle dodici. Prende contatto con la prostata che ha la grandezza di una castagna circa. La donna massaggia, preme, fornisce piccole vibrazioni; ma ciò che è veramente importante è mantenere sempre il contatto, che va conservato anche nel passaggio dalla posizione prona a quella supina. L’uomo non si esprime in modo estremamente articolato, si limita a segnalare brevemente ciò che sente e cosa gli dà più piacere. La donna può rendere più intenso il massaggio e l’orgasmo, portando con l’altra mano la carica energetica verso il cuore. Massaggia per circa 20 minuti. Le impressioni di bruciore e voglia di urinare lasciano presto il posto al piacere. L’orgasmo è simile a quello femminile; alcuni uomini descrivono vampate di calore che, dal basso, ventre salgono verso il cuore e la testa. Alla fine la donna ritira lentamente il dito, millimetro dopo millimetro, rimane per qualche minuto appoggiata all’ano del compagno e poi stacca il contatto. L’uomo deve essere lasciato libero di rimanere con le sensazioni che gli sta comunicando il suo bacino. Potrà voler rimanere solo, con un lieve

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Valter Bencini contatto della mano o abbracciato. In ogni caso la donna non dovrà offendersi, ma rispettare il sentire del compagno. L’orgasmo ampio, largo, duraturo, di tipo femminile, fa sì, come avviene alla donna nel punto G, che la carica energetica arrivi nella profondità del nostro essere ad aprirci, in modo iniziatico, impressioni che vengono dal “dentro”.

Punto P estremamente vicine, ma qualche distinguo va fatto. Il punto L, così chiamato in riferimento a Leslie Leonelli, si troverebbe nella zona tra i testicoli e l’ano (perineo); è un’area che ha la stessa conformazione del pene, ed in qualche modo ne rappresenta la continuazione, la radice. Il punto L può essere stimolato nel rapporto orale o attraverso il massaggio. Alcuni sostengono che si possa attivare con la stimolazione anale, ma credo che questa caratteristica sia più peculiare del punto P. ORGASMO DEL PUNTO L – Viene descritto come un orgasmo lento, graduale, senza resistenze, procede fluido come fosse un respiro; contrazioni di piacere forti, ma non acute come nell’orgasmo abituale: vengono descritte come tonde, calde e profonde. Dura molto e si diffonde piacevolmente in tutto il corpo. Comincia prima dell’eiaculazione, che manca nella stimolazione del punto P, e termina dopo. STIMOLAZIONE ORALE DEL PUNTO L- Bisogna provocare un’aspirazione che, attraverso l’uretra, porti lo stimolo al punto L.

Esplorazione delle proprie sensazioni

Ed il punto L? Nel 1986 uscì un libro di Elisabetta Leslie Leonelli, sociologa, psicoterapeuta e sessuologa dal titolo: Coccole e Carezze: Alla Radice della Virilità (Rizzoli, Milano, 1986, pp.197; il testo fu pubblicato nuovamente nel 2000). Riporto alcune espressioni: “Mentre avevo davanti le sezioni laterali dei genitali maschili con i corpi cavernosi, i nervi, i testicoli, la prostata, ecc… mi sono resa conto, improvvisamente, di quanto la base del pene affondi profondamente dentro le pelvi. Ciò che si vede all’esterno del corpo costituisce meno della metà dell’intero apparato, mentre i corpi cavernosi, veri e propri protagonisti dell’erezione del pene, continuano all’interno delle pelvi, al di là dell’osso pubico, al di sotto della prostata, fin quasi a raggiungere la parete del retto.” In molti degli articoli reperiti su Internet si pone, per fortuna, chiara la distinzione e la mancanza di nesso tra punto P e punto L. In altri, questa confusione è alimentata. Le zone sono

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Provocare l’aspirazione attraverso l’uretra con il coito orale. La donna dovrà succhiare dolcemente e ritmicamente (succhiare e poi smettere, ripetendo l’operazione in rapida sequenza). In pratica, l’uretra è qui equiparabile ad una cannuccia. La donna appoggia le labbra sulla punta del pene e l’uomo arriva a questo orgasmo soltanto attraverso l’azione dell’aspirare, senza che venga toccato o stimolato altrimenti.

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Punto P

L’uretra nel tragitto del pene è equiparabile ad una cannuccia L’aspirazione non va esercitata in maniera troppo forte perché potrebbe risultare irritante. Oltretutto, secondo i meridiani della medicina cinese, si intuisce come le manovre orali sul pene abbiano riflessi sugli apparati ghiandolari e, per quello che riguarda il glande nella sua interezza, sul cuore.

Valter Bencini con la lingua l’uomo sotto il glande (punto da taluni definito erroneamente clitoride maschile) anche durante l’eiaculazione. In http://donna. libero.it/sotto _le lenzuola/ si consiglia l’aspirazione anche dopo l’eiaculazione, stimolando con le mani il glande nella zona del frenulo, dove si identifica la zona corrispondente sempre a ciò che taluni chiamano clitoride maschile. L’aspirazione sopra descritta, che pare essere una stravagante variante del coito orale, in realtà trova riscontri nella solita finalità dell’umanità, ovvero di essere funzionale alla riproduzione. In passato, la tonicità dei muscoli della pelvi era molto più pronunciata nelle donne, e probabilmente anche la sensibilità che queste avevano per i propri muscoli vaginali. Muoverli e contrarli naturalmente era ovviamente funzionale all’aspirazione di un maggior numero di spermatozoi durante il coito. STIMOLAZIONE CON IL MASSAGGIO DEL PUNTO L - Nel web non è scritto molto al riguardo, tranne che la zona da massaggiare è compresa tra ano e attaccatura dei testicoli, ovvero la parte esterna del muscolo pubo-coccigeo, e che, per ottenere piacere, il massaggio deve essere dolce e profondo,con metodo alternativo all’aspirazione. Fondamentalmente, osservando la zona perineale da massaggiare, mi sembra che non ci sia niente di nuovo sotto il sole! Ovvero, siamo di fronte ad un punto conosciutissimo nella medicina cinese, che fa del risparmio energetico eiaculatorio uno dei suoi pilastri. Si tratta, infatti, dello Jen-Mo. (vaso- concezione).

Jen Mo ovvero il “punto da un milione di dollari”, iniaculazione invece di eiaculazione

Corrispondenze di altri organi sul pene. In www.alfemminile.com si consiglia, data la lunghezza dell’orgasmo che continua anche dopo l’eiaculazione, di continuare a stimolare

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Nella sessuologia taoista l’uomo ha l’orgasmo senza eiaculare, cioè ”iniacula”. Premendo con molta precisione un punto dell’agopuntura che si trova a metà tra l’ano e lo scroto, si può ottenere questo effetto. L’eiaculazione può essere convertita in un orgasmo più piacevole, ed il seme rimesso in circolo dalla prostata colma e riassorbito nel sangue. Occorre esercitare una certa pressione nella pressione di questo punto. Con un dito, si avverte come una piccola rientranza.

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Valter Bencini L’intento di bloccare la fuoriuscita dello sperma, una volta che l’uomo ha passato il punto di non ritorno, è quello di far risalire l’energia lungo i meridiani che hanno origine da quel punto, piuttosto che farla fuoriuscire dal corpo come nella normale eiaculazione.

Jen-Mo L’origine del soprannome il “punto da un milione di dollari” secondo alcuni deriva dal sentirsi ricchi energeticamente da parte degli allievi, per altri dalle parcelle che i maestri Taoisti moderni chiedevano ai loro allievi per insegnar loro i segreti dell’arte. L’uomo, prima di eiaculare, allunga una mano dietro le natiche e preme il punto con decisione, così da impedire che il seme fuoriesca dalla prostata e attraverso l’uretra. Una compagna che sa reperirlo e bloccarlo è sicuramente da preferire, perché in tal modo la manovra è meglio direzionata. Le prime volte non sarà facile: premere troppo vicino allo scroto fa refluire l’eiaculato in vescica (urina torbida), premere troppo vicino all’ano non blocca l’eiaculazione. Per essere efficace, l’esercizio deve chiudere i canali alla base della ghiandola prostatica. In molti casi per chiudere è indicato il metodo delle tre dita, che prendono bene il punto ed esercitano la giusta pressione. L’orgasmo da eiaculazione retrograda (iniaculazione) viene descritto come più lungo, più piacevole, con accorciamento del tempo di latenza tra un’ erezione e l’altra senza il senso di spossatezza che può esserci talvolta dopo una eiaculazione; anzi, vengono riferite sensazioni di attività e rivitalizzazione. Dopo una iniaculazione è sempre consigliabile massaggiare il proprio perineo. In ogni caso, anche per i Taoisti lo Jen-mo non

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Punto P era soltanto un punto per interrompere l’eiaculazione, ma un punto da cui si poteva trarre un grande piacere. Una pressione praticata in modo ritmico può far affluire più sangue e creare pulsazioni molto gradevoli; il punto si stimola meglio dopo un’erezione, quando c’è, perciò, molta eccitazione.

Metodo delle tre dita La differenza tra punto P e punto L la si può notare anche dallo schema seguente in cui si comprende come, pur essendo due zone estremamente ravvicinate, siano diverse e soprattutto necessitino di essere stimolate con modalità differenti. La freccia blu orizzontale va a stimolare il punto P, e in questo caso la via più facile d’accesso è intuibile che sia quella rettale; la freccia blu verticale è riferita al punto L, e si capisce

Punto P e Punto L: confronto

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Punto P che accede al punto dall’esterno. La stessa dottoressa Leonelli ha dimostrato che le cose stanno diversamente da chi pensa che i due punti siano la stessa cosa. Infatti, la domanda che lei giustamente si pone è quella di capire come si potrebbe raggiungere questo tipo di orgasmo profondo con il sistema dell’aspirazione e del massaggio perineale se il centro si trovasse nella prostata, che è raggiungibile solo per via anale.

Sotto il frenulo del pene: punto G o clitoride maschile? La sessualità maschile sta rivelandosi foriera di sorprese. Il luogo comune di una sessualità semplice, caratterizzata esclusivamente da una pulsione penetrante, sta piano piano lasciando il posto ad una immagine di zone erogene estremamente recettive, non sempre così appariscenti, che richiedono grande complicità e intimità con la partner. E’ finita qui? No. Il Dr. Veglio, radiologo piemontese ed esperto di cultura orientale, ha parlato in un congresso di andrologia riferendosi alle caratteristiche fortemente erogene di una zona del pene, di punto G maschile. La zona è descritta all’inserzione del frenulo, in un avvallamento che pittorescamente viene descritto come le “labbra del glande” e che altri, in modo più grossolano hanno chiamato “chiappette”, e che altri ancora, forse con un rigurgito vetero-femminista, hanno anche definito, a causa del termine labbra, clitoride maschile. Ovviamente in questo caso i termini punto G o clitoride non hanno alcun nesso con l’embriologia, ma soltanto con il grande piacere che questa zona è in grado di apportare all’uomo. Veglio non consiglia il classico sesso orale, ma indica una tecnica tantrica raffinata per stimolare al massimo il punto in questione. Una stimolazione continua a labbra socchiuse, che sussurrano mantra e sfiorano solo il pene, mentre la lingua stimola direttamente il punto erogeno, passando e ripassando come un’ape che si posa sul fiore. Questa zona, immediatamente posta sotto il frenulo, è conosciutissima dagli uomini e poco dalle donne. La spiegazione di questa mancanza di conoscenza, almeno fino ad oggi, è che l’uomo si vergogni a parlare di certe cose.

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Valter Bencini Demandare all’intuizione piuttosto che al comunicare è una delle cause, non solo in ambito sessuale ma dei bisogni in generale, del fallimento della coppia. Una frase come “Se mi ama capirà” coltiva il mito equivalente, in campo femminile, del “principe azzurro” che deve intuire, capire, anticipare. Qui è invece la “bella addormentata” che si deve svegliare! Spetta solo a noi svegliare, prima che le occasioni di risveglio siano cercate altrove. Spetta solo a noi far capire che il nostro pene non è un’asta uniforme che “dove tocchi tocchi, il risultato è sempre equivalente”, ma che ha punti dove è estremamente più piacevole essere stimolati. Spetta solo a noi far capire che, dentro il nostro bacino, ci sono altre zone erogene che siamo disponibili ad esplorare insieme, in complicità ed intimità.

Zona di massimo piacere localizzata sotto il frenulo.

Conclusioni In sintesi, possiamo affermare che: 1. la semplicità della sessualità maschile è un luogo comune; 2. esistono delle zone erogene situate nella prostata (punto P) e nella regione perineale (punto L) 3. tali zone possono essere stimolate in maniera separata o combinata. Il punto P per via rettale, il punto L per via orale o tramite massaggio perineale; 4. sul pene, sotto il frenulo, esiste una terza

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zona, che al momento non ha una definizione precisa, molto sensibile ed in grado di procurare piacere al maschio; 5. provare piacere all’ano non è collegabile all’omosessualità o ad un concetto di sporcizia. Si tratta semplicemente di una zona erogena che può essere apprezzata da eterosessuali come da omosessuali; 6. il punto P nell’uomo da un punto di vista iniziatico rimane, a mio avviso, l’analogo del punto G nella donna. 7. i primi a ricercare la complicità e l’intimità con la partner per quello che riguarda la sessualità maschile dobbiamo essere noi: l’intuizione è un falso mito della coppia.

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• Bibliografia: • D & F. Bergamino – Sesso Teoria & Pratica • C. Bruchez – Giochi di Coppia • J. Chang – Il Tao dell’amore • S. Chang – Il Tao del sesso • M. Chia & D. A. Arava – 1001 Orgasmi • Douglas & Singer – I segreti sessuali dell’Oriente • S. Freud – Totem e Tabù • J. Kelly – Conoscere l’amore • E.L. Leonelli – Coccole e carezze: alla radice della virilità • W. Reich – La funzione dell’orgasmo • W:Reich – La rivoluzione sessuale • Strocchi Castellani Jodice – Sesso – energia, fantasia, vitalità, gioco • R. Tannahill – Storia dei costumi sessuali • J. Wright – Il massaggio erotico • E&M Zadra – Il punto G – Una guida tantrica al

Valter Bencini È medico chirurgo, specialista in psicoterapia ad indirizzo funzionale corporeo. Terapeuta individuale e di coppia. Si occupa in particolare di comunicazione uomo-donna e problematiche della sessualità, con particolare riguardo a quella maschile. Ha tenuto corsi e conferenze su comunicazione, intimità, carattere, proiezioni genitoriali sul partner, identità di genere, sessualità. Autore di alcune pubblicazioni scientifiche sulla rivista Olos. È allievo dei Maestri di Tantra E. & M. Zadra, con cui ha

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mistero della sessualità femminile E&M Zadra – Tantra la via dell’estasi sessuale E&M Zadra – Tantra per due E&M Zadra – Trasgredire con amore http://ww.alfemminile.com/sesso-sessualita/ alfabeto-sesso-d17142c245066.html http://ww.clicmedicina.it/pagine%20n%2015/ puntog_uomo.htm http://donna.libero.it/sotto_le_lenzuo la/28704071/un-orgasmo-da-urlo-punto-l http://forum.zeusnews.com/viewtopic. php?t=37831 http://massaggio-massaggi.blogspot. com/2011/06/massaggio-prostatico-la-salutedelluomo.html http://www.mimanchitu.it/amore/sessuologia/guide_sesso/dettagli_guidasesso.asp?ID_ CONTENT=2 http://www.sessosublime.it/index.php/luomo/come-fatto http://www.sessosublime.it/index.php/luomo/il-punto-l-maschile

Note: - La descrizione del massaggio del punto P prende fedelmente spunto da “Tantra la via dell’estasi sessuale” di E&M Zadra - La maggior parte delle immagini sono tratte da libri e articoli citati in bibliografia. - Altre immagini da: http://gizmodo.com/ istraw/, http://ilparadisodeilibri.it/2010/11/30/ eiaculazione-precoce/, http://modelsgallery. altervista.org/estate-2010-uomini-in-costume/

completato il training formativo, e del Maestro di Tao Edy Pizzi. Utilizza le conoscenze della sessualità orientale, integrandole nel suo bagaglio di psicoterapeuta, nei corsi che conduce e nelle terapie individuali e di coppia. Ha collaborato, nella sua formazione, con il Centro Prevenzione Abuso Minori di Prato (Pamat) e con la Casa di Cura per Malattie Mentali a Poggio Sereno di Fiesole. Già docente in Comunicazione per i Circoli di Studio del Comune di Firenze e del Comune di Prato. Attualmente membro del Centro W. Reich di Firenze e socio SIF (Istituto di Psicologia Funzionale). Per informazioni su corsi, conferenze, terapie scrivere a: vb-psicocorporea@libero.it

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LUDOVICO POLASTRI

Quid est homo (I)

“Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?” (Sal. 8)

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a conclusione a cui in definitiva arriviamo è che nulla può essere definito come certo, che noi ci muoviamo e siamo, di fatto, incompleti o forse non sufficientemente evoluti per riuscire a comprendere chi siamo e quale è il nostro ruolo nell’enorme disegno nel quale siamo giocoforza incastrati. Il salmista, attraverso il salmo 8, chiede lumi a Dio: “Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?”. Una domanda che ci porta ad affrontare un lungo viaggio, interrogandoci fino nel nostro profondo inconscio.

Realismo relativo Materia, Spazio,Tempo. Tre concetti in cui sia-

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mo immersi costantemente durante la nostra esistenza e di cui nessuno, neppure gli scienziati, sanno dare una definizione precisa. Le quattro forze fondamentali che spiegano l’interazione tra i corpi e dunque la materia stessa, la forza gravitazionale, la forza elettromagnetica, la forza nucleare debole e la forza nucleare forte (queste ultime caratteristiche che si manifestano solo dentro l’atomo) sono elementi non tutti correlabili tra loro. Di fatto, non essendo riuscita per ora la scienza a trovare il legame che unisce queste quattro forze, non siamo in grado di spiegare come mai i fenomeni fisici che si manifestano nell’infinitamente piccolo seguano leggi diverse da quelle che caratterizzano il mondo sensibile in cui viviamo. Se un oggetto nella realtà tangibile può essere collocato nello spazio con certezza conoscendone la sua velocità, nella realtà subatomica ciò non è possibile; per il principio di indeterminazione di Heisemberg dobbiamo

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Quid est homo scegliere se conoscere la sua posizione o la sua velocità. Einstein non riuscì a trovare una teoria unificante, una teoria “del Tutto”, nonostante vi avesse dedicato diversi decenni della sua vita rivelatisi, tuttavia, infruttuosi. A quei tempi la forza debole e quella forte non erano ancora state scoperte ma egli trovava già insopportabile l’esistenza di due forze distinte, gravità ed elettromagnetismo. Nel frattempo furono scoperte le altre due forze, il che rese ancor più difficile l’impresa. Verso la fine degli anni ‘60 però gli americani Weinberg, Sheldon, Glashow e il pakistano Salam idearono un modello matematico che descriveva la forza elettromagnetica e quella debole come aspetti di un’unica “forza elettrodebole”. E’ ormai certo anche che al crescere della temperatura la forza nucleare forte si indebolisce, avvicinandosi per intensità a quella elettrodebole. Ma, per osservarne l’unificazione, bisognerebbe raggiungere la fantastica temperatura di 10 miliardi di miliardi di miliardi di gradi centigradi. L’ultima forza rimasta, la gravità, continua ad oggi a sfuggire all’unificazione. Nel 1984 Witten, Green e Schwarz proposero una nuova teoria fisica, la cui innovazione scientifico-matematica risiede nel concetto di “corda”. Secondo questa teoria, se potessimo esaminare le particelle fondamentali, come i quark e gli elettroni, con un “ingrandimento” centomila miliardi di volte maggiore di quello che ci è permesso dalle tecnologie attuali, scopriremmo che esse non hanno una forma sferica ma sono composte da minuscole linee o anelli sottilissimi in continua vibrazione. La teoria afferma che le proprietà delle particelle osservate, comprese quelle che veicolano le forze, sono il riflesso dei vari modi in cui queste microscopiche stringhe possono vibrare, come corde di una chitarra. Anziché produrre note musicali, però, ciascuna delle possibili vibrazioni ci appare come una diversa particella. Così l’elettrone è una corda che vibra in un certo modo, il quark una corda che vibra in un altro modo, il fotone una corda che vibra in un altro modo ancora, e così via. Le interazioni tra particelle diventano allora fusioni e scissioni di corde. Semplificando al massimo, potremmo affermare che le particelle sono le note prodotte dalle vibrazioni delle microscopiche corde e che l’universo è musica, energia vibrante.

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Ludovico Polastri La teoria delle supercorde tuttavia ha una struttura concettuale così profonda e complessa che siamo ancora ben lontani dall’averne piena padronanza. La sua matematica è così complicata che finora non se ne conoscono neppure le esatte equazioni, ma solo delle approssimazioni risolte parzialmente. Si ipotizza uno spazio ad undici dimensioni, molto difficile da far accettare alla nostra limitata mente e soprattutto da sperimentare. Secondo Ohno, ricercatore giapponese, anche la struttura del DNA degli esseri viventi richiama quella di uno spartito musicale. Egli ha cercato di convertire ognuno dei quattro nucleotidi dell’acido desossiribonucleico (A,G,T,C) in due possibili note in chiave di violino: A in do-re, G in mi-fa, T in sol-la, C in si-do. Pur essendo questo codice musicale carente di alcune delle note (4 contro 7), sfruttando ripetizioni e combinazioni di questi segmenti musicali si possono ottenere sequenze musicali molto simili a suonate di Chopin, ma anche valzer e mazurche. Forse la materia è fatta anche di vibrazioni musicali, forse è per quello che la musica ci rilassa, ci eccita, ci trasforma. Di fatto non sappiamo di cosa è costituito l’essere umano: la definizione di materia ci sfugge pur essendone composti. E anche sulla concezione di spazio e tempo, nei quali siamo immersi, le idee non sono chiare. Con Einstein si è realizzato un grande cambiamento nel modo di pensare circa lo spazio e il tempo: l’equazione della relatività stabilisce che se la massa dei corpi in movimento varia a seconda della velocità, allora nuove dimensioni dello spazio-tempo vengono definite dalle interazioni della massa variabile con il campo di energia. Per Einstein spazio e tempo non sono più quantità assolute e distinte, di valore primordiale come aveva supposto Newton, ma intrinsecamente relative, per cui lo spazio non è assolutamente distinguibile dal tempo; sono gli eventi di interazione tra energia e materia che determinano dimensioni variabili dello spazio-tempo nell’universo. Sembra quindi che lo spazio-tempo si comporti come un “fluido virtuale” rispetto al quale può essere definito il moto di un corpo isolato. Persino lo spazio vuoto (anche se, è bene ricordarlo, il vuoto assoluto non esiste) ha una sua specifica struttura geometrica. Allo stesso tem-

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Ludovico Polastri po però è la materia a dare allo spazio-tempo la struttura geometrica che osserviamo, e quindi esso non è indipendente dal suo contenuto. Purtroppo le distorsioni dello spazio-tempo, funzioni della velocità a cui sono soggette le masse dei corpi in movimento, generano inammissibili paradossi logici a tutt’oggi irrisolti. Il più famoso è il cosiddetto paradosso dei gemelli. Trattasi di un esperimento mentale in cui si suppone che uno dei due gemelli resta a terra e l’altro naviga nello spazio ad una velocità che si approssima sempre più a quella della luce; dato che C=S/T, se la velocità dell’astronave aumenta, il valore del tempo sull’astronave deve diminuire, deve cioè rallentare il ticchettio dell’orologio del gemello in volo rispetto a quello del gemello rimasto a terra. In tal caso, quando il gemello volante torna a casa, trova il fratello molto più vecchio di lui. Lo stesso effetto si otterrebbe se il gemello viaggiasse in prossimità di un buco nero che, data la sua enorme gravità, ne rallenterebbe il tempo. Questo tipo di concetto non è nuovo: basti pensare al paradosso di Achille e la tartaruga formulato da Zenone d’Elea (480 a.C.), che impediva al veloce Achille di sorpassare la tartaruga perché, prima di raggiungerla, avrebbe dovuto

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Quid est homo arrivare alla metà della distanza tra lui e la tartaruga; ma se si suppone di poter dividere un segmento dello spazio all’infinito, Achille non potrà avere altro che un tempo infinito per raggiungere l’infinitesima suddivisione della distanza che lo separa dalla tartaruga. Il paradosso dei gemelli, come quello della tartaruga irraggiungibile, evidenziano come alcuni ragionamenti scientifici, apparentemente coerenti, portino a conclusioni paradossali. Sono esempi che restano perciò una sfida alla ricerca di nuovi modelli concettuali di revisione del ragionamento scientifico precedente che, pur sembrando per molti aspetti logico, applicato rigorosamente, diviene irrazionale anche nei riguardi del senso comune. Un evidente errore comune ai due paradossi della tartaruga ed Achille ed a quello dei gemelli consiste nel trattare entità quali lo spazio ed il tempo come assolute, e poi pensare di renderle relative tra loro. Ogni entità infatti, per essere considerata assoluta, dovrebbe anche essere assolutamente distinta dalle altre e quindi non potrebbe poi essere relativizzata. Secondo alcuni scienziati, poiché la nostra mente deve scindere gli eventi nella loro successione, ne determina anche lo scorrere temporale, scorrere che

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Quid est homo non esisterebbe se fossimo in grado di percepire l’insieme delle informazioni che ci arrivano contemporaneamente. “ Vi è una grave discrepanza tra il flusso del tempo della nostra esperienza e le teorie scientifiche, mirabilmente esatte, del mondo fisico per le quali il tempo è fermo… c’è qualcosa di difettoso, sconcertante, che va risolto” (K. Popper). Il paesaggio cambia, mutano le forme, gli uomini invecchiano e muoiono. Che la terra divenga ed il tempo scorra appare evidente osservando gli stessi strati geologici, i fossili; tuttavia paradossalmente, scientificamente, tutto è fermo! La discordanza, ora insolubile, tra l’esperienza quotidiana e la “mirabile certezza” (Einstein) scientifica del tempo non fluido, bloccato, pare verrà risolta abbastanza presto dalla fisica postmoderna. Si è arrivati ad ipotizzare dunque il tempo fermo, il block time. La mente è strutturata così da percepire il mondo esterno in modo diverso da quello che è in realtà; i colori, i suoni non esistono esternamente, essi sono il risultato di elaborazioni mentali: vibrazioni esterne vengono visualizzate o sonorizzate nella mente; la molteplicità delle cose pare sia fornita dal nostro meccanismo conoscitivo là dove l’universo è unitario, non frammentato. Forse la mente non è lo strumento adatto per descrivere il mondo. I neurofisiologi sanno che il cervello è una macchina che trucca il tempo, pare possieda una prospettiva del tempo diversa dalla regola dello svolgersi ordinato: causa-effetto, stimolo-reazione. Il cervello reagisce a stimoli esterni non percepiti, ritarda o anticipa il dato della esperienza cosciente, gioca con la simultaneità, proietta gli eventi all’indietro nel tempo. Gli eventi soggettivi temporali vissuti più o meno velocemente sono il prodotto interpretativo del cervello. E’ quanto afferma anche la “legge di Weber”, dal nome del fisiologo tedesco che, introno alla metà dell’800, notò che la variabilità della misura del tempo nei singoli individui dipende da un coefficiente di variazione costante: ognuno di noi ha una scala del tempo che è simile sia che si misurino intervalli di breve durata sia che siano più lunghi. In sostanza la scala del tempo sembra essere scritta su una specie di “regolo”, di nastro, che può venire disteso per far sì che abbracci ogni intervallo di tempo, dai secondi ai giorni. Il “regolo”,

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Ludovico Polastri non fornisce una misura oggettiva ma “elastica”, soggettiva, diversa da individua ad individuo, pur avendo una costanza individuale. Nei malati di Parkinson, per esempio, si verifica una perdita dell’accuratezza nella stima del tempo; questa distorsione viene curata somministrando sostanze come la dopamina. H. Bergson riteneva il tempo della esperienza soggettiva costruito dalla mente. “Il mondo non fluisce, esso semplicemente è” (Weyl). Anche per la logica buddhista tutto è senza il fluire del tempo, senza estensione spaziale; nascere e morire è un’illusione; è illusione la stessa paura di morire (Buddha). I mistici, da sempre, vivono questo mondo come illusione, vocazione oggi anche della fisica moderna. Già si può intravedere a questo punto, con la sola fatica scientifica, quel limite temporale che da tempo è patrimonio conoscitivo dei mistici. Quando il tempo viene tagliato, da questo punto, che potremmo dire un punto di crisi, di singolarità, irrompe l’aldilà manifestandosi come “contemporaneità del principio e della fine”. Forse il tempo è solo una vasta contemporaneità. Lo scorrere è soltanto al livello della nostra attuale coscienza che vive nelle cose. Secondo l’immagine indiana, il tempo non è come la freccia che parte da un punto per arrivare ad un altro ma è come l’acqua del lago nel quale solo la superficie increspata dal vento cambia continuamente. Il lago sembra mutare ma in realtà l’acqua, e specialmente l’acqua profonda, non muta e tutto è compresente. Per questa via si scopre il tempo “sacro”, quello dell’aldilà. Ecco perché il calendario romano era presentato dai “pontificies” e dopo di loro fu presentato dal “rex sacrorum”, proprio perché il tempo di là, qualora venga percepito da noi, è cosa sacra che appare ed avvia alla nostra salvazione. La conclusione in definitiva a cui arriviamo è che nulla può essere definito come certo, che noi ci muoviamo e siamo, di fatto, incompleti o forse non sufficientemente evoluti per riuscire a comprendere chi siamo e quale è il nostro ruolo in questo enorme disegno nel quale siamo giocoforza incastrati. Il salmista attraverso il salmo 8 chiede lumi a Dio: ”che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?”. La risposta tuttavia non arriva. Una domanda a cui la religione non è mai riuscita a dare una risposta, una domanda inevasa che ci porta ad

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Ludovico Polastri interrogarci fino nel nostro profondo inconscio. Non solo. A queste considerazioni si aggiunga il fatto che la nostra esistenza si svolge in una zona dell’universo con limiti fisici ben definiti, confini che i matematici ed i fisici hanno cercato di tradurre in equazioni, ipotesi, verifiche sperimentali. E’ noto ormai a tutti che la velocità massima esistente è quella della luce e che oltre questo limite non è possibile andare perché, spiega Einstein, una resistenza si oppone sempre ad un movimento. La velocità della luce trova dunque la sua definitiva resistenza in quel punto che acconsente una velocità di circa 300.000 chilometri al secondo, che è la massima raggiungibile nel nostro universo o, come ipotizzano alcuni cosmologi, nell’universo che noi abitiamo. Questa ulteriore realtà sarebbe ancora una realtà materiale, pur con un concetto di materia diverso dal nostro attuale, una materia più sottile, che potrebbe ulteriormente sottilizzarsi, e così all’infinito sempre più in là dell’aldilà attraverso i superamenti dei vari limiti di equilibrio. Le cose che vediamo non sono l’immagine vera e reale dell’universo, ma solo una densificazione, un simbolo, le cui apparenti dimensioni spaziotemporali sono pure scientificamente crollate perché legate a sistemi di riferimento e dipendenti dal loro stesso movimento, come ci è stato recentemente dimostrato. L’uomo è dunque inserito in quello che può essere chiamato, usando un concetto di Max Muller, un “realismo relativo”. Non potendo dunque essere certi dei dati immediatamente forniti dal mondo esterno, si presenta abbastanza problematica la speranza di conoscere i dati fondamentali di questo mondo, e più problematica ancora quelli di una eventuale realtà non visibile, sia pure attraverso la sua immagine simbolica. Ed allora, in questa totale frana conoscitiva, che cosa resta come dato sicuro di conoscenza? Cosa resta in definitiva all’uomo se le immagini esterne non reggono, se anche il contenuto di verità dell’immagine simbolica viene compromesso?

Esistere: l’unica certezza dell’uomo L’unico dato conoscitivo, forse l’unica certez-

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Quid est homo za che possa essere affermata come certa, al di fuori di ogni immagine esterna fallace, di ogni condizionamento biochimico, di ogni limite per quanto riguarda il numero delle nostre cellule cerebrali e via dicendo, è l’esperienza del nostro esistere: l’esperienza di “esserci”. Questo elemento pare sia l’unico che permetta di aprire uno spiraglio alla speranza di conoscere qualcosa di sicuro. “C’è verità solo nell’esserci e nell’esistere del mondo”, ci ricorda Heidegger. E’ vero che anche questa esperienza ha la sua base biologica, biochimica, tuttavia noi sentiamo che il fatto di “esserci” è un fatto profondamente vero, disarticolato dai mediatori chimici del nostro corpo o dal numero di cellule cerebrali. Dall’ interno di questa radicale esperienza comune a tutti gli uomini, esperienza che parte dall’”esserci”, si muove un grumo psichico che si svolge ed appare rivestendosi, alla fine, dell’immagine simbolica. Il simbolo, in qualche modo, raffigura e racchiude in una immagine nota, perché mutuata dall’esterno, questa interna esperienza dell’”esserci”. In ogni caso si può dire pertanto che, attraverso questa via, si affondano le proprie radici nell’essere. E’ come se, da una matrice profonda, una energia psichica si mettesse in azione, proprio nel momento in cui mi accorgo di “esserci” e me ne stupisco: “esplosione della mente” (Milarepa). Energia che sento operante e che si riveste di una immagine per potersi presentare alla ribalta del nostro conoscere. Immagine certamente mutuata dall’esterno, legata ai contenuti culturali dell’epoca dalla quale l’immagine è stata presa a prestito; tuttavia immagine idonea ad esprimere la misteriosa esperienza dell’”esserci” ed a ricondurci all’essere. Ogni percezione, pensiero, emozione, azione, veglia, riposo, sogni, illusioni e quant’altro sono cose vere, non tanto per il significato, sempre discutibile che racchiudono o per il traguardo, sempre opinabile, cui mirano, ma sono vere in quanto oggettivamente esistenti. Ciò che è comunque importante sottolineare è l’energia psichica originaria, quella che è messa in moto nel momento in cui ci accorgiamo di esserci. Questa energia psichica è infatti il dato concreto autonomo, condizione della nostra maturazione, probabilmente della nostra stessa evoluzione. Essa appare alla coscienza e questa ne resta affascinata come se la coscienza fosse

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Quid est homo immersa nel sacro, nel “numen”, “visitata dagli dei”: “la verità dell’essere è la dimora dell’uomo” (Heidegger). L’esistere non è una struttura tra le altre, ma è la condizione stessa delle strutture, fondamento unitario sul quale si manifestano le diverse modalità dei fenomeni. “Nell’universo è impossibile pensare alla separazione tra le cose” (Hoyle). Tutto l’universo, sassi , vegetali, animali, uomini, sono sostanzialmente “essere unitario che è la vera realtà” (Upanishad). Noi apparteniamo all’esistere come le onde appartengono al mare. Non c’è nulla fuori dall’esistere. Non possiamo uscire o separarci dall’esistere totale dell’universo come le onde non possono separarsi o uscire dall’oceano. Neppure per un istante l’albero ha esistenza a sé, autonoma: la pioggia bagna le foglie, il vento scuote le fronde, il suolo lo nutre, le stagioni, la luce, il sole, la luna, svolgono il loro compito nel vortice dei molti influssi legati all’essere unitario. Chi è pervenuto a comprendere la totalità dell’esistere “è qualcosa di più di sé stesso”, “pensa più di quanto pensi” (Levinas). “Per l’uomo la cui consapevolezza abbraccia l’universo, questo diventa il suo corpo” (Govinda). In questa profondità, superata ogni dimensione limitata, ci ritroviamo nel comune dato sostentatore di tutto l’essere, che del resto ci riguarda anche personalmente. Il dato luminoso dell’”esserci” ci permette dunque di superare tutti i limiti, e permette altresì di radicarci in un vasto fondamento esistenziale di verità, l’unico sentito direttamente come tale. I simboli, i loro significati, le religioni hanno un ruolo, non tanto di verità, perché essa è mistero impenetrabile, quanto piuttosto un ruolo vitale. I simboli religiosi servono, cioè, per poter vivere in attesa di morire.

