La Cultura 756
Enrico Deaglio Andrea Jacchia
2012 Il primo anno senza di loro Ritratti di illustri e non illustri che se ne sono andati Con la collaborazione di Frank Viviano
Le biografie di Cristian Pațurcă, Tullia Zevi Calabi, Maria Schneider e Jean-Dominique de La Rochefoucauld, Maria Victoria Altmann Bloch-Bauer, Raymond D’Addario, Henri Maurel, Annie Girardot, Alenush Terian, Inge Sørensen, Warren Minor Christopher, Mohammed Nabbous, Kais al-Hilali, Elizabeth Taylor, Greg Centauro, Albert Bachmann, Walter Breuning, Tul Bahadur Pun, Chris Hondros e Timothy (Tim) Heterington, Trần Lệ Xuân (Madame Nhu), Gunter Sachs, Gil Scott-Heron, Lawrence Sidney Eagleburger, Christiane Desroches Noblecourt, Peter Michael Falk, Sir Roy Redgrave, Ottone (Otto) d’Absburgo-Lorena, Ibrahim Quashoush, Cy Twombly, Humberto Leal Garcia Jr., Lucian Michael Freud, Michael Cacoyannis, Ágota Kristóf, Rudolf Brazda, Roman Opałka, Ruth Brinker, Eve Brent, Salvatore Licitra, Vann Nath, Richard Hamilton, Troy Davis, Edwin Carlyle Wood, Dennis MacAlistair Ritchie, Manfred Gerlach, James Hillman, Allen Mandelbaum, Alfonso Cano, Loulou de La Falaise, Ivan Martin Jirous, Svetlana Stalina – scritte da Andrea Jacchia – sono state pubblicate sul quotidiano online Linkiesta.it. Le biografie scritte da Frank Viviano – alle pp. 15, 21, 26, 28, 35, 76, 112, 158, 192, 240 – sono state tradotte da Davide Bigliani. Per la poesia Una di Giovanni Giudici © Mondadori 1972, 2000
www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore © il Saggiatore S.p.A., Milano 2012
2012. Il primo anno senza di loro
Sommario
Introduzione
11
Szeto Wah
15
Mohamed Bouazizi
18
Vang Pao
21
Susannah York
24
John Ross
26
Robert Sargent Shriver Jr.
28
Cristian Pațurcă
31
Tullia Zevi Calabi
33
Nora Sun
35
Maria Schneider e Jean-Dominique de La Rochefoucauld 37 Maria Victoria Altmann Bloch-Bauer
40
Raymond D’Addario
44
Henri Maurel
47
Suze Rotolo
49
Jane Russell
52
Annie Girardot
54
Alenush Terian
57
Inge Sørensen
60
Warren Minor Christopher
63
Mohammed Nabbous
68
Kais al-Hilali
70
Elizabeth Taylor
72
Leonard Weinglass
76
Geraldine Ferraro
78
Greg Centauro
80
Sidney Lumet
82
Albert Bachmann
85
Walter Breuning
89
Tul Bahadur Pun
91
Chris Hondros e Timothy (Tim) Hetherington
93
Trần Lệ Xuân (Madame Nhu)
94
Moshe Landau
99
Osama bin Laden
102
Gunter Sachs
106
Giovanni Giudici
109
Qian Mingqi
112
Gil Scott-Heron
115
Jack Kevorkian
117
Lawrence Sidney Eagleburger
120
Elena Bonner
123
Christiane Desroches Noblecourt
126
Peter Michael Falk
130
Sir Roy Redgrave
132
Ottone (Otto) d’Absburgo-Lorena
135
Ibrahim Quashoush
139
Cy Twombly
141
Humberto Leal Garcia Jr.