Ludovico Polastri È laureato in ingegneria meccanica all’Università di Brescia. Ha conseguito la specializzazione post lauream presso il Politecnico di Milano e effettuato corsi di specializzazione in ambito: Produttivo, Certificazione dei Sistemi Qualità e Ambientali Azienda-

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Ludovico Polastri Studiosi moderni, storici delle religioni legano il senso, l’esperienza dell’esistere unitario all’idea del cosiddetto sacro. Oggi si parla di esperienza del sacro quando stupito, meravigliato, improvvisamente m’accorgo di “essere al mondo” nell’esistere unitario dell’universo: “mysterium fascinans”. Sacro come fatto mentale, non dunque posto al di fuori ma emergente dal fondo insondabile dell’esistenza stessa. I teologi sono spiazzati. Forse, per vivere, a noi basta quel poco di penetrabilità nel mistero che è possibile e questo, con ogni probabilità, è anche troppo per noi. Attraverso di noi, quindi, con lo strumento della interiore intuizione, potremo arrivare alla comprensione, all’esperienza dell’essere. Viene così sperimentata una realtà più profonda, immutabile, a-temporale, alla quale si arriva dolcemente, senza sbalzi, gradini o fratture, senza l’esperienza della morte; si apre all’esperienza una realtà più vasta, o meglio è lo spirito che prende coscienza della sua reale natura, aprendo orizzonti illimitati. La realtà non è più illogica, fratturata, avulsa dagli schemi del mondo. Il nostro spirito, pur nella maggiore o minore densità, risponde ad una armonia totale, della quale noi siamo sereni cittadini sia nel denso che nel sottile, sia immersi negli inferi dell’universo, sia nel cielo terzo di cui parla S. Paolo scrivendo a quelli di Corinto, ove udì “parole ineffabili, le quali non è lecito ad un uomo alcuno di proferire“. Diceva Confucio: “Poiché il cielo mi ispira, nessuno può nulla contro di me”. Dunque a questo punto non ha più senso parlare di oggettivismo contrapposto ad un soggettivismo. Nella realtà è vero che ci sono distinzioni di comodità discorsiva ma, alla radice, la sostanza è unica ove tutte le distinzioni sfumano ed i paradossi trovano la loro conciliazione.

li, Organizzazione e Gestione Aziendale. Ricopre da molti anni ruoli di responsabilità in ambito tecnico, produttivo e impiantistico per conto di importanti realtà aziendali. Si occupa inoltre di aspetti normativi e legali inerenti la sicurezza e la prevenzione sui luoghi di lavoro. Ricercatore indipendente e giornalista free lance, collabora per diverse testate giornalistiche.

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GIORGIO PATTERA

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Assenzio, la pianta dai mille segreti

FOTO: ARTEMISIA ABSINTHIUM (FONTE: WIKIPEDIA)

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racciare la storia dell’assenzio è come ripercorrere una parte del cammino dell’Uomo, dall’erboristeria alla farmacopea e fitoterapia, dalla mitologia all’arte e alla letteratura1. Un esempio? In una scena del noto dramma shakespeariano Amleto grida: «Assenzio, assenzio!», forse alludendo ad una delle proprietà di questa pianta che, se assunta in quantità eccessive, porta all’absintismo cronico. Questa patologia, causata appunto dall’uso continuo e smodato di liquori a notevole concentrazione di assenzio, conduce alle stesse gravi conseguenze dell’alcolismo: affezioni gastriche, epatiche, renali, allucinazioni, impotenza, epilessia; per questo, forse, Amleto cita l’assenzio come sinonimo di pazzia… Ma facciamo un passo indietro e un po’ di 1) Si ringrazia la Prof. Rosamaria Massa per il prezioso supporto letterario

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storia. Artemisia absinthium (questo il nome latino, famiglia delle Composite) è una pianta semiarbustiva, vivace ed elegante, dalla radice perenne e dalle foglie vellutate color grigio-argento, dentellate e lanceolate, che può raggiungere il metro d’altezza e vivere fino a dieci anni. Vegeta ovunque (in Italia, Europa e bacino del Mediterraneo), dalle prossimità dei giardini, ove un tempo veniva abitualmente coltivata, fino ai 2000 m. d’altezza; i fiori (gialli, emisferici e numerosi) sono riuniti in grappoli di piccoli capolini reclinati. Fin dai tempi più antichi, l’assenzio era conosciuto ed apprezzato per le sue proprietà disinfettanti ed anestetiche: se ne trova la prima traccia in un papiro egizio risalente al 1600 a.C. Già utilizzata fin dai tempi di Ippocrate (V° sec. a.C.), gli antichi Greci consacrarono questa pianta officinale ad Artemide (da cui, appunto, Artemisia), dea della fertilità: accostamento del tutto

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Assenzio, la pianta dai mille segreti appropriato, se consideriamo che la moderna fitoterapia consiglia l’impiego dell’assenzio nei casi di amenorrea giovanile, essendo stato isolato in essa un olio essenziale emmenagogo (absintolo o thujone2). Se ne deve evitare l’assunzione, tuttavia, durante l’allattamento, in quanto il principio amaro in essa contenuto (absintina) passa nel latte, rendendolo inappetibile: «Amaro come l’assenzio», recita infatti un vecchio detto del popolino, che l’additava istintivamente come termine di paragone per indicare qualcosa di veramente amaro. Più tardi, Dioscoride (altro medico greco - I° sec. d.C.), oltre a riconfermare le innumerevoli e benefiche proprietà di questa utilissima pianta (se usata “cum grano salis”), ne allargava le possibilità d’impiego anche come repellente contro gli insetti; il succo fresco infatti, cosparso sulla pelle, tiene lontano mosche, tafani, zanzare, api e formiche: l’antenato del nostro “Autan”, insomma…3 Ma l’assenzio non serve solo ad alleviare i fastidi che gli insetti procurano all’uomo. Se vivessimo ai tempi di Nicolas Lémery (1737), botanico francese, sapremmo come fare per disinfestare il nostro cane dalle pulci: lavarlo con l’acqua tiepida ottenuta dalla bollitura, per un’ora e mezza, d’una manciata d’assenzio. Nei giardini, poi, l’infuso d’assenzio (disperso con l’annaffiatoio o polverizzato con la pompa) si rivela un insetticida efficace contro afidi, bruchi, cocciniglie e parassiti alati; questo come rimedio naturale per contrastare l’abuso dei “pesticidi” chimici, velenosi per l’uomo e gli animali. Anche i Celti e gli Arabi raccomandavano l’uso dell’assenzio, ed i medici dell’antichità lo reputavano un vero e proprio toccasana, grazie alle sue molteplici proprietà terapeutiche. Nel 1588, Tabernaemontanus (medico e botanico tedesco, che raccolse nella sua opera Eicones Plantarum più di 3.000 piante) ne consigliava l’assunzione alle persone “di cattivo carattere”: preludio dei rimedi omeopatici? E’ talmente 2) Così chiamato per essere presente anche in una Cupressacea, la Thuja occidentalis 3) Una curiosità: per chi volesse conoscere tutto, ma proprio tutto (per quell’epoca) sull’assenzio, basta consultare un codice miniato di Dioscoride, risalente al secolo XIV, gelosamente custodito nella biblioteca del Seminario Vescovile di Padova.

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Giorgio Pattera amaro, infatti, che nelle Sacre Scritture simboleggiava le vicissitudini e i dolori della vita, identità che si sposa perfettamente con l’etimologia greca del termine: apsinthos infatti significa “spiacevole”. Occorreva avere molta fiducia nella sua efficacia per tollerarne il sapore sgradevolissimo; ma la saggezza popolare ammonisce: “amaro in bocca, dolce al cuore”… Ma veniamo a tempi più recenti. L’assenzio, “l’erba santa” degli antichi, conosciuta anche nella tradizione popolare come “l’erba da vermi” (per le sue note proprietà antielmintiche, contro gli Ossiuri), ha dato il suo nome ad una bevanda alcolica egregiamente nociva, della quale i personaggi di Emile Zola fanno grande uso: il famoso (o meglio famigerato) Absinthe. “Le péril vert” (“il pericolo verde”, così era chiamato in Argot) accompagnava la vita dei bohèmiens che solevano radunarsi, per esempio, in quel Café Momus descritto da Henry Murger ne “La vie de Bohème”, che Puccini metterà in musica. Anche Baudelaire, il precursore dei Poeti maledetti, lo cita spesso nei suoi “Fleurs du mal”, e addirittura uno dei maestri dell’impressionismo francese, Edouard Manet, lo ha immortalato in un quadro del 1876, intitolato appunto “Buveur d’absinthe” (“Il bevitore di assenzio”). L’opera suscitò un deciso scandalo e venne rifiutata dal Salon anche perché, come modello, l’artista si avvalse di un vero clochard e il trasfigurato realismo dell’immagine sconcertò la giuria. Si dice che anche Vincent van Gogh ne facesse largo consumo e che le immagini distorte caratterizzanti le sue opere, oggi di valore inestimabile, siano state in qualche modo “ispirate” dallo stato alterato di coscienza in cui il grande pittore olandese cadeva, forse dopo gli eccessi con tale bevanda. Proprio per questo l’Absinthe, che spesso veniva chiamato più sbrigativamente “il liquore di van Gogh”, con un gioco di parole e d’assonanza andava ad identificare una personalità, in quel momento, absente (assente). Autentico flagello degli inizi ‘900: si pensi che il consumo di questo liquore, preparato con l’essenza tossica e convulsivante contenuta nella pianta e denominata “fata verde”, passa dai 6.713 ettolitri del 1873 ai 360.000 del 1911! Molto di ciò che la fine del nostro secolo ha attribuito alla droga, la fine dell’Ottocento l’attribuì all’assenzio. La differen-

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Giorgio Pattera za è che, per quanto riguarda l’Ottocento, sappiamo come andò a finire... Ironia della sorte: una delle tantissime indicazioni del succo d’assenzio lo vuole come rimedio contro… l’ubriachezza, mescolato a miele ed acqua calda. Per lungo tempo, nei secoli scorsi, l’infusione vinosa di assenzio si è rivelata estremamente utile nel trattamento delle febbri intermittenti e recidivanti (es. malaria), risultando efficace nei casi in cui l’impiego del chinino4 non riusciva ad evitarne le ricadute. Spesso la popolazione più povera ricorreva a questo succedaneo, non essendo in grado di permettersi l’acquisto del chinino a causa del suo elevato costo, determinato dalle difficoltà di lavorazione. Per questo, agli inizi del ‘900, il nostro Ministero dell’Interno provvide a distribuire il chinino a prezzo ridotto e ne rese obbligatoria la somministrazione, dal 1900 al 1923, ai lavoratori delle “zone malariche”. Qualche lettore ricorderà senza dubbio che le vecchie insegne delle tabaccherie riportavano, oltre alla classica dizione “Sali e Tabacchi”, anche quella “Chinino di Stato”. Trattiamo ora, a completamento della “carta d’identità” dell’assenzio, l’impiego che più d’ogni altro ha contribuito alla diffusione di questa pianta dalle insospettabili risorse, tanto da essere coltivata su vasta scala (la richiesta è notevole) ed iscritta nelle farmacopee italiana, francese, tedesca e svizzera. Ci riferiamo ovviamente alla produzione di liquori, spina nel fianco per la legislazione di quasi tutti gli Stati, tanto da portare alla proibizione della preparazione di bevande alcoliche a base di olio essenziale (absintolo) da parte di molti Paesi (Italia e U.S.A. compresi). Ma perché tanta cautela nei confronti dell’assenzio, se poi se ne decantano le straordinarie virtù terapeutiche? E’ presto detto. Come abbiamo visto, nella pianta d’assenzio coesistono due “principi attivi”: un olio essenzia4) Estratto dalla corteccia di alcune piante del genere Cinchona, della famiglia delle Rubiacee, importate intorno al 1640 in Spagna dall’America e le cui proprietà febbrifughe erano già ampiamente utilizzate dagli Amerindi. Grazie ai Gesuiti il medicamento si diffuse rapidamente anche in Italia.

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FOTO: ABSINTHE, LOCANDINA PUBBLICITARIA

le (absintolo o thujone) ed una sostanza amara (absintina). Il primo, se impiegato a dosi terapeutiche (= in modiche quantità), è un ottimo tonico dotato di eccellenti proprietà digestive, ma a dosi elevate è estremamente tossico e nocivo per il cervello, instaurando tremori, sguardo smarrito, oblio, offuscamento del raziocinio, distacco dalla realtà. La seconda invece (absintina) assolve le funzioni tonico-stomachiche, stimolando l’appetito e combattendo l’atonia digestiva e la dispepsia psicosomatica. Ma allora, qual è il segreto per “scindere” (nelle nostre case, così come nelle distillerie) le due componenti? Facile a dirsi, ma in pratica occorre fare molta attenzione: nelle preparazioni acquose (tisane, decotti, infusi) l’absintolo è scarsamente presente, in quanto l’acqua (anche se bollente) non riesce ad “estrarre” più di tanto l’olio essenziale; fermo restando che, anche

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Assenzio, la pianta dai mille segreti in questo caso, non si devono superare le dosi consigliate. Al contrario, in liquoreria la “forza” dell’alcol è in grado di fissare una percentuale di absintolo molto maggiore rispetto all’acqua, per cui le preparazioni non devono essere assunte in abbondanza o di continuo, ma solo ogni tanto o in caso di necessità. Ricordiamo che in tedesco “Wermut” significa assenzio, in quanto per la preparazione di questo notissimo liquore (così come per aperitivi ed amari in genere) si utilizza proprio questa pianta, ma badando bene di aggiungere solo la sostanza amara e non l’olio essenziale; inoltre, per maggior sicurezza, viene di solito impiegato l’Assenzio pontico (Artemisia pontica = del Ponto, l’odierna Anatolia), dal contenuto assai minore del principio attivo in oggetto. O almeno si spera sia così…5 Due spigolature per chi viaggia: le regole 5) A partire dal 1983 l’assenzio torna allo scoperto e, al confronto con i veleni che circolano, in quasi completa innocenza. Questo grazie alla biologa molecolare francese Marie-Claude Delahaye, che ha realizzato un museo dell’assenzio a Auvers-surOise, il villaggio dove è sepolto Van Gogh.

Giorgio Pattera Nato il 20 maggio 1950 a Parma, dove ha lavorato per 16 anni presso i Laboratori d’Analisi dell’Azienda OspedalieroUniversitaria, come Tecnico d’Indagini Bio-Mediche; attualmente è distaccato in Direzione Sanitaria, ove ricopre la funzione di Capo-Tecnico Coordinatore. È laureato in Scienze Biologiche, iscritto all’Ordine Nazionale dei Biologi dal 1995 e, dal settembre 2004, all’Albo dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti di Bologna. Nel 1988 riceve dal Prefetto di Parma il Decreto Provinciale di Guardia Ecologica Giurata Volontaria e, nel 2000, ottiene il riconoscimento dell’Assessorato Regionale Ambiente dell’Emilia-Romagna, per la permanenza ultradecennale nel volontariato del servizio di vigilanza ecologica. Appassionato di esobiologia (ricerca e studio di possibili forme di vita extraterrestre), è iscritto dal 1980 al C.U.N. (Centro Ufologico Nazionale), di cui dirige la sede

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Giorgio Pattera mediche della “Scuola Salernitana” consigliavano l’assenzio come preventivo del mal di mare, mentre per calmare il mal di denti occorre masticarne le radici. Provare per credere… Bibliografia: • D.Manta/D.Semolli – LE ERBE NOSTRE AMICHE (vol.III) – Ferni, Ginevra, 1976 • I.Frattola – PIANTE MEDICINALI ITALIANE – Signorelli 1977 • G.Lodi – PIANTE OFFICINALI ITALIANE – Edagricole 1978 • P.Lieutaghi – IL LIBRO DELLE ERBE – Rizzoli 1981 • P. & I. Schönfelder – ATLANTE DELLE PIANTE MEDICINALI – Muzzio 1982 • J.Valnet – FITOTERAPIA – Giunti Martello 1984 • R.Evans Schultes – MEDICINES FROM THE EARTH – Vallardi 1984 • Platearius – LE LIVRE DES SIMPLES MEDECINES – Garzanti 1990 • P.Lanzara – PIANTE MEDICINALI – Orsa Maggiore 1997 • P.Rigotti – CENT’ERBE – Libritalia 2003

di Parma dal 1982; cura la catalogazione informatizzata degli avvistamenti UFO (dal 1947 a oggi) su tutto il territorio provinciale, di cui è il Responsabile. Membro del Consiglio Direttivo del CUN, dal 1999 Direttore Tecnico del Comitato Scientifico, per le ricerche sul campo e le analisi di laboratorio. Fa parte della Commissione scientifica “CSA”, creata allo scopo di studiare il fenomeno “abduction” in ogni sua manifestazione. Affianca le Autorità (Carabinieri, Polizia Municipale) durante le indagini atte a smascherare la diffusione di “avvistamenti” falsi e di notizie atte a turbare l’ordine pubblico; presiede numerosi Convegni, Congressi e Conferenze, sia in ambito nazionale che internazionale.

UFO: vent’anni di indagini e ricerche PPS Editrice, 2011

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MASSIMO CENTINI

Umano, transumano, postumano Antropologia del nuovo millennio

FOTO: STUDIO E SVILUPPO DI UN ESOSCHELETRO

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al XVIII secolo il corpo umano cominciò ad essere paragonato ad una macchina; poi, nel XIX secolo, con l’affermarsi del modello industriale, il congiungimento tra naturale e artificiale fu accelerato. Ha avuto così inizio quel processo che condurrà ad avvicinare sempre più biologia e tecnologia, dando sostanza a una nuova dimensione antropologica che definiamo postumana, entro la quale l’uomo si allontana sempre più dai limiti della sua specie, perseguendo una perfezione in cui la tecnica risulta dominante. L’idea secondo cui creatura animale e macchina siano sistemi dinamici con parti comunicanti e collegamenti retroattivi rende più vaga la distinzione tra organico e inorganico, tra vivo e non vivo, sfaldando così alcune certezze fisiche e metafisiche poste alla base dell’antropocentrismo. Il primo tassello del modello antropologico postumano è costituito dalla chirurgia estetica.

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“Rifarsi” è un tentativo oggettivo di ottenere un risultato diverso da quello naturale, e quindi intervenire concretamente al fine di cambiare il nostro apparire, rispondendo a istanze culturali determinate dall’ambiente sociale. Dai ritocchi per mascherare gli effetti dell’invecchiamento, all’imeneplastica a garanzia di una nuova verginità, l’intervento estetico sul corpo costituisce per molti aspetti un affronto alla natura. Proust scriveva che “Il viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. Guardare quindi in modo diverso quanto ci circonda, per andare oltre il totalitarismo del significante e scorgere significati “altri”, diversi, ma non per questo falsi. Anzi, probabilmente, sta proprio nella variazione dell’angolo di lettura la possibilità di scorgere, forse, la realtà. Una realtà che però spesso non corrisponde alla verità, ma dimostra come tutto possa diventare un velo, uno strumento per interfacciare l’apparenza con

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Umano, transumano, postumano l’essere secondo coordinate che sono elusivo dominio delle consuetudini sociali, in una dialettica in cui tutto diventa “post” o “pre”, e il presente, come la presenza (termini strettamente legati sul piano etimologico, ma non nel significato) è continuamente provvisorio, quasi un flash che stordisce e rimanda ad un “poi” spesso inesistente. Questo è il background in cui l’apparenza trova il modo per esprimersi completamente in un mondo che non c’è. Sulla base di considerazioni di questo tipo abbiamo modo di constatare che perseguire l’apparenza ha due dirette conseguenze: 1. la sua importanza e il suo ruolo nei rapporti socio-culturali; 2. i nuovi modelli di conoscenza dovuti, da sempre, allo stordimento, prodotto dell’esclusiva osservazione dell’apparenza. L’apparenza diventa così il materiale fondamentale all’interno del processo di socializzazione; non è una scoperta recente, risale a molto tempo fa, anche se oggi sembra frutto dell’ipercomunicazione onnipresente ed invasiva. In particolare, tra i sociologi è spesso in uso la metafora della vetrina: tutto finisce per essere esposto all’osservazione dell’altro, e di conseguenza presentato con toni che ne enfatizzino le effettive valenze. Naturalmente, la chirurgia estetica è solo il gradino più basso dell’ingegnerizzazione dell’umano che conduce verso la creazione di nuovi modelli antropologici. Ci rendiamo quindi conto che la fase del cosiddetto transumanesimo è ormai alle spalle: siamo infatti entrati in quella del postumano, che ha fatto propri i principi filosofici della fase precedente. Principi che possono essere estremizzati in un concetto molto semplice: la condizione umana deve essere migliorata con l’ausilio di tutti gli strumenti offerti dalla scienza e dalla tecnologia, al fine di irrobustire la nostra specie e fare in modo che possa reagire, con mezzi non naturali ma integrati nell’uomo, alla malattia e all’invecchiamento. Il passaggio è teoricamente lineare: Tecnologie di miglioramento ↓ Uomo → Uomo transumano → Postumano.

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Massimo Centini Le tecnologie “di miglioramento” possono essere di tipo cibernetico, che consentono di implementare il corpo umano potenziandone le funzioni biologiche. A queste se ne aggiungono altre più moderne, costituite dalle molteplici possibilità prospettate dalle biotecnologie. Globalmente, l’aspetto che balza immediatamente agli occhi è rappresentato dalla mancanza di un’oggettiva distinzione tra naturale e artificiale: di fatto il transitional human, da cui il termine transumanesimo, coniato nel 1966 da Fereidoun M. Esfandiary (1930-2000). Il principio di base è che l’uomo possa e debba essere superato: naturalmente, devono essere opportunamente valutati gli aspetti etici e sociali che questo presunto miglioramento determina nella nostra cultura. In sintesi, secondo il modello transumano, l’umanità vivrebbe una fase post-darwiniana, nella quale gli uomini sarebbero nella condizione di controllare l’evoluzione, giungendo anche a prevenire e guidare mutazioni fino a ieri imprevedibili; i processi naturali sarebbero quindi dominio di sistemi esterni, e non più delle regole naturali. Avendo come modello di riferimento il prometeismo materialista, la ricerca della “vita perfetta”, raggiunta con tutti i mezzi esterni all’organico, suggerisce soluzioni possibili attraverso sistemi dinamici svincolati da ogni freno etico. Il modello dell’uomo creato, manipolato, ricostruito appare l’espressione più vivida e penetrante del trionfo della mathesis, di conseguenza la celebrazione della razionalità come forza capace di spiegare, organizzare, ridefinire il reale. L’abbaglio della superpotenza della scienza lascia alle regole fisiche il controllo anche di ambiti fisiologicamente dominio della metafisica. Il trompe-l’oeil della conoscenza crea finzioni e ipotesi irrealizzabili per l’uomo; con il paradigma della cultura dell’artificiale, l’uomo acquisisce un mezzo per credersi portatore di una falsa certezza di autonomia, svincolata dalla natura. Con le opportunità, le ipotesi, ma anche le illusioni della tecnologia del post umano, l’essere evoluto nega la somiglianza con il suo dio: la protesi, il trapianto, la manipolazione genetica, fino al cyborg in grado di riprodursi, sono la conferma che “quell’immagine e somiglianza” accomunante l’uomo al suo creatore è espressione arcaica nell’epoca del postumano.

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Massimo Centini La creatura considerata il più alto risultato dell’evoluzione perde le proprie prerogative, perché sottoposta alla logica folle di una società che trasforma gli uomini in cose. Il concetto di postumano presenta quindi due aspetti: da un lato quello fisico, in cui prevale la tecnologia, il sintetico, la protesi; dall’altro quello socio-culturale, che segna come cartina al tornasole il malessere di uno status di continua perdita di valori. Nella prospettiva prometeica della trasformazione, l’essere creato ha sempre una funzione pratica, diretta, che il postumano pone con forza in evidenza. Nel vortice dell’isteria antropocentrica che domina i nostri tempi, gli uomini sono gradatamente ridotti, dentro e fuori, a cose, mentre, paradossalmente, l’universo inorganico diviene territorio privilegiato della tecnologia elettronica, raggiungendo livelli tali da ambire ad una dignità umana. La creatura post-umana esprime la contaminazione tra mondi che apparentemente non avrebbero dovuto incontrarsi: essa si presta a ogni reinvenzione scaturita dall’immaginario e dall’eco del mito dell’artificiale, alimentando l’immagine dellla hybris tecnologica con toni fantascientifici. Con la chirurgia estetica l’uomo ha scoperto che il proprio corpo, al quale poteva imporre modificazioni con la maschera e l’abito, è materia plasmabile, adattabile fittiziamente alle esigenze dell’affabulazione di un’apparenza governata dalla manipolazione. Questa modificazione del corpo conduce ad una sorta di decomposizione culturale, in cui a rimetterci è l’identità: il postumano è quindi la risposta socio-tecnologica alla presunzione che l’uomo cela con sempre minor pudore, cioè quella di possedere gli strumenti, tecnici e culturali, per sostituirsi alle regole della natura. Con la complicità dell’artificiale, l’uomo si fa macchina e la macchina si umanizza, secondo le peculiarità di un modello che ieri era mito e oggi realtà. I progressi scientifici dell’informatica, fino alla biotecnica, hanno determinato indiscutibili conseguenze anche nei comportamenti sociali creando l’universo postumano, in cui tutto appare sostituibile, ricostruibile, artificiale. Da questo nostro stato sorge così una nuova

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corporeità, in cui si innestano le prerogative di una società che certamente invoca la propria libertà di autoinventarsi, infrangendo ogni stereotipo. E così, l’epoca postumana corrisponde anche all’abbattimento di valori e di punti di riferimento che, pur nel dedalo dell’effimero, risultano i segni di una mutazione inarrestabile, incontenibile. Senza dubbio, concetti come “trans” e “post” connessi all’umano pongono in discussione l’immagine naturale della nostra specie, ipotizzandoci come creature “migliorabili”, facendo sì che la linea di demarcazione tra essere vivente e macchina sia sempre più sottile. Il tecnottimismo spesso prevale, oscurando aspetti antropologici e psicologici che sono l’indicatore oggettivo del nostro reale modo di porci nei confronti di una condizione ancora non metabolizzata pienamente dalla società. Due i piani del postumano: 1. piano ontologico: ibridazione determinata dall’unione tra organico e inorganico; 2. piano epistemologico: alterazione del confine Natura/Cultura. Il sogno di una transizione, perseguito dal

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Umano, transumano, postumano pensiero postumanista, non è comunque così facile da concretizzare senza derive; infatti, come osserva Roberto Marchesini, “non si può superare l’umanesimo pensando di attualizzare gli obiettivi umanistici”. Osservazione precisa, che oggi sembra però aggirabile dalle proposte della scienza, che indica accessi diversi per entrare nell’organico e conformarlo a modelli che hanno la loro origine nella tecnologia. Anche in tale condizione il passaggio da una fase a un’altra persegue un meccanismo evolutivo: fase 1: corpo smontabile, parti anatomiche sostituibili con altre artificiali, miglioramento delle prestazioni fisiche; fase 2: corpo rafforzato con innesti che ne accentuano le potenzialità percettive e contemporaneamente ne consentono un maggiore controllo dall’esterno; fase 3: corpo relazionato a una rete di controllo, svolgendo di fatto il ruolo di terminale; è implementato con strumenti (esterni e interni) che ne facilitano la connessione con la rete di controllo.

Verso l’uomo-chimera Secondo la filosofia del postumano, le tecnologie sono comunque destinate a modificare notevolmente le performance del corpo umano, migliorandone - ma anche alterandone - le naturali funzioni. Seguendo l’impostazione umanistica, la tecnica accresce baconianamente il dominio dell’uomo sul mondo; questo assunto è però oggi in crisi. Infatti, lo sviluppo tecnico-scientifico mette in discussione l’idea di uomo come misura del mondo, smantellando in parte l’antropocentrismo, con effetti decisamente più efficaci di quelli immaginati, per esempio, dalla New Age. Con il contributo degli algoritmi genetici e dell’ingegneria proteica è possibile convergere nel “soggetto” uomo tutta una serie di procedure, per attivare la metamorfosi che conduce all’organismo-macchina. La metamorfosi antropologica non è solo questione di potenzialità, ma assume anche aspetti più profondi, culturali, destinati a porre in luce quanto sia sempre più stretta la nostra relazione

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Massimo Centini con il “non-umano”. Tra fantascienza e delirio di perfezione, la filosofia transumana auspica la realizzazione di un super-uomo, risultato finale di un processo metamorfico effettuato attraverso l’integrazione uomo-macchina. Precognizzata forse risentendo dell’influenza della tradizione fantascientifica, modulata intorno alla figura del cyborg e dei suoi miti, oggi l’ipotesi transumana prevede, intorno alla metà del XXI secolo, la “costruzione” di un uomo ibrido, ottenuta attraverso procedure hi-tech, alcune naturalmente invasive. Accanto a processi di tipo psichico e comportamentale (dal controllo dell’alimentazione alla riduzione del sonno, fino all’esercizio mentale destinato a convincere che nell’uomo non vi siano limiti inalienabili), vi sono procedure chirurgiche e non come, ad esempio l’inserimento di mini-impianti alle falangi che possono aumentare l’agilità delle mani. Tra gli altri metodi, ricordiamo la sostituzione di legamenti con tendini ricavati da altre aree del corpo, per incrementare le prestazioni di braccia e gambe. E ancora: l’applicazione di lenti a contatto di nuova generazione, oppure operazioni laser che consentono di aumentare la vista oltre i tradizionali 10/10. L’inserimento di un pacemaker neuronale che invia impulsi elettromagnetici al nervo vago e stimola le aree cerebrali che regolano l’umore. Un ministimolatore è impiantato alla base della colonna vertebrale, eccitando elettricamente i nervi collegati all’orgasmo. Nuovi impianti misti di metallo e plastica consentono di ricostruire il ginocchio, migliorando la camminata e la corsa. La metamorfosi che conduce all’uomo postumano probabilmente non avrebbe mai fine poiché, seguendo l’evoluzione tecnologica, i vari processi e comportamenti potrebbero essere oggetto di continue modifiche e miglioramenti attuati per ottenere una perfezione di fatto irraggiungibile. Il modello bionico impone all’uomo di spostare sempre più in là i propri confini, senza curarsi se il processo varca quei limiti della natura che oltrepassare può essere molto pericoloso. Non solo per il fisico, ma soprattutto per la mente. Ma ci chiediamo: tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche eticamente ammissibile, socialmente accettabile, giuridicamente corretto?

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Massimo Centini Anche se una quota di artificialità è accettata e per fortuna possibile (dalle protesi di diverso tipo al pacemaker, dalle placche metalliche a tutta una serie di “parti” sintetiche, spesso determinanti per salvare delle vite), questo patrimonio di conoscenze e di tecnologia può tracimare nel delirio di onnipotenza. Infatti, il mare magnum di modifiche, trasformazioni e correzioni ha originato una metamorfosi, che alcuni indicano come l’origine di una nuova specie destinata ad evolversi in direzione di quel modello ibrido che somiglia sempre più al cyborg. Forse, le premesse per tutto questo erano già evidenti nelle parole di Descartes, quando suggeriva l’oggettivazione del corpo e la sua riduzione a macchina: attraverso questa procedura si dava così sostanza al sapere scientifico, che poteva accrescere le nostre conoscenze. Da lì, l’affermarsi di tutta una serie di idee e preconcetti che hanno condizionato l’immaginario, determinando luoghi comuni e stereotipi profondamente adagiati nella nostra cultura. Il trauma che oggi ci travolge è determinato dalla constatazione che il passaggio dalla fantasia alla realtà è già avvenuto, scombinando così molti punti delle nostra cultura antropocentrica. Fondamentale però constatare che “la tecnica non è nata come espressione dello spirito umano, ma come rimedio alla sua insufficienza biologica […] l’uomo, per la carenza della sua dotazione istintuale, può vivere solo grazie alla sua azione, che da subito approda a quelle procedure tecniche che ritagliano, nell’enigma del mondo, un mondo per l’uomo” (U. Galimberti, 1999, pag. 34). Roberto Marchesini parla di “mito dell’incompletezza”, che indica come “un impedimento alla comprensione della natura umana esattamente come l’essenzialismo platonico si opponeva – e si oppone ancora – alla comprensione dell’evoluzionismo” (R. Marchesini, 2002, pagg. 19-21). Nella creazione di embrioni ibridi contenenti materiale genetico sia animale che umano, da molti auspicata, qualcuno ha individuato connessioni con quanto scritto nel libro di Michael Crichton, “Next”; tutto ciò lascia intravedere che la creazione di embrioni-chimera possa costituire il primo passo per entrare in un inquietante universo. Comunque, un ampio segmento dell’opinione pubblica sembrerebbe considerare positivamente queste biotecnologie, soprattutto in

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Umano, transumano, postumano

ragione del loro ruolo nella cura di malattie fino a oggi prive di terapie tradizionali. I non addetti ai lavori - quindi la maggior parte di noi - guarda però con un po’ di apprensione a queste ricerche, perché immagina che l’unione cellulare uomo-animale possa essere all’origine di una metamorfosi destinata a condurre verso direzioni di cui non conosciamo le mete. Anche in ambito scientifico c’è chi parla di “bomba biologica”, poiché intravede in queste pratiche una base dominata dal delirio di onnipotenza, che può condurre solo verso risultati con effetti molto negativi per tutti. Gli scienziati che difendono l’ibridazione fanno osservare che la componente umana dell’embrione ibrido è del 99,9%, e la piccola parte restante quella dell’animale: l’obiettivo è quello di osservare lo sviluppo dell’embrione, capire come produrre staminali per conoscere meglio l’Alzheimer, il Parkinson e trovare nuove cure per prevenire ictus, infarto, diabete. Gli esperti sottolineano che è errato parlare di chimere, o di uomo-animale; adottano invece termini come cibridi, ovvero citoplasmi ibridi.