143
Aldo Togliatti
146
Lucian Michael Freud
149
69 ragazzi membri della gioventù laburista norvegese
153
Amy Winehouse
156
Nguyễn Cao Kỳ
158
Michael Cacoyannis
160
Ágota Kristóf
164
Rudolf Brazda
167
Roman Opałka
169
Rosa Calzecchi Onesti
172
Ruth Brinker
175
Eve Brent
178
Mino Martinazzoli
180
Salvatore Licitra
182
Vann Nath
184
Ghiath Matar
186
Walter Bonatti
188
Carl Oglesby
192
Richard Hamilton
195
Troy Davis
197
Edwin Carlyle Wood
200
Cinque donne di Barletta
201
Dennis MacAlistair Ritchie
203
Steve Jobs
205
Manfred Gerlach
209
Andrea Zanzotto
211
Muammar Gheddafi
214
Antonio Cassese
218
Marco Simoncelli
221
James Hillman
224
Allen Mandelbaum
227
Alfonso Cano
229
Loulou de La Falaise
231
Joe Frazier
233
Ivan Martin Jirous
237
Danielle Mitterrand
240
Svetlana Stalina
243
Lucio Magri
245
S贸crates
248
V谩clav Havel
252
Ringraziamenti
255
Introduzione
Verso la fine del secolo scorso, il piccolo settimanale Diario ebbe l’idea di pubblicare una rubrica particolare: il ricordo di due o tre vite appena terminate. Si chiamava «Se ne sono andati». Ci dissero che non avrebbe funzionato, in un paese maschilista, cattolico e superstizioso come l’Italia (qui da noi, se si parla di morte, il maschio si sfiora elegantemente i coglioni; qui da noi, se uno chiede un pacchetto di sigarette al tabaccaio e gli danno quello con scritto «fumare rende impotenti», domanda cortesemente: «mi può dare quello che dice che fumare fa venire il cancro?»). Qui da noi c’è la Chiesa. Qui da noi il governo si è mosso per impedire che Eluana Englaro potesse morire. L’allora presidente del Consiglio arrivò persino a sostenere che, benché in vita vegetativa da 17 anni, quella donna – volendo – avrebbe potuto essere ingravidata e avere figli. «Se ne sono andati» diventò la rubrica più letta del settimanale, per tredici anni di fila. C’erano storie, in breve, di sherpa himalayani, diplomatici sconosciuti, poeti, musicisti, attori, sportivi, soprano, agitatori politici, perseguitati. Cominciarono ad arrivare molte segnalazioni, così come proteste: perché avete dimenticato questo o questa? Che, in realtà ponevano una folgorante idea giornalistica: costruire un giornale, con la prima pagina, il commento, la cultura, gli spettacoli, lo sport, utilizzando solo persone che se ne sono appena andate, e il loro lascito nel mondo di noi vivi. 11
Buona idea, non vi pare? Sarebbe come essere in un villaggio isolato nella selva e ricevere ogni giorno da strani messaggeri le notizie di vite illustri, idee, avventure, sfide, amori che sono avvenuti lontano da noi, e però comprensibili, vicine. Vive, in sostanza. In realtà è quello che nel passato si è sempre fatto, con le memorie, le foto con il vestito buono dei nonni, con l’Iliade, i Sepolcri di Foscolo, Il postino, Cent’anni di solitudine, Édith Piaf, le genealogie della Bibbia, gli eminent victorians, le vite brevi di uomini degni, quelle altrettanto brevi degli idioti, senza contare quelle dei criminali o dei pazzi. In Italia abbiamo talmente il culto dei morti, che le nostre origini ci inseguono nella famosa, imperitura, invettiva: «li mortacci tua». In questo libretto trovate il passaggio sulla terra di oltre cento persone, note o sconosciute che ci hanno abbandonato nel 2011. Se ne volete sapere di più, tutti sono su YouTube, che è la vera immortalità. E dire che all’inizio del Novecento, agli albori della cinematografia, l’invenzione dei Lumière aveva reso possibile imprimere sulla celluloide una sfilata di militari russi, tra cui un centenario sopravvissuto della battaglia di Borodino; ovvero, si vedeva sullo schermo – vivo – un uomo che era nato cento anni prima! Sembrava una