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Umano, transumano, postumano Come abbiamo avuto modo di constatare all’inizio di questo articolo, dobbiamo osservare che il termine ibrido contiene in sé comunque elementi destinati, nella nostra cultura, a dirigere l’interpretazione verso ambiti inquietanti, perché spesso l’ibridazione viene letta, anche solo a livello inconscio, come fase di una metamorfosi che anticipa uno stadio successivo spesso negativo. Infatti, come poneva in evidenza Nicola Abbagnano, con hybris “i Greci intesero una qualsiasi violazione della norma della misura, cioè dei limiti che l’uomo deve incontrare nei suoi rapporti con gli altri uomini, con la divinità e con l’ordine delle cose” (N. Abbagnano, 1998, pag. 547). L’ordine e l’armonia normalizzano la nostra cultura e si pongono come entità inseparabili e, soprattutto, rivelano il profondo bisogno di porre un argine al divenire, individuando dei limiti ontologici, dei domini morfici e di moto, capaci di mantenere il sistema in uno stato di motilità apparente. Logica conseguenza di questa interpretazione è la tendenza a considerare il cambiamento come qualcosa che si oppone alla natura delle cose e quindi a ritenere qualsiasi mutamento pericoloso e blasfemo. Ne consegue, prendendo ancora spunto da Abbagnano, che “l’ingiustizia non è che una forma di hybris, perché è trasgressione dei giusti limiti nei confronti degli altri uomini”. Per alcuni scienziati, la hybris diventa anche l’archetipo della nostra posizione nei confronti della natura, delle nostre forme di violenza sull’ambiente praticate con l’aiuto di una tecnologia in continuo mutamento. Nella sostanza, sul piano culturale, la metamorfosi indotta attraverso gli strumenti della scienza conduce verso stravolgimenti che scardinano i nostri modelli di armonia e i nostri punti di riferimento. Secondo Roberto Marchesini, i risultati possono essere di diverso tipo: “a) il deforme, ovvero la destrutturazione morfica realizzata

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Massimo Centini attraverso ipotrofie e ipertrofie a carico dei diversi tessuti; b) l’informe, ossia la perdita di riconoscibilità morfologica, esito di un arresto nel processo di differenziazione o nella saldatura di più parti; c) l’ibrido, frutto della contaminazione originale – in genere un processo di accoppiamento – con esiti morfologici intermedi; d) la chimera, nata dall’assemblaggio di enti (organi, tessuti) provenienti da essenze differenti” (R. Marchesini, 2000, pagg. 203-204). Malgrado tutto, l’uomo è oggi fortemente conteso tra l’idea di “migliorare” il mondo, di cambiarlo, di modificarlo, e quella di mantenere inalterati sentimenti, valori, emozioni. Questo status si rivela però impossibile da attuare se si auspica giungere, un giorno sempre più vicino, alla manipolazione profonda della natura. L’uomo oggi non è quindi più considerato un essere stabile ma, nelle prospettive postumane, è un soggetto posto al centro di un’inarrestabile metamorfosi. I principi conservatori di tradizione umanista sono messi in discussione da correnti di pensiero, anche molto diverse, ma comunque orientate a fare dell’uomo un esseremacchina, e come tale manipolabile. Il principio di base ipotizzato dal post-human sarebbe diretto a trasformare il corpo in un “contenitore” di tecnologia, con parti sostituibili e quindi migliorabili, pronto per ogni tipo di interfaccia. Emblematica la tesi di Arianna Dagnino, che immagina una metamorfosi diretta verso una progressiva elisione delle differenze sessuali, in ragione di “a) sempre di meno la riproduzione seguirà il corso naturale, per cui riproduzione in vitro, gestazione extrauterina, allattamento artificiale di fatto renderanno obsoleto il ruolo materno; b) la caratterizzazione morfologica dei due sessi andrà lentamente scomparendo verso forme neotecniche e neoandroginiche, perché di fatto non esisterà più un tropismo sessuale legato al dimorfismo, sostituito da un pluritropismo improntato più sul concetto di alterità indifferenziata (e spesso non identificata) e della solipsia onanistica; c) la fecondazione non avverrà

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Massimo Centini attraverso la congiunzione di gamete maschile e gamete femminile, bensì attraverso pratiche di ricombinazione genetica che potranno prevedere la fusione di due gameti maschili o due gameti femminili inseriti in un citoplasma artificiale, oppure attraverso un semplice processo di clonazione” (A. Dagnino, 2000, pag. 175). Nel processo caratterizzante l’esperienza postumana, l’evoluzione darwiniana sembra interrompersi quando la tecnologia si pone strutturalmente come componente determinate (quasi un nuovo organo) e non è solo più una sorta di “protesi”, la cui appartenenza all’esterno è ancora ben evidente attraverso l’alterità di cui è portatrice. Il principio postumano postula “la possibilità di creare una realizzazione tra organico e inorganico, al fine di produrre una simbiosi dinamica destinata a condurre verso un’“interazione evolutiva” (F. Alfano Biglietti, 1997, pag. 141): Linea evolutiva naturale→ (…) Sapiens → Sapiens Sapiens → (…) Linea evolutiva postumana→ (…) Sapiens → Sapiens Sapiens → (…) ↑ Azione esterna Acquista così fisionomia un essere alternativo che Giuseppe Longo ha chiamato “simbionte” (dal greco simbiosi, vita insieme), costituto dall’unione di due organismi A e B, in cui il primo è l’ospite del secondo: Organismo A (ospite) → Simbionte ↑ Organismo B.

Massimo Centini Laureato in Antropologia Culturale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino. Ha lavorato a contratto con Università e Musei italiani e stranieri. Tra le attività più recenti: a contratto nella sezione “Arte etnografica” del Museo di Scienze Naturali di Bergamo; ha insegnato Antropologia Culturale all’Istituto di design di Bolzano. Attual-

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Umano, transumano, postumano Il simbionte è quindi il risultato di un’unione che non trasforma l’Homo sapiens sapiens, ma trasforma l’ospite: è una creatura che può essere considerata risultato di un processo trasformativo con carattere lamarckiano e non darwiniano. Bibliografia: • Abbagnano N., Dizionario di filosofia, Torino 1998. • Alfano Biglietti F., Identità mutanti. Dalla piega alla piaga: esseri della contaminazioni contepomporanee, Genova 1997. • Campa R., a cura, Divenire I. Divenire II. Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e il postumano, Bergamo 2008-2009. • Campa R., Mutare o perire. La sfida del transumanesimo, Bergamo 2010. • Centini M., Errata corrige.dalla creazione del Golem al sogno di Victor Frankenstein, Torino 2010. • Dagnino A., Uoma. La fine dei sessi, Milano 2000. • Galimberti U., Pische e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano 1999. • Longo G., Uomo e tecnologia. Una simbiosi problematica, Trieste 2006. • Marchesini R., Post-human. ��������������� Verso nuovi modelli di esistenza, Torino 2002. • Perniola M., Il sex appeal dell’inorganico, Torino 1994. • Szeemann H., a cura, Le macchine celibi, Milano 1975. • Terrosi R., La filosofia del postumano, Genova 1997.

mente è titolare della cattedra di Antropologia Culturale presso l’Università Popolare di Torino; insegna “Storia dell’antropologia criminale” ai master di Criminologia organizzati dal “Santo Spirito” di Roma e ai corsi organizzati da MUA - Movimento Universitario Altoatesino – di Bolzano. Scrive su “Avvenire”, “TuttoScienze” de “La Stampa” e collabora con Radio Rai. Ha pubblicato saggi con Mondadori, Newton & Compton, Rusconi, Xenia, Odoya e altri.

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La villa monumentale di Aiano-Torraccia di Chiusi

Vita tardoantica ed altomedievale di un impianto romano

FOTO: LA SALA TRILOBA E L’AREA SUD DELLA VILLA

L’edificio Tra San Gimignano e Poggibonsi (Provincia di Siena), in un verdeggiante pianoro fluviale costeggiato dal torrente Fosci, immissario dell’Elsa, è ormai ben visibile un’ampia villa monumentale di età romana. L’area stimata per la sua estensione è di circa un ettaro e mezzo ma, anche se l’impianto ad oggi è stato scavato per poco più di 4.500 mq, la struttura mostra caratteristiche e peculiarità che la rendono unica nel suo genere e nella sua storia. L’odierno impianto architettonico della villa è il risultato di diverse fasi edilizie e modifiche strutturali che la stessa ha subito dal momento della sua edificazione  avvenuta tra fine II e III sec. d.C.  al momento del suo definitivo abbandono (alla fine del VII o l’inizio VIII secolo d.C.) e

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che, in parte, corrispondono ad altrettante fasi di vita dell’edificio stesso. Nella sua connotazione definitiva la struttura gravita intorno ad una sala esagonale con pavimentazione a cocciopesto mosaicato, databile ad una fase di ampliamento dei primi ambienti (vano A, B ed E) di epoca tardoimperiale, allorquando verosimilmente l’edificio, già monumentale, esercitava un importante controllo sul territorio. Tra la fine del IV sec. d.C. e gli inizi del V sec. d.C., l’aula, inizialmente esalobata, subisce un importante cambiamento strutturale, che coinvolge l’intero edificio: l’originale sala esalobata fu privata di tre delle sue sei absidi, dando vita ad un ambiente triabsidato. Al posto delle absidi asportate furono realizzati tre vani rettangolari (H, I ed L), che modificarono la funzionalità di un già esistente ambulacro esterno polilobato, posizionato intorno alla sala, che funge da ambiente di passaggio e di raccordo con le altre aree della

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La villa monumentale di Aiano-Torraccia di Chiusi villa. Alla sala si accedeva tramite due ingressi aperti nell’abside sud, attraverso un vestibolo che, nel suo riutilizzo più tardo, si presentava pavimentato da laterizi e conservava due piccole fornaci. Qualche difficoltà interpretativa pone, invece, l’area a Nord della sala a tre absidi: una grande aula, il “Vano U”, scavata solo parzialmente e caratterizzata, ad oggi, da tre pilastri quadrangolari ed un ingresso monumentale; una probabile struttura porticata esterna al perimetro delle murature, la cui natura è attualmente oggetto di studio.

Storia del rinvenimento Già all’inizio del XX secolo l’area di Aiano-Torraccia di Chiusi aveva restituito materiali archeologici che l’avevano resa oggetto d’attenzione da parte di studiosi dell’epoca, come L. Chellini e R. Bianchi Bandinelli. Le indagini aereofotogrammetriche eseguite da E. Mazzeschi negli anni Sessanta del Novecento hanno, in seguito, acuito l’interesse per quest’area, che risultò essere sede di un edificio romano. Nel febbraio 1977, grazie a tali attestazioni  oltre ad ulteriori rinvenimenti di G. De Marinis  la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana pose sull’area un vincolo archeologico. Le indagini condotte sulle strutture della villa in questione, di fatto, proseguono in maniera sistematica solo a partire dal 2005, anno in cui l’Université catholique de Louvain (Belgio), in qualità di concessionaria di scavo da parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, sotto la guida del prof. Marco Cavalieri, ha avviato il progetto di ricerca “VII Regio. La Valdelsa in età romana e tardoantica”. Il progetto coinvolge numerosi studenti, volontari e ricercatori che si alternano durante le campagne di scavo estive ma che contribuiscono, anche durante i mesi invernali, allo studio di questa particolare ed interessante realtà archeologica, apportando ciascuno il proprio contributo in specifici ambiti di ricerca. La varietà culturale e professionale che caratterizza i membri dell’équipe di Aiano-Torraccia di Chiusi ha costituito, fino ad oggi, il suo più peculiare punto di forza.

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Chi abitava la villa di AianoTorraccia di Chiusi? L’impianto originario della villa ha certamente un’intenzione monumentale. Ne è un chiaro segno non soltanto la particolarità della sala all’epoca esalobata che, per le sue considerevoli dimensioni, ha evidenti funzioni di ricevimento e di rappresentanza, ma anche il lusso degli apparati decorativi pavimentali (numerosi sectilia e porzioni di tappeti musivi) e parietali (numerosissime tessere musive e lastrine per intarsio in pasta vitrea, porzioni di intonaco affrescato e crustae marmoreae), attribuibili alla prima fase di vita dell’edificio, tra III-IV sec. d.C. È inevitabile, dinanzi a tali attestazioni, immaginare che l’edificio fosse proprietà di un ricco notabile dell’epoca che esercitava un controllo più o meno ampio sui territori limitrofi. Tuttavia, per motivi ancora non del tutto chiari, tra la fine del IV sec. d.C. e la prima metà del V sec. d.C. si attesta un nuovo impulso riorganizzatore della villa, che si dota di un “nuovo” ambiente trilobato, sorto sulle rovine della precedente sala a sei absidi. La nuova connotazione architettonica dell’ambiente trilobato e, più in particolare, la sua pavimentazione in una tecnica pseudomusiva divengono per gli studiosi nuova fonte di notizie in merito all’identità sociale, culturale ed economica degli antichi proprietari. Tale pavimentazione, infatti, dimostra la conoscenza di formule decorative alla moda, tipiche della decorazione musiva dell’epoca; tuttavia, l’esecuzione tecnica della messa in opera, l’impiego di materie prime non di alta qualità e reperibili in loco, l’adattamento di schemi musivi alla tradizione cementizia, la stesura di una linea continua pittorica, di colore scuro, che seguiva il profilo e l’andamento della trama del disegno con l’intento di “risparmiare” tessere litiche, ci lasciano intuire scelte del committente eseguite in funzione dell’accessibilità e del costo della “ristrutturazione”, verosimile segno di una minore capacità economica del nuovo proprietario. Va da sé l’ipotesi di un nuovo personaggio, edotto in merito ai gusti e alle mode dell’élite ma di rango  o, più banalmente, di disponibilità economiche  non eguagliabili al precedente. Successiva trasformazione di destinazione

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La villa monumentale di Aiano-Torraccia di Chiusi

d’uso dell’edificio è ravvisabile tra la fine del V e il VI secolo d.C., allorché la villa cessa la sua funzione residenziale e diventa sede di numerosi ateliers produttivi ad opera di artigiani di probabile cultura germanica. Piccole officine, destinate a lavorazioni di diversa natura ma connesse tra loro occupano, riconvertono ed in parte modificano gli ambienti dell’antica residenza monumentale, spogliandola altresì sia degli arredi sia di tutto ciò che potesse essere riutilizzato quale materia prima. Così, ad esempio, l’ambiente H appare destinato alla lavorazione della ceramica e si pone in probabile connessione con il rinvenimento di una fornace a sud dello stesso vano; il vano I, a Nord della sala triabsidata, presenta sulla parete ovest i segni di una possibile attività manifatturiera del bronzo, come dimostrerebbero gli scarti metallurgici ed i diversi semilavorati in bronzo; il vestibolo è luogo di lavorazione del vetro ed il vano L probabile luogo di estrazione dell’oro da tessere ialine.

I dati materiali

FOTO: FOTO AEREA CON SOVRAPPOSTA LA PIANTA DELL’EDIFICIO MONUMENTALE

Le campagne archeologiche condotte dal 2005 ad oggi hanno permesso il rinvenimento di numerosissimi reperti archeologici ascrivibili ad un range cronologico molto ampio: dall’VIII-VI sec. a.C. (datazione di un ago crinale conformato a ruota ad otto raggi) fino al VII sec. d.C. (cronologia di molte tipologie ceramiche rinvenute). Oltre ai numerosi materiali preromani di vario tipo, la cui presenza è fonte di dibattito ed attua-

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le oggetto di studio, è d’obbligo quantomeno accennare alle principali classi di materiali rinvenuti: ceramiche di varie tipologie databili tra il V e VII secolo d.C. (ingobbiate di rosso, ceramica da fuoco acroma grezza, ceramica comune da cucina depurata e semidepurata, anfore, opus doliare e lucerne di fattura locale); marmi sia bianchi, di varia provenienza e diversa granulazione, sia colorati (nell’accezione di “poikiloi lithoi”) provenienti da tutta l’area del Mediterraneo e, in alcuni

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La villa monumentale di Aiano-Torraccia di Chiusi casi, molto rari e/o costosi, anche in frammenti di notevoli dimensioni; vetro in varie forme, colori e fatture: bicchieri e calici, tessere di mosaico e lastrine in pasta vitrea atte ad abbellire le pareti interne della villa, vaghi di collana frutto di magistrale riciclo di elementi di spoliazione della villa e numerosi scarti di fornace; grandi quantità di laterizi sia da copertura sia da costruzione; oggetti metallici e monete di vario tipo e datazione, attualmente oggetto di studio.

Obiettivi e prospettive dello studio Il progetto “VII Regio. La Valdelsa in età romana e tardoantica”, promosso e coordinato dall’Université catholique de Louvain (Belgio), desidera compiere una lettura storica-archeologica del comprensorio della Valdelsa al fine di comprendere appieno le trasformazioni e le continuità sociali ed economiche dell’area in esame. In tale senso, dunque, le indagini condotte presso la villa di Aiano-Torraccia di Chuisi  posta in un pianoro fluviale identificato quale antico asse di passaggio di uno dei diverticoli della via Francigena  si pongono quale strumento di lavoro privilegiato per realizzare un quadro approfondito su tale trasformazione e continuità culturale nel periodo di passaggio tra la fase di piena romanizzazione e la tarda Antichità, mediante l’analisi del sistema abitativo dei siti minori e delle ville tipiche di questo periodo, unitamente alle attività produttive e commerciali in esse e da esse condotte. Le difficoltà di gestione scientifica, logistica ed amministrativa di uno

Antonia Fumo Archeologa, laureata in lettere classiche all’Università “Federico II” di Napoli; ha conseguito la specializzazione post lauream in Archeologia classica presso l’Università di Firenze e frequentato un master MIUR in Archeologia subacquea. Docente a tempo determinato di materie letterarie negli istituti di istruzione secondaria di secondo grado

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scavo archeologico di tale portata, e soprattutto la costante necessità di reperire fondi adeguati rendono ogni giorno più arduo riuscire a perseguire tutti gli obiettivi prefissati. Ciò nonostante, priorità costante della ricerca è far convergere e dialogare i dati ottenuti dai diversi approcci tecnico-scentifici. Le informazioni stratigrafiche, il rilievo e l’interpretazione delle strutture murarie, lo studio dei reperti rinvenuti, la conoscenza topografica e toponomastica, le indagini archeometriche: tutto deve concorrere a realizzare una visione d’insieme chiara e logicamente e storicamente valida del sito in questione. Bibliografia: • M. Cavalieri 2009, Il pavimento in cementizio della villa tardoantica di Aiano-Torraccia di Chiusi (Siena). Primi dati su decorazione musiva, tecnica esecutiva e orizzonte cronologico, Atti del XV Colloquio dell’AISCOM, Aquileia 7-4 febbraio 2009, pp. 515-526. • M. Cavalieri A. Giumlia-Mair 2009, Aiano-Torraccia di Chiusi. Artigiani fra i muri della villa. Archeologia Viva 136, p. 50-55. • M. Cavalieri, G. Baldini, M. D’Onofrio, A. Giumlia-Mair, N. Montevecchi, M. Pianigiani, S. Ragazzini, 2010, San Gimignano (SI). La villa di Torraccia di Chiusi, località Aiano. Dati ed interpretazioni dalla V campagna di scavo, 2009. http://www.fastionline.org/docs/FOLDERit-2010-206.pdf • M. Cavalieri, 2009, Vivere in Val d’Elsa tra tarda Antichità e alto Medioevo. La villa romana di Aiano-Torraccia di Chiusi (Siena, Italia). http://www.fastionline.org/docs/FOLDERit-2009-156.pdf

nella provincia di Varese, collabora alle attività di scavo e studio dei materiali ceramici del sito archeologico di Aiano-Torraccia di Chiusi (http:// www.villaromaine-torracciadichiusi.be/it/) sotto la guida e la direzione scientifica del Prof. Marco Cavalieri. Tra le sue pubblicazioni: Le ceramiche rivestite di rosso della villa di Aiano-Torraccia di Chiusi (San Gimignano, Siena): uno studio archeologico e archeometrico in FOLD&R FastiOnLine documents & research (176), pp. 1-37 (http://www.fastionline. org/docs/FOLDER-it-2010-178.pdf )

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Svastica lappone a Carpino (FG)

Scoperto un simbolo unico in Italia. La conferma dei finlandesi: si tratta di un Mursunsydan, o Cuore di Tricheco

FOTO: L’ANTICO PORTALE DELLA CHIESA DI SAN CIRILLO A CARPINO (FG)

”Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi.” Guy Maupassant

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vere dei nuovi occhi. E’ questa la chiave di tutto. Esplorare il territorio, studiarne la storia, ascoltare testimonianze, non è sufficiente se non si guarda il tutto con occhi diversi, se non si è pronti ad accettare che il Gargano va ben oltre lo scibile conservato negli archivi storici e biblioteche. Noi del Team Archeo – Speleologico ARGOD lo sappiamo bene. Nel momento in cui abbiamo accettato l’idea che sul nostro Promontorio potevamo scoprire l’impensabile, andando al di là del nostro personale bagaglio culturale, abbiamo iniziato finalmente a “vedere”. Il tutto sempre nel rigore della metodologia scientifica. Noi ci basiamo sui fatti, e solo a volte tentiamo di costruire delle ipotesi che, secondo il nostro

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parere, potrebbero risultare più plausibili di altre. Ma passiamo innanzi tutto ai fatti. Nel campo delle incisioni, e quindi più in generale della simbologia, esistono fondamentalmente tre situazioni differenti in caso di scoperta: - Scoprire simboli in siti sconosciuti che vengono scovati in seguito ad un’esplorazione; - Scoprire simboli in siti conosciuti collocati in posizioni defilate, mai notate prima di allora; - Riconoscere simboli visibili da tutti, ma mai considerati o univocamente identificati. Ed è quest’ultimo il caso della nostra nuova e sensazionale scoperta, o meglio, identificazione: un simbolo conosciuto come Mursunsydän, parola per noi quasi impronunciabile, proveniente dalla lontana e fredda Finlandia, incisa sulla Chiesa di San Cirillo a Carpino, piccola cittadina garganica situata a nord della Puglia.

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Svastica lappone: a Carpino (FG) Cos’ha di particolare questa identificazione? Gli esperti dell’Università di Helsinki ci hanno confermato che nulla del genere gli era mai stato segnalato dalla nostra nazione. Per i finlandesi, insomma, è il primo caso ufficialmente segnalato in Italia. Ma andiamo per gradi. La nostra ricerca ha richiesto quasi 2 anni di tempo. Di cosa si tratta? Conosciuto anche come Tursaansydän, indica un simbolo che nell’attuale area Baltica è sempre stato di uso comune, adottato in special modo nella zona settentrionale della Finlandia, occupata da una popolazione denominata Sami (Lapponi). Esso si compone di quattro sezioni identiche che si trovano attorno al centro, come per eluderlo. In parole povere è una svastica, più precisamente è una delle varianti di svastica più rare esistenti al mondo: Svastica lappone, tipica solo di questa terra lontana, che appare come un’intersezione di quattro quadrati (o comunque di quattro quadrilateri con la stessa area). Per comprendere il come siamo arrivati a questa conclusione è necessario ripercorrere tutte le

Andrea Grana tappe di questa nostra lunga ricerca. Tempo fa, uno dei nostri componenti ci segnalò una serie di simboli incisi sullo stipite destro del portale della Chiesa di San Cirillo, che troneggia nella piazza principale di Carpino, luogo ormai molto conosciuto per lo svolgersi del Carpino Folk Festival, evento di portata nazionale. La chiesa è decisamente una delle strutture ecclesiastiche più particolari esistenti in territorio garganico. L’edificio attualmente visibile è in realtà la chiesa più recente, costruita intorno al 1770 d.C., che ha sostituito la chiesa più antica, sempre dedicata allo stesso santo, eretta, secondo i documenti, intorno al 1310 d.C. La sua particolarità consiste nel fatto che, sul lato sinistro della chiesa (avendo la facciata anteriore giusto di fronte), è incastonato ancora il portale della chiesa più antica. Ebbene, i simboli notati sono incisi proprio sullo stipite destro del portale della chiesa più antica. Identificammo subito un Nodo di Salomone (a otto solchi), simbolo molto raro, trovato in poche altre città garganiche, come Monte Sant’Angelo e Manfredonia (nella zona di Sipon-

FOTO: SVASTICA LAPPONE SUL PORTALE ANTICO

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Andrea Grana to). Nello stesso tempo, però, ci mostrò le immagini di un altro simbolo, inciso per ben due volte di fianco al Nodo di Salomone. Non ci mettemmo molto a riconoscerlo, e quasi istantaneamente lo stupore pervase i nostri visi. Quel simbolo l’avevamo già visto in un articolo che trattava della scoperta di alcune incisioni in un sito archeologico trovato in quello che un tempo era il territorio dell’Antica Dacia (attuale Romania). Nel sito erano stati ritrovati simboli come la Triplice Cinta Sacra, Centro Sacro, e tra gli altri proprio il simbolo segnalato a Carpino. Iniziammo a fare delle prime ricerche e scoprimmo che si trattava di una particolarissima variante di svastica, conosciuta appunto come Svastica lappone. Naturalmente non avevamo materiale a riguardo e non eravamo neanche in grado di confermare tale identificazione. L’unico modo per procedere le ricerche era quello di chiedere aiuto ad una cara amica, nonché collaboratrice del Team ARGOD: la Dott.ssa Cristina Pertosa. La Dott.ssa Pertosa ha studiato lingue e letterature straniere, di cui la prima lingua è proprio il finlandese (la seconda è il norvegese); è cultrice di folkloristica e filologia ugro-finnica, esperta e studiosa di sciamanesimo, e ha prestato servizio presso l’Istituto Italiano di Cultura ad Helsinki, sezione culturale dell’Ambasciata Italiana in Finlandia. Quando le sottoposi le immagini giunse alle nostre stesse conclusioni: Tursaansydän, o Mursunsydän, cioè Cuore di Tricheco, nonché Svastica Lappone. Scoprimmo che il simbolo era conosciutissimo in Finlandia, specialmente nella parte settentrionale occupata dai Sami (Lapponi) e, seppur difficilmente data-

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Svastica lappone: a Carpino (FG)

FOTO: NODO DI SALOMONE SUL PORTALE ANTICO

bile, sembra fosse presente già nel Neolitico. Fu utilizzato per la decorazione di edifici ed oggetti in legno per centinaia di anni; potrebbe avere avuto anche una valenza protettiva nei confronti del soprannaturale. Spesso era anche presente sui tamburi usati dagli sciamani. Utilizzata fino al 18 ° secolo, pian piano scomparve per essere sostituita da una svastica semplice. Era chiaro che le nostre considerazioni erano giuste. Ma la domanda che martellava le nostre menti era sempre la stessa: cosa ci fa una Svastica lappone sul Gargano? Ancora incredulo, decisi che occorrevano altre prove a supporto. Dovevamo essere certi che si trattasse effettivamente di una Svastica lappone, e chiesi a Cristina Pertosa di fare da tramite tra noi e gli esperti accademici della Finlandia. In collaborazione con Giovanni Barrella, Domenico Sergio Antonacci e la Dott.ssa Cristina Pertosa, scrissi e preparai dei documenti con le nostre ricerche e scoperte, da indirizzare ai più esperti in materia a livello mondiale. Ebbene, dalla Finlandia lo stupore non fu diverso dal nostro. Non solo non si aspettavano di trovarlo in Italia, non potevano mai immaginare

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Svastica lappone: a Carpino (FG) che addirittura l’avremmo trovato in sud Italia. Bisogna dire che dagli accademici c’è stato subito un invito alla cautela. Risulta una scoperta al di fuori di ogni apparente logica. In effetti, a detta loro, tale simbolo non è mai stato trovato al di fuori della Lapponia. Al momento in Siberia, dove lo sciamanesimo è ancora praticato, (in alcune zone della steppa orientale e verso i confini con la Mongolia) non risulta essere stato mai ritrovato. Nessun ritrovamento è stato mai attestato nemmeno nei territori occupati dagli attuali eschimesi. A questo punto, occorre fare un riepilogo. Partiamo dai fatti: - Gli esperti finlandesi e la studiosa garganica, la Dott.ssa Cristina Pertosa, non hanno dubbi sul fatto che si tratti di una Svastica lappone. - Vicino alla Svastica lappone un’altra svastica, anch’essa molto rara, il Nodo di Salomone. - Tali incisioni sono ubicate sul portale dell’antica Chiesa di San Cirillo, di cui si ha traccia documentale a partire dal 1310 d.C. (anche se si hanno fondati motivi di credere che sia più antica). - Ad oggi, in Italia, la nostra segnalazione è l’unica ufficiale che sia mai arrivata agli esperti della Finlandia. Ora alcune domande: - Cosa ci fa una Svastica lappone a Carpino, qui sul Gargano? - E’ stata incisa in antichità o e è più recente? - E’ stata incisa proprio per fare riferimento al

Andrea Grana Laureato in Astronomia con specializzazione in Fisica dei Pianeti presso l’Università di Bologna, ha lavorato, tra il 2005 e il 2006, all’Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario del CNR di Roma, nel Team OMEGA della Missione Spaziale Europa MARX/ EXPRESS. Successivamente ha insegnato Fisica e Matematica nelle Scuole Superiori. Nel 2007 consegue il brevetto di I° livello di Speleologia, e

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Andrea Grana Cuore di Tricheco, oppure è stata incisa per emulazione? - Può aver a che fare con una qualche forma di sciamanesimo qui sul nostro promontorio? Purtroppo, per ora, molte di queste domande rimarranno insolute. Non dimentichiamo un aspetto fondamentale: si tratta di un simbolo estremamente raro su scala mondiale, del tutto assente nei nostri libri e documenti storici, nessuna immagine o altro riferimento decorativo, soprattutto qui in Italia; per cui, chiunque l’abbia inciso doveva conoscerlo o per trasmissione di conoscenze da qualcuno che in Lapponia c’è stato, o per testimonianza diretta. Oppure, qualcuno originario della Lapponia ha direttamente inciso quel simbolo sul nostro territorio, per una ragione che per ora ignoriamo. Tutto questo, se assunto essere avvenuto in epoca medievale, ha davvero dell’incredibile. Naturalmente non è possibile, attualmente, avere una tale conferma. Un’ultima considerazione. Sullo stesso portale sono incise ben due forme rare di svastica. Se pensiamo alle svastiche greche scoperte a Monte Sant’Angelo e ai nodi di Salomone, trovate sempre a Monte Sant’Angelo e a Siponto, è evidente che non possono essere tutte coincidenze. Più si va avanti e più il Gargano dimostra di essere un incredibile contenitore di simboli rarissimi. Le ricerche continuano, e posso già anticipare un fatto importante: l’elenco di svastiche particolari sul Gargano, non è finito!

a seguire altri 5 brevetti di livello regionale e nazionale. Nel 2008 è co-fondatore del Team Archeo - Speleologico ARGOD (sul Gargano), divenendone Direttore Scientifico. Da anni svolge numerose attività di ricerca e divulgazione in vari campi: Archeologia, Speleologia, Antropologia e Simbologia, attraverso convegni, pubblicazione di articoli e produzione di documentari. Negli ultimi 2 anni ha sviluppato un particolare interesse nel campo dell’Archeoastronomia. Attualmente vive e lavora a Milano.

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Gli Etruschi (I)

Dal seme di Atlantide a Roma caput mundi

FOTO: UN TUMULO ETRUSCO NELLA NECROPOLI DI POPULONIA. (FONTE: WIKIPEDIA/ROBERTO ZANASI)

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ome spesso è accaduto nella storia, le scoperte più interessanti e rivoluzionarie sono nate da semplici intuizioni. Anni di studio e di ricerca trascorsi tra intere notti su antichi testi da tradurre ed interpretare, sotto gli effetti di caffè e nicotina, e week end in esplorazione sul campo incuranti di freddo, pioggia o caldo afoso, per poi trovare l’illuminazione di un’idea in quella solitaria ed insignificante frase in un libro o piuttosto in una fotografia distrattamente scattata da turisti domenicali. È da questa considerazione in apparenza così “profana” che scaturisce una delle più controverse visioni di una realtà forse creata ad arte da chi voleva celare ben altre verità, come nel caso degli Etruschi: un popolo vittima della “damnatio memoriae” dei Romani prima e del Cattolicesimo dopo. La nostra intuizione, comunque suffragata da un estenuante lavoro di ricerca, nasce da sempli-

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ci ed empirici quesiti: - è accertato che nell’area italiana compresa tra Capua (antica Velthurna) e le attuali province di Roma, Viterbo, Frosinone, Lucca, Grosseto e Livorno, la popolazione etrusca raggiungesse i 3 milioni di abitanti, riuniti in una confederazione o lega, che gli stessi Etruschi chiamavano “Nazione”, come dedotto dall’Elogio Funebre di Laris Pulenas del 200 a.C. Come è dunque possibile che la tradizione attribuisca ad Enea la fondazione di Roma, essendo sbarcato sulle coste laziali con (forse) poche centinaia di compagni? - Le più antiche leggende narrano che Enea, in fuga da Troia, appena sbarcato si diresse subito nell’alto Lazio, nel porto di Regisvilla (nei pressi dell’attuale Tarquinia), come avesse conosciuto sin da principio la meta ultima del suo viaggio. La più nota Lavinio fu infatti edificata solo successivamente dal figlio

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Gli Etruschi (I) Ascanio. Perché l’eroe troiano giunse proprio in quel luogo alla corte del Re Etrusco Tarconte? Esistono prove di suoi approdi in Puglia, in Calabria, in Campania… eppure, sceglie una città ben specifica. - Analogamente ad altre storie raccontate, compresa quella di Gesù Cristo, esistono alcuni “buchi temporali” nella cronologia etrusca: si passa dalla cultura poco più che primitiva dei Villanoviani (abitanti autoctoni degli stessi territori) ad un’organizzazione federale assolutamente moderna ed evoluta come quella Etrusca, con un salto se non di tempo, certamente di cultura. Com’è avvenuto questo passaggio? I Villanoviani si evolsero nel giro di pochi decenni, furono assorbiti da una civiltà superiore e straniera, oppure rappresentarono una sorta di casta inferiore, come accadeva con gli autoctoni egiziani? Con il tempo, abbiamo imparato che le imprecisioni cronologiche, le molteplici versioni riportate della medesima vicenda e la confusione sui nomi dei relativi protagonisti sono chiari sintomi di un artefatto storico atto a cancellare o modificare qualcosa di scomodo. La tradizione etrusca, ricchissima di manufatti, pitture ed incisioni, non poteva affidare la propria immensa cultura alla sola tradizione orale, come invece asseriscono alcuni archeologi contemporanei. Ma sappiamo bene che il terreno più fertile dove seminare una nuova versione dei fatti è rappresentato da una iniziale “tabula rasa” dei documenti scritti. Plutarco, nella sua “Vita di Numa” descrisse le vere origini della cultura romana rivelate dalla ninfa Egeria ad un sacerdote della sabina Curi: in vista della morte, egli dispose che tali scritti fossero seppelliti per sempre accanto al suo corpo. Probabilmente questi testi dovettero rivelarsi particolarmente “eretici”, se i posteri decisero di disseppellirli e bruciarli definitivamente. Dionigi di Alicarnasso ci narra che il re etrusco Tarquinio il Superbo, attorno al 520 a.C., introdusse a Roma i “Libri Sibyllini”, testi profetici, ritualistici, oracolari ed astrologici di origine greca (ma sono in molti a sostenere fossero antiche pergamene etrusche poi tradotte), rinchiudendoli nel tempio dedicato a Giove Capitolino (sulla sommità del Campidoglio). La leggenda vuole che un’anziana donna li of-

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Germano Assumma frì al re Tarquinio sotto forma di 9 rotoli dietro il pagamento di una somma di denaro considerevole. Questi, diffidente nell’acquistare qualcosa di cui ignorasse il contenuto, tentennò. La donna bruciò 3 dei nove libri, offrendone 6 allo stesso prezzo; all’ennesimo rifiuto, bruciò altri 3 libri. Tarquinio il Superbo quindi comprò i soli tre libri rimasti al costo dei nove iniziali. L’anziana donna, dopo aver ceduto la parte restante di un sapere ancestrale, scomparve nel nulla, dando origine alle leggenda secondo la quale essa fosse proprio la Sibilla Cumana. A prescindere dal profondo significato simbolico della leggenda, i Libri Sibyllini furono da subito considerati “intoccabili”. Uno dei custodi (duumviri), Marco Aurelio, solo per averne ricopiato alcune profezie, venne giustiziato con una morte orribile: cucito in un sacco e gettato a mare. Anche in questo caso, con l’avvento del Cristianesimo, quest’opera unica subì una sorte nefasta: Stilicone, nel 400 d.C. ne ordinò la distruzione. Stessa sorte è toccata ai testi detti della “Disciplina Etrusca”, come ai “Libri Hauruspicini”, ai “Libri Fulguratores”, ai “Libri Rituales”, ai “Libri Acherontici”, ai “Libri Fatales” ed agli “Ostentaria”. Quali segreti potevano giustificare un tale azzeramento culturale e la necessità di riscrivere la storia “a tavolino”? Certamente qualcosa di talmente sconvolgente secondo i canoni del tempo, da restare appannaggio di pochissimi eletti; qualcosa che poteva addirittura non limitarsi alle origini dell’Impero Romano, ma che avrebbe coinvolto il nascente Cristianesimo, se non addirittura le stessa genesi dell’Umanità conosciuta...

Ogige, Atlantide ed i Pelasgi “Nulla ha di fisso e costante il mondo, se i giri osserviamo delle cose; La cieca e instabil Dea così dispone E tutto va precipitato al fondo. Tutto volge Fortuna sottosopra e ognor fa nascer le vicende istesse, né si dà ma che d’essa allegra cesse dal crudo gioco e dall’ostil sua sopra. Quel popol che fu visto al ciel la testa superbo alzare un dì, del reo destino,

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Germano Assumma del tempo struggitore ora meschino, sotto il fatal peso oppresso resta. Puon soffrir solo, e disfare gli anni, anzi i secoli ancor l’opre d’ingegno, contro cui nulla puonno e il fiero sdegno del veglio edace e di Fortuna i danni. Tutto rimane, e finché sol lucente il cielo schiarirà, la terra e l’onda, rimarrà intetto ognor ciò che feconda. Ai papiri affido l’umana mente.” (Aurem Opus Antiquitatum Italicarum) Occorre andare al 1788 per trovare le teorie più affascinanti circa un’origine “alternativa” del Popolo Etrusco a firma del noto Don Gianrinaldo Conte Carli. Parliamo, prima di ogni altra vicenda o ipotesi, di un secondo- e molto più vicino- “Diluvio Universale”, detto “di Ogige”, avvenuto circa 4000 anni fa, particolare che ci costringerebbe a retrodatare molte delle teorie archeologiche e antropologiche oggi accettate. I segni dell’ultima Grande Glaciazione (terminata 4.000 anni prima) erano ancora evidenti nelle aree polari. In un periodo presumibilmente compreso tra il 5000 ed il 4000 a.C. si verificò un disgelo improvviso e repentino, oppure uno straordinario innalzamento delle maree (entrambe causate forse dal passaggio di un meteorite, come ci tramanda Diodoro). Consideriamo che è stato calcolato già nel XVIII secolo che, un corpo celeste che si avvicinasse alla Terra ad una distanza di 72 mila chilometri, alzerebbe il livello delle acque anche di 12 mila piedi (3657 metri circa), con variabili dovute ovviamente alla massa. La maggior parte delle terre emerse furono quindi inghiottite da una massa di acqua inimmaginabile nel volgere di poche settimane. La grande ondata di piena entrò attraverso lo Stretto di Gibilterra, sconvolgendo la geografia del bacino Mediterraneo. La datazione di fossili di crostacei e conchiglie, nonché la presenza di ardesie sulle molte zone collinari italiane, ne confermerebbero la veridicità. Il mare coprì per lungo tempo molte aree e poi, con il suo lento ritiro, diede origine all’attuale fotografia geografica, comunque differen-

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Gli Etruschi (I) te da quella primordiale. Molte alture restarono separate dalla terra continentale, divenendo isole ed arcipelaghi (“la natura delle cose cangiò d’aspetto”-Plinio). L’evento apocalittico sterminò gran parte delle popolazioni esistenti ma altre, dopo essere rimaste in mare per mesi, approdarono sulle alture che il loro procedere alla deriva via via gli poneva davanti. In questo contesto si inserisce il mito di Gilgamesh, figura per molti versi identica al biblico Noè, al Noha dei Maya, al Topi azteco, all’Yima persiano ed al Nu-wah cinese. Nel 1696, nelle campagne vicino Roma, venne ritrovato un vaso raffigurante proprio il diluvio

di Ogige, con uomini ed animali che riparavano in una nave, utilizzato per le celebrazioni delle “idroforie”, delle festività comuni a tutto il bacino Mediterraneo in cui si rievocava la grande inondazione. Abbiamo quindi una situazione di neo-Genesi individuabile, attraverso un parallelo con la mitologia, all’epoca di Ercole Egizio, nel 4690 a.C, a cui vengono appunto attribuite le Colonne d’Ercole:

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Gli Etruschi (I) un quadro di civiltà primordiale (ma già piuttosto evoluta) con culti e tradizioni molto simili se non comuni, che si trova improvvisamente ad essere “rimescolato” e trapiantato in nuove terre da civilizzare, ripartendo da zero. Queste genti riportarono comunque la propria cultura di origine (spesso incentrata sul culto di Saturno) che, con il passare dei secoli, si modificò secondo le peculiarità delle aree geografiche colonizzate: con un po’ di fantasia potremmo vedere dietro a questi eventi l’interpretazione di una metafora come quella della “Torre di Babele”. In Italia, questi popoli vennero classificati dalla storia come autoctoni, cosa giusta nella terminologia ma inesatta qualora volessimo analizzar-

ne il passato remoto. Le difficoltà e le divergenze incontrate, ad esempio, per stabilire l’origine degli Etruschi, nascerebbero proprio da questa confusione iniziale. Essi erano autoctoni della penisola italica ma al contempo discendenti di altri popoli sparsi nel Mediterraneo: discendenti forse di un’unica stirpe comune ad altri ceppi culturali e linguistici. Antioco Siracusano sostiene che la denomi-

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Germano Assumma nazione di “Pelasgi” indichi proprio questi antichi esuli di altre civiltà che, attraverso il mare, si diffusero in nuovi territori prendendone le caratteristiche (Umbri, Ausoni, Siculi, Liguri e Tirreni provenienti da Oriente e dall’Egeo; i Coni da Sud; Veneti, Cignei, Fetontei, Sardini– anche se Tacito li descrive consanguinei degli Etrusci- e Orobi da Nord). Tra le coincidenze tese ad avvalorare questa ipotesi c’è l’uso, da parte di tutte le popolazioni pelasgiche, di dividere il territorio in 12 parti (città, aree, regioni o “città-stato”, come nel caso degli Etruschi). Il Carli, sulla base della coincidenza dei miti comuni a tutti i popoli antichi, pone il diluvio di Ogige all’origine dello stesso disastro di Atlantide, una delle terre da cui provenivano questi popoli erranti del mare; la terra da cui nasceva soprattutto la loro comune conoscenza di base, un sapere che forse aveva radici ancor più antiche della stessa Atlantide che ne era custode. Molti popoli nel mondo raccontano di aver avuto origine da antichi avi provenienti dal mare e fuggiti dalla propria terra natale sconvolta da un cataclisma: - gli Atzechi da Aztlan; - gli Olmechi da Atlaintika; - i Vichinghi da Atli; - i Celti da Avalon; - i Fenici ed i Cartaginesi da Antilla; - i Berberi da Atarantes; - gli Irlandesi da Atalland. Platone sostenne, sulla base di quanto appreso da Solone in Egitto, che Saturno (una divinità comune a tutte le genti prima citate) “condusse dall’Atlantide popoli e colonie”. Nello stesso periodo Giano Re accolse, nei territori ascrivibili all’attuale Lazio, “i nuovi ospiti dall’Altantide” o Saturnini. Le terre che videro la mescolanza di queste nuove culture vennero chiamate proprio “Saturniae”. Il Trogo sostenne che “italiae cultores primi, Aborigenes fuere, quoram Rex Saturnes, inaque Italia regis nomina Saturnia appellata est”. Platone nel Timeo, sulle Memorie d’Egitto, scrive: “Saturno […] che tal nome aveva il fratello d’Atlante, il quale venne nella Tirrenia”. Quindi, il Saturno che guidò i superstiti del popolo atlantideo alla salvezza non era un dio,

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Germano Assumma bensì un condottiero di stirpe reale, che poi venne confermato re nelle nuove terre. Altra particolare coincidenza risiede nel fatto che tutti i primi invasori di Africa e Grecia, seppur appellati con nomi di dei ed eroi, erano comunemente chiamati “Figliuoli dell’Oceano”, come testimoniato da Omero, allo stesso modo con cui gli Atlantidei (o Titani) erano definiti “generati dal mare”. Tutto ciò potrebbe farci azzardare l’affascinante ipotesi che le similitudini costruttive e culturali riscontrate in molteplici luoghi del Globo, America compresa, avessero veramente un’unica origine. Infatti, nella moltitudine di popoli erranti per mare dopo il diluvio, quelli con le maggiori conoscenze avrebbero sicuramente imposto il proprio sapere agli indigeni incontrati. La necessità di un ritorno alla normalità dopo il diluvio è testimoniata anche dalle imponenti strutture di scolo scavate da antichissimi popoli, con l’obiettivo di bonificare le aree pianeggianti. Molte aree della stessa Italia sono state caratterizzate da territori paludosi ed insalubri. Dionigi di Alicarnasso assicura che Oenotro, figlio di Licaone, giunse in Italia e trovò solamente un paese deserto, incolto ed abitato esclusivamente sulle sommità dei monti. Ci è stata data testimonianza che nella zona di Piacenza le paludi furono presenti fino all’epoca di Annibale (“che nell’attraversarle perse un occhio”). Giustino, ai tempi della prima guerra con gli Sciti, descriveva una tale quantità di territori paludosi da impedire l’accesso all’Egitto. Furono molte dunque le culture antiche a testimoniare questo grande cataclisma alla base della diffusione di una seconda civiltà, alcune anche rimarcando la propria origine antecedente (gli Arcadi, ad esempio, sostenevano che il loro popolo fosse più antico della Luna).

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Gli Etruschi (I) Ad avvalorare la tesi di un meteorite come causa scatenante del Diluvio di Ogige intervengono alcune tradizioni scritte ed orali provenienti dalle medesime popolazioni. È comune infatti il parallelismo del fuoco con l’acqua, come nella favola di Fetonte o dell’egizia Fenice che si rigenera dalle ceneri. Un corpo celeste avrebbe dunque sfiorato la Terra, lanciando frammenti infuocati e rivoluzionando l’equilibrio dell’asse terrestre? Innegabile è la contemporaneità storica e mitologica del rapido alternarsi di incendi ed inondazioni, proprio nel periodo attorno al 4000 a.C. Horus Apoline ci fornisce il geroglifico di un leone sormontato da un uomo con in mano una fiamma ardente. Lo stesso leone è nell’atto di abbassare il capo in direzione di uno specchio d’acqua. In molte zone del globo, soprattutto nelle aree costiere caratterizzate da dirupi (anche nel-

FOTO: AFFRESCO ETRUSCO RAFFIGURANTE TIFONE DALLA “TOMBA DI TIFONE” A TARQUINIA (FONTE: WIKIPEDIA)

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le vicinanze di Roma), è possibile effettivamente riscontrare degli strati geologici piuttosto particolari. Partendo dal basso, troviamo conchiglie ed ammoniti per un’altezza spesso anche di metri; poi, un ampio strato di terra o rocce vulcaniche o sedimentarie. Speso questi strati sono tutt’oggi interrati o sommersi, ma la cosa che più incuriosisce è che, nelle parti visibili (e quindi relativamente più recenti), abbiamo in rapido susseguirsi di uno strato di carboni e di conchiglie che spesso coincidono e si confondono. William Whiston teorizzò queste “prove” come segue: “Per un passaggio di una cometa vicino alla Terra di otto volte più vicina della Luna, di circolare che era l’orbita di essa terra, divenne ellittica; e il sole che da prima era al centro d’un circolo, si ritrovò nel fuoco d’un ellissi corrispondente al luogo dell’attrazione della cometa, che discese appunto nel piano dell’eclittica verso il suo perielio, l’anno XII del Toro. L’anno s’allungò per conseguenza di giorni 10 e ore 1,30 e venne il diluvio”. Scheletri ed ossa di animali tipici di ambienti caldi, ritrovati in Siberia, Ungheria e Francia, farebbe appunto supporre un vero e proprio capovolgimento delle fasce climatiche. Sopra il Volga, sul monte Bogda, sulle rive di un lago salmastro, vennero ritrovate conchiglie tropicali e coralli. Sembrerebbero coinvolte anche note leggende metaforiche come quella egiziana di Iside

Germano Assumma È nato a Roma, il suo pseudonimo è Angel Heart. Dopo una laurea in giurisprudenza ed un periodo trascorso in ambienti militari ha condotto ricerche nel campo della religione etrusca e delle origini pagane dei culti monoteisti, giungendo all’analisi storica ed antropologica delle radici del culto della Dea Madre e successivamente del simbolismo medioevale, ancora oggi tramandato dalla Massoneria e da alcuni Ordini Iniziatici. Le leggende della regione dolomitica, luogo dove a fasi alterne egli ha vissuto circa 4 anni, furono lo stimolo per iniziare una ricerca in campo archeologico ed antropologico, ricostruendo la storia meno nota di alcuni processi per stregoneria fino ad approfon-

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ed Osiride. Diodoro narra che “Osiride fu ucciso e lacerato da suo fratello Tifone […]. Iside, moglie e sorella, lo vendicò, ma nel ricercare le varie parti del corpo del marito non riuscì a ritrovare la parte virile, istituendo le festività del Fallo come elemento di rigenerazione”. Erodoto attribuì questi eventi ai tempi di Ercole Egizio, quindi al tempo dell’inondazione. Se dunque per definizione Osiride rappresentava il sole ed Iside la Luna (quasi ad indicare un perfetto equilibrio iniziale), chi avrebbe dovuto rappresentare Tifone che ai tempi di Ercole Egizio causò tanta rovina? Sarà forse un caso che il primo Re d’Egitto diede ad una cometa proprio il nome di Tifone? Gli Egizi, secondo Plutarco, associavano il nome di Tifone alla sventura e detestavano il mare aperto. Mai è menzionato nella cultura egizia il nome di Nettuno o di suoi omologhi. Gli stessi Egizi, che continuarono a perpetrare il numero 360 nel conteggio annuale (evidenziati dai 360 sacerdoti di Acaut o dai 360 vasi nel tempio di Osiride secondo le cerimonie quotidiane), erano privi di quei 5 giorni in più presumibilmente causati dallo spostamento dell’asse terrestre. È anche degno di curiosità sapere che il termine giapponese per indicare gli uragani è proprio “Tifone”.

dire le fasi della damnazio memoriae nei confronti dell’Antica Religione e di importanti realtà cavalleresche ed iniziatiche. È uno dei fondatori de “Il Portale del Mistero” nel 1999. Dal 2005 conduce una campagna di ricerca operativa nella Tuscia, alla ricerca di alcune verità nascoste sul Popolo Etrusco. Lasciata la direzione de Il Portale del Mistero, di cui resta comunque titolare, egli intende sperimentare una ricerca “a tutto campo” avvalendosi del contributo e dell’esperienza di studiosi delle specifiche materie da esaminare, nella convinzione che la maggior parte dei misteri irrisolti siano in qualche modo collegati e resi tali quasi a voler celare un’unica grande verità. Dal 2002 è presidente dell’Associazione “Contrada Sette” “Accademia dei Principati” e dal 2009 del CIVITAS, Corpo Italiano di Vigilanza agli Itinerari Turistici, Archeologici e Storici.

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Imitationes e simbologia del Sepolcro di Cristo nel Medioevo

L’importanza archetipale del Santo Sepolcro tra il IV e l’XI sec.

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FOTO: PIANTA DEL SANTO SEPOLCRO DI GERUSALEMME SECONDO ARCULFO (FONTE: ENCICLOPEDIA DELL’ARTE MEDIEVALE, ROMA, ISTITUTO DELLA ENCICLOPEDIA ITALIANA, 1995)

dificato nel IV secolo sul luogo della crocifissione e sepoltura di Cristo, il Santo del Salvatore è stato un riferimento simbolico e religioso, insomma un archetipo, per tutti i seguaci del Messia. In questo senso sono significative le numerose e dettagliate descrizioni dei pellegrini che si recarono a Gerusalemme a partire dal 333 d.C., unite alle molteplici testimonianze figurative presenti su ampolle e monete, ma soprattutto le repliche architettoniche nelle quali è rappresentato, sebbene schematicamente e limitato agli elementi essenziali, il Sepolcro di Cristo. Le imitationes non seguono uno schema architettonico ben definito, e questo lascia intendere come l’aspetto estetico e materiale fosse meno significativo del messaggio simbolico racchiuso nel linguaggio architettonico. In questo senso un primo tentativo volto a

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comprendere gli aspetti più reconditi dell’architettura risale agli anni venti del Novecento con Josef Sauer che, nel saggio Symbolik des Kirchengebäudes studiò, soprattutto in base a fonti del medioevo maturo, il modo in cui nell’età di mezzo venivano interpretati i fatti architettonici.

Il Santo Sepolcro Nella Vita Constantini, Eusebio di Cesarea scrive che il Santo Sepolcro fu edificato tra il 333 e il 336 per volontà dell’imperatore Costantino. Il complesso era costituito da una basilica a cinque navate, ricordata dalle fonti come Martyrium, dietro alla cui abside si apriva un ampio porticato che fungeva da accesso per l’Anastasis. Al centro della stessa, a pianta circolare, vi era l’Edicola ottagonale della tomba di Cristo, intorno alla quale

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Imitationes e simbologia del Sepolcro di Cristo nel Medioevo dodici sostegni creavano un colonnato cinto da un deambulatorio nel quale si aprivano tre nicchie semicircolari. Nel 614 i Persiani saccheggiarono Gerusalemme e bruciarono numerose chiese, tra le quali il Santo Sepolcro. In seguito il patriarca Modesto promosse il restauro dell’edificio, e soltanto nel 638 la città si arrese definitivamente al califfo Umar. Durante l’epoca della dominazione musulmana, Gerusalemme conservò una popolazione sostanzialmente cristiana e continuò a essere meta di pellegrinaggi. Tuttavia, nel corso del X secolo, i rapporti tra le fazioni si incrinarono: nel 966 il califfo fatimide Al-Hakim ordinò arresti ed esecuzioni arbitrarie, nonché la distruzione degli edifici di culto. Per sua volontà nel 1009 venne demolito il Santo Sepolcro, poi restaurato dall’imperatore bizantino Costantino IX Monomaco tra il 1042 e il 1048. Soltanto dopo la conquista crociata del 1099 Gerusalemme tornò nell’orbita cristiana e divenne capitale dell’omonimo regno latino. Un intenso fervore edilizio avvolse la città: oltre alla riedificazione di numerose chiese fu avviato anche

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l’ampliamento del Santo Sepolcro, consacrato poi nel 1149. Nonostante i numerosi rifacimenti che si succedettero nel corso dei secoli l’Anastasis mantenne la sua planimetria originale, mentre l’Edicola venne completamente rifatta nel XII secolo, momento in cui una struttura poligonale sostituì l’ormai scomparso ottagono di età costantiniana.

Le imitationes La fioritura dell’architettura e l’ondata di pellegrini che si riversarono in Terra Santa tra il IX e il XII secolo sono descritti da Rodolfo il Glabro, monaco e cronista dell’XI secolo, nella Historiarum libri Quinque, come espressioni di un unico movimento spirituale in un tempo carico di attese escatologiche, di paure e di grandi impulsi di rinnovamento. Parallelamente all’edificazione di numerose chiese e alla diffusione del culto delle reliquie della Vera Croce, i cui frammenti erano conservati in preziosi contenitori detti “stauroteche”, gente di tutto il mondo e di ogni ceto sociale cominciò a dirigersi verso il Sepolcro del Salvatore. È in questo clima di tensione religiosa che si inseriscono le riproduzioni architettoniche degli edifici della Terra Santa, in particolare del Santo

FOTO: SEPOLCRO, LE FASI COSTRUTTIVE TRA IV-XII SECOLO

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Sepolcro e dei suoi singoli elementi, su tutti l’Anastasis e l’Edicola, basati sui resoconti scritti e figurativi redatti dai pellegrini di ritorno dai pellegrinaggi. L’esempio più antico è la chiesa cimiteriale di Sankt Michael a Fulda, in Germania, eretta tra l’820 e l’822 dall’abate Egil con la collaborazione di Rabano Mauro, che nella sua dedica per l’altare maggiore non lascia dubbi sulla relazione con il Santo Sepolcro: “In primo altare: Hoc altare deo dedicatum est maxime Christo cuius hic tumulus nostra sepulcra juvat”. L’edificio è costituito da un vano circolare, le cui colonne sostengono una parete cilindrica sormontata da una cupola ottagonale, sotto al quale è ricavata una cripta. Sempre in Germania due secoli più tardi Meinwerk, vescovo di Padeborn, volle edificare una chiesa “ad similitudem s. Ierosolimitane ecclesie” e, nel 1033, inviò a Gerusalemme l’abate Wino di Helmashausen, per ricavare le dimensioni e riprodurre la pianta del Sepolcro. I lavori

cominciarono al ritorno dell’abate nel 1036 e terminarono soltanto nel 1068. L’edificio presenta una planimetria ottagonale nella quale si innestano quattro ambienti rettangolari, una chiara riproposizione delle absidi presenti nel modello gerosolimitano. Anche la rotonda di Lanleff, presso Caen in Francia, innalzata nel tardo XI secolo, voleva essere una copia dell’Anastasis: un vano centrale è circondato da un deambulatorio, costituito da dodici piedritti, dal quale sporgono asimmetricamente tre absidi. Anche se lo studio delle fonti non ha accertato nessuna dedica, il rimando all’originale è chiaro nella riproposizione delle absidi semicircolari. Anche in Italia ci sono testimonianze interessanti come a Bologna ove, sin dall’887, il complesso di Santo Stefano è ricordato dalle fonti come “Sanctus Stephanus qui vocatur Hierusalem”, ma soltanto nel XII secolo raggiunse il massimo splendore. In questa fase, oltre alla trasposizione

FOTO: FULDA, SAINKT MICHAEL, INTERNO (FONTE: ANTONIO CADEI, ARTE MEDIEVALE, 2002, I, ROMA, SILVANA EDITORIALE)

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Imitationes e simbologia del Sepolcro di Cristo nel Medioevo dell’Anastasis in un edificio ad alzato ottagonale con colonnato interno a pianta dodecagonale, nell’area circostante vengono riproposti, a imitazione di Gerusalemme, luoghi che furono teatro della Passione di Cristo. Nell’Abbazia di Fruttuaria, in Piemonte, eretta da Guglielmo da Volpiano tra il 1003 e il 1006, viene riproposta la riproduzione dell’Edicola. L’edificio ha una terminazione a cinque absidi attraversate da un transetto, al cui incrocio con la navata centrale sorgeva una piccola rotonda in muratura. La forma e le dimensioni ne hanno consentito un diretto confronto con la rotonda aquileiese eretta tra il 1031 e il 1077. Il puntuale riscontro tra le strutture è stato messo in relazione con la vasta diffusione del De Locis sanctis libri tre, testo redatto dall’abate Adamnano sulla base dei resoconti e degli schizzi di Arculfo. Questi, vis-

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suto nella seconda metà del VII secolo, intraprese un viaggio in Terra Santa, dove soggiornò nove mesi visitando i principali luoghi della venerazione cristiana. Nel viaggio di ritorno in patria, colto da una tempesta, approdò sull’isola di Iona nelle Ebridi, sede di un famoso monastero fondato da S. Colombano nel VI secolo, il cui abate era proprio Adamnano. Più complessa appare la storia della chiesa del Santo Sepolcro di Milano: qui si registra la presenza dell’imitatio sepulcri e di un sistema memoriale costituito da sacelli e simulacri della Vita e Passione di Cristo, il cui studio simbolico non può essere affrontato in poche righe. Inquadrabile nell’XI secolo, un documento del 1036 cita come committente Benedetto Rozo; il complesso si distingue per un inedito sviluppo della cripta, che viene ad occupare tutta la lunghezza

FOTO: GERUSALEMME CELESTE, LA “CITTA DI CRISTO”, ERA UNO DI TEMI PIÙ DIFFUSI NELL’ICONOGRAFIA MEDIEVALE. LA SI IMMAGINAVA DOTATA DI DODICI PORTE E PERFETTAMENTE REGOLARE, IN NETTA ANTITESI CON IL CAOS URBANISTICO DELLE CITTÀ MEDIEVALI (FONTE: FILOSOFIA MEDIEVALE. DA SANT’AGOSTINO A SAN TOMMASO, GIUNTI EDITORE, MILANO, 2006)

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dell’edificio, nella quale trovava spazio, probabilmente sotto l’altare presbiteriale e raggiungibile da qualche tipo di collegamento di cui oggi non rimane traccia, l’imitatio sepulcri. Le strutture finora esaminate, pur essendo specificatamente dedicate al Santo Sepolcro, ne riprendono solo alcuni elementi, peraltro architettonicamente molto differenti dal modello originale. In effetti nessuna fonte medievale mette in evidenza le qualità formali e strutturali di un edificio, considerando invece gli aspetti pratici, liturgici e simbolici. Evidentemente gli uomini del Medioevo avevano un’idea diversa dalla nostra su ciò che rende un edifico paragonabile ad un altro.

La simbologia nelle imitationes

tra fine IV inizi V secolo, nello scritto De Quantitate animae, afferma che il cerchio è simbolo della virtù per la regolarità e l’armonia delle sue caratteristiche formali (“congruentia rationum atque concordia”) mentre Eusebio di Cesarea, anch’egli vissuto nel IV secolo, descrive, nella Vita Constantini, l’Anastasis circolare come matrice della Gerusalemme celeste. Concetto ripreso ed elaborato, sempre nel corso del IV secolo, da Socrate Scolastico che, nella Historia ecclesiastica, instaura una identità nominale fra il Santo Sepolcro e la Gerusalemme celeste. Conseguentemente le parole di Cirillo di Alessandria per cui “la Chiesa è immagine per imitazione della Gerusalemme celeste” trovano eco, nel XII secolo, nelle considerazioni che il teologo Candido di Fulda mette per iscritto nel suo Vita Eigilis: secondo l’autore il cerchio simboleggia la Chiesa che non ha mai fine e contiene in sé i sacramenti; rappresenta anche il regno dell’eterna maestà divina e la speranza nella vita futura (“praemia mansura quibus iusti merito coronatur in aevum”). Altre interpretazioni sul significato simbolico del cerchio si ebbero in

Le fonti medievali attestano come, sin dal IV secolo, fosse diffusa l’inesattezza nel descrivere le forme geometriche. Gregorio di Nissa, pur scusandosi di utilizzare una terminologia imprecisa, parlava della pianta ottagonale di una chiesa come di un cerchio con otto angoli, e con il passare dei secoli questo genere di distinzioni divenne sempre meno rigoroso. Nel VI secolo Isidoro di Siviglia diventa estremamente vago: nei suoi scritti una sfera è una figura rotonda simile a sé stessa in ogni sua parte; un cilindro è una figura quadrata con un semicerchio alla sommità. Un secolo dopo, nel De locis sanctis libri tres, Arculfo definisce l’Edicola dell’Anastasis e altri luoghi santi come rotundi, quando in realtà noi sappiamo non esserlo affatto. Anche l’Anonimo pellegrino riporta in un disegno tre edifici che asserisce aver visto di persona: al centro, l’Anastasis è resa come un cerchio perfetto privo di absidi e sostegno. Evidentemente, dietro a quelli che un contemporaneo definirebbe “errori”, vi sono criteri connessi al significato simbolico e numerologico. FOTO: LA RESURREZIONE DI CRISTO, PIERO DELLA FRANCESCA (1463), Già Agostino d’Ippona, vissuto MUSEO CIVICO DI SANSEPOLCRO (AR) (FONTE: WIKIPEDIA)

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Imitationes e simbologia del Sepolcro di Cristo nel Medioevo tutto il Medioevo fino a Dante. Parallelamente si avvia un interpretazione simbolica delle Sacre Scritture che riunisce nell’area sacra del Sepolcro i segni, le memorie e i simboli della cosmogonia: qui venivano rappresentati metaforicamente il centro della terra, la tomba di Adamo, il ricordo del sacrificio di Abramo e di Melchisedek. Anche i numeri assumono un significato simbolico importante. In particolare l’otto e il dodici ebbero nell’architettura medievale e, nel caso specifico, nella riproposizione di alcuni elementi nelle copie degli edifici, un ruolo di primaria importanza, in quanto la loro quantità numerica è relazionata ai valori simbolici che essi avevano nella dottrina medievale. Il dodici, specialmente in connessione alla tomba di Cristo, richiamava alla mente in modo quasi automatico il numero degli apostoli. Agostino, nel Iohannis evangelium, afferma che il numero dodici è il risultato del prodotto di tre, le persone della Trinità, per quattro, le regioni del mondo in cui gli apostoli predicavano i quattro vangeli. Per Eusebio, nella Vita Constantini, il dodici rammenta i discepoli di Gesù mentre Arculfo associava il numero di questi ultimi a quello delle lampade che pendevano, in tre gruppi di quattro ciascuna, nel Santo Sepolcro. Anche il numero otto era ricco di significati implicando riferimenti, come già sostenuto nel IX secolo da Scoto Eriugena, alla domenica della Pasqua, alla Pentecoste, alla rinascita, all’immortalità e soprattutto alla Resurrezione: era anzi il simbolo stesso del Redentore. In questo senso va sottolineato quanto affermato da Agostino nelle Epistolae: “[…] ut octavus primo concinat” ovvero il numero otto era considerato come un “ritorno” del numero uno e quindi un simbolo di rigenerazione. Tuttavia anche in questo caso le interpretazioni non sono univoche: Candido di Fulda,

Filippo Bardotti Nato a Biella il 12 giugno del 1983. Laureato in Archeologia e Storia dell’Arte a pieni voti. Da novembre 2010, Dottorando in Archeologia e Antichità Post-

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Filippo Bardotti

nella descrizione della chiesa di Sankt Michael a Fulda, vede nelle otto colonne un simbolo non della Resurrezione ma delle Beatitudini.

Conclusioni Quanto esaminato finora mi sembra sufficiente ad affermare come, per la realizzazione delle imitationes, fossero ripresi e riproposti solo alcuni elementi e strutture architettoniche, il cui significato simbolico e numerologico richiamava nella mente dei fedeli l’archetipo originale. Deichmann, in un suo saggio del 1983 intitolato Archeologia Cristiana, manifestò forti dubbi sulla possibilità che nell’età paleocristiana l’architettura esprimesse dei significati: a suo giudizio le interpretazioni simboliche della forma delle chiese furono elaborate solo a partire dall’età carolingia e, nella maggioranza dei casi, “le interpretazioni sistematiche della forma delle chiese” furono attribuite a edifici già esistenti. Condizionamenti semantici si ebbero solo in alcuni campi: nell’orientazione delle chiese, talvolta nel simbolismo del tre e dell’otto e in altre situazioni che esulano dal contesto di nostro interesse. Tuttavia, a fronte di quanto da me trattato e alla luce delle più recenti indagini e testimonianze archeologiche, mi trovo in accordo con quanto asserito da Krautheimer, nell’ormai lontano 1942, nel saggio Introduction to an “Iconography of Medieval Architecture”: “Fin dall’età paleocristiana e per tutto il medioevo sia le descrizioni e le rappresentazioni grafiche di edifici, sia le copie architettoniche non furono altro che una vilis figuratio, per la quale era sufficiente scegliere un certo numero di elementi essenziali: la scelta di tali elementi e il loro risalto visivo erano determinati dall’importanza delle loro connotazioni religiose”.

Classiche (III-XI sec.) presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Buona conoscenza dell’Inglese e ottima del Francese. Già collaboratore della rivista SPHERA (Acacia Edizioni). Oltre a svolgere attività scientifica propria del mio settore di ricerca, sono uno studioso di Antiche Civiltà e Storia, Architettura e Simbologia Medievale.

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FOTO: LO SBARCO DI COLOMBO NELLE AMERICHE

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un fatto ormai generalmente accettato che non fu Cristoforo Colombo a scoprire il continente americano. Quando, il 12 ottobre 1492, le tre famose caravelle sbarcarono sulla costa di un’isola dei Caraibi, erano state ormai da secoli precedute dalle imbarcazioni di altri navigatori provenienti dal Vecchio Mondo. Attorno al 1000, una spedizione vichinga guidata da Leif Eriksson, figlio di Erik il Rosso, lo scopritore della Groenlandia, avrebbe raggiunto una terra posta ad occidente della Groenlandia stessa, che i Vichinghi chiamarono Vinland (dal termine “Vin” che significa “pascolo” in lingua norrena) e che dovrebbe corrispondere a Terranova o al Labrador. Questo racconto, a lungo ritenuto leggendario, è stato comprovato nel 1961 dalla scoperta dei resti di un villaggio vichingo a L’Anse aux Meadows, nella parte settentrionale dell’isola di Terranova. Come se non bastasse, in tempi più recenti,

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davanti alle coste cilene sarebbero stati ritrovati i resti del naufragio di una giunca cinese che, dai cocci di stoviglie ad essi associati, farebbero risalire l’imbarcazione all’epoca Ming. Una cosa comunque è sicura, che molto prima dell’arrivo di Colombo, dei Vichinghi e dei Cinesi, il continente americano era intensamente popolato, vi erano sorte culture stanziali e grandi civiltà che ci hanno tramandato le tracce di ampli complessi urbani, edifici imponenti, opere d’arte di elaborata fattura, talvolta i segni di una conoscenza che non cessa di stupirci, come nel caso della matematica e dell’astronomia maya. Un punto importante che dobbiamo sempre tenere presente è che, nonostante il raggiungimento di questi importantissimi sviluppi, tutto quanto riguarda la storia delle Americhe precedente al 1492 per noi è preistoria, sfuma in una nebbia indistinta. Perché nel XVI secolo i conquistadores non si limitarono a sottomettere le

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La storia perduta delle Americhe civiltà più evolute del “nuovo mondo” ovvero Aztechi, Incas e quel che rimaneva della civiltà Maya; ma fecero di tutto per annientarle in ogni loro aspetto, a cominciare dalla distruzione di tutti documenti scritti. Ed in tal modo interi, importantissimi capitoli della storia umana furono consegnati all’oblio. Secondo l’ipotesi più comunemente accettata, le popolazioni amerindie avrebbero avuto origine da bande di cacciatori nomadi siberiane che durante l’età glaciale, circa 12.000 anni fa, avrebbero attraversato quello che oggi è lo stretto di Bering che, a causa dell’abbassamento del livello degli oceani conseguente alla glaciazione, si sarebbe trasformato in un ponte di terra emersa (denominato Beringia). Solo in tempi molto recenti si è cominciato a pensare che questa sia solo una parte della storia, in realtà molto più complessa, dell’antico popolamento delle Americhe. Spesso è necessario semplificare per poter scoprire la complessità sottostante. Questo è certamente avvenuto nel caso dello studio delle origini delle popolazioni native americane. Per

Fabio Calabrese prima cosa, occorre tenere presente che le affinità linguistiche fra le varie popolazioni umane riflettono (perlopiù) le loro parentele biologiche. Fenomeni per i quali un popolo è costretto ad abbandonare la propria lingua e la propria cultura per adottare forzatamente quelle di una popolazione completamente diversa, come è avvenuto ad esempio per gli afro-americani, sono piuttosto rari e compaiono relativamente tardi nella storia, ragion per cui siamo legittimati a ritenere che l’albero genealogico delle lingue umane rifletta con buona approssimazione quello delle popolazioni. Nel 1957 il linguista Joseph Greenberg propose una teoria che allora apparve rivoluzionaria: quasi tutte le lingue parlate dalle popolazioni native americane, e di conseguenza le popolazioni stesse, dal Canada alla Terra del Fuoco, avrebbero avuto un’unica origine, riconducibile ad una migrazione avvenuta in epoca preistorica dall’Asia settentrionale; apparterrebbero ad una stessa famiglia che egli denominò amerindia. Quasi tutte, perché Greenberg individuò due importanti eccezioni: i linguaggi (e le popolazio-

FOTO: RICOSTRUZIONE DELL’INSEDIAMENTO VICHINGO DI L’ANSE AUX MEADOWS (FONTE: WWW.VISUALPHOTOS.COM)

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Fabio Calabrese ni) dei ceppi Na-Dené ed eschimo-aleutino, che sarebbero invece riconducibili a migrazioni distinte avvenute in tempi successivi. E’ del tutto logico presumere che se il ponte di terra della Beringia che collegava l’estremità orientale dell’Asia con il continente americano è esistito per alcune migliaia di anni, sia stato percorso in tempi diversi da popolazioni diverse. Il gruppo Na-Dené comprende i linguaggi parlati da diverse popolazioni stanziate nel Canada e nell’Alaska, quali gli Athabaska ed i Tlingit. Il gruppo più diffuso di queste popolazioni nella parte meridionale del Nordamerica è rappresentato dai Navajo. Questi popoli sembrano presentare maggiore affinità genetica con le popolazioni che vivono ancora oggi nella Siberia centrale che con gli altri nativi americani, e discenderebbero da una migrazione avvenuta attorno al sesto millennio avanti Cristo, ottomila anni fa, quattro millenni dopo quella che avrebbe portato nelle Americhe gli antenati degli altri nativi Americani, gli Amerindi veri e propri. Di origine ancor più recente, sarebbero gli Inuit o Eschimesi parlanti una lingua del ceppo eschimo-aleutino, che avrebbero raggiunto il continente americano addirittura in epoca storica, quella che per noi è la tarda antichità o i primi secoli del medioevo, evidentemente non servendosi dell’ormai scomparso ponte di terra della Beringia, ma superando il breve tratto di mare dello stretto di Bering. L’analisi del DNA mitocondriale avrebbe dimostrato che i Fuegini, ossia gli abitanti della Terra Del Fuoco, e alcune popolazioni della Patagonia farebbero gruppo a sé, un gruppo che è stato (provvisoriamente?) denominato paleoamerindio, sarebbero il residuo di una primissima migrazione che avrebbe varcato la Beringia tra 20.000 e 13.000 anni fa, per essere spinti poi

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FOTO: LAME E PUNTE DI FRECCIA DELLA CULTURA CLOVIS

sempre più verso il margine meridionale del continente dalle successive ondate di migrazione. Sempre a questo gruppo paleo-amerindio apparterrebbero i Pericu della Bassa California. Per quest’ultima popolazione, la penisola californiana sarebbe stata un cul de sac che avrebbe impedito loro di spostarsi più a sud. Recentemente (10 marzo 2011) un interessante articolo su queste popolazioni, sfortunatamente non firmato, è apparso sul sito de “L’orologiaio miope”. Ne riporto uno stralcio: “Risultati molto interessanti si sono ottenuti infatti analizzando il DNA mitocondriale della seconda popolazione più remota ed isolata del pianeta1, quella complessivamente chiamata dei “Fuegini”, ovvero abitanti della Terra del Fuoco (punta meridionale dell’Argentina e del Cile), suddivisa in realtà in quattro popolazioni ben distinte 1) ������������������������������������������������ La prima, la più isolata (dal punto di vista genetico) popolazione della Terra sarebbero i Kalash dell’Afghanistan, come è spiegato nel proseguo dell’articolo.