cosa impossibile: un uomo morto che camminava! La nostra scelta – ci ha aiutato su tutto il versante asiatico e americano il nostro amico Frank Viviano – vede accomunati divi del cinema, idealisti, artisti maledetti, musicisti, generali, comandanti e consiglieri di guerre ormai dimenticate, insieme alle loro vittime; quasi tutti appartengono alla categoria dei «buoni», due, Gheddafi e Osama bin Laden, sono stati «cattivissimi», accomunati dal fatto che la loro morte violenta è stata trasmessa in diretta. È la prima volta che succede per uomi12
ni importanti; ma prima era successo (e continua a succedere) per impiccati, ghigliottinati, linciati, decapitati. Gli affamati, poi, ormai da mezzo secolo muoiono davanti a una macchina fotografica. Di Steve Jobs, la morte più mediatica, la sorellastra ha detto che se ne è andato mormorando «Oh wow! Oh wow!»; Goethe invece se ne era andato con la famosa «Mehr Licht». Era un illuminista. Ma forse era stato capito male, voleva dire «Mehr Nicht», insomma, basta. Spegnete la luce. In questo libro abbiamo, ovviamente, privilegiato le vite. E abbiamo cercato di raccontarle, come se fossero persone di famiglia, in intimità rispettosa. Tenetele presente, come tante stelle cadenti, in una lunghissima serie di tracciati (mostrano un disegno? Sono casuali? «Ah! Dov’era? Mannaggia, non ho fatto in tempo a vederla!») del firmamento umano in una prolungata notte di San Lorenzo dell’anno 2011. enrico deaglio e andrea jacchia
13
Szeto Wah Il tenace pioniere della democrazia a Hong Kong
Nato da genitori cinesi nell’allora colonia britannica di Hong Kong, Szeto studiò da maestro elementare e si segnalò alla guida di scioperi negli anni ’70. Nel giro di pochi anni divenne il principale portavoce della lotta per la democrazia rappresentativa della colonia, un critico feroce tanto dell’imperialismo britannico quanto delle politiche autoritarie di Pechino. È morto di cancro ai polmoni il 2 gennaio 2011, a 79 anni, all’ospedale Principe di Galles di Hong Kong. Prima di Szeto Wah, «protesta» era una parola sconosciuta a Hong Kong, e l’unica libertà tenuta in considerazione era quella di commerciare. Sindacati e diritti dei lavoratori erano praticamente inesistenti. Democrazia ed elezioni, date per scontate dai padroni britannici che trattavano Hong Kong come una mucca da mungere, erano negate ai residenti asiatici. Nessuno lottò tanto a lungo, e con altrettanto successo, contro queste disparità quanto l’uomo colto e dalla determinazione feroce soprannominato con affetto Zio Wah. Puro «hongkongiano», nato, cresciuto ed educato sull’isola, fu anche un appassionato studioso delle antiche tradizioni cinesi, diventando famoso come calligrafo. Nel mentre, come membro dell’associazione di ballo Hok Yau (in realtà una cellula comunista clandestina) lavorava in segreto per abbattere l’egemonia imperiale inglese. 15
Nella sfera pubblica, Szeto fu una vera arma letale contro le pretese imperialiste. Il sindacato degli insegnanti di Hong Kong, da lui fondato nel 1974, divenne il più potente movimento a base popolare del Sud-est asiatico, forte di 80 000 membri. Fondò inoltre i Democratici uniti di Hong Kong, per molti anni l’unico partito di opposizione in Cina. In qualità di membro del Consiglio legislativo, il primo passo istituzionale di Hong Kong nel cammino verso l’autogoverno, organizzò le più grandi manifestazioni politiche nella storia del paese, dapprima contro Londra, dopo Tienanmen (4 luglio 1989) contro Pechino. Il Partito comunista vide in ciò il tradimento di colui che era stato il suo principale sostenitore clandestino, molto prima che nel 1984 la Thatcher fissasse