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La storia perduta delle Americhe tra loro, Selknam (Ona) e Yamana, (i due gruppi più meridionali e più isolati) Kaweskar (Alacaluf) e Aonikenk (Haush) più a nord, in Patagonia. Secondo diversi autori che hanno analizzato il DNA di questi popoli, i fuegini sono i discendenti della prima popolazione che arrivò in America passando dallo stretto di Bering, circa 20.000 anni fa, ben prima dei Clovis. Successive ondate migratorie spinsero questo popolo sempre più a sud, sino a che si trovò chiuso nel vicolo cieco della Isla Grande e degli isolotti circostanti, alla punta estrema della Terra del Fuoco”.2 Probabilmente, però, l’aspetto più interessante è che i Fuegini erano completamente diversi da tutti gli altri Amerindi e/o popolazioni giunte nelle Americhe dall’Asia orientale attraverso lo stretto di Bering: “ I crani di Fuegini fossili non mostrano i caratteri mongoloidi (non vorrei essere fraintesa, intendo le caratteristiche somatiche altaiche tipiche dei popoli orientali) tipici invece degli Amerindi”.3 A dire la verità, che i Fuegini non avessero molto a che spartire con gli amerindi, anche senza le analisi del DNA mitocondriale lo si poteva già sospettare, se non altro perché i Tehuelche, gli Amerindi della Patagonia, manifestavano nei confronti dei Fuegini un vero e proprio odio razziale che raggiungeva l’apice nei confronti dei sanguemisto amerindio-fuegino. La teoria di Greenberg, che mezzo secolo fa era un’ipotesi rivoluzionaria, oggi è, per così dire, la versione ufficiale. Bene, possiamo dire tranquillamente che i conti non tornano, e ci sono molte cose che essa non spiega, anche una volta corretta con l’aggiunta del quarto ramo paleoamerindio. Per prima cosa, la presenza dell’uomo sul continente americano sembra risalire molto più indietro nel tempo rispetto ai 12.000 anni contemplati dall’ipotesi di Greenberg, e pure i 20.000 anni che sono stati ipotizzati correggendo la sua teoria al rialzo per fare posto al gruppo paleoamerindio risultano ancora troppo pochi, circa la metà del tempo a cui risalirebbero le più antiche tracce umane sul continente americano, che alcuni ritrovamenti, come vedremo, farebbero col2) Sottospecie e popolazioni, la solitudine di h. sapiens, “L’orologiaio miope” (www.lorologiaiomiope.com). 3) Ibid.

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Fabio Calabrese locare a ben 40.000 anni fa. In secondo luogo, siamo ben sicuri che fino ai vichinghi e a Colombo l’unica via per accedere al continente americano fosse rappresentata soltanto dal ponte di terra della Beringia e/o dallo stretto di Bering? E se la navigazione transoceanica fosse molto più antica di quanto abbiamo finora supposto? In fin dei conti, l’Australia è stata raggiunta via mare dall’uomo circa 70.000 anni fa, e i Polinesiani hanno conquistato il Pacifico navigando su zattere di balsa. Qualche tempo dopo la pubblicazione in internet di una prima versione di questo articolo, un mio conoscente che indicherò con le iniziali, C. R., mi fece avere la comunicazione che vi trascrivo, purtroppo senza specificare la fonte: “Recenti studi di paleoparassitologia hanno dimostrato che alcune popolazioni precolombiane conservavano nel loro intestino tracce di parassiti che non sarebbero potuti sopravvivere alle rigide temperature e al tipo di alimentazione a cui i movimenti migratori attraverso lo stretto di Bering erano sottoposti. Parassiti che ancora oggi non esistono nelle popolazioni Inuit, per esempio. Perciò, questi parassiti come ci erano arrivati nelle Americhe? Per rispondere alla questione è necessario affiancare alla tesi delle migrazioni glaciali anche la possibilità di flussi atlantici a latitudini temperate. Qualcuno attraversò l’oceano in epoche assolutamente insospettabili. Chi, quando e da dove forse ce lo dirà la genetica”.4 Occorre perlomeno prendere in considerazione l’ipotesi che le Americhe possano essere state raggiunte via mare già in età preistorica, a latitudini molto più basse di quelle che finora sono state considerate. Possiamo ipotizzare la presenza nelle Americhe di popolazioni ancora più antiche dei paleo-amerindi, ossia gli antenati dei fuegini e dei Pericu? (in via ipotetica indicheremo queste ultime con il termine di paleo-americani). Sembrerebbe proprio di poter dare una risposta affermativa a questa domanda, perché la rivista “Nature” nel numero del settembre 2003 segnala i risultati davvero sorprendenti di una ricerca condotta su 33 crani molto antichi ritrovati nella Bassa California, che sembrerebbero presentare delle affinità genetiche piuttosto con le 4) C. R. comunicazione privata, settembre 2009.

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popolazioni dell’Asia meridionale che non con quelle della Siberia. Queste genti potrebbero avere raggiunto l’America via mare oppure avere addirittura preceduto i paleo-amerindi (fuegini-Pericu), gli amerindi, i Na Dene e gli Inuit attraverso la Beringia. Possiamo, infatti, ipotizzare che popolazioni originarie dell’Indocina e di quella che è oggi l’Indonesia avrebbero potuto espandersi verso settentrione risalendo la costa orientale dell’Asia, fino a raggiungere l’estremità settentrionale del continente e da qui le Americhe, prima che i mongoli “classici” formatisi come etnie nell’Asia centrale superassero l’altopiano tibetano e la catena dell’Himalaya, che nell’età glaciale dovevano costituire una barriera invalicabile. Se l’ipotesi dei paleo-americani sud-asiatici ha un fondamento, allora bisogna porsi il problema se costoro siano FOTO: UNA DELLE GIGANTESCHE TESTE OLMECHE DAI LINEAMENTI NEGROIDI completamente scomparsi all’avvento degli amerindi, o picale. In compenso, è scarsamente sviluppata abbiano lasciato qualche traccia dal punto di o assente la plica mongolica, la piegatura delvista genetico. Al riguardo, potrei allegare una la palpebra che forma il caratteristico “occhio a specie di ricordo personale risalente a qualcomandorla”, proprio come negli Amerindi. sa come quarant’anni fa: un documentario teQuesto potrebbe spiegare la comparsa/rilevisivo (allora c’era solo la RAI) su di una tribù comparsa di caratteri “australoidi” in una popolaamazzonica i cui lineamenti erano definiti “auzione amazzonica: si tratterebbe di un atavismo straloidi”. Già allora, adolescente dalle molte cuo di un vantaggio selettivo nell’ambiente troriosità, la cosa mi colpì perché in totale contrasto picale (gli amerindi che vivono nella fascia trocon quanto sappiamo, o si pretende di sapere, picale non presentano adattamenti accentuati sull’antropologia dell’America meridionale. alle condizioni climatiche di queste latitudini, ad Rispetto al “classico” mongolo, l’asiatico meesempio una pigmentazione scura come quella ridionale, il tipo malese-indonesiano presenta di africani e melanesiani, e questa è una prova pelle più scura, labbra più tumide, narici più aldi un’immigrazione relativamente recente), o più largate, caratteristiche che condivide con altre probabilmente di una combinazione di entrampopolazioni come australoidi, appunto, africabe le cose. ni, “negritos” delle Filippine e delle Andamane, Questo insieme di caratteristiche può forse Melanesian,i non tanto per parentela, quanto spiegare i tratti fisici peculiari del popolo che per adattamento convergente ad un clima tro-

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La storia perduta delle Americhe ha dato vita alla più antica e più misteriosa delle culture precolombiane: gli Olmechi (senza peraltro escludere che potesse trattarsi di una “vera” popolazione negroide di origine africana giunta nell’America meridionale attraverso l’Atlantico). Quello degli Olmechi costituisce uno dei più affascinanti ed intriganti misteri dell’archeologia precolombiana: questo popolo e questa cultura sembrano comparire dal nulla nell’America centrale 3.500 anni fa, quindici secoli prima di Cristo; una cultura che appare subito matura, che ci ha lasciato notevoli opere ingegneristiche e scultoree, che sembra essere la civiltà madre di tutte le successive culture mesoamericane, compresi i maya e gli aztechi, e che scompare altrettanto all’improvviso, lasciando dietro di sé una cinquantina di sculture ed alcune enormi teste di pietra dai tratti marcatamente “negroidi”. Erano forse i discendenti di paleo-americani di origine sud-asiatica con caratteri fisici “negritici”? Questa però è solo una parte della storia. Sembrerebbe che quelli di origine sud-asiatica non siano i soli paleo-americani con cui abbiamo a che fare, ma che nell’America preistorica si siano confrontate due popolazioni distinte di origine del tutto diversa. Altri ritrovamenti di resti umani e indizi archeologici suggeriscono infatti la presenza di un altro ceppo di paleo-americani dai tratti fisici “caucasoidi” e di origine europea. Studiando gli attrezzi litici dell’età della pietra del continente americano, si incontra in primo luogo la cultura Clovis, così chiamata dal sito del Nuovo Messico dove per la prima volta questi manufatti furono rinvenuti nel 1929. Questi ultimi consistono in punte di lancia e di freccia di lavorazione raffinata (al punto che noi oggi, abituati agli utensili di metallo, ci stupiamo di cosa hanno saputo fare gli uomini preistorici con la pietra, con quanta abilità, precisione e senso estetico siano riusciti a lavorarla); la cultura Clovis si sviluppò attorno a 12.000 anni fa, e scomparve all’avvento della mini-età glaciale nota come Dryas superiore; finché 9.000 anni fa compare la cultura Folsom, derivata da essa, che è considerata quella che ha portato la lavorazione della pietra scheggiata al più alto livello di perfezione in assoluto, tra gli strumenti litici del Vecchio e del Nuovo Mondo.

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Fabio Calabrese Ebbene, a questo punto arriva la sorpresa, perché nel 1999 due archeologi dello Smithsonian Institute, Dennis Stanford e Bruce Bradley, si sono accorti che l’industria litica Clovis non presenta nessuna somiglianza con quella della Siberia da cui provengono gli antenati degli Amerindi, ed ha invece una somiglianza spiccata con un’industria litica europea, quella solutreana. Non basta. Sebbene il sito che ha dato il nome a questa cultura, Clovis, appunto, si trovi nel Nuovo Messico, la maggior parte dei siti in cui compaiono questi manufatti si trova nell’est degli attuali Stati Uniti, concentrata soprattutto attorno alla Chesapeake Bay, la grande baia che lambisce tre stati: Virginia, Delaware e Maryland, oltre al Distretto di Columbia: una disposizione che suggerisce una provenienza dal mare ed un irradiamento da est verso ovest. Nell’età glaciale, argomentano Stanford e Bradley, il livello degli oceani era significativamente più basso di oggi a causa della grande quantità di acqua imprigionata sotto forma di ghiaccio sulle masse continentali; inoltre un’ininterrotta “linea costiera” di ghiacci si estendeva dalla sponda europea a quella americana dell’Atlantico, inglobando l’Islanda e la Groenlandia. Per dei cacciatori solutreani che si spostassero lungo di essa a bordo di canoe dando la caccia a foche ed altri animali marini, ipotizzano i due archeologi, raggiungere il Nuovo Mondo sarebbe stato tutt’altro che impossibile. Se, come nel caso dei paleo-americani di origine sud-asiatica o africana, ci poniamo il problema delle tracce che questi antichissimi euroamericani possono aver lasciato, sarà ancora più facile dare una risposta positiva. Notiamo per prima cosa che all’epoca della conquista erano diffuse leggende su uomini di pelle bianca e barbuti che sarebbero comparsi all’improvviso dopo una catastrofe naturale (forse le inondazioni provocate dal disgelo seguito al dryas) per aiutare i nativi e portare loro una forma più elevata di civiltà; talvolta un uomo solo, più spesso un gruppo comunque identificato con il nome del suo leader: Viracocha in Perù, Quetzalcoatl o Gucumatz nell’America centrale E ed è anche noto come il ricordo di questi uomini divinizzati dai nativi spianò la strada alla conquista da parte degli Spagnoli, la cui invasione fu scambiata per il ritorno di Quetzalcoatl o

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Fabio Calabrese Viracocha. Questa è la descrizione di Quetzalcoatl raccolta dal cronista spagnolo Juan de Torquemada, riportata da Graham Hancock nel libro Impronte degli dei 5: “Un uomo biondo dalla carnagione rubizza e una lunga barba”. Notiamo anche che gli indios sono praticamente privi di barba, ed una barba fluente in uno straniero deve aver molto colpito i loro antenati. Un indio è glabro, ed è proprio per questo che i primi esploratori europei giunti nel continente sudamericano, incontratili, credettero di essersi imbattuti in delle donne guerriere, e perciò chiamarono Rio delle Amazzoni il grande fiume che attraversava il continente, e Amazzonia la regione che lo circondava. Ma leggende e descrizioni dello stesso genere, di uomini bianchi e barbuti che di volta in volta prendono il nome di Quetzalcoatl, di Viracocha, di Gucumatz, sono frequentissime in tutta l’America amerindia. Tuttavia le tracce di una presenza “bianca” nelle Americhe molto più antica di Colombo ed anche delle spedizioni vichinghe non si trovano solo nelle leggende. gli Spagnoli giunsero in Perù, ad esempio, notarono con sorpresa lineamenti “europei” e carnagione chiara fra i membri dell’aristocrazia incaica. In particolare le “coyas”, le “care donne” scelte fra le più belle ragazze di alto lignaggio per formare l’harem dell’Inca, erano di pelle più chiara di quella degli Spagnoli. Gli Spagnoli notarono anche che in particolare gli abitanti della parte più meridionale del continente avevano, se non proprio caratteristiche somatiche europee, una complessione fisica eccezionalmente robusta per degli indios, alta statura, mani e piedi sorprendentemente grandi; e questa regione, la Patagonia, porta ancora oggi il nome che deriva dal nomignolo che gli Spagnoli affibbiarono ai suoi abitanti: “Patagones”, “piedoni”. Questo non è certamente tutto: intere popolazioni dai lineamenti inspiegabilmente “caucasici”, “bianchi”, “europei” furono osservate sia nell’America settentrionale che in quella meridionale. La più nota fra queste, probabilmente, è quella dei Mandan, una tribù di “amerindi” oggi estinta che abitava nella zona del bacino del Mississipi5) Graham Hancock: degli dei (of the Gods), RCS Libri Milano 2005, pag. 134.

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La storia perduta delle Americhe Missouri, che colpì gli europei per la sua carnagione chiara, i lineamenti di tipo europide, i capelli spesso biondi dei suoi membri. Su questi strani “indiani” è disponibile on-line un articolo di Giuseppe Pirazzo e Francesco Vitale, Il mistero degli indiani Mandan, di cui riporto alcuni stralci: “A partire dal XVII secolo, vari esploratori vennero in contatto, nella regione dell’America Settentrionale corrispondente all’attuale stato del North Dakota, con una tribù di Indiani, i Mandan, aventi caratteristiche somatiche tipicamente europee (capelli biondi o rossi, occhi azzurri e pelle chiara). Per spiegare tali peculiarità, gli Autori espongono le varie teorie avanzate dagli studiosi, a partire da quelle, coeve con la scoperta di questi Pellirosse, che li volevano discendenti dai Gallesi, fino a quelle, più recenti, che li vogliono discendenti dai Vichinghi”.6 Teorie che, come spiegano gli autori, non reggono per un motivo o per l’altro; anche se, onestamente, non mi sembra persuasiva neppure quella proposta dagli stessi autori, secondo la quale le caratteristiche dei Mandan si spiegherebbero con una decolorazione dell’epidermide prodotto da minerali radioattivi. Nello stesso articolo, Pirazzo e Vitale fanno riferimento anche ad altre popolazioni native americane stranamente “bianche”: “Gli Aracani, Indios della Bolivia, hanno caratteristiche somatiche molto vicine a quelle, indoeuropee, dei “bianchi”. Abitano nella città di Tiahuanaco, ma sono presenti, in minor numero, nelle zone bagnate dal Rio Guaporé, fiume che, presso il confine con il Brasile, si unisce al Rio Beni, formando il Rio Madeira”.7 Notiamo che si parla proprio di una popolazione che abita la zona dove si trova uno dei complessi archeologici in assoluto più antichi e misteriosi dell’America meridionale, Tiahuanaco, la “Stonehenge del Sud America” come è stata definita. Tuttavia, le prove meno contestabili rimangono in ogni caso i reperti paleoantropologici, ed anche qui le evidenze sorprendenti che ci inducono a pensare che la storia più antica delle Americhe sia tutta da riscrivere non man6) Giuseppe Pirazzo e Francesco Vitale: Il mistero degli indiani Mandan, on line. 7) Ibid.

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FOTO: RICOSTRUZIONE DEI LINEAMENTI FACCIALI DELL’UOMO DI KENNEWICK

cano. Fra di queste, forse la più notevole è rappresentata dal cosiddetto uomo di Kennewick, un nativo americano vissuto circa 9.000 anni fa, i cui resti furono ritrovati nel 1998, appunto a Kennewick, località dello sta-

Fabio Calabrese Nato a Trieste il 12 novembre 1952, sposato, due figli. Laureato in filosofia, docente di scuola superiore. Ha una vasta produzione su argomenti vari. Suoi articoli riguardanti la filosofia e la didattica sono apparsi sul Bollettino della Società Filosofica Italiana e sulla rivista Insegnare. Nel campo della narrativa, ha pubblicato due antologie di racconti, Occhi d’argento (Perseo/Elara Libri, Bologna) e Nel tempio di Bokrug (Dagon Press, Pineto – TE) e di un

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Fabio Calabrese to di Washington sulle rive del fiume Columbia; si tratta di uno degli scheletri meglio conservati di antichi nativi americani di cui disponiamo. Dalle analisi del cranio e dalla ricostruzione dei lineamenti facciali che sono state effettuate, è risultato non solo che l’uomo di Kennewick aveva lineamenti prettamente caucasici, ma è emersa anche una curiosa e certamente casuale somiglianza con un noto attore, Patrick Stewart, interprete di pellicole fantascientifiche come X-Men e Star Trek, The Next Generation dove interpreta il ruolo del comandante Jean Luc Picard. Amerindi, Na-Dené, ed Eschimo-aleutini non sembrano sufficienti a completare il quadro etnico-antropologico delle Americhe precolombiane, e neppure aggiungendo il quarto (primo, in ordine di tempo) dei Fuegini-Paleo-amerindi; a tutti costoro sembra che dobbiamo aggiungere quanto meno due altri distinti ceppi di paleo-americani: sud-asiatici dalle caratteristiche “negrite”-melanesiane, che furono forse gli antenati degli Olmechi, e solutreani caucasoidi di origine europea. Le Americhe sembrano essere state un grande crocevia di etnie e culture già molti millenni prima di Colombo. Con certezza possiamo solo dire che soltanto adesso, dopo un oblio di cinque secoli, cominciamo a ricostruire una parte importante della storia della nostra specie su questo pianeta. Più cerchiamo di capire il nostro passato, più ci rendiamo conto di quante sono le cose che in realtà non sappiamo. Gli interrogativi, invece di sfoltire, si infittiscono. Ma, in fondo, è proprio questo il bello della ricerca. romanzo breve, Uomini e sauri sulla rivista “Futuro Europa”. Ha collaborato alla stesura dei due Dizionari del mondo di J. R. R. Tolkien, quello Rusconi del 1999, e quello Bompiani del 2003.

Incubi e prodigi Scudo di Bologna, 2012

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GIUSEPPE DI STADIO

Occhio per Occhio!

La perfetta fusione tra sacro e profano

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ra le innumerevoli caratteristiche distintive della civiltà egizia, troviamo al primo posto la simbologia. Attraverso il “geroglifico”, rappresentazione grafica di un soggetto o di un evento legato ad esso, la simbologia ha dato voce ad un popolo artistico ed esteta, quale appunto è stata la civiltà delle piramidi e dei faraoni. Oggi possiamo studiare i simboli egizi analizzando i milioni di reperti rinvenuti nei siti archeologici africani. Reperti e siti archeologici completamente saturi di riferimenti artistici a divinità, o semplicemente ad ordinarie scene di vita reale o di vita quotidiana del popolo. Paradossalmente, attraverso la loro simbologia, gli egiziani sono riusciti addirittura a fondere e far convivere insieme, nella stessa rappresentazione artistica, il sacro ed il profano. L’esempio per eccellenza di questa unione è sicuramente il famoso occhio di Horus. Chi, almeno una volta nella vita, non si è imbattuto, spesso anche inconsapevolmente, in questo straordinario emblema artistico e matematico allo stesso tempo. Facendo un panoramico sunto introduttivo della storia di Horus possiamo dire che il Signor Horus, o Hor in lingua madre, rappresenta una delle più importanti ed adorate divinità egizie. Dio - Sole, considerato la rappresentazione in

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FOTO: L’OCCHIO DI HORUS

vita del faraone sovrano regnante, allo stesso modo in cui Osiride rappresenta il faraone da defunto. Il Dio falco Ra è rappresentato spesso con le ali spiegate, a simboleggiare la protezione su tutti i sovrani regnanti della dinastia egizia. Emerso dalle acque primordiali del Nun, Horus fa del sole il suo corpo, divenendo di fatto simbolo di prosperità e di salute. La storia egizia racconta che l’occhio fu strappato alla divinità in seguito al combattimento tra il Dio-sole e Seth, Dio del male, che vive ed opera sulla Terra, avendo usurpato il potere al legittimo re Osiride, ucciso e tagliato in 14 pezzi. Le teorie più o meno fondate ed ufficializzate che orbitano intorno la simbologia del famoso occhio hanno una straordinaria caratteristica, del tutto inusuale quando si parla di mondo antico. Nessuna entra in conflitto con le altre. Spaziano nei vari campi del sapere, dalla medicina alla matematica, dall’architettura alla religione, ma senza mai contrastarsi tra di loro, semmai spesso completandosi e dandosi un senso a vicenda. Ciò che rende affascinante il simbolo in sé è appunto l’armonia che si crea quando si riescono a fondere diversi elementi, per dar vita in seguito ad una sola creazione perfetta. Questo lo possiamo appunto notare in tutte le teorie studiate fino ad oggi. Infatti, nella mate-

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Occhio per Occhio! matica egizia, le parti componenti l’occhio di Horus erano utilizzate per comporre frazioni aventi denominatore comune il numero 64. Il denominatore 64 era utile per rappresentare le unità di misura dei cereali nel raccolto. Sommando le frazioni che costituiscono l’occhio si ottiene 63/64... manca evidentemente 1/64. Ma la leggenda vuole che l’ 1/64 mancante sarebbe apparso solamente grazie ad una magia di Thoth. Tuttavia, se analizziamo la stele di Nebipusesostri, ci accorgiamo che entrambi gli occhi di Horus sono inseriti in un contesto geroglifico, che a sua volta rappresenta un’equazione matematica... dove il risultato finale è appunto 0... ecco svelato l’arcano! Ma come è arrivato questo simbolo fino ai giorni nostri? Per questo dobbiamo ancora una volta ringraziare il noto faraone Tutankhamon. E’ proprio sulla salma mummificata del faraone, precisamente sotto il 12° strato di bende che lo ricopriva, che gli archeologi, impegnati nell’analisi del sarcofago, hanno rinvenuto un amuleto raffigurante appunto una rappresentazione “stilizzata” dell’occhio. Per questo motivo, l’occhio è stato considerato prima di tutto come amuleto. Il prezioso simbolo era inserito nei bendaggi dei defunti, nei papiri e nelle incisioni, in quanto simbolo di rigenerazione e di rinascita. L’amuleto era portato sia da esseri umani che da animali, con l’auspicio di ottenere, dal Dio che rappresentava, protezione per sé e per la propria famiglia. In tal senso è possibile addirittura trovarlo all’esterno di qualche abitazione, per proteggerla dai malintenzionati. Spesso però è possibile imbattersi in due tipologie diverse di rappresentazioni dell’occhio di Ra. Infatti esistono, quasi paradossalmente, rappresentazioni sia dell’occhio sinistro che dell’occhio destro del dio egizio.

Giuseppe Di Stadio Studioso di archeologia, con la passione per la storia antica e l’antropologia. Assiduo ricercatore nell’ambito dell’ufologia da diversi anni. Relatore e collaboratore per diversi siti italiani, nonché appartenente allo staff del sito www.italiaparallela.it in qua-

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Giuseppe Di Stadio Questo però non ci deve indurre in dubbiose e titubanti riflessioni, ma bensì ci deve far rendere conto ancora di più della completezza della simbologia egizia. Quindi, come per l’occhio destro, anche la rappresentazione dell’occhio sinistro assume un proprio significato simbolico. Dalle raffigurazioni marmoree delle incisioni rappresentanti Horus possiamo notare che l’occhio sinistro è cavo: manca praticamente tutto l’apparato visivo. Per questo la tradizione vuole che l’occhio destro, perfettamente sano, è l’occhio del Dio che “Tutto vede e soveglia”, mentre quello sinistro, cavo e cieco, è l’occhio destinato all’umanità. Il significato è evidente e palese a tutti coloro che leggono la leggenda. Ancora una volta i due occhi si completano a vicenda. L’occhio cavo necessita di quello sano per poter vedere... e l’occhio sano non avrebbe senso di esistere senza l’occhio malato. Questa è solo una piccola analisi di 1 dei circa 10.000 simboli e geroglifici che oggi sono soggetto di studio da parte degli egittologi, degli archeologi e, in alcuni casi, anche di qualche ufologo. Infatti le tradizioni egizie riportano di Horus scene ben precise tratte dalla vita del dio: “Ra percorre ogni notte il mondo degli inferi, su di una nave reale, dove naviga lungo il Nilo celeste attraverso la Duat, superando Caos, per emergere ancora una volta all’alba, trionfante, protetto dal mostro Apep e Mehen. E’ colui che ha creato l’uomo, fu il primo faraone e ha stabilito i costumi della nostra civiltà”. Secondo i dogmi egizi, strettamente legati alle diverse razze aliene ad oggi conosciute, Horus era appunto colui che aveva donato la vita al genere umano, e letteralmente “Colui che tutto vede e sorveglia dall’alto” lità di amministratore e curatore del sito insieme ad Antonella Balboni, Monica Taddia e Giovanni Zaninelli. Il sito si prefigge la divulgazione informativa di argomentazioni prettamente inerenti al campo del “Mistero”, quali archeologia, ufologia, astrologia, leggende e tanto altro. Nonché la partecipazione ad argomenti di discussione sull’apposito forum dedicato.

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L’itinerario Burdigalense Le antiche vie del pellegrinaggio

La visita al Santo Sepolcro La prima visita al Santo Sepolcro in Gerusalemme risale all’alba del giorno dopo la crocifissione, quando Maria Maddalena, recatasi sul luogo della deposizione vide che la pietra usata per chiudere il sepolcro era stata rimossa e il corpo di Cristo scomparso, per l’avvenuta resurrezione. Nel 333 d. C. un cittadino di Burdigala, antico nome di Bordeaux, intraprese un lungo viaggio via terra dalla Francia alla Terra santa per visitare i luoghi dove si era svolta la vita di Gesù, camminare sulla strada che lo aveva condotto al Golgota per essere crocefisso e infine sostare in preghiera sul suo santo sepolcro. Erano passati venti anni dall’Editto di Costantino, che nel 313 d. C. aveva sancito il riconoscimento ufficiale della religione cristiana, liberalizzando un culto che

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era stato oggetto di feroce repressione da parte degli imperatori romani pagani. All’esemplare percorso religioso BurdigalaGerusalemme, attraverso la città di Costantinopoli, che ancora oggi è lungo ed estremamente difficoltoso, dettero l’avvio il pellegrino di Bordeaux e pochi altri coraggiosi, sicuramente motivati da un forte spirito d’intraprendenza e dal desiderio di manifestare la propria fede in Cristo. Da allora, con frequenze anche massicce, i pellegrini cristiani continuano ad accorrere in Terra santa, ma nella città di Gerusalemme convergono anche, tanto da Occidente quanto da Oriente, pellegrini di tre distinte religioni: l’ebraica, la cristiana e l’islamica. Ritenuta “città santa” Gerusalemme è vista come il luogo da dove sarebbe possibile diffondere la pace nel mondo e sulle sue vicende storiche e religiose si guarda con speranza e con fede. Nei pellegrini, guidati dal desiderio di voler

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L’itinerario Burdigalense raggiungere la meta attraverso difficoltà e pericoli, si legge l’intento a voler seguire le orme del sacrificio di Cristo. Solo così si può giustificare ai nostri occhi un viaggio che ancora oggi si presenta poco agevole, soprattutto dove il paesaggio è aspro e scarsamente popolato. Ieri come oggi li anima lo spirito religioso che incita a ripercorrere le tappe della presenza terrena di Gesù: a Betlemme, ad imitazione della prima visita dei Magi nella mangiatoia dove nacque, e a Gerusalemme dove subì il martirio, fu sepolto e risuscitò, ad imitazione della Maddalena e del burdigalense, per immedesimarsi nella sofferenza subita con il sacrificio in croce, avvenuto per riscattare l’umanità dal peccato.

L’itinerario Burdigalense Nel 333 d. C. la via orientale per raggiungere Gerusalemme da Bordeaux era tracciata in parte dalle vie consolari romane che conducevano a Costantinopoli, capitale dell’Impero romano d’Oriente, e in parte dal percorso del Danubio, la via fluviale che aveva favorito il diffondersi delle più antiche civiltà. I romani avevano esteso nel loro impero una rete viaria che s’irradiava da Roma in tutte le direzioni, penetrando nel territorio con rettilinei che rendevano possibili e rapidi gli spostamenti militari. Percorse però non solo per conquiste territoriali, ma anche per commercio, per incontri tra cittadini di varie località e per viaggi culturali, le vie romane contribuirono al progresso dei popoli. Frequentate già per innumerevoli motivi, lo furono anche in epoca cristiana. I loro percorsi rettilinei facilitavano il cammino e rendevano più vicina la meta religiosa dei pellegrini. Partito da Burdigala, il pellegrino francese si diresse verso Tolosa e, costeggiando in parte il Golfo del Leone, attraverso la via Domizia, la più antica strada romana costruita in Gallia, raggiunse Arles. In Provenza risalì verso il Moncenisio e, attraverso questo passo alpino, raggiunse Torino. Poi proseguì per la Via Postumia, costruita dai romani da Aquileia fino in prossimità di Genova per congiungere il mare Adriatico con il mar Ligure. Percorrendola in direzione est, il pellegrino passò attraverso Tortona, Piacenza, Cremona, Verona e Vicenza, fino ad Aquileia. Di là, lungo la valle del Danubio e la

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Ezio Sarcinella penisola balcanica entrò nel territorio di Costantinopoli. Nella fase finale del suo viaggio attraversò la penisola anatolica e la Siria per giungere infine a Gerusalemme. A differenza degli altri pellegrini che sin dall’inizio della cristianità si recarono a Gerusalemme, il burdigalense fu ispirato a compilare un suo diario personale, l’Itinerarium a BurdigalaJerusalem usque, nel quale delineò tutto il percorso e descrisse tutte le località attraversate. Annotò meticolosamente ogni fase del suo lungo viaggio, testimoniando, ma solo implicitamente, della durezza del percorso, della fatica e dei sacrifici che esso comportava. Quell’uomo religioso consegnò alla storia un diario preciso e puntuale, ma scevro da ricadute pietistiche e da autocommiserazione, così da far apparire facile anche un viaggio che invece presentava molte difficoltà, la prima delle quali era l’incognita per i pericoli in agguato che si potevano manifestare ad ogni passo e all’improvviso. Un probabile sentimento di empatia con la sofferenza inflitta a Cristo attraverso il martirio gli poteva far rendere accettabile qualsiasi sacrificio affrontato lungo il cammino che lo separava dalla meta cristiana, in previsione che l’appagamento per averla raggiunta lo avrebbe ripagato dalle difficoltà superate. In tal modo per chi, come lui, avesse voluto intraprendere consapevolmente quel viaggio, tutto poteva sembrare più facile, alla luce delle prove ritenute necessarie da affrontare e degli ostacoli da superare in nome di Cristo. Noto come Itinerarium Burdigalense, il diario del viaggio è riportato in Corpus Christianorum Series latina, CLXXV, Itineraria et alia geographica, Turholti 1965, e corrisponde al documento più antico dei pellegrinaggi cristiani. Ispirato in parte agli itinerari di viaggio dei romani, divenne guida preziosa per la schiera dei pellegrini che intesero seguire il suo esempio a raggiungere, nel tempo, la Terra santa. Da diario intimo si trasformò in guida universale quando, diffuso in ambito religioso, rappresentò una pietra miliare per coloro che ne intesero seguire le orme. Da umile e anonimo uomo di fede, il bourdigalense divenne così il pellegrino per eccellenza, il pioniere del pellegrinaggio in Terra santa e il suo diario fu “guida geografica e spirituale” per il pellegrino cristiano di ogni tempo. Il burdigalense nel suo viaggio di ritorno, per

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Ezio Sarcinella non sottoporsi nuovamente ai grandissimi disagi del tratto percorso in andata, optò per la via del mare. Abbandonata la via di Costantinopoli, dopo aver percorso la Macedonia, s’imbarcò a Valona e approdò ad Otranto. Anche in territorio italico predilesse le vie romane, come la Traiana-Calabra che congiungeva Otranto con Brindisi passando da Clipeas (Lecce) e da Valentia (Valesio). Da Brindisi a Benevento seguì la via Appia-Traiana, che in territorio pugliese toccava Egnatia, Bereos (Bari), Butontones (Bitonto), Rubos (Ruvo), Canusio (Canosa), Serdonis (Ordonia), Aecas (Troia). Raggiunto Benevento, proseguì verso Roma attraverso Capua, percorrendo la Via Appia antica. Il suo viaggio continuò poi verso nord, da Roma sulla Via Flaminia e sulla Via Emilia percorrendo tratti che in seguito rientrarono nel tracciato della Via Francigena, finché giunse a Milano. Per dirigersi verso Burdigala, la città dalla quale era partito, seguì le strade francesi dirette verso ovest. Il burdigalense descrisse tutto il percorso seguito, citando le città attraversate e le mansiones, le zone di sosta dove trovare ospitalità e, per chi procedeva a cavallo, le mutationes che permettevano il cambio dei cavalli. Indicò anche la distanza che intercorreva tra questi punti di sosta, il cui valore medio corrispondeva a circa 25 miglia. Questa descrizione minuziosa del percorso è stata di aiuto in seguito agli studiosi per individuare anche lo sviluppo viario romano, oltre che per le vie della fede. Nel tempo i pellegrini che si recavano a Gerusalemme preferirono seguire l’Itinerario burdigalense anche nel viaggio di andata, attraversando l’Italia in entrambe le direzioni, per poter visitare Roma, luogo del martirio di Pietro. Tale via per Gerusalemme presentava minore difficoltà territoriale lungo il percorso e i pellegrini erano anche favoriti da un clima più clemente. Infine offriva l’opportunità di effettuare l’ultimo tratto via mare, un viaggio non meno pericoloso, ma sicuramente meno faticoso.

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L’itinerario Burdigalense

FOTO: MADABA, MAPPA DI GERUSALEMME DEL VI SECOLO

La Puglia, anche con i pellegrinaggi cristiani, si riappropriò del ruolo di “ponte sul Mediterraneo”, assolto da sempre per le civiltà che si erano susseguite sul suo territorio, dall’uomo di neandertal in poi. I romani, che avevano fatto del Promontorio di Leuca, o Capo Japigio, il finis terrae sud orientale del loro impero nel continente europeo, avevano in realtà calcato le orme di popoli di civiltà preistoriche evolute come gli autoctoni Uluzziani, gli atlantici romanelliani, i nomadi scandinavi, i costruttori di megaliti, i neolitici medio orientali... e come gli esponenti di civiltà avanzate di epoca storica, quali le genti iapige (Dauni, Peuceti e Messapi), e Greci, che li avevano di poco preceduti. Risalendo da Otranto fino a Roma e poi fino in Francia, il pellegrino di Bordeaux aveva descritto tutto il percorso di ritorno, iniziando dalla via Appia-Traiana, che congiungeva l’estremo lembo sud-est della penisola italica con Roma, ma che in quel tempo sembrava essere la meno frequentata delle vie romane. Dopo l’approdo ad Otranto, provenendo dall’altra sponda dell’Adriatico, egli conobbe così, quale primo pellegrino cristiano ufficiale della storia, il territorio del Salento, il tratto sud della Puglia. Lo descrisse come un luogo poco abitato, ricoperto da foreste e con paludi costiere, ma ugualmente accogliente, poiché percorso da antiche vie, megalitiche, messapiche, sallentine e romane, fornito dagli

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L’itinerario Burdigalense stessi romani delle mutationes e delle mansiones, che gli furono provvidenziali. In un passo del libro “Grecìa Salentina – Origini e Storia”, Edizioni Ghetonia, Rocco Aprile, autore salentino, rifacendosi ai testi di altri studiosi che avevano trattano l’argomento, quali A. Sanasi, F. D’Andria e R. Gelsomino, scrive: <Un pellegrino di Bordeaux, dopo aver visitato la Terra Santa, ritorna nella sua città. Imbarcatosi a Valona, sbarca a Otranto e percorre la Puglia, annotando scrupolosamente le mutationes (posti in cui si cambiano i cavalli) e le mansiones (dove i viaggiatori potevano sostare per mangiare e dormire). Il pellegrino dichiara di aver trovato la prima mansio ad un miglio dal porto. Dalla mansio di Otranto a quella di Lecce – dice il pellegrino – ci sono circa 25 miglia con una mutatio intermedia sita in aperta campagna, con ogni probabilità a qualche chilometro dall’attuale Calimera, che allora non esisteva, così come non esistevano gli altri centri della Grecìa salentina (Carpignano, Martano e Martignano), perché se il pellegrino passando li avesse visti, certamente li avrebbe annotati nel suo “taccuino di viaggio”, come faceva sempre, giorno per giorno, con scrupolosità puntigliosa, raccogliendo i toponimi dalla viva voce degli abitanti del luogo. Egli dice soltanto che dopo Otranto la strada costeggiava le paludi, poi si addentrava tra i boschi, incontrando resti di antiche civiltà (supponiamo dolmen, menhir, specchie). Se fosse esistito un solo nucleo abitato, certamente il pellegrino l’a-

Ezio Sarcinella Laureato in Chimica a Bologna, ha insegnato Matematica e Fisica. Amante della natura, la studia nei suoi aspetti chimico-fisici, ai fini della salvaguardia degli equilibri degli ecosistemi e, operando nell’ambito dell’Igiene e Qualità, si prodiga per il benessere fisico dell’uomo in relazione al consumo dei prodotti alimentari. Esperto fotografo d’ambiente, ne riprende gli aspetti paesaggistici e architettonici, documentando nel tempo le trasformazioni ambientali e denunciandone il degrado. Opera nell’ambito del Movimento Culturale Synergticart e dell’Associazione onlus di protezione civile e

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Ezio Sarcinella vrebbe annotato nel suo Itinerarium. Dobbiamo concludere che una delle zone del Salento più fittamente abitate dai Messapi, posta fra i grandi centri di Cavallino, Roccavecchia, Muro e Vaste, nel IV secolo d. C. era ormai pressoché deserta>. Interessante è notare che tra le foreste che ricoprivano il Salento i resti di antiche civiltà (menhir, dolmen e specchie) marcavano la via percorsa dal burdigalense e probabilmente gli facevano da guida, come avevano fatto da millenni per tutti gli altri viandanti, essendo state tracciate proprio intorno a quei monumenti megalitici, punti nodali del territorio, tutte le vie antiche che lo percorrevano. Da Brindisi a Roma il pellegrino di Bordeaux seguì ancora la via Appia, più nota per essere stata descritta nel 39 a. C. dal poeta latino Quinto Orazio Flacco, nativo di Venosa, il quale aveva intrapreso il viaggio insieme al suo mecenate e a Virgilio. Da quel momento, alle descrizioni dell’uomo di cultura pagano, si aggiunsero quelle del bourdigalense, che lesse il territorio con gli umili occhi del pellegrino. Alle sue annotazioni, però, fecero riferimento in seguito tanto i semplici, gli umili, i diseredati, quanto regnanti e papi, poiché la condizione comune per poterlo svolgere era quella di immedesimarsi nel ruolo del pellegrino, spinto come lui da una buona dose d’intraprendenza e di autostima, ma soprattutto ispirato da una forte e incrollabile fede religiosa.

ambientale “Sport&tour”. Collabora dal 1996 con l’Associazione SpeleoTrekkingSalento in veste di fotografo ufficiale e documentarista dei percorsi ordinari e straordinari, nei quali rientra la “Via leucedense dei pellegrini”, tratto finale della Via Francigena del Sud. Sue foto corredano libri, riviste e articoli di orientamento culturale e di divulgazione turistico-culturale e religioso.

La via dei pellegrini SpeleoTrekkingSalento, 2007

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L’orizzonte culturale del complesso megalitico di Gobleki Tepe

FOTO:MEGALITI A GOBLEKI TEPE (FONTE: WIKIPEDIA)

Gli scenari del post-glaciale Raffinati strumenti di analisi dei dati emersi da recenti scoperte archeologiche orientano gli studiosi a rivedere la storia dell’uomo, anche di un passato recente, che ha costituito il bagaglio delle conoscenze sinora note e ufficialmente diffuse. Una branca di studio che ha aiutato a seguire gli spostamenti degli esseri umani sul globo terrestre è stata la genetica, che ha dato un grande contributo all’antropologia e all’archeologia, permettendo associazioni prima ritenute ipotetiche o addirittura azzardate. Anche la biologia che, insieme alla chimica, aveva già permesso la conoscenza delle caratteristiche degli esseri viventi, continua a fornire dati che contribuiscono a meglio delineare gli sviluppi della storia, della paletnologia e dell’antropologia.

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Il rapporto tra biologia, geologia e climatologia è così stretto da rivelare come la presenza degli esseri viventi in alcune aree della Terra sia stata direttamente dipendente dallo stato fisico dei luoghi e dalla loro fertilità. Si giustificano, pertanto, le emigrazioni di massa di etnie a lungo presenti in alcune nicchie ecologiche e la deriva genetica che registra l’allontanamento da esse, causato da eventi geologici, atmosferici e climatici sfavorevoli alla vita. La tendenza delle tribù di cacciatori-raccoglitori era, infatti, quella di lasciarsi alle spalle i luoghi meno prodighi di cibo offerto dalla natura per procedere verso territori fertili e più accoglienti per la loro sopravvivenza e per la continuità delle specie. Dalle ricerche genetiche risulta che nel millennio XI a. C. un’ondata migratoria di cacciatoriraccoglitori si svolse in allontanamento dall’area franco-cantabrica e che, all’opposto, nel V millennio a.C., popoli neolitici si diressero da Orien-

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L’orizzonte culturale del complesso megalitico... te verso Occidente. Tali studi permettono di mettere a posto tasselli archeologici sinora ritenuti fuori contesto rispetto alla storia delineata dalle conoscenze acquisite o di attribuire una nuova cronologia a reperti e a monumenti composti di materie che non forniscono risposta circa la data di costruzione alle analisi effettuate secondo i noti metodi tradizionali. Tra questi vi sono i manufatti in pietra, che non rispondono alle analisi messe a punto per la datazione di materiali organici di origine animale, come la misurazione del Carbonio 14, o di origine vegetale, come la dendrologia, o per gli impasti ceramici, come la termoluminescenza. Per questo la datazione dei monumenti megalitici europei ed extra europei ha fluttuato entro millenni, attestandosi poi dal V millennio a.C., non secondo la datazione dei monoliti, ma secondo quella dedotta dai reperti loro associati e ritenuti più strettamente correlati ai monumenti megalitici della Bretagna. Essendo già presenti in Europa le genti neolitiche, pervenute e diffuse sul continente nel corso del V millennio a.C. ed essendo i monumenti di destinazione astronomica funzionali alla conoscenza dei cicli temporali, utili alle pratiche dell’allevamento e dell’agricoltura, si è dedotto che tutta la produzione di monumenti megalitici non potesse essere anteriore a quella data. L’attribuzione, però, della costruzione dei me-

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galiti alle genti neolitiche ha sempre presentato discordanze con la cultura dei neolitici provenienti dal Medio Oriente, i quali introdussero in Europa, insieme alla lingua indoeuropea, le pratiche di allevamento e di agricoltura e tutte le tecniche artigianali connesse, ma non la pratica di erigere megaliti. La venuta dei neolitici in Europa corrisponde invece ad un radicale rinnovamento della società preesistente, avendo modificato totalmente lo stile di vita degli abitanti, abituati da millenni a reperire sul territorio le risorse necessarie alla loro sopravvivenza e a dedicarsi invece a pratiche cultuali di derivazione astronomica, secondo sistemi consolidati sin dal Paleotico. Il flusso migratorio dal Vicino Oriente verso l’Occidente si svolse lungo due direttrici fondamentali che confluirono nei territori dell’attuale Francia e Svizzera: quella che sviluppò un percorso continentale centro-europeo e quella che seguì le coste del Mediterraneo. Il flusso migratorio che attraversò il territorio italico per poter raggiungere l’originaria nicchia ecologica franco-cantabrica, approdò per prima nei territori della penisola salentina, della Basilicata e della Campania, per potersi immettere nel mar Tirreno e poi, attraverso il mar Ligure, approdare nelle terre affacciate sul Golfo di Marsiglia. Gli scavi archeologici condotti negli anni ottanta dall’archeologo Giuliano Cremonesi a Gallipoli

FOTO: RICOSTRUZIONE DELLE MIGRAZIONI UMANE DI CAVALLI-SFORZA

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Marisa Grande (Puglia) e a Trasano (Basilicata) registrano le più antiche testimonianze della presenza della cultura neolitica in Europa. (“La passione dell’origine – Giuliano Cremonesi e la ricerca preistorica nel Salento”, a cura di Elettra Ingravallo, Conte Editore Le 1997), con ampia diffusione di comunità che, stabilite in territori eletti a loro residenza, divennero società stanziali complesse, interagenti tra loro per commercio, ma unite anche da pratiche rituali di sepoltura processuale (area sepolcrale del canale Sàmari a Gallipoli). Dalla mappa genetica elaborata da CavalliSforza risulta che la diffusione dell’agricoltura avvenne ad opera di colonizzatori partiti da una sola regione in Medio Oriente. Le aree interessate da tale diffusione furono: Mesopotamia, India, Ucraina, Palestina, Persia, Anatolia, Egitto, Europa. Il genetista dimostrò anche che la biforcazione linguistica corse in parallelo con la biforcazione genetica che contraddistinse i popoli neolitici, derivata dalla modificazione della dieta e dalla sedentarietà. La venuta dei neolitici in Occidente determinò, perciò, un radicale rinnovamento in Europa, agendo su più fronti, compreso il linguaggio, avendo sovrapposto l’indoeurpeo agli idiomi derivati dal “nostratico”, la lingua madre di origine paleolitica risalente al 15.000 a.C. Le genti che abitarono l’Europa dall’XI millennio a.C. in poi, fino all’incontro con i neolitici

L’orizzonte culturale del complesso megalitico... nel V millennio a.C, avevano consolidato invece una loro cultura e sviluppato abitudini specifiche adeguando il loro organismo all’ambiente postglaciale. L’adattabilità alle condizioni ambientali aveva permesso loro di superare alterne fasi climatiche, quali un millennio (XI-X a. C.) di prima fase temperata dovuta alla fine della Glaciazione Würm, un altro millennio di nuova Glaciazione breve o Dryas recente (9.000/8.000 a.C.), una conseguente nuova deglaciazione (dall’8.000 in poi) ed una breve fase di clima molto rigido (6.200/5.800 a.C.) seguito da una successiva fase temperata. Essi, a partire dal millennio XI a.C. si erano prodigati fondamentalmente ad elaborare tecniche per facilitare la sincronizzazione delle dinamiche terrestri in relazione a quelle celesti, avendo compreso che lo scenario caotico verificatosi nel passaggio tra il Pleistocene e l’Olocene era stato provocato da un’oscillazione anomala della Terra, più che dall’apparente instabilità della calotta celeste, manifestata con la modificazione degli scenari astrali all’orizzonte e al Polo Nord astrale. Dalla primitiva osservazione astronomica empirica effettuata con elementi mobili, tipo un palo di traguardo, pratica già nota sin dal Paleolitico, essendo documentata dalle registrazioni dei cicli astronomici effettuata con incisioni a tacche nei reperti ossei rinvenuti nel sito francese di Les Heyez de Tayac, derivò un sistema meglio orga-

FOTO: MAPPA DIFFUSIONE DELL’AGRICOLTURA CHE COINCIDE CON LA DIFFUSIONE DELLA LINGUA INDO-EUROPEA (NELL’ EURASIA )

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L’orizzonte culturale del complesso megalitico... nizzato, con postazione stabile per l’osservatore e punti fissi di riferimento per gli oggetti astronomici osservati. Ancora nell’8.000 a.C., però, anche per gli osservatori astronomici fissi e complessi, come il cerchio di Stonehenge, si impiegava un materiale deperibile quale era il legno. Il noto monumento a cerchi di megaliti fu preceduto, infatti, da cerchi di pali mobili, aventi le medesime funzioni astronomiche. Nella stessa data nella Gran Bretagna, fu praticata una rudimentale tecnica di riproduzione del nocciolo, essendo note a quelle genti che si prodigavano per la conoscenza e per la stabilità della terra, le proprietà commestibili di alberi e piante da frutto rientranti nella loro dieta di raccoglitori seminomadi. La sperimentazione di coltura incipiente interessò la Gran Bretagna forse proprio a causa della carenza di cibo, per continuo sfruttamento del suo territorio, essendo rimasta isolata sin dal millennio XI a.C. a causa dell’inabissamento dell’istmo che la collegava dall’Europa per l’innalzamento del livello degli oceani dopo lo scioglimento dei ghiacci della Glaciazione Würm. Nel tempo, i monumenti astronomici in legno furono sostituiti da quelli in pietra, migliorando la loro funzione per le caratteristiche di stabilità e di incorruttibilità, necessarie ai fini dell’obiettivo proprio dell’operazione megalitica. Spostandosi per mare lungo le coste atlantica e mediterranea, quelle genti evolute sul piano astronomico e costruttivo, eressero cumuli di pietre per sopraelevare le alture dell’entroterra e intorno a quei “centri geodetici”, con intento cosmologico distribuirono dolmen e menhir orientati astronomicamente. Con essi crearono composizioni geodetiche “a ruota” e “a tela di ragno” sulle ampie aree circostanti, assecondando l’energia del luogo, configurato a “cella geomorfologica”, in espansione per l’energia irradiata da quei centri cosmogonici. Il compito dei costruttori di megaliti prevedeva di dover compiere un’operazione ponderale diffusa nel mondo conosciuto per conferire stabilità della Terra e sincronia al suo moto, modulandone lo scambio energetico con il cielo. Per il loro sostentamento facevano ricorso a cibo reperito in natura, nutrendosi prevalentemente di pesca e di raccolta di vegetali. Per questo anche i costruttori di megaliti, come

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Marisa Grande i Cro-magnon loro antenati, che si erano mossi dalla loro area franco-cantabrica a seguito delle davastazioni post-glaciali, presentano all’analisi biologica dei loro resti la caratteristica di avere avuto un “metabolismo ultrarapido”. Essendo passati da cacciatori stabili in fase glaciale a raccoglitori seminomadi in fase post-glaciale, esposti al rischi d’ingerire sostanze tossiche presenti in natura che era necessario espellerle rapidamente, svilupparono una mutazione genetica, elaborando un nuovo enzima preposto ad accelerare il loro metabolismo. Tale caratteristica, che è propria dei cacciatori-raccoglitori nomadi, li distingueva pertanto dai neolitici, caratterizzati da un “metabolismo lento”, poichè il loro organismo era abituato ad ingerire sostanze note e non tossiche, dovute alla selezione operata tra i prodotti di cibo spontaneo offerto dalla natura.

Insediamenti stabili Le stesse pratiche di agricoltura e di allevamento, che avevano trasformato i cacciatoriraccoglitori seminomadi in comunità sedentarie, avevano anche favorito la costruzione stabile, dai primi villaggi con capanne recintate alle vere urbanizzazioni. Le conoscenze relative alle prime città della storia ci hanno condotto in Medio Oriente, con Gerico in Palestina (9.000 a.C.), seguita da Çatal Höyük e oggi anche da Novali Cori, entrambe in in Anatolia. Lo scenario costruito intorno a quelle città evolute, frutto di società complesse ed avanzate, era derivato dall’idea che la fase neolitica, iniziata 10-12 mila anni fa, si era sviluppata ad opera di agricoltori ed allevatori in aree rese fertili dal clima temperato dell’era post-glaciale. Recenti studi fanno risalire invece la nascita dell’agricoltura al periodo denominato Epipaleolitico, il corrispondente del Mesolitico europeo (10.000/6.000 a.C.) nelle aree medio orientali, caratterizzate da siccità e da carenza di cibo, condizioni sfavorevoli alla vita, dovute alla subentrante Glaciazione breve, detta Dryas recente (9.000-8.000 a.C.), dopo un millennio di clima temperato. I resoconti delle analisi effettuate sui semi vegetali indicano che le genti di quell’area, abbandonando la savana ormai inospitale, perchè tra-

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Marisa Grande sformata in tundra, raccolsero i semi di alcune piante spontanee di cui si nutrivano e li trapiantarono in zone più accoglienti alla riproduzione della vegetazione, sfatando così l’associazione diretta tra agricoltura, terreni lussureggianti di vegetazione e clima mite, e stabilendo invece l’analogia con lo sfruttamentto eccessivo del territorio, avvenuto nell’isolata Gran Bretagna. Le pratiche neolitiche, quali l’agricoltura, l’addomesticamento degli animali e gli insediamenti stabili concorsero, perciò, a sopperire alla carenza di cibo causato dalle fasi climatiche più rigide, che provocavano siccità. Ciò modifica il pensiero precedente che voleva che l’agricoltura fosse stata attivata invece nelle aree più fertili e in fase di clima temperato. Il raggruppamento in comunità stabili, capaci di produrre cibo con l’agricoltura e l’allevamento, richiese l’organizzazione di aree residenziali, con un primo sviluppo di villaggi e di città, motivo che giustifica l’antichità di Gerico, collegata alle prime pratiche neolitiche in Palestina, prima città della storia, precedente alle città anatoliche, più prossime all’area mesopotamica della “Mezzaluna fertile”. La fase neolitica è stata vista finora come un’operazione fondamentalmente pratica di una società nuova, che aveva creato il suo benessere basandolo su un’autonoma produzione di cibo, che la riscattava dalla dipendenza dalla natura, attiva come una società industriale nella trasformazione dei prodotti agricoli e di allevamento e nella pratica di varie forme di artigianato. Ossia si è pensato che le città fossero il prodotto della “rivoluzione neolitica” in senso moderno, funzionali alle attività incipienti e innovative, inerenti ad una società emencipata e fondamentalmente pratica. La conoscenza che si è avuta di queste società complesse, analizzando lo stato dei primi centri urbani, era che l’organizzazione degli spazi era stata resa funzionale solo alle attività pratiche, scevra da qualsiasi implicazione di tipo spirituale, se non un pacifico coordinamento delle attività e un’idea di coope-

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FOTO: LOCALIZZAZIONE DI GOBEKLI TEPE

razione solidale ed egualitaria nella produzione e nella distribuzione del cibo. L’idea che non vi fossero aree specifiche destinate al culto, ha fatto immaginare perciò che la nuova società prescindesse dalla necessità di praticare un qualsiasi credo religioso di carattere superiore e che la dimensione spirituale si rivelasse soltanto attraverso le pratiche dei riti legati alla natura e alla fertilità e a quelli di sepoltura, associati alle aree domestiche e derivati da un un ancestrale “culto della testa” dell’antenato defunto. Per questo, all’interno di tale scenario storico ben consolidato sembra che non possa trovare la sua giusta collocazione la scoperta archeologica di un vasto sito megalitico che presenta templi orientati astronomicamente. Le sue apparenti “anomalie storiche”, stanno attirando l’attenzione degli studiosi e stanno provocando un evidente sconcerto e imbarazzo nella sua collocazione storica, di fronte ad una evidente datazione remota. Si tratta di Gobleki Tepe, un complesso composto da templi megalitici di forma circolare sparsi sulla collina omonima, che sembra dover essere attribuito all’epoca risalente al 10.000 a.C., primo complesso megalitico post-glaciale. Rinvenuto in Turchia, si trova sulle colline che sovrastano la pianura di Harran, al confine con

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L’orizzonte culturale del complesso megalitico... la Siria. Rientra tra le scoperte che modificano il corso sinora delineato dall’archeologia e della storia dell’uomo, poiché precede di oltre un millennio la costruzione di Gerico, le cui mura corrispondevano sinora alle costruzioni monumentali più antiche elevate dall’uomo, ed è molto più antico della nota città anatolica di Çatal Höyük. La sorpresa consiste nel constatare che l’elemento fondamentale prevalente, che permise la coesione delle genti, che le spinse ad aggregarsi in insediamenti urbani, a organizzarsi in società complesse con distribuzione razionale di cariche e compiti per un migliore funzionamento della società e della distribuzione del lavoro e delle risorse, fu la religione. Collocato in una regione dove è presente l’architettura urbana e nella quale si è anche praticata l’agricoltura incipiente, il complesso di templi rinvenuto a Gobleki Tepe dimostra la centralità conferita alla religione da quelle genti che l’abitarono raccogliendosi in comunità stanziali sin dall’inizio dell’Olocene e che in seguito furono anche in grado di produrre il cibo e di permettersi il sostentamento autonomo.

Marisa Grande Gobleki Tepe è il più antico complesso religioso finora conosciuto, che, se classificato secondo il modello dei costruttori di megaliti europei, sarebbe stato costruito da cacciatori-raccoglitori seminomadi, in movimento per diffondere l’operazione equilibrante megalitica nel mondo. Se associato, invece, alle pratiche neolitiche sviluppate per l’esigenza legata alla sopravvivenza, dopo le devastazioni post-glaciali, corrisponde ad un esempio di trasformazione di comunità seminomadi in stanziali, divenendo il centro di un territorio fertile, dove si aggregarono e si stabilirono per necessità contingenti. Il passaggio da cacciatori-raccoglitori seminomadi in una nascente civiltà urbana, prettamente funzionale alla sovravvivenza e al sostentamento autoprodotto, implica comunque il possesso di un retaggio culturale remoto e la maturazione di un patrimonio di conoscenze di carattere culturale e religioso, attribuibile solo ad una cultura ben radicata nel Paleolitico. Proprio tale spessore culturale, leggibile nel complesso di Gobleki Tepe, scatena paradossalemente scetticismo e rifiuto a guardare a quei tempi remoti con occhi nuovi,

FOTO: MEGALITI DI KARNAK

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Marisa Grande aperti alla luce di sempre più rivelanti evidenze. Le pratiche di agricoltura, di allevamento e di artigianato, che caratterizzano la cultura emergente della comunità neolitica costituivano le esperienze nuove per quelle nascenti comunità urbane, ma la religione, per l’innato sentimento del sacro presente in ogni essere umano e la conoscenza della tecnologia megalitica facevano parte del patrimonio culturale di quelle genti centro-euroasiatiche ed atlantiche che avevano superato la fase cruciale climatica del passaggio precessionale dal Pleistocene all’Olocene, rifugiandosi nel più accogliente bacino del Mediterraneo. Proprio la religione, connessa alle conoscenze astronomiche che avevano già guidato l’uomo del Paleolitico, dal Neandertal al Sapiens-sapiens, rappresentavano i fattori di coesione necessari a far sì che quelle comunità, aggregate per necessità, potessero gestire al meglio le problematiche connesse alla complessità della emergente civiltà urbana. La scoperta dell’implicazione astronomica nel complesso di Gobleki Tepe risulta sorprendente solo se si esclude un patrimonio di conoscenze astronomiche empiriche, derivate da una millenaria osservazione del cielo, con la registrazione dei piccoli e dei grandi cicli temporali da parte dell’uomo del Paleolitico superiore, i cui manufatti non prescindono da una pratica di religione astrale, se pur espressa in chiave mitica, simbolica e metaforica. Non dovrebbe sorprendere, pertanto, riscontrare nelle costruzioni megalitiche di Gobleki

Marisa Grande Dopo la sua carriera di insegnante di Disegno e Storia dell’Arte, continua nel campo artistico con un linguaggio originale, la Synergetic-Art, che trova la sua piena espressione nel “meta-realismo” della sua pittura e della sua poesia. Con il Manifesto del Movimento culturale “Synergetic-art 1990” (www.synergetic-art.com) ha avviato un’attività di studi e di ricerca pluri-disciplinare, condotta con approccio sistemico, per cogliere le intercon-

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L’orizzonte culturale del complesso megalitico... Tepe anche i riferimenti alle dinamiche celesti dell’epoca, avendo le genti superstiti degli eventi provocati dal passaggio precessionale, avvenuto nel millennio XI a.C., riconosciuto in esse le cause delle esperienze drammatiche vissute sulla Terra. In fase post-glaciale, quelle stesse genti, trovarono sulla collina di Gobleki Tepe il sito giusto per elevare il complesso sacro più rappresentativo della nuova era dell’Olocene, per praticare la loro religione astrale direttamente derivata dalla conoscenza astronomica e contribuire con la loro arte e con la loro fede a mantenere un equilibrio cosmico, tendente al caos ciclico, finalità prioritaria del loro piano megalitico. Essendo ancora cacciatori-raccoglitori seminomadi, pervenuti attraverso il Mediterraneo in Anatolia, per l’allontanamento rapido dalla loro nicchia ecologica franco-cantabrica devastata dalle turbolenze post-glaciali, trovarono nella piana circostante di Harran, verdeggiante sin dall’inizio dell’Olocene, il terreno fertile da cui trarre il loro necessario sostentamento. Elessero il territorio a “luogo cacro” e vi si attestarono, divenendo stanziali. Solo nei tempi di siccità provocati dalla Glaciazione breve, probabilmente, quelle genti anatoliche, come quelle di cultura natufiana che si ritirarono dalla savana nord africana verso la Palestina, praticarono l’agricoltura al primo stadio, sfruttando la conoscenza acquisita degli alberi e degli arbusti fruttiferi e dei semi dei cereali che in fase temperata li avevano nutriti sino alle mutazioni climatiche di quel momento.

nessioni esistenti tra le varie branche del sapere e promuovere una rinnovata visione della conoscenza. Collabora con associazioni culturali e case editrici e scrive articoli per riviste di cultura. Tra le sue pubblicazione ricordiamo: L’orizzonte culturale del megalitismo (Besa, 2008) e...

Dai simboli universali alla scrittura Besa, 2010

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DANILO TACCHINO

E l’Inizio fu Fetonte Era per caso un alieno?

Leggende sulla fondazione di Torino e gli Egizi

FOTO: THE CHARIOT OF PHAETHON, 1531-32, LOGGIA, CASTELLO DEL BUONCONSIGLIO, TRENTO

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’antica leggenda qui narrata si riferisce al mito della caduta di Fetonte. Narra di un dio disceso dal cielo, che si avvaleva dell’aiuto di assistenti di metallo dorato. Durante la sua permanenza tra gli uomini, insegnò loro l’arte dell’Alchimia e della fusione dei metalli. In seguito provvide a fondere una grande ruota d’oro forata, ricavandola dal metallo del carro divino, con cui trasmettere la sua conoscenza all’umanità. Quando il dio ritornò in cielo, lasciò che uno dei suoi aiutanti dorati assistesse gli uomini che avevano accolto i suoi insegnamenti. Le leggende sul Monte Musinè e sul Rocciamelone narrano che una delle proprietà della creatura di metallo dorato fosse quella di assumere varie forme a suo piacimento. Una sua traccia è ricollegabile alla leggenda della caverna del drago, all’interno del Monte Musinè, in cui questa creatura “mutaforma” acquisì l’aspetto di un grande drago d’oro che proteggeva una lumino-

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sa gemma verde dagli immensi poteri. Il mito di Fetonte è un classico della mitologia greca che ancora ricordiamo, seppur vagamente, di aver letto nei libri di scuola. E’ stato narrato da molti autori illustri in tutte le epoche, tra i quali Esiodo, Igino, Ovidio, Aristotele, Plutarco, Eusebio, San Giovanni Crisostomo, Boccaccio, Antonio Astesano ed Emanuele Thesauro. Esso ci racconta come Fetonte, figlio Di Elios il Sole e di Climene, figlia di Oceano, riuscì a impadronirsi, con astuzia e sagacia, del carro paterno utilizzato ogni giorno per portare luce e calore alla madre Terra. Egli però, sebbene il padre tentò di insegnargli i rudimenti fondamentali per poter condurre il carro infuocato trainato da ben dodici scintillanti destrieri, non seppe controllarne il percorso. I cavalli quindi si imbizzarrirono e portarono il carro fuori dal cammino abituale, scendendo e salendo attraverso il cielo a loro piacimento e causando immani disastri, incen-

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E l’Inizio fu Fetonte. Era per caso un alieno? di, siccità e inondazioni sulla Terra, per via dei repentini sbalzi termici dovuti al loro percorso incontrollato. Zeus, il padre degli Dei, accortosi del disastro che stava avvenendo per colpa del carro di Elio, lanciò immediatamente una folgore sul conducente, facendolo precipitare. Cadde nel fiume sottostante, l’Eridano, che lo accolse nelle sue acque; sulle sue sponde accorsero la madre e le tre Eliadi, sue sorelle che, sconsolate, soffrirono immensamente. Il padre di tutti gli dei, impietosito dal pianto di quelle donne addolorate, decise di tramutarle in pioppi, mentre Elio riprese le redini del carro infuocato, continuando con ordine il suo percorso giornaliero per portare la giusta luce e il giusto calore sulla Terra: “Cade intanto Fetonte cò fiammeggianti crini di lunga, luminosa face diretro a sé l’aere solcando […] il gran padre Eridàn l’accolse in grembo assai lontano dal natal suo loco […]”; così leggiamo in Ovidio, nelle Metamorfosi. Da questa sommaria narrazione non spicca un collegamento diretto tra questa leggenda

Danilo Tacchino e la fondazione di Torino. Si tratta, infatti, di un racconto che rientra nelle conoscenze della religione e della mitologia greca. Il punto nodale che lega questo mito alla nascita di Torino è da ricercare in quel fiume arcaico in cui il figlio di Elio cadde: l’Eridano appunto, un nome di origine greca che per alcuni significherebbe “dono del mattino”, perché gli antichi abitanti delle sue sponde sembra rimanessero affascinati dallo spettacolo dell’alba che sorgeva dal fiume, per via dei raggi del sole che ne inondavano il letto, trasformandolo in un enorme solco scintillante di luce e di riflessi argentei. I Romani lo conobbero come Padus, i Celti lo chiamavano Bodinco o Padan. Per noi, oggi, è il fiume Po, il corso d’acqua più lungo della penisola italiana ed il punto di riferimento della pianura padana, in cui convergono la maggioranza dei fiumi che scorrono in questa piana ed in lui affluiscono. Anche nel periodo antico, il Padus era il padre benevolo di tutte le genti italiche padane, in cui trovavano fonte di vita e di rigenerazione. Il

FOTO: FETONTE CADE IN ERIDANO, INCISIONE DI ANTONIO CARON

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Danilo Tacchino Po, quindi, può essere il primario elemento che ci porta ad intuire come sia possibile che, nel corso dei millenni, l’avvenimento del racconto mitologico di Fetonte possa essere stato ambientato nella piana torinese. Ma l’interpretazione più intrigante, venata da un’ambigua parvenza di storicità, che si stacca dal tradizionale mito classico greco, la si può leggere nell’“Historia della Augusta città di Torino”, scritta da Emanuele Thesauro nel 1679; l’autore, nella sua stesura, attinse informazioni non solo da innumerevoli testi in latino, sepolti nelle biblioteche sabaude, ma anche da un primo libro sulla storia di Torino, scritto nel 1577 da Filiberto Pingone: “L’Augusta Taurinorum”. Secondo questo storico del seicento, che era al servizio della Madama reale Maria Cristina, Fetonte non era altro che un principe egizio di nome Pa Rahotep (Pheaton Siue Pherithon, secondo la traduzione greca), che era giunto attorno al 1523 a.C. in territorio torinese, insieme ad un nutrito stuolo di suoi seguaci, con lo scopo di trovare nuovi lidi e nuove terre. Egli fu spinto a partire dall’Egitto, sotto il regno di Amenophi I, da alcuni dissidi sorti con la casta sacerdotale, che seguiva il culto di Amon, in dissapore con il nascente culto solare di Aton, di cui il principe Pheaton sembra fosse un sostenitore. Giunse nel torinese dopo esser passato dalla Grecia, aver costeggiato tutta la costa tirrenica ed essere approdato in Liguria, dove lasciò il figlio Ligurio, che diede il nome a questa terra. Secondo le parole del Thesauro, Fetonte: “[…] sopra le sponde del Po fondò questa colonia. Tra le altre singolarmente onorata, prendendo gli auspici

Danilo Tacchino Nato a Genova nel 1958, vive a Moncalieri, provincia di Torino. Sociologo, scrittore e poeta. Conferenziere e promotore di convegni. Laureato in Lettere Moderne con indirizzo sociologico - industriale, diplomato in Elettronica, opera nei settori dell’organizzazione aziendale e dell’innovazione industriale, in special modo attraverso le tecniche della terza generazione quali l’Informatica, l’Elettronica,

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E l’Inizio fu Fetonte. Era per caso un alieno? del suo Api, adorato in Egitto per patrio nume, sotto sembianze di toro, del nume istesso le diede le insegne e il nome!” Questo principe egizio fondò quindi Eridania, il primo nucleo di Torino, prendendo contatto con le popolazioni autoctone liguri e taurine, iniziando così un nuovo regno detto dei “Fetontei”, che molti secoli dopo venne soggiogato dall’invasione perpetrata dagli Etruschi di settentrione. Thesauro ci dice anche che il principe Pheaton cadde e morì realmente affogato nel fiume dopo una gara di corsa a cavallo con le antiche bighe; si narra che precipitò insieme con i suoi cavalli all’altezza del parco del Valentino, dove ora troneggia la cosiddetta “fontana dei mesi”. Questo principe in territorio torinese sembra venisse chiamato Eridano, in onore della stirpe dei re egizi Eridani, da cui proveniva, dando il nome al fiume della zona. La leggenda ci dice anche che questo principe portò con sé il culto del dio Toro Api, diffondendolo nei nuovi territori da lui acquisiti e facendo erigere in suo onore un imponente tempio, dove ora sorge la Gran Madre. Da questo culto nascerà poi secoli dopo Taurasia, la città dei Taurini. Alcuni autori, ferventi sostenitori della Torino magica, ipotizzano come vi sia un chiaro riferimento alla parentela egizia di Torino nella leggenda della fondazione e nella presenza del museo egizio. Infatti, viene spesso evidenziato il fatto che la maggioranza degli oggetti custoditi nel museo appartengano all’epoca della XVIII dinastia faraonica. Quella dinastia, appunto, alla quale pare appartenga il nostro principe Pheaton.

la cultura della Qualità. È stato docente di Sociologia Industriale all’Università Popolare di Torino. Il suo sito personale: www.dantak.com. Tra i suoi libri ricordiamo: La Stele. I Celti, le Alpi, Annibale (Il Punto, 2006), Torino, storia e misteri di una provincia magica (Edizioni Mediterranee, 2007) e...