per il 1997 il ritiro inglese da Hong Kong. Ma per Szeto un’ingiustizia era un’ingiustizia, fosse essa compiuta da un inglese o da un cinese. Diceva di essere un patriota, e che tutto ciò che faceva era per il suo popolo. E il popolo era con lui, con grande disappunto dei governanti conservatori della Thatcher e dell’amministrazione cinese di Deng Xiaoping. Zio Wah fu eletto al Consiglio per cinque volte di fila, tra il 1985 e il 1998. Intanto la Cina si era sostituita alla Gran Bretagna nel controllo dell’isola, e stabilì che il vecchio combinaguai andava messo in pensione. In luglio il Consiglio legislativo venne abolito e sostituito da un parlamento di nomina cinese. Szeto mancava clamorosamente dalla lista dei nominati. Szeto seppellì gli auspici di un suo discreto ritiro dalle scene, ponendosi alla testa di enormi fiaccolate annuali in nome della democrazia. Nel 2009, per il decimo anniversario del massacro di Tienanmen, la marcia radunò 150 000 partecipanti. Sei mesi dopo, Szeto rivelò di avere un cancro ai polmoni in fase avanzata. I suoi compagni dei Democratici uniti si appellarono a Pechino per permettergli un pellegrinaggio alla casa dei genitori, senza successo. Szeto disse che se mai gli fosse stato consentito l’in16
gresso in Cina, avrebbe lasciato perdere il suo viaggio e avrebbe invece fatto visita a prigionieri politici. Le campane delle chiese e dei templi buddhisti di Hong Kong suonarono all’unisono durante il suo funerale, 6 rintocchi lunghi e 4 corti, a simboleggiare il quarto giorno di luglio: il giorno in cui lo Zio Wah capÏ che il vero nemico non era la Londra imperialista, ma l’autoritarismo di Pechino.
17
Mohamed Bouazizi Ambulante tunisino, suicida per protesta
Bouazizi era nato a Sidi Bouzid il 29 marzo 1984. Era morto nel centro grandi ustionati dell’ospedale di Ben Arous il 4 gennaio 2011, dopo essersi dato fuoco nella sua città natale il 17 dicembre 2010. Tra i sei figli di un muratore morto giovane per infarto, interrompe le scuole medie superiori per mantenere la madre e i fratelli minori. Venditore ambulante di frutta e verdura, il 17 dicembre 2010 si rifiuta di pagare il pizzo alla squadra di polizia della città. Questi, in risposta, gli sequestrano il carretto e la merce. Una donna poliziotto lo schiaffeggia davanti a tutti. Disperato e umiliato, Mohamed si reca a protestare alla Prefettura, ma non ottiene udienza. Allora si cosparge di benzina e si dà fuoco gridando i motivi del suo gesto. Benché avvenuto in una cittadina poco frequentata all’interno del paese (280 km da Tunisi, 140 da Sfax, 39 000 abitanti), il suo gesto diventa subito noto attraverso i social network Facebook e Twitter. La televisione Al Jazeera gli dà ampia risonanza, mettendo l’accento sulle ingiustizie sociali e sulla corruzione. In suo nome giovani si scontrano con la polizia a Sidi Bouzid e poi a Tunisi. Si calcola che una dozzina di altri giovani seguano l’esempio di Bouazizi morendo nel fuoco in Egitto, Algeria e Mauritania. Le proteste popolari portano alle dimissioni e alla fuga del 18
presidente Ben Ali il 14 gennaio 2011, dopo 23 anni di potere. Il cambiamento ha preso il nome di «rivoluzione dei gelsomini» e Mohamed Bouazizi ne è il suo eroe e martire. L’esempio tunisino – la protesta popolare contro le autocrazie dominanti – è stato seguito in Egitto, Libia, Yemen, Barhein, Siria ed è noto come «primavera araba», processo storico di enorme portata, in via di svolgimento. Chi fosse passato per Sidi Bouzid appena il giorno prima del suicidio di Mohamed, non avrebbe potuto pensare che quel borgo povero, polveroso e sottoposto alla solitudine sarebbe stato l’epicentro di un terremoto sociale destinato a cambiare il mondo arabo. Strade in terra battuta, uliveti secchi su un terreno troppo arido, molte case di fango senza acqua né luce elettrica, crocchi di gioventù ciondolante nei caffè o nei saloni da barbiere. In compenso, polizia dappertutto. Eppure c’erano dei telefonini che hanno fotografato Mohamed mentre prendeva fuoco; e l’immagine postata su internet è stata vista in tempo reale in tutto il mondo arabo. Quel corpo che bruciava contro l’ingiustizia subito è diventato una leggenda. Si è detto che fosse uno studente universitario costretto a lavorare sotto il tallone della corruzione; che avesse una pagina su Facebook in cui aveva annunciato la sua protesta. Non era vero, ma era verosimile, simbolo di una gioventù araba in possesso di un’educazione, ma senza possibilità di lavoro, abbandonata e repressa da un sistema poliziesco, senza speranze se non quella di entrare proprio in quel circuito; ma nello stesso tempo in grado di maneggiare uno smartphone, di collegarsi con il mondo, di darsi appuntamenti, di scambiarsi notizie, di aggirare la censura. Ecco tornare l’antica immagine dell’uomo che si dà fuoco e che si accartoccia tra le fiamme. Thic Quang Duc, monaco buddhista, lo fece sulla pubblica strada a Saigon nel 1963. La foto 19
fu pubblicata dai giornali americani e installò il primo dubbio sulla giustezza dell’intervento militare. Nel gennaio del 1969, Jan Palach, studente di filosofia di Praga si sistemò sulle scale del palazzo del Museo nazionale in piazza San Venceslao, si cosparse di benzina e si diede fuoco con un accendino in protesta contro l’occupazione sovietica. Ai suoi funerali parteciparono seicentomila persone; ma ci vollero vent’anni prima che la Cecoslovacchia fosse di nuovo libera. Poi venne Mohamed, il suo carrettino, la donna in divisa che lo schiaffeggia in una cittadina in mezzo al niente. Il sistema di potere tunisino, però, Google e Facebook non li aveva messi in conto. Tra la morte di Mohamed e la fuga di Ben Ali passarono solo dieci giorni. E dire che una delle ultime foto del presidente tunisino lo mostra, assorto e preoccupato, circondato da medici, al capezzale del giovane in agonia, completamente avvolto da bende come una mummia di cinquemila anni fa. E che tale gli deve essere sembrata. Una semplice mummia, non la sua nemesi.
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Vang Pao Il generale dell’esodo laotiano
Nato nel Nord-est rurale del Laos, guidò i suoi compagni della tribù Hmong nella guerra d’Indocina, spalleggiato dalla Cia. Divenne una leggenda, il Garibaldi del suo popolo, che unificò in una nazione, per poi guidarlo, novello Mosè, in un incredibile esodo dal Triangolo d’Oro alla California. È morto d’infarto il 6 gennaio 2011 a Fresno, California. Aveva 81 anni. A neanche 15 anni, Vang Pao si unì alla resistenza francese del Laos contro gli invasori giapponesi nel 1944. Nel giro di pochi mesi, divenne lo stratega di assalti letali alle linee di rifornimento nemiche, lasciando stupefatti i suoi superiori francesi. Dotato di uno straordinario talento militare, fu promosso sottotenente prima di compiere 16 anni. La carriera militare di Vang sarebbe durata più di trent’anni. Ma per lui, e per gli Hmong, esisteva ben altro obiettivo. Per cinquecento anni la tribù era stata divisa in 18 clan, spesso ostili tra loro, sparsi tra le montagne e le vallate del Sud-est asiatico. Sotto la guida di Vang, per la prima volta gli Hmong furono uniti, una nazione seppur priva di paese. Seminomadi e dalla natura selvaggia e indipendente – il nome della tribù sta per «uomini liberi» – gli Hmong erano considerati dei barbari primitivi dai Lao e vietnamiti che dominavano la regione. Non che questo importasse, dato che pri21
ma della guerra contro i giapponesi, i loro villaggi di montagna erano abbastanza remoti da evitare contatti con gli altri. Ma negli anni ’50 Vang, l’unico Hmong ad aver servito come generale dell’Esercito reale del Laos, capì che l’isolamento della tribù andava interrotto. Ispirandosi alla Dichiarazione dei Diritti dell’uomo della Rivoluzione francese, e alla Dichiarazione d’Indipendenza americana, sognava di creare una nuova nazione Hmong, giusta e unitaria. Mentre i suoi sforzi iniziavano a pagare, Vang si alleò con Parigi contro il movimento comunista Pathet Lao nella Prima guerra indocinese. Dopo il ritiro della Francia dal sud-est asiatico, strinse rapporti con Washington. Nel 1962, sostenuto dalla Cia, era di nuovo in azione, guidando un esercito segreto contro gli insorti comunisti. Questa alleanza si rivelò un errore disastroso. Le truppe clandestine Hmong subirono perdite dieci volte superiori a quelle degli americani in Vietnam. Il massacro colpì ancora più duramente i civili. Per nove anni, dal 1966 al 1975, i B52 americani bombardarono il territorio Hmong del Laos ogni 9 minuti, 24 ore al giorno. Nell’aprile del 1975, gli americani seguirono l’esempio francese ritirandosi improvvisamente dall’Indocina. Gli agenti della Cia sparirono, il Pathet Lao salì al potere, e gli Hmong vennero abbandonati al loro destino. Quello che seguì fu una guerra di sterminio. Nella battaglia finale, prima che Vang ordinasse il ritiro del 1979 che avrebbe condotto tutti i sopravvissuti all’esilio, 3000 guerriglieri Hmong dall’armamento leggero fronteggiarono 75 000 fanti dell’esercito del Laos, spalleggiati da pezzi di artiglieria da 105 mm e da piogge di Napalm sottratto agli americani. Se l’ultima disperata battaglia degli Hmong poté ricordare i greci alle Termopili, il loro epico viaggio verso l’esilio fu comparato all’esodo degli Israeliti dall’Egitto. Quando tutto fu compiuto, in Laos rimanevano 200 000 22
Hmong, prima della guerra erano 750 000: 250 000 morirono nella guerra. Meno di 100 000 sopravvissero a centinaia di miglia di marcia attraverso la foresta e le montagne fino al Mekong, che attraversarono a nuoto o aggrappati a tronchi per raggiungere i campi di accoglienza thailandesi. Nel 1980, tra l’imbarazzo generale, Washington riconobbe controvoglia l’esistenza dell’esercito segreto Hmong, e fece arrivare per via aerea i sopravvissuti negli Stati Uniti, dove la tribù fu divisa in centinaia di gruppetti familiari e sparsa per il paese. Ma Vang Pao rifiutò di accettare che il suo sogno di un unico popolo fosse morto in Laos. Dopo circa un anno dall’arrivo della tribù in America, invocò un secondo, ancor più improbabile esodo, questa volta verso la San Joaquin Valley, in California, terra coltivabile, circondata di montagne, simile a casa. La voce si sparse. I clan viaggiarono verso ovest, da Rhode Island, Alabama, South Carolina e Michigan, con macchine di seconda mano e pullman, attraversando 3000 miglia di praterie, montagne e deserto. Nel luglio 1982 gli Hmong della San Joaquin Valley erano qualche centinaio. Un anno dopo, più di 20 000. Nel 1985 erano 50 000. Per tre decenni Vang Pao guidò la comunità, e i rifugiati Hmong acquisirono terra coltivabile e si resero autosufficienti. Alla sua morte, erano diventati un popolo, unito, con un luogo dove stare, al termine di una strada lunga e terribile. Al suo funerale 10 000 compagni di tribù, vestiti con i tradizionali abiti del lutto, hanno trasportato la sua bara al luogo dell’ultimo riposo, sotto il sole della California.
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Susannah York Attrice inglese, pulcino di una nidiata importante
Nata Susannah Yolande Fletcher, ha studiato recitazione alla Royal Academy of Dramatic Art di Londra e ha cominciato la sua carriera di attrice con il nome di Susannah York. Il suo primo ruolo importante la vede fidanzata del figlio di un ufficiale scozzese alcolizzato (Alec Guiness) in Whisky e gloria nel 1960. Sono poi seguiti film con Robert Altman, Robert Aldrich, molto teatro shakespeariano, sceneggiati televisivi per Bbc, due libri per bambini. Candidata all’Oscar come attrice non protagonista di Non si uccidono così anche i cavalli? (1969), è stata la madre biologica di Christopher Reeve in Superman e Superman II e Sophie, la fidanzata di Tom Jones (1963) nel film tratto dal romanzo di Henry Fielding; molto spesso ha portato sullo schermo figure di donne abbandonate e sole. È stata anche Gertrude nell’Amleto per la Royal Shakespeare Company nella sua tournée americana nel 1998. È morta di cancro il 15 gennaio 2011 a 72 anni. In un immaginario curriculum per richiesta di lavoro Susannah aveva scritto di sé: «Attrice caratterista capace di lavorare sodo, a suo agio nell’interpretare donne alcolizzate, spigolose, antipatiche. Dicono di lei che sa però anche fare parti brillanti in commedie leggere». Ed era stata, in effetti, tutto insieme. La ragazza innamorata e appassionata dai grandi occhi azzur24
ri e dalla bocca altrettanto grande, definita dai giornali «la rosa sbocciata in Inghilterra», poi sempre più spesso la donna tormentata, addolorata, dai capelli biondi tagliati corti ed espressioni di tristezza molto profonde. Nel 1968 girò per Robert Aldrich L’assassinio di Sister George, commedia brillante ma vietatissima dalla censura, per essere uno dei primi film «in ambiente lesbico» proposti per la grande distribuzione. Susannah recitava un’esplicita scena d’amore con l’attrice Coral Browne, scena che venne tagliata in diversi stati americani per intervento della polizia. Era una donna colta e indipendente, membro di tutto rilievo della più importante nidiata di attrici del dopoguerra, quella cresciuta in Inghilterra e che ha visto personalità come Vanessa Redgrave, Glenda Jackson, Maggie Smith, Julie Christie. Avere avuto nella propria terra Shakespeare, Virginia Woolf, un impero e degli interminabili weekend ha sicuramente aiutato la loro espressione e il loro fascino.
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John Ross Un giornalista eccezionale e molto sovversivo
John Ross è nato e cresciuto a New York. È stato uno dei più innovativi e fantasiosi giornalisti americani, ed è autore di 20 libri di analisi politica, storia, narrativa e poesia. Attivista, oltre che reporter, fu incarcerato per renitenza alla leva, e arrestato come sovversivo tanto in Iraq quanto in Israele. È morto di cancro al fegato, il 17 gennaio 2011, a Santiago Tzipijo, Messico, poche settimane prima del suo settantatreesimo compleanno. John Ross crebbe nella cosmopolita Greenwich Village, da genitori ebrei e veri bohémien, la cui cerchia includeva giganti della pittura d’avanguardia e del jazz. Già a 18 anni declamava le sue poesie in un bar di Washington Square, accompagnato dal bassista Charles Mingus. A partire dal 1957, dopo il suo primo viaggio in autostop oltre il confine a sud degli Stati Uniti, il grande amore della sua vita fu il Messico, su cui scrisse centinaia di articoli e otto libri. Nessuno di questi si potrebbe definire obiettivo. Ross si basava sulle sue strenue convinzioni. Nei primi anni ’90, quando l’insurrezione zapatista divampò nel Sud del Messico, nessun giornalista sembrava in grado di raggiungere gli accampamenti ribelli. «Ross si avventurò a piedi tra le montagne, con una busta di muesli e due bottiglie d’acqua» ricorda il