Faraoni sul Po Ananke, 2009

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Alchimia del Mandala

FOTO: MANDALA DISEGNATO DALL’AUTRICE

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on è stato facile, né immediato il processo di comprensione del Mandala, e in queste righe vorrei illuminarne uno degli aspetti, che forse esula dalle informazioni recuperabili un pò ovunque, ma che, spero, accenda la scintilla che vi spingerà a “cercare di andare oltre”. Il mio primo incontro con il Mandala avvenne in modo apparentemente fortuito (ma sappiamo bene che nulla avviene per caso, come dice una mia carissima amica: “CASO è il 73° nome di Dio”); un giorno, in una bacheca, notai il volantino di un corso con il Mandala e, pur avendone già sentito parlare in altre occasioni, quel giorno “catturò” la mia attenzione. Non potendo partecipare al corso mi misi alla ricerca di informazioni, e da quel momento iniziò il mio personalissimo viaggio alla scoperta del Mandala, che mi portava a riconoscere la sua presenza ovunque; ogni volta era una grande

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emozione riuscire a cogliere, attraverso le forme ed i colori, nuove sfumature di sensazioni che arricchivano il mio spirito. Giunsi così ad elaborare la mia prima analisi: “Osservare un Mandala produce una serie di sensazioni e stati d’animo molto simili, ma oggettivamente più profondi, rispetto a quelli esperiti davanti ad un dipinto, una scultura o altra forma d’arte.” Successivamente compresi che questo avviene perché il Mandala è soprattutto un simbolo, o meglio, un insieme di simboli, e tale caratteristica viene riconosciuta universalmente, poiché appartiene a tutte le culture da noi conosciute, ed è utilizzato nei più svariati ambiti: dalla psicologia alla filosofia, all’arte, alla religione, alla mitologia, all’esoterismo, allo sciamanesimo, alla cosmologia, ecc. Nel cercare di comprendere il significato (nel senso più ampio) della parola simbolo, è importante conoscerne i principali aspetti:

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Alchimia del Mandala essa deriva dal latino symbolum, che a sua volta ha origine dal greco σύμβολον (súmbolon); nella Grecia antica, il termine aveva il significato di “tessera di riconoscimento” o “tessera ospitale”: secondo l’usanza di quel tempo, la tessera, di solito in terracotta, veniva spezzata in due parti, e ognuna veniva conservata dalle due persone o gruppi coinvolti nell’evento a testimonianza dell’avvenuto accordo o alleanza fra le parti. Il perfetto combaciare delle due parti della tessera diveniva così, nel tempo, una prova tangibile del sodalizio, accordo o legame fra le parti interessate. Oggi, aprendo un qualsiasi vocabolario, troviamo di simbolo la seguente definizione: “elemento materiale, oggetto, figura, animale, persona e sim. considerato rappresentativo di un’entità astratta, ovvero di quanto evoca o rappresenta, per convenzione o per naturale associazione di idee (es. il verde è simbolo della speranza, la colomba è simbolo della pace).” Per uno dei padri della psicologia del profondo, C.G. Jung, “Ciò che noi chiamiamo simbolo è un termine, un nome, o anche una rappresentazione che può essere familiare nella vita di tutti i giorni e che tuttavia possiede connotati specifici oltre al suo significato ovvio e convenzionale. Esso implica qualcosa di vago, di sconosciuto o di inaccessibile per noi. E poiché ci sono innumerevoli cose che oltrepassano l’orizzonte della comprensione umana, noi ricorriamo costantemente all’uso di termini simbolici per rappresentare concetti che ci è impossibile definire o comprendere completamente. Questa è una delle ragioni per cui tutte le religioni e le tradizioni esoteriche impiegano un linguaggio simbolico o delle immagini”. (v. C.G. Jung, L’uomo e i suoi simboli) In sintesi, per Jung i simboli sarebbero il linguaggio dell’inconscio ed i sogni i suoi mezzi di comunicazione. Nelle antiche scritture, come ad esempio quelle dei Veda dell’India, troviamo che “Il suono è l’espressione della mente cosmica ed è alla base di tutti i linguaggi umani.” Ogni parola è dunque vibrazione ed ha il potere di influenzare il mondo fisico. Se Dio è il regista e lo scrittore del poema umano, allora il DNA è il codice sacro di lettere chimiche, le cui vibrazioni creano la materia genetica di ogni organismo vivente. Il linguaggio nasce proprio come esigenza di esprimere il flus-

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Vally Aries so dei pensieri che emergono alla coscienza e l’alfabeto diventa simbolo e veicolo tra il trascendente (mondo degli Archetipi) e il mondo tangibile della materia. Potremmo quindi concludere che la funzione del simbolo è “evocare per congiungere”: esso rievoca immagini e sensazioni legate al simbolo stesso; in sostanza, quello che attira la nostra attenzione verso il Mandala è il riconoscerci in una simbologia che ci appartiene (perché incisa/ registrata nel nostro DNA), che stimola la comprensione dell’unione e della completezza, per cominciare a percepire il senso reale del “tutto è Uno”. Il riconoscimento e l’interpretazione dei simboli è dunque la chiave per comprendere. Tutto, in fondo, è stato espresso in simboli e continua ad esserlo ancora oggi; non a caso il messaggio lanciato nello spazio per indicare la nostra forma di vita aveva una chiave di lettura simbolica, e non a caso i famosi crop circle (cerchi nel grano) altro non sono che forme mandala simboliche che giungono dallo spazio. La simbologia è anche la chiave per interagire con il nostro centro d’informazione, il DNA, dove sono registrati ed archiviati tutti i dati della memoria genealogica (la nostra storia personale) e della memoria del collettivo o ancestrale dell’essere umano. Per meglio comprendere questo concetto, immaginiamo che il nostro DNA sia la scheda madre del nostro computer (corpo fisico), dove troviamo registrati i vari dati, programmi gestionali, risorse internet (memorie genealogiche ed ancestrali); alcuni programmi li conosciamo e li sappiamo usare, di altri conosciamo l’esistenza, ma non sappiamo come usarli, di altri ancora ignoriamo l’esistenza, ma sono comunque attivi. Per tutti ci sono password d’accesso (alcune note... altre no). Ora siamo nel tempo della manifestazione del tutto come UNO, siamo nel tempo della consapevolezza dell’Io divino eterno nell’UNO, stiamo imparando a cercare dentro di noi, ricevendo aiuti da quelli che chiamiamo maestri, extraterrestri, esseri angelici, Io superiore/evoluto; siamo anche nel tempo in cui possiamo decidere di utilizzare/vivere il programma vita secondo un’impostazione predefinita, oppure di comprenderlo e, utilizzando il libero arbitrio, svincolarci dagli

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automatismi che agiscono sulle nostre emozioni, azioni e pensieri. La programmazione di vita predefinita esiste, ed è stata creata da noi a protezione della nostra esperienza su questo pianeta. Il nostro corpo fisico, metaforicamente, è il sistema di ripetizione programmata con automatismi ed è, come tutti, provvisto di password; se vogliamo conoscere queste password per entrare nel sistema, dobbiamo innanzitutto prendere coscienza dei limiti creati dagli automatismi (paure, sensi di colpa, rabbia, ecc.). Una volta fatto questo, possiamo attivare il processo di connessione con il nostro centro d’informazione (DNA), ed ottenere il simbolo-chiave o password di accesso per agire su una o più programmazioni predefinite e limitanti. A questo punto, consapevoli dei meccanismi che producono l’azione d’accesso, andiamo ad analizzare l’azione stessa, che ci farà finalmente comprendere la funzione della simbologia del Mandala Alchemico. Facciamo un esempio. Ipotizziamo che la forma Simbolo-chiave, ottenuta con il processo sopra descritto, sia riconducibile ad un senso di colpa non identificato che degenera in una forma depressiva. Prendiamo allora un foglio di carta, disegniamo un cerchio (a mano libera o col compasso), nel centro disegniamo il nostro Simbolo chiave. Poi, nella più totale libertà di espressione, ascoltando l’istinto e l’intuito, disegniamo altri simboli o forme che la nostra mente suggerisce in simbiosi con il simbolo chiave.

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Alchimia del Mandala Abbiamo così attivato la funzione per cui il simbolo fu creato, ovvero la ricerca dell’unione con la parte mancante, andandone a definire il raggio d’azione. Il passo successivo è la colorazione del Mandala: con questa azione attiviamo la funzione alchemica di trasformazione. Come precedentemente detto per il suono, anche il colore produce un’azione vibratoria che emette delle frequenze, e queste andranno ad agire sulla materia cellulare, trasformandola. Nel nostro esempio, il senso di colpa e la conseguente depressione che ha instaurato uno stato fisico doloroso verrà gradatamente modificato, ripristinando l’armonia emozionale e fisica. Questo processo alchemico di trasmutazione, attivato con la creazione del mandala, continuerà la sua azione sul nostro sistema bio-sensoriale o sistema corpo fisico per 72 giorni, trascorsi i quali passerà ad un’azione di mantenimento.

Vally Aries Nasce in provincia di Padova il 16 aprile 1957. Pur avendo conseguito studi con indirizzo commerciale/economico, la sua attitudine per l’arte la porta a svolgere varie esperienze in attività creative artistiche. Nel 2009 inizia la collaborazione al progetto Ponte di Luce, ed intraprende un percorso di ricerca personale sulla metafisica e sulle pratiche olistiche che le fà conseguire: Formazione sui

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Come premesso all’inizio di questo articolo, il Mandala Alchemico è solo uno dei tanti aspetti di quest’opera meravigliosa; è l’aspetto che io meglio conosco perché vissuto e sperimentato in prima persona, ma molto altro ancora c’è da dire e raccontare sul Mandala…

mandala con approfondimento e ricerca personale sulle applicazioni trasversali; Formazione in Aromaterapia Alchemica; Formazione in Floriterapia (fiori di Bach); Master Reiki Usui Riohy Gakko; Facilitatore avanzato Psych-K; Facilitatore avanzato MO.V (modificazione vibrazionale); Facilitatore Metodo Angeli Umani. Oggi continua il suo lavoro di ricerca e divulgazione, ed opera nel settore olistico come consulente: di alchimia con i mandala facilitatore MO.V (modificazione vibrazionale Dna) operatore reiki.

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HOSEKI VANNINI

Apologia del mistero

Riflessione semi-seria su questo Sconosciuto (!)

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uando si presentano a noi circostanze che sfuggono a una comprensione razionale, le cataloghiamo immediatamente come “misteri” e le custodiamo con rispetto ed un pizzico di timore in fondo al nostro cuore. Non ci addentriamo in esse, le lasciamo ai margini della nostra vita e, finché non diventano urgenti, facciamo finta di nulla, ci trinceriamo dietro un sorriso ambiguo e tiriamo avanti aspettando che siano altri a risolverle. Eppure, sotto sotto, una curiosità insistente non ci permette, come vorremmo, di ignorarle, non ci permette di mettere a tacere le domande che affollano la nostra mente… Sembra quasi che questa parolina “mistero” ci insegua, di soppiatto, in ogni attività che intraprendiamo: infatti, anche nella più insignificante delle circostanze esistenziali, si insinua un evento imponderabile, che scompagina l’organizzazione razionale del nostro operato. In fin dei conti, si riesce sempre

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ad aggirare quella zona buia, si evolve in qualche modo quel nodo inaspettato, che però comunque esiste, mentre quel qualcosa di non previsto, di inspiegabile ha dato una piega diversa ai nostri piani. In un periodo storico che ha, molto più che in passato, come priorità l’indagine dei misteri che affollano la vita e la storia degli Uomini, viene quasi come logica conseguenza indagare la natura del mistero in sé. Ogni momento dell’esistenza, ma soprattutto il primo e l’ultimo- la nascita e la morte- sono connaturati da un alone di mistero a cui, in un modo o nell’altro, si è tentato di dare una spiegazione logica. Ma può la logica svelare la presenza del mistero nell’avventura umana? Malauguratamente la logica può giusto catalogare le dimensioni di un mistero, può descriverne le particolarità, ma quando si tratta di affermare in cosa consista questo benedetto mistero, essa deve farsi da parte.

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Apologia del mistero Il bello della parolina “mistero”, e di tutto ciò che rappresenta, è la sequela inenarrabile di discussioni e teorie che essa genera. Sicuramente, e per dare un taglio non accademico alla nostra ricerca fra il serio ed il faceto, il mistero provoca in primo luogo un certo timore, quindi curiosità, ed infine una sorta di simpatia. Già, perché, in un mondo dove tutto deve avere una spiegazione o una contropartita, il mistero crea un’evanescente, ma pregnante presenza di sé, e questa indiscutibile presenza comporta un imbarazzo controllato che è anche divertente, ma non produce altro risultato che una sua muta parvenza. In fondo, è piacevole assistere alle seriose disquisizioni che un qualunque mistero fa sorgere, è bello osservare la piega indispettita, ma severa, che si disegna sul volto dei soliti “sapientoni”, quando di mistero si parla. Fa piacere riflettere sull’arguzia un pò cinica, sempre ironica, che la “Sapienza ufficiale” riserva al mistero, e tutto questo fa crollare le distanze fra l’uomo comune, che per certi versi accetta e si arrende al mistero, e gli scienziati duri e puri che provano a smantellarlo a tutti i costi e senza riuscirci... Giusto a titolo di esempio, avete mai dato uno sguardo agli occhi dei partecipanti ad un dibattito quando si parla di “cerchi nel grano”? Avete notato con quanta cura teorie su teorie tentano di riportare alla “normalità” quel fenomeno, escludendo ogni intervento non umano? Avete notato che le diverse posizioni teoriche si palesano, più che nelle parole, negli atteggiamenti del corpo? Che le braccia sono quasi sempre incrociate sul busto e le gambe nervosamente accavallate, come ad escludere qualunque “contatto” con la materia del contendere? Credo che nessuno possa affermare di non aver provato un sottile piacere quando la discussione si conclude con un nulla di fatto che lascia quel mistero esattamente come era, almeno per la scienza cosiddetta ufficiale. In ultima analisi, il mistero sembra essere lì per ricordarci quanto è utile, in ogni frangente della vita, un pò di sana umiltà, di rispetto per quanto di più grande di noi esiste, ma non solo. Difatti, non è tutta qui la carica dirompente di questa evenienza che chiamiamo mistero: le sue caratteristiche sono innumerevoli e rimandano alla complessa semplicità della vita. Se ci poniamo dinanzi (e ri-eccolo!) al mistero

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Hoseki Vannini della vita, ci rendiamo facilmente conto che noi siamo immersi nel mistero, che tutto in noi, dalla nostra origine al nostro fine ultimo, è connaturato da un inafferrabile mistero. Per non andare troppo lontani, è un mistero essere nati in una famiglia piuttosto che in un’altra, è un mistero innamorarsi di una persona piuttosto che di un’altra, avere un talento piuttosto che un altro, è un mistero la durata della nostra esperienza terrena, è un mistero il sorriso di un neonato, è un mistero… e si potrebbe continuare all’infinito. In questa pseudo–lista abbiamo limitato alla ordinaria quotidianità la somma dei misteri enumerati; ma se ci affacciamo ad una finestra in una notte stellata, mio Dio! Quanti “perché, ma, come, o chissà” si presentano alla nostra mente. Provate a farvi spiegare da un meteorologo esperto le leggi del clima, provate a farvi spiegare come funziona quel meccanismo che fa di una giornata un’esplosione di sole o un diluvio… beh! Ne sentirete della belle e, oltre alla descrizione del fenomeno immediato e del suo “perché”, vi ritroverete ancora una volta davanti a tante teorie che, spesso, cozzano fra di loro, ma non vi sanno dare l’esatta spiegazione delle leggi che regolano il clima. Non mi inoltro nel campo della fisica in quanto, in quella sede, alla spiegazione sperimentale di un mistero segue, paradossalmente, un altro mistero. Come a dire che un mistero svelato genera un mistero ancor più misterioso! E la medicina? Si può dire che ad ogni scoperta segua un ulteriore, misterioso interrogativo… Ed è bene fermarsi, altrimenti ci si accorge che, in fondo, non c’è nulla che non sia un mistero! E così prosegue l’azione incessante e silenziosa del mistero in ogni settore della nostra esperienza umana, così il mistero segna ogni nostro attimo di vita, diviene il compagno fedele della nostra mente e delle nostre emozioni. Nel “mistero del mistero” si incrociano i nostri pensieri più reconditi, le nostre intuizioni improvvise, prende corpo la nostra autonoma capacità di confrontarci con la nostra natura più vera e profonda, e diviene il mistero la faccenda più ricorrente in ogni nostra esperienza. Sembra quasi che esso sia lì per ricordarci non solo la fallacia della nostra mente, l’inadeguatezza dei nostri mezzi di ricerca, ma soprattutto il fascino di questo espediente, messo là apposta per spronarci ad osservarlo attraverso

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Hoseki Vannini l’attività del cuore, l’unica in grado di vedere oltre le apparenze, di fornire una risposta ai nostri “perché”. E non è importante che quella risposta sia giusta in sé, deve esserlo per noi: siamo noi, difatti, il fulcro di ogni mistero svelato; è in noi, e solo in noi, la risposta adeguata, e il mistero ha l’ulteriore compito di generare soluzioni personali allo stesso mistero. Questa poliedricità del mistero consente di allargare le prospettive di risoluzione ad un problema, allena mente e cuore a tener conto di mille variabili e di ogni opinione al loro riguardo, e quindi produce incessantemente conoscenza. In fin dei conti, se non ci fossero i misteri, non ci sarebbe alcuna spinta alla conoscenza, al progresso e al rapporto fra noi e quanto ci circonda. Il mistero, come ogni faccenda della vita che ci tocca per ricordarci la “grande pochezza” del nostro essere, è la chiave per fare della nostra umanità l’accesso ad una realtà che non deve essere necessariamente patrimonio degli occhi e della mente, ma di altro: quell’altro che ci scolla dalla legge di gravità e ci permette di superare i nostri limiti, spesso ritenuti tali finché la soluzione di un mistero non li abbatte!

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Apologia del mistero È, dunque, uno stimolo incessante l’esistenza del mistero alla nostra capacità di inventare, o meglio, di immaginare la sua fonte e il suo positivo scioglimento. Fondamentalmente, intanto un mistero attira la nostra attenzione in quanto mette in crisi la nostra stabilità emotiva, in quanto suscita il nostro interesse, trasformando la ricerca della sua soluzione in passione. E cos’è la passione se non il lato più intrigante dell’amore? Ovunque si incentri l’attività intellettuale dell’uomo e produca risultati tangibili, lì, c’è l’intervento dell’amore… L’amore, infatti, è il motore che avvia ogni cambiamento, ogni avanzamento di stato, nulla si muove senza la sua spinta, e questo sentimento è alla base della vita, ne è l’origine misteriosa, il cammino altrettanto misterioso. Ne consegue che niente meglio del mistero va a braccetto con l’amore, ne è la sua diretta conseguenza. E, come è facile arguire, non c’è mistero senza amore! Dove si arresta la razionalità, quando si è puri di cuore, interviene l’azione dell’intuizione, quel “grimaldello” dell’anima che, oltrepassando le regole della fredda e precisa ragione, si presenta come un lampo, come una “risposta” perfetta,

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Apologia del mistero magari nel bel mezzo di un sogno notturno o di una passeggiata nei campi, e quel “lampo”non ha avuto bisogno, per sorgere in noi, né di calcoli astrusi, né di regoli e compassi! E cos’è mai l’intuizione, a quale categoria speculativa appartiene, come possiamo catalogarla? Mistero! La maggior parte degli uomini di scienza onesti hanno sempre sostenuto che la loro scoperta più eclatante fosse avvenuta “per caso”, in seguito, appunto, ad una idea improvvisa, paradossalmente slegata dai loro studi precedenti ma perfettamente aderente alle nozioni già enucleate ed in linea con la possibile soluzione, improvvisamente svelata da un quid inconsueto, non programmato. Anche in questo caso, ancora una volta, questa circostanza per nulla rara non ha alcuna spiegazione razionale ma è, di nuovo, un mistero. E non bisogna essere illustri studiosi per sperimentare questo evento in quanto, innumerevoli volte, l’uomo della strada, alle prese con un problema che lo affliggeva, si è trovato in testa la sua soluzione mentre era affaccendato a fare altro, mentre ormai dava per scontata la sua convivenza con quell’annosa questione. Gira e rigira, il mondo ruota proprio intorno al mistero, ne è figlio legittimo. Un figlio spesso scavezzacollo, poco incline alla regole di indagine consuete, un figlio avido di sorprese, pieno di fantasia e pronto a farsi da parte se “costretto” nelle maglie della ragione, che vuole essere amato ed apprezzato per ciò che è, e non per ciò che si crede che sia. Un figlio pronto, però, se si sente

Hoseki Vannini Viene al mondo come Maria F. e diventa dopo un lungo, e spesso sofferto, percorso esistenziale Hoseki. Diplomata al liceo Classico, studia giurisprudenza senza convinzione o meglio con la certezza di aver scelto una facoltà non adatta a lei. Nel frattempo, si imbatte nei mille interrogativi sul significato della esperienza umana e inizia un cammino di personale ricerca spirituale, condotto in assoluta e dolente solitudine. Dall’età di quindici anni si dibatte fra i dubbi della sua ragione e le tesi del suo cuore. La sua ricerca non è conclusa,

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Hoseki Vannini amato, a fornirci le chiavi per andare alla sua ed alla nostra scoperta, dedito ad un’unica occupazione: farci crescere insieme a lui. Innamoriamoci, quindi, del mistero, coltiviamolo in noi senza timore di venirne schiacciati, senza farci confondere da un uso scorretto della nostra razionalità che, quasi sempre, è un freno alla conoscenza e non uno stimolo, a differenza dell’intuito che, invece, è il linguaggio del mistero. Diamo al mistero il posto che gli è proprio, non lo teniamo lontano da noi, ma immergiamoci nelle sue oscure e fantasiose caratteristiche. Impariamo a vivere il mistero come parte integrante di noi… In fin dei conti chi mai ha avuto accesso alle profondità della sua anima, chi può dire di conoscersi davvero? Nessuno, di fronte a sé stesso, al mistero della sua essenza, del suo essere così come è, e non altrimenti, è in grado di dare e di darsi una spiegazione a tutto questo. Per comprendere il “perché” di certe nostre malinconie, di una depressione, anche solo di un gesto improvviso, appunto imprevedibile, andiamo in analisi. E il più delle volte, quando terminano le sedute, noi ed il terapeuta, su noi stessi, sappiamo meno di quando abbiamo iniziato la terapia. Ed allora, se anche noi siamo un mistero, perché non impariamo a fare del mistero non “un qualcosa” da scoprire a tutti i costi, ma semplicemente un evento da vivere? Perché non decidiamo di fare del mistero la normalità e di adattare la sua forza creatrice alla nostra vita, arricchendola della sua poesia? Mistero!

ma ha attraversato, con entusiasmo e sofferenza in egual misura, ogni teoria capace, a suo avviso, di fornire risposte adeguate alle domande che le premevano dentro. Nel tempo ha pubblicato, con rispetto e umiltà, articoli della sua crescita interiore e che ora ha cercato di riassumere in parte nell’eBook Anima gemella: illusione o realtà.

Anima gemella: illusione o realtà eBook, 2011

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Morbo di Morgellons Nanotecno(pato)logia o altro?

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ltimamente, sia in televisione che, soprattutto, in Internet, si è sentito molto parlare del “Morbo di Morgellons”. Ma di cosa si tratta? Perché così tanta confusione regna attorno a questo argomento? Con il seguente articolo voglio quindi esporre una panoramica, seppur generica, su tale fenomeno.

La storia Il termine “Morgellons” compare per la prima volta intorno all’anno 1600 in un testo medico, indicando un’anomala crescita di peli o capelli sulla parte dorsale del corpo1. Occorre attendere l’anno 2002 per la ricomparsa di questa patologia, o quanto meno del suo nome. Circa 9 anni fa una biologa – Mary 1) http://www.duepassinelmistero.com/ Morgellons.htm

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Leitao – notò che sua figlia presentava strani sintomi, assimilabili proprio alla descrizione fatta da Browne nel testo medico del 1600, e decise di denominare allo stesso modo questa malattia. Non reperendo informazioni riguardanti questa patologia e trovando solo pochissimi medici in grado di ascoltarla, o quanto meno di indagare tale fenomeno, decise insieme a loro di diagnosticare una nuova malattia: il morbo di Morgellons, appunto. Questi medici, inoltre, aderirono alla Morgellons Research Fonudation (MRF)2, dove decisero di studiare i molti casi di parassitosi irrisolti, liquidati dalla medicina convenzionale come malattie psichiatriche. Attualmente, secondo la MRF, 15.623 è il numero di famiglie che hanno almeno una persona affetta da tale patologia.

2) http://www.morgellons.org/

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Morbo di Morgellons

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I sintomi Diversi sono i sintomi con cui si manifesta il Morgellons, e forse è anche per questo motivo che la medicina non è stata ancora in grado di classificare meglio tale patologia. Tra le sue caratteristiche, quindi, si possono annoverare: punture, sensazione che qualcosa cammini sotto la pelle, lesioni cutanee, fibre o filamenti che emergono dalla pelle, dolori muscolari, affaticamento, diminuzione della memoria, disfunzioni della capacità cognitiva, disturbi dell’umore. Sebbene anche il CDC (Centers for Disease Control and Prevention) stia indagando tale malattia, a tutt’oggi non se ne conoscono ancora tutti i sintomi, e di conseguenza le relative cure. Nel corso del tempo, il Morgellons è stato confuso o associato ad altre patologie che presentano sintomi simili, come il morbo di Lyme (patologia batterica), le parassitosi deliranti, o la sindrome da affaticamento cronico. Nonostante ciò, il Morgellons presenta comunque delle differenze che non possono essere trascurate, e che lo rendono ancora una malattia non classificabile.

Studi dei ricercatori indipendenti Come abbiamo visto poc’anzi, è ancora difficile delineare in modo chiaro il morbo di Morgellons. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che sono ancora poche le persone e soprattutto le Istituzioni che stanno svolgendo una ricerca attiva a tal proposito. Anche la confusione mediatica non aiuta in questa ricerca. Le ricerche condotte da alcuni scienziati e ricercatori indipendenti [3, 4, 5, 6, 7] hanno portato a formulare alcune ipotesi che, a mio parere, vale davvero la pena analizzare, per smentire o confermare quelle che andremo a citare più avanti. 3) http://www.morgellons-research.org/morgellons/ 4) http://morgellons-info.blogspot.com/ 5) http://www.rense.com/general76/morgdef.htm 6) http://www.rense.com/Datapages/morgdat1.htm 7) http://www.carnicominstitute.org/articles/ bio2011-7.htm

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FOTO: SCIE CHIMICHE

Il dott. Edward Spencer (neurologo) ha ipotizzato che il Morgellons possa avere origine dallo spargimento di nanopolveri, o smart dust, utilizzate in ambito militare. La dott.ssa Hildegarde Staninger (tossicologa) ha accertato che il Morgellons è collegato alla presenza di fibre di silicone e polietilene all’interno del corpo della persona affetta. Ella ha avanzato anche l’ipotesi secondo cui queste nanofibre avrebbero un certo collegamento con le scie chimiche (o chemtrails). Secondo le ricerche della dottoressa Staninger e del dott. Swartz, il Morgellons sembra essere la conseguenza di invasioni, nei tessuti umani, ad opera di nanomacchine, nanofilamenti, nanosensori dotati della capacità di autoassemblarsi e di replicarsi. I campioni di fibre e filamenti estratti dai pazienti affetti dal morbo di Morgellons bruciano a temperature non al di sotto dei 760°C circa e, se osservati al microscopio, non presentano strutture paragonabili ad organismi procarioti od eucarioti, e pertanto possono essere considerati alla stregua di macchine. Sempre dagli studi effettuati su campioni biologici di pazienti, si sono osservate fibre di colore bianco, rosso, nero e blu che fuoriuscivano direttamente dalla pelle dei malati di questo morbo. Ulteriori analisi effettuate su questi filamenti hanno fatto propendere per un’origine artificiale degli stessi. Una delle spiegazioni della manifestazione del Morgellons sarebbe da ricercare,

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Samuele Venturini quindi, in un meccanismo di rigetto dell’organismo verso questi invasori esterni. Tra i vari componenti dei nanofilamenti rinvenuti dalle analisi sono stati trovati poliestere, composti organici, polietilene, silicio. E’ stato notato in esse anche un comportamento elettrostatico. Diversi ricercatori, inoltre, hanno osservato come i filamenti del morbo di Morgellons siano comparabili con i filamenti bianchi che vengono sparsi in atmosfera durante il passaggio degli aerei impegnati nelle operazioni di biogeo-ingegneria (scie chimiche). Recentemente, a causa proprio di questa patologia, in Germania una donna di 55 anni si è suicidata perché non riusciva più a convivere con il morbo di Morgellons, e con tale gesto ha voluto attirare l’attenzione sulla malattia che le faceva crescere fibre sottopelle.

La letteratura scientifica Abbiamo visto, in maniera molto generica ma ricca di spunti per approfondimenti futuri, alcune delle caratteristiche del Morgellons. Abbiamo citato ricercatori indipendenti che svolgono studi su questa patologia. Sappiamo anche che il CDC sta raccogliendo dati e vuole indagare anch’esso su questa – a tutt’oggi – misteriosa malattia. Ma cosa dice la letteratura scientifica a tal proposito? Esistono articoli specifici che trattano questo argomento? Se fosse una malattia inventata, allora nessun medico, nessuna Istituzione e nessuna rivista scientifica dovrebbe parlare di questo argomento, che sarebbe già stato smentito in maniera efficace. Ma così non è stato e, anzi, esistono documenti scientifici che confermano e riconoscono il morbo di Morgellons come una patologia. Non solo, ci sono state anche diagnosi di medici e dermatologi (anche in Italia) che si riferivano proprio al Morgellons. A titolo esemplificativo, uno specialista in dermatologia, dopo aver visi-

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Morbo di Morgellons

FOTO: ESEMPIO DEL MORBO DI MORGELLONS

tato una paziente con sintomi caratteristici, riportò, come referto, “un’ipotizzabile Sindrome di Morgellons”. Tra i vari studi scientifici condotti a tal proposito, se ne possono annoverare alcuni. Nel 2007, sul New Scientist, compare un articolo dal titolo: “The itch that won’t be scratched”. Qui, un ufficiale dell’esercito britannico racconta al giornalista di aver osservato, per anni, fibre di vario colore e di varia lunghezza fuoriuscire da lesioni pruriginose sulla sua pelle. Queste fibre possono essere sottili come una ragnatela, ma forti abbastanza da trainare la pelle quando le si tirano fuori. Un’altra persona intervistata e affetta da Morgellons racconta di avere avuto lesioni contenenti fibre nere sugli arti e la faccia, con sensazioni di punture e di qualcosa che strisciasse sotto pelle. “E’ come se qualcosa ti stesse mordendo ovunque”, racconta una donna del Maryland. Queste descrizioni fanno sospettare che qualche parassita possa essere coinvolto in questa patologia, ma i trattamenti antiparassitari sia sul corpo che nell’ambiente domestico non hanno alcun effetto. Nonostante le varie testimonianze ed evidenze cliniche acquisite, molti medici non riconoscono il Morgellons come una nuova patologia, ma lo classificano come disturbo psichiatrico, una sorta di parassitosi delirante (DP). Diversi esperti, però, hanno dei dubbi sul fat-

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Morbo di Morgellons to che il Morgellons possa essere attualmente solo una DP. Un farmacologo dell’Oklaoma State University volle indagare meglio questo fenomeno e decise di scrivere alla MRF (Morgellons Research Foundation), per reperire qualche campione di fibra da analizzare, dato che sarebbe stato abbastanza semplice verificare la natura di tali filamenti. Il dott. Wymore ricevette pochi giorni dopo alcuni campioni, che osservò quindi al microscopio. Egli notò una certa similitudine tra le fibre dei vari pazienti, ma non trovò alcuna corrispondenza con le fibre naturali reperibili nell’ambiente. Una collega pediatra del dott. Wymore analizzò con un dermatoscopio alcuni pazienti, e vide chiaramente i filamenti sotto pelle. La caratteristica particolare era che tali fibre si notavano anche sotto la pelle non lesionata. Ciò non compariva assolutamente nei gruppi di controllo e in pazienti con altre patologie dermiche. Questi dottori continuarono ad approfondire tali indagini e riuscirono a portare alla polizia scientifica forense di Tulsa dei campioni di fibre di malati di Morgellons da analizzare. Gli esperti confermarono che le fibre non provenivano da abiti, tappeti, biancheria o lenzuola. Fu eseguita anche un’analisi spettrofotometrica, e questi filamenti non trovarono alcuna corrispondenza con ben 880 composti comunemente impiegati nella produzione di fibre per uso commerciale. I solventi per l’estrazione delle tinture non rilasciarono alcuna colorazione. Infine, provarono a sottoporre le fibre ad una gas-cromatografia, procedendo con un graduale riscaldamento delle stesse a circa 370°C e registrando i composti vaporizzati. I risultati mostrarono una piccola quantità di anidride carbonica emessa, tuttavia le fibre rimasero intatte. Qualsiasi materiale organico avrebbe dovuto normalmente vaporizzarsi ed i componenti inorganici ridursi in cenere, a seconda del tempo impiegato a raggiungere la temperatura massima. Ma ciò che è accaduto è stato soltanto un oscuramento delle fibre. Il direttore dei Clongen Laboratories (un’organizzazione privata di ricerca nel Maryland) maneggiò dei filamenti che gli furono inviati da un malato di Morgellons. Utilizzò degli enzimi per estrarre il DNA dalle fibre. Quando lo sequenziò, trovò che apparteneva ad un fungo. Il direttore,

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Samuele Venturini quindi, ipotizzò che delle ife fungine potessero comporre le fibre del Morgellons. Tuttavia, un biochimico della Stony Brook University trovò che all’interno delle lesioni dei malati di Morgellons era contenuto l’Agrobacterium, un genere di batteri che causano tumori nelle piante. Il gruppo di controllo risultò negativo al ceppo in esame. Questo batterio viene impiegato commercialmente nella produzione di piante geneticamente modificate (OGM) e – almeno in condizioni di laboratorio – è in grado di inserire il proprio DNA in cellule umane. Secondo altri psichiatri e medici, alcuni sintomi psichici delle persone affette da Morgellons potrebbero essere dovuti all’azione che il sistema immunitario, mediante l’uso di citochine, esplica a causa della presenza di un agente patogeno all’interno del corpo. Un’eccessiva produzione di citochine può avere effetti deleteri sul sistema nervoso, provocando disturbi mentali. Solitamente, quando una patologia è sconosciuta, viene considerata come delirante. Recentemente, però, anche il mondo accademico sta considerando il Morgellons come una seria patologia. Nel 2006 la dottoressa Leitao del MRF, insieme ad atri due medici, pubblica un articolo sull’American Journal of Clinical Dermatology intitolato: “The Mystery of Morgellons Disease – Infection or delusion?”. In questo studio viene spiegato come il Morgellons sia una patologia cutanea misteriosa, che è stata descritta più di 300 anni fa. La patologia è caratterizzata dall’estrusione di filamenti e fibre dalla pelle in correlazione con altri sintomi, sia neuropsichiatrici che dermatologici. A tal proposito, il Morgellons assomiglia e può essere confuso con la malattia di Lyme, dato che la risposta alla terapia antibatterica risulta essere per certi aspetti simile, suggerendo che il morbo di Morgellons possa essere collegato ad un non meglio definito processo infettivo. Ulteriori ricerche cliniche e molecolari sono necessarie per chiarire questo mistero. Tra gli articoli più recenti, cito quello del 2010 apparso sul giornale Clinical, Cosmetic and Investigational Dermatology dal titolo: “Morgellons disease: Analysis of a population with clinically confirmed microscopic subcutaneous fibers of unknown etiology”. L’eziologia del Morgellons è sconosciuta, e i criteri diagnostici devono essere

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ancora definiti. Lo scopo di questa ricerca è stato quello di identificare i sintomi prevalenti nei pazienti con la conclamata presenza di fibre sottocutanee, per sviluppare una definizione casistica del Morgellons. Il largo studio clinico, effettuato fino ad oggi, costituisce la base per una definizione di casistica precisa e clinicamente utile per il morbo di Morgellons. Anche nel 2011 è stato pubblicato un ennesima ricerca su questo morbo sul giornale Oral Surgery, Oral Medicine, Oral Pathology, Oral Radiology and Endodontology, inititolato: “An oral ulceration associated with Morgellons disease: a case report”. Questo caso evidenzia una ulcerazione orale in una giovane donna associata alla malattia di Morgellons, una condizione che non è mai stata precedentemente descritta nella letteratura dentale. Un numero crescente di individui auto-segnalano questa condizione, e i fornitori di servizi sanitari e dentali devono ben conoscere questa patologia. Non esiste ancora una terapia per questa malattia, a volte qualche trattamento antiparassitario sembra portare effetti benefici, ma il problema poi tende a persistere. Occorre quindi conoscere meglio tale patologia, per poter studiare una cura dagli effetti duraturi.

Le ipotesi, i brevetti Varie sono le ipotesi relative alle cause scatenanti il morbo di Morgellons. Io stesso ho potuto osservare da vicino dei campioni biologici di

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Morbo di Morgellons un paziente affetto da questa patologia, e come altri ricercatori indipendenti ho notato una disarmante somiglianza con i filamenti polimerici sparsi con le scie chimiche. Esistono quindi due principali filoni di ricerca: quello relativo alle cause naturali (agenti patogeni come batteri o funghi, sia conosciuti che nuovi) e quello relativo alle cause artificiali (inquinamento, nanotecnologia, biotecnologia, armi). In questo ultimo caso vale la pena citare la ricerca di un cittadino statunitense, secondo cui il Morgellons sarebbe da imputare all’utilizzo di un antiparassitario della Monsanto, il Roundup. Potrebbe quindi trattarsi di un effetto collaterale dovuto all’impiego di un nuovo tipo di sostanza utilizzata in ambito agricolo, che vede l’unione biotecnologie, OGM e nanotecnologie. Abbiamo accennato anche alla possibilità che il Morgellons fosse provocato da nanomacchine, nanofibre in grado di auto-assemblarsi, autoreplicarsi e capaci di reperire l’energia sufficiente per queste funzioni direttamente dal corpo o dall’ambiente in cui si trovano. Ebbene, tutte queste ipotesi sono plausibili e meritevoli di studio, per meglio comprendere l’eziologia del Morgellons. Forse alla maggior parte delle persone potrebbe risultare difficile prendere atto di tali affermazioni ma, nell’era della nanotecnologia e soprattutto della nanomedicina8, ciò che un tempo pareva fantascienza ora risulta essere realtà. A tal proposito trovo utile esporre alcuni brevetti e documenti ufficiali. Al lettore, poi, spetterà unire le varie conoscenze fin qui trasmesse per farsi una propria idea critica sull’argomento ed auspicabilmente stimolare la ricerca, per meglio svelare il mistero del Morgellons. - US6696285: Nanomachine fueled by nucleic acid strand Exchange (nano macchina alimentata dallo scambio di filamenti di acidi nucleici); - US7531472: Nanofiber and method of manufacturing nanofiber (nanofibre e metodo per fabbricare nanofibre); - US20030134281: Nanomachine compositions and methods of use (composizione della nanomacchina e metodi di utilizzo); - US20060051401: Controlled nanofiber 8) http://www.nanomedjournal.org

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Morbo di Morgellons

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seeding (semina controllata di nanofibre); US20070293927: Gene and cell delivery self expanding polymer stents (consegna genica e cellulare mediante polimero che si autoespande); US20090075354: Nanofiber structures for supporting biological materials (strutture di nanofibre per il sostegno di materiale biologico); US20100090180: Self-replicating materials (materiali auto-replicanti); US20100196435: Materials and methods for delivering compositions to selected tissues (materiali e metodi per la consegna di composti a tessuti selezionati); US20110172404: Self-assembly of nanoparticles through nucleic acid engineering (auto-assemblaggio di nanoparticelle attraverso l’ingegneria degli acidi nucleici); US20110229551: Drug delivery compositions and methods using nanofiber webs (metodi e consegne di composti farmacologici utilizzando tele di nanofibre); US20110236974: Compositions and methods for making and using laminin nanofibers (composizioni e metodi per la produzione e l’utilizzo di nanofibre di laminina);

Nei seguenti tre brevetti viene citata espressamente la patologia del Morgellons, in un contesto di potenziale terapia della stessa: - US20090202442: Enerceutical activation of the alternative cellular energy (ACE) pathway in therapy of diseases (attivazione enerceutica della via dell’energia cellulare alternativa nella terapia delle pa-

Samuele Venturini Nato a Milano nel 1981 si è laureato in Scienze Biologiche. È molto attivo in ambito naturalistico ove compie ricerche, studi ed opere di divulgazione. Si interessa anche di astrobiologia, biologia quantistica, medicina naturale, spiritualità, geoingegneria, ufologia, civiltà antiche, fenomeni paranormali e

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Samuele Venturini tologie); - US20090081314: Glycemic control, diabetes tratment, and other treatments with acetyl cholinesterase inhibitors (controllo glicemico, trattamento del diabete e altri trattamenti con gli inibitori della acetil-colinesterasi); - US20090047267: Process for the preparation of a non-corrosive base solution and methods of using same (processo per la preparazione di una soluzione basica non corrosiva e metodi di utilizzo della stessa).

Considerazioni finali Occorrono altri studi, ma ciò che è importante è non dare nulla per scontato, e in questo caso, come in altri, è bene utilizzare il famoso “principio di precauzione” che la scienza stessa insegna. E’ utile approfondire le ricerche sul Morgellons in quanto, essendo ancora una patologia non del tutto conosciuta, risulta essere potenzialmente pericolosa. Fortunatamente, vi sono diversi ricercatori indipendenti e Istituzioni che stanno facendo luce su questo fenomeno dai molteplici aspetti. Siccome è in gioco la vita delle persone è fondamentale non dare nulla per scontato, perché la vera scienza mette sempre in dubbio sé stessa, alla continua ricerca della comprensione dei vari fenomeni che si prestano ad essere affrontati. La scienza è al servizio dell’uomo, e non deve precludersi nessuna ipotesi. La medicina, infine, la si impara dai pazienti, non solo dai libri e nelle Università.

misteri in generale. Coltiva la passione della scrittura che ricopre le aree di interesse sopra citate.

Ecobioevoluzione Castel Negrino, 2012

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Perché tutto questo accanimento contro la Massoneria?

FOTO: INTERNO DI UNA LOGGIA MASSONICA

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a situazione economico-finanziaria, già da un po’ di tempo, non è delle migliori, sia in Italia che nella restante parte del mondo, e la popolazione crede che la principale causa di tale crisi sia il complotto tra Massoneria e Illuminati di Baviera. Andiamo per ordine però, facendo un po’ di luce su queste due organizzazioni. Innanzitutto, dobbiamo fare una netta distinzione tra Massoneria e Illuminati. Gli Illuminati nascono nel 1776, ed il loro fondatore è un professore di giurisprudenza di nome Adam Weishaupt. La società degli Illuminati si forma, per chi non lo sapesse, come alternativa alla Massoneria; ma qual’è il suo compito? Il compito degli Illuminati era quello di diffondere le opere dei Lumi all’interno di uno stato, la Baviera, che proibiva gran parte di tali scritti. Inoltre, si proposero di operare un perfezionamento morale dei loro membri, e di riunire la Germania, e poi l’Europa, per ottenere un ritorno allo “stato di natura”, in cui gli uomini sarebbero vissuti in pace tra loro. Per la Massoneria, invece, non si ha una data di nascita ben precisa, ma la si ricollega spesso alla costruzione dell’antico tempio di Re Salomo-

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ne. Ma chi sono i cosiddetti Massoni e che funzioni svolgono all’interno della nostra società? La prima cosa da fare nel comprendere la Massoneria è quella di liberare la mente da nozioni preconcette su di essa, risultato di chiacchiere disinformate, o congetture, o perfino di pettegolezzi maliziosi. Non si pretende che tutti i Massoni siano perfetti nel pensiero, nella parola e negli atti; ma ci si aspetta che i Fratelli osservino i più alti principi morali, richiedendo a ogni Fratello di comportarsi con gli altri (che siano membri dell’ordine o meno) come vorrebbe che essi si comportino con lui; di frequentare la Loggia di appartenenza con regolarità, nella misura in cui i doveri verso la famiglia o altro glielo consentano; di dare alla causa della carità tanto generosamente quanto i suoi mezzi gli permettano. Una definizione di Massoneria è che essa sia “un sistema morale”, e l’insegnamento morale è di fatti la base sulla quale si appoggia.

I tre Grandi Principi Da tanti anni i Massoni hanno seguito tre grandi principi:

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Perché tutto questo accanimento contro la Massoneria? I. Amore Fraterno. Ogni vero Libero Muratore mostra tolleranza e rispetto nei confronti delle opinioni altrui e si comporta con gentilezza e comprensione verso i propri simili e fratelli. II. Conforto. I Massoni sono inclini ad esercitare la Carità, e ad interessarsi non solo a loro stessi, ma anche alla comunità in generale, sia con donazioni di benevolenza sia con sforzi e lavori volontari. I massoni si rivolgono alla Verità e aspirano ai più alti valori morali, cercando di raggiungerli nella loro vita. III. Benevolenza. Sin dai primi tempi, la massoneria è stata attenta ai problemi dei malati e degli infermi, e conserva ancora oggi tale attenzione. Inoltre, somme di denaro sono date a Enti di carità nazionale e locali. Abbiamo fatto una bellissima panoramica sulla Massoneria e sui Massoni, ed ora smonteremo le famose teorie del complotto che vedono i Massoni e gli Illuminati in combutta per conquistare il mondo. I complottisti ritengono che nella banconota da un dollaro Americano ci siano chiari segni del potere Massonico e una sorte di codice segreto, che solo gli stessi Massoni sarebbero in grado di decifrare. Iniziamo dalla piramide incompleta sopra l’occhio onniveggente che tutto vede: la piramide è condivisa da moltissime civiltà e culture in tutto il mondo. Essa non è un simbolo esclusivo della Massoneria, ma i Massoni le danno un significato speciale. Essi sono innanzitutto costruttori, quindi la piramide è un progetto di costruzione; il fatto che sia incompleta, poi, indica che un Massone è sempre in continuo lavoro per migliorare sé stesso come persona e la società in cui vive. L’occhio onniveggente che tutto vede (l’occhio di Dio)

Marco Marafante Nato ad Adria nel 1982, vive a Taglio di Po (Rovigo). Socio del C.U.N. (Centro Ufologico Nazionale) Presidente dell’Associazione Culturale A.C.I.N.S. Associazione Culturale Internazionale Nuove Scienze (www.acins.eu). Web-Master, Poeta, Scrittore e

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Marco Marafante

posto sopra la piramide è molto probabilmente un simbolo proveniente dall’antico Egitto che, durante il periodo del rinascimento, venne comunemente usato per indicare l’onniscienza del Dio Cristiano che vigila su tutto il creato. Anche i Massoni adotteranno l’occhio che tutto vede, ma solo dopo quattordici anni dall’inserimento del sigillo ufficiale nella banconota Statunitense, questo per indicare un essere supremo (Dio) che non abbia un nome specifico: per entrare in una Loggia ed essere un Massone si deve credere nel Grande Architetto Dell’Universo, e non conta con che nome lo si chiami. Poiché all’interno delle Logge ci possono essere Fratelli di diverse religioni, ma uniti dalla loro Fratellanza e ricerca della Verità. Passiamo ora alla famosa scritta in latino “Novus ordo seculorum”. L’uomo che inserirà nella banconota da un dollaro questa famosa frase non era un Massone, come tanti hanno creduto o credono, ma una persona normalissima, non appartenente alla Massoneria. La frase è presa da un poema latino di duemila anni fa, che recita: “Il nuovo ordine dei secoli”, ed è usata, in questo caso, in riferimento all’inizio dell’era Americana. Quindi, nessun contatto o connessione diretta con la Massoneria. Essa si riferisce alla nuova società nascente, agli Stati Uniti appena nati, ad un qualcosa di nuovo, di giovane. Ma se il popolo e i complottisti vogliono vedere in essa il complotto e la Massoneria come organizzazione mondiale al comando della Terra, che continuino a pensarla così. La realtà è che l’uomo tende ad essere passivo di fronte ai propri fallimenti, attribuendoli ad una causa esterna, rappresentata in questo caso dalla Massoneria. E’ auspicabile, nella ricerca della Verità, una corretta informazione e un buon esame di coscienza.

Referente del C.U.N. Polesine. Ricercatore di: Biotecnologia, Criptozoologia, Biologia, Esobiologia, Astronomia, Evoluzionismo, Fisica Quantistica, Geografia, Climatologia, Chimica, Botanica, Paleontologia, Genetica, Filosofia, Teologia, Simbologia, Archeologia, Folklore, Psicologia, Parapsicologia, Esoterismo, Storia. Studioso dei Misteri del Tempo e dell’Uomo, di Enigmi storici, Misteri del passato, Enigmi della Mente e Ufologia.

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GIOVANNI FRANCESCO CARPEORO

Scienza sacra e misteri occulti dell’Eros Dell’Amore e dei suoi opposti

FOTO: I CELEBERRIMI PUTTI DI RAFFAELLO, DETTAGLIO DELLA MADONNA SISTINA

L’Amore nelle sue definizioni La maggior parte delle definizioni dell’amore parte dalla descrizione di un aspetto a volte anche opposto all’amore medesimo. I greci e, successivamente, la tradizione classica, hanno a lungo dissertato sulla distinzione tra Eros e Anteros, distinzione della quale si tratterà più avanti, ma anche tra Eros e Thanatos, intesi come la vita e la morte o, più profondamente, l’essere e il non essere. E, forse, proprio in questa chiave dell’essere e del non essere risiede la spiegazione di questo inconsueto percorso all’incontrario che tutti imbocchiamo nel parlare d’amore. Sotto questo profilo è importante ricordare gli studi di Freud che, dalla contrapposizione tra Amore e Morte, Eros e Thanatos, ha dedotto uno dei cardini della sua psicanalisi. Ma il punto di partenza di tale studio è stato ancora una volta

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un filosofo greco, Empedocle, vissuto intorno al 495 a.C. Tale filosofo pone due principi fondamentali, philìa (amore, amicizia) e neikos (discordia, odio), come motore dell’esistenza; Freud, sia per il nome che per la funzione che assolvono, li considera paritetici alle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione. Da notare che in questo studio Freud non adopera la parola Thanatos, anche se molti suoi allievi hanno successivamente testimoniato un uso della medesima durante i suoi insegnamenti verbali. Ma anche dallo studio di Freud si desume che la traduzione del termine neikos in odio è impropria. Infatti per Freud Thanatos-Neikos segnala il desiderio di concludere la sofferenza della vita e tornare al riposo, alla tomba, concetto che non deve essere confuso con quello di destrudo, vale a dire con l’energia della distruzione. Freud configura l’esistenza di un essenziale desiderio o pulsione di morte, riferendosi alla necessità og-

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Scienza sacra e misteri occulti dell’Eros

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gettiva di morire che ha ogni essere vivente. Secondo una interpretazione positivista, Eros e Thanatos non sono banalmente “amore e morte” ma gli impulsi creatori e distruttori. Il primo è il Desiderio universale, cosmico, che attrae gli elementi e che spinge la Natura a dare i suoi frutti. Il secondo è la tendenza alla disgregazione degli elementi. Ciò trova una suggestiva sottolineatura in Esiodo, che pone Eros e Thanatos all’inizio della genealogia e della cosmogonia, in quanto è proprio Eros che permette a Chaos di generare. Ma la cultura greca ha un approccio molto più sfaccettato rispetto alla definizione dell’amore. Basta riassumere i termini inseriti nel vocabolario del greco antico per desumere la complessità della riflessione. 1) Agape (αγάπη), amore in senso lato. 2) Philia (φιλία) è l’amore di affetto e piacere, di cui ci si aspetta un ritorno, ad esempio tra amici. 3) Eros (έρως) definisce l’amore sessuale. 4) Anteros (αντέρως) è l’amore corrisposto. 5) Himeros è la passione del momento, il desiderio fisico presente ed immediato che chiede di essere soddisfatto. 6) Photos è il desiderio verso cui tendiamo, ciò che sognamo. 7) Stοrge (στοργή) è l’amore d’appartenenza, ad esempio tra parenti e consanguinei. 8) Thelema (θέλημα) è il piacere di fare qualcosa, il desiderio, il voler fare.

Agape: Amore e Possesso Tra i termini sopra riportati quello che ha avuto più riscontro nei secoli successivi è stato Agape, αγάπη . Infatti, nonostante tale termine volesse probabilmente disegnare l’unitarietà

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FOTO: TRIONFO DI GALATEA DI RAFFAELLO SANZIO, 1512

dell’Amore, la cultura dominante del mondo cattolico, in modo retrivo, ha voluto imporne una versione esclusivamente spirituale, mostrando la consueta avversione per la realizzazione dell’Eros e cioè per la sessualità. Ecco quindi disegnata una versione secondo la quale Eros e Agape sarebbero due paradigmi antitetici. L’amore come eros sarebbe acquisitivo, quindi un prendere; l’amore-agape sarebbe invece un dare, un donare. Ultimamente il cattolicesimo ufficiale ha rivisto questa posizione: nell’enciclica “Deus caritas est” Papa Ratzinger ha cercato di riscrivere un nuovo paradigma che includesse l’uno e l’altro, eros e agape, superandoli. Tu non puoi donare, se prima non acquisisci. Non puoi amare, se non sei amato. Insomma, come scrive Benedetto XVI nell’enciclica, “dobbiamo dare l’amore agli altri, ma

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gli angeli, ma non avessi la carità, sarei come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. 2 E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. 3 E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi gioverebbe. 4 La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, 5 non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6 non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. 7 Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. 8 La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. 9 La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. 10 Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. FOTO: AMORINO MEDICEO TRIONFANTE, COLLEZIONE PRIVATA 11 Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da acquisendolo prima da Dio”. Il Pontefice si spinbambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da ge ad un’apparentemente difficile conciliazione bambino l’ho abbandonato. tra la cultura pagana e quella cristiana: “Platone 12 Ora vediamo come in uno specchio, in maniesi congiunge a San Paolo. L’uomo platonico della ra confusa; ma allora vedremo a faccia a caverna vede e raggiunge il bene, e non se ne sta faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma alfermo a guardarlo, ma torna nella caverna cercanlora conoscerò perfettamente, come anch’io do di liberare gli altri. E lo stesso l’uomo paolino sono conosciuto. che, amato da Dio, ama. Risponde all’amore di Dio che gli viene incontro, amando”. In realtà, il tentaPer restituire il testo al suo significato autivo rimane debole proprio per la perpetuazione tentico, forse è necessario rimettere la parola nel titolo dell’enciclica della parola Carità, invece Amore al posto di Carità. D’altro canto anche che Amore, quale traduzione di Agape. In nome quella straordinaria scienza esatta che è l’etimodella smaterializzazione dell’Amore, da sempre i logia ci guida verso questa operazione: in sanscricanonisti cattolici hanno creato delle traduzioni to, la lingua più antica che conosciamo, la radice ad hoc. Celebre è il caso dell’ “Inno all’Amore” (osKapati indica le due mani, e le mani sono tanto sia l’inno all’agape) di San Paolo nella Lettera ai gli organi che prendono che quelli che danno… Corinti (1 Cor 13) dove per l’intero brano, tranne Tale radice, che a sua volta deriva da un’altra di che per il titolo, la parola greca agape viene tracui tratterò in seguito, è alla base tanto del terdotta con carità: 1” mine Agape, che di tutte le parole neolatine con Se anche parlassi le lingue degli uomini e de-

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Scienza sacra e misteri occulti dell’Eros applicazioni eguali o analoghe: capio, latino per prendo, recipio, latino per ricevo, concipio, latino per genero, captivus, latino per prigioniero, accipio, latino per accetto, percipio, latino per sento ecc. Come nell’atto sessuale, nell’etimologia amare è tanto prendere che ricevere e, come nell’atto sessuale, è difficile attribuire ad un soggetto unico il prendere o il ricevere, perché l’atto, come il termine, è indistinto e indistinguibile. D’altro canto, egualmente esplicativo è l’ideogramma cinese tradizionale/giapponese per “amore” (愛): consiste in un cuore (centrale) all’interno di “accetta,”“tatto” o “percepire”. Ciò mostra un collegamento con la parola Agape che è amore nel senso totale e unificante del termine. Ed in tale accezione soccorre altresì l’altra radice sanscrita del termine Agape: Kap, che significa cranio, ma anche cuore.

Eros e Anteros, la non esistenza dell’odio Anteros era la personificazione dell’amore corrisposto. Fratello di Eros, i due erano insepara-

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bili. Racconta la leggenda che un giorno Afrodite si lamentò con la Dea Temi del fatto che il piccolo Eros non crescesse, così la saggia Temi le rispose che Eros non sarebbe mai cresciuto finché non avesse avuto l’amore di un fratello. Afrodite si unì ad Ares e generò Anteros, e da quel momento i due fratelli crebbero insieme, ma ogni qualvolta Anteros si allontanava da Eros, quest’ultimo ritornava fanciullo. Questo grazioso mito insegna che l’amore (Eros) per crescere ha bisogno di essere corrisposto (Anteros). Anteros quindi potrebbe rappresentare sia il vendicatore dell’amore disprezzato, sia il patrono dell’amore reciproco, sia il distruttore dell’amore, vista la paternità del dio della guerra. I moralisti e gli umanisti di tendenza platonica erano inclini a interpretare la preposizione antì come “contro”, anziché “in cambio di”, trasformando così il Dio dell’amore reciproco in una personificazione di virtuosa purezza e la coppia Eros- Anteros nella contrapposizione tra due tipi di amore, l’Amore terreno e l’Amore celeste, simboleggiato dalla duplicità di Venere (Ouranìa e Pandemos), come espressa nel Simposio plato-

FOTO: SAN PAOLO SCRIVE LE SUE LETTERE, VALENTIN DE BOULOGNE O NICOLAS TOURNIER, 1620 CIRCA, MUSEUM OF FINE ARTS, HOUSTON

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Giovanni Francesco Carpeoro nico (180c-181c), e da qui prontamente ripresa nel Simposio di Senofonte (VIII 9-10). Ma la contrapposizione tra l’Amore terreno e l’Amore celeste, a dimostrazione della sua fallacità, era destinata a tramutarsi in una dolorosa scissione dell’Uomo e della sua essenza, che ha relegato la sessualità ad un bene di consumo da ingurgitare inconsapevolmente, rozzamente e frettolosamente nella panineria di turno.

Il Kamasuthra. L’Eros Sacro Il Kama Sutra (sanscrito: , Kāmasūtra) è un antico testo indiano sul comportamento sessuale, ampiamente considerato come l’opera più importante nella letteratura sanscrita sull’amore. Il libro è stato scritto da Vatsyayana ed il suo titolo completo è vātsyāyana kāma sūtra (“Aforismi sull’amore, di Vatsyayana”). Si crede che l’autore

Scienza sacra e misteri occulti dell’Eros sia vissuto in un’epoca fra il I ed il VI secolo, probabilmente durante il periodo Gupta. Il Kama Sutra contiene 36 capitoli, organizzati in sette parti, ognuna delle quali scritta da un esperto nel rispettivo campo. Esso contiene un totale di 64 posizioni sessuali, anche rappresentate. Vatsyayana credeva che ci fossero otto modi di fare l’amore, moltiplicati per otto posizioni per ognuno. Nel libro queste sono note come le 64 Arti. Il capitolo che elenca le posizioni è il più famoso, e per questo è spesso scambiato per l’intera opera. Tuttavia, solo circa il 20 per cento del libro è dedicato alle posizioni sessuali. Il resto è una guida su come essere un buon cittadino e parla delle relazioni fra uomini e donne. Il Kama Sutra descrive il fare l’amore come un’unione divina. Vatsyayana credeva che il sesso in sé non fosse sbagliato, a meno che non lo si facesse frivolmente. Il Kama Sutra, oltre ad una incredibile allegoria dell’Essere, è un’opera morale, un inno alla monogamia, perché chi

FOTO: FIGURE DEL KAMASUTHRA, DELHI

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Scienza sacra e misteri occulti dell’Eros

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è consapevole di come rinnovare il rapporto con il suo partner non ne cerca altri. Proviamo a chiederci se l’incredibile precarietà dei rapporti amorosi dei nostri tempi non sia direttamente discendente dalla nostra ignoranza dell’Amore, e se non siamo quasi costretti a cambiare partner per la nostra totale incapacità di creare l’unione tramite il piacere con chi abbiamo vicino da sempre. Il Kama (in sanscrito piacere o benessere) non è infatti percepito come un peccato, ma è uno dei quattro scopi della vita (purushartha); in questo senso è sacro, come era sacra la sessualità nei tempi antichi, prima della decadenza dei costumi dell’impero romano, tempi antichi e saggi quelli in cui le etere greche, le pitonesse, o le geishe orientali non erano certamente corrispondenti alle prostitute delle nostra cronaca.

Il duplice senso dell’Abbandono Per concludere, un breve cenno ad un termine, che nel linguaggio dell’Amore ha, vicenda ricorrente come abbiamo avuto modo di vedere in questo campo, una duplice chiave di lettura. Abbandono è la fase più bella e completa dell’Eros, la sua summa, ma anche il simbolo del momento potenzialmente più doloroso. Nella prima accezione il rapporto con il termine Agape, nel suo significato di prendere, è lampante: solo tramite l’abbandono si può essere presi e ci si può dare totalmente. La seconda accezione e la sua dimensione tragica lega il termine invece al concetto di Thanatos e non è raro, purtroppo, neanche nelle cronache, che certi abbandoni

Giovanni Francesco Carpeoro Nato a Cosenza nel 1958. Si trasferisce a Milano e si laurea in giurisprudenza presso l’ Università Cattolica per poi svolgere per trent’anni la professione di avvocato. Ha curato per Acacia Edizioni l’edizione italiana de L’Archeometro di Alexandre Saint’Yves d’Alveidre e di Sotto le Piramidi di Andrew Collins. È stato direttore

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FOTO: IMMAGINE TANTRA

richiamino l’oscuro intervento della Morte. In questo senso una mia raccolta di versi di futura pubblicazione riporta, tra le prime, la seguente breve poesia: Legge d’Amore Se t’abbandoni m’ami, se m’abbandoni, no.

delle riviste mensili PC Magazine, HERA e I Misteri di HERA. Il suo sito personale: www. carpeoro.com. Delle sue pubblicazioni ricordiamo: Il volo del pellicano (Bevivino, 2007), Labirinti (Bevivino, 2008) e...

Il re cristiano Bevivino, 2010

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GIULIANO SCOLESI

Gesù viaggia in Astronave?

FOTO: GESÙ VIAGGIA IN ASTRONAVE? ELABORAZIONE GRAFICA DI GIULIANO SCOLESI

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siste un documento che parla di Osiride in prima persona, è al capitolo 110 del famoso Papiro di Torino. Esso dice: “Io approdo al momento [giusto] sulla Terra all’epoca stabilita, secondo tutti gli scritti della Terra, da quando la Terra è esistita e secondo quanto venerabile”. Analizzando questo interessante discorso pronunciato da Osiride stesso, ci si rende conto che siamo di fronte ad un viaggiatore dello spazio stellare o, come diremmo oggi “un alieno super evoluto e carismatico”, praticamente un semidio, come lo definivano molte civiltà evolute del passato. Questo semidio giunse un bel giorno dalle stelle ad insegnare ai predinastici e primitivi Egiziani l’arte di coltivare il grano e la vite, addolcendo dalle barbarie un popolo che non si sa cosa mangiasse né bevesse, perché prima di Osiride non esisteva né pane né vino. A lui spetta il primo posto nell’Olimpo dei semidei dopo che,

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perduta violentemente la vita ad opera di Seth (Satana), riacquistò l’esistenza terrena nel regno celeste. Dopo di lui, da allora, chi adora Osiride subisce la stessa sorte, cioè prende attraverso l’amore per Dio tutto il male del mondo; così è successo anche a Gesù, che ha accolto tutto il male del mondo perché amava più degli altri suo Padre. Osiride è il Dio della Bibbia, perché ormai è dimostrato che i Padri della Chiesa attinsero a piene mani dalle religioni precedenti, che adoravano il Sole. Il Sole, che attraversa le 12 costellazioni nel suo moto (i 12 apostoli secondo la Chiesa), che muore il 22 Dicembre, nel suo punto più basso all’orizzonte, e ri-nasce il 25 Dicembre, Solstizio d’Inverno; tutti miti ben precedenti alla nascita del Cristianesimo. Per avere la prova ufficiale che Gesù sia una riproposizione di miti pagani basta ripercorrere

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Gesù viaggia in Astronave? le vite dei vari Krishna (o Kristnha), o di Horus il Jezeus, o di Mitra, per rendersi conto che sono esistiti una miriade di persone nate da una vergine in una grotta, annunciati dalle tre stelle della Cintura di Orione, che verso il 25 dicembre brillano in cielo più delle altre, e che le 3 stelle sono dette i tre Re. E non solo: basta vedere la loro fine, tutti crocifissi, per rendersi conto che essa è una metafora del sole che muore sotto la costellazione della Grande Croce del Nord e rinasce in una serie infinita . Quindi, ormai appurato che Gesù è una riproposizione del Dio Sole che nasce, muore e rinasce in un ciclo infinito, dobbiamo per forza riallacciarci agli antichi miti pagani a cui si rifà la Chiesa delle origini: quello di Krishna e, soprattutto, quello di Horus degli Egiziani. A tal riguardo, se Osiride è Dio, Gesù deve per forza essere Horus, il figlio di Osiride. Il fatto che Osiride “approdi” (termine marinaresco o aviatorio) sul pianeta Terra solo al “momento giusto” ed “all’epoca stabilita” fa sottintendere che egli atterri con la sua astronave madre, o disco alato, come dicevano gli antichi Egizi, solo quando si sta mettendo male per il nostro pianeta. Egli sarebbe sbarcato sulla Terra ben altre 4 volte, cioè ad ogni fine Creazione, se è vero che quella in cui viviamo ora è la quinta Creazione del mondo, o quinto Yuga. La quarta Creazione terminò con il famoso Diluvio Universale, che affondò Atlantide e non solo. A proposito invece di Horus, il Gesù copiato in seguito dai Cristiani, analizziamo un altro scritto, le famose Formule 508 e 509 tradotte da Kurt Sethe: “Mi sono fatto dei gradini sotto i miei piedi con il tuo splendore (rivolto al padre Osiride, il Sole, la Luce), per poter salire a mia madre, il vivente ed ascendente serpente Ureo, che sta sul capo di Ra (Quindi, Horus/Gesù deve ritornare alla madre che ha un aspetto di serpente? Allora, è vera la teoria secondo cui la madre di tutto sarebbe un serpente? Come non ripensare alle statuette babilonesi raffiguranti femmine rettiliformi con in braccio un bambino, anche in questo caso riproposizioni del mito della Dea Madre, della Materia che genera il divino?). Appartiene al cielo chi è del cielo (cioè chi ha l’Anima dentro di sé e nell’Anima si identifica), insieme agli Dei che devono ascendere. Padre, sono venuto a queste due mie

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Giuliano Scolesi madri, i due avvoltoi femmine (adesso le due madri divengono avvoltoi, per poter iniziare il volo di ritorno verso il padre e le stelle) [...] Io ascendo al cielo e viaggio sul metallo (tutte le congetture nobili e spirituali che fanno credere che Horus/ Gesù ritorni al Padre sotto forma di Spirito o Anima falliscono miseramente con questa affermazione dello stesso Horus, che dice di ascendere al cielo viaggiando sul metallo, cioè su una astronave) [...] Io salgo al cielo tra le stelle, le immortali, mia sorella è Sothis (Sirio), mia guida la stella del mattino” (forse si serve della stella per la navigazione stellare?). Ciò che abbiamo appena letto ed interpretato non è una favoletta per bambini o uno scherzo di cattivo gusto, ma frasi tratte dalle Formule 508 e 509, cioè scritti di epoca egizia tradotti dall’egittologo Kurt Sethe. La loro interpretazione lascia ben poco spazio all’immaginazione. Dobbiamo dunque rivedere tutto ciò che è stato detto su Gesù, e constatare che esso non sia niente altro che Horus, figlio di Osiride, cioè figlio del padre, e che la religione trinitaria degli antichi Egizi sia stata mutuata dai Cristiani secoli o forse millenni dopo? Parrebbe di sì. E dobbiamo anche considerare il fatto che Gesù, cioè l’Horus Egiziano, viaggiava e tuttora viaggia in astronave, se è vero ciò che dice di sé lo stesso Horus, che ascende al padre ed alle stelle viaggiando sul metallo. Cos’è questo metallo se non un’astronave? Ricordiamo che gli antichi non potevano descrivere cose che non conoscevano; se non avevano mai visto un’astronave parlavano di metallo, di disco alato, di falco o aquila dalle ali d’argento. Come detto, sia il primo scritto che il secondo lasciano ben poco spazio all’immaginazione; si tratta solo di tradurre gli antichi archetipi in parole moderne, e così “metallo” e “disco alato” diventano “astronave”, “approdo sulla terra al momento giusto” diventa “atterro con l’astronave alle fine dei tempi, cioè alla fine di ogni Creazione”, e così via. Da tempo si sa che gli esseri umani sono un esperimento genetico iniziato da due razze aliene circa 500.000, anni fa. O meglio, lo sapeva solo chi non si accontentava di leggere documenti preconfezionati da istituzioni scientifiche che pensano ancora che la civiltà umana sia iniziata non più di 8.000 anni fa, quando invece sono stati trovati

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Giuliano Scolesi

Gesù viaggia in Astronave?

un’infinità femminile di reperti datati e materiale, e oltre 500.000 anni gli Orange, una razza che fa! somiglia al Cro magnon, neL’uomo è seguito con groidi con occhi azzurri, capelli particolare attenzione da color arancio e tute azzurre con alcune razze aliene che lo il simbolo di Israele sulla parte monitorano e controllano destra del petto. Secondo molte sia da vicino che da lontano, registrazioni di ipnosi regressiBASSORILIEVO ASSIRO RAFFIGURANTE attraverso apparecchiature sofiva effettuate anche in Italia, l’OUN “DISCO ALATO” IN CUI SI VEDE UN EXsticatissime. Alcuni alieni si sono TRATERRESTRE BARBUTO E CON ARCO IN range sarebbe proprio colui che sostituiti al vero divino, e da mil- MANO A BORDO DI UN DISCO VOLANTE atterra alla fine della civiltà, per lenni dirigono la nostra energia portare via non tutte le persone derivante da preghiere e meditazioni verso di del mondo, ma solo chi è affine a lui, chi ha un’aloro. Non solo: essi a volte si mostrano a noi con nima cioè simile alla sua. fattezze gradevoli, quasi angeliche; ma basta che Davanti a noi si apre uno scenario suggestivo una persona sia minimamente preparata e non e nuovo, ma da molti già percepito e preannuncondizionata a credere per forza, ed allora ecco ciato, e la domanda che ne risulta è la seguente: che la signora vestita di bianco si trasforma un Gesù è un super alieno estremamente progredito essere rettiliforme alto 2.80mt che dice di essere che viaggia nel tempo e nello spazio e che, nonoIshtar, cioè “Iside, la madre di tutto e di tutti, la mastante innumerevoli reincarnazioni, ha sempre di dre di tutte le madri del mondo” (caso reale e non coscienza di chi esso sia, da dove viene, dove torneisolato capitato ad una donna italiana). E’ noto rà e soprattutto conserva continuamente coscienanche il caso di un ragazzo (sempre italiano) a za e memoria della sua missione? cui da anni appariva la madre defunta: improvChi vivrà vedrà, e mai come questa volta l’anvisamente ella si trasformò un enorme insetto tico detto è calzante. somigliante ad una Mantide, una razza aliena scoperta da poco. Fonti: Secondo studi mondiali all’avanguardia, an• Papiro di Torino Cap.110 che di ipnosi regressiva, i nostri creatori genetici • Formule Egiziane n.508 e 509, con traduzione sarebbero due razze: la razza dei Rettiliani, esseri di Kurt Sethe alti 2,80mt, che avrebbero messo in noi la forza • Non è terrestre di Peter Kolosimo

Giuliano Scolesi Nato a Monte Argentario nel 1965. Inizia a interessarsi al mistero fin da piccolo, autodidatta, ha letto centinaia di libri e migliaia di articoli su Enigmi legati ad Antiche Civiltà. Esperto di Fenomeni Ufo,

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Antichi Miti, Oopart, Profezie e Misteri di ogni genere. I suoi lavori sono stati pubblicati da vari siti internet. Elaboratore grafico per hobby ha ricostruito graficamente diverse razze aliene avvistate nel mondo, fotografo del paranormale esperto di Energia e tutto ciò ad essa correlato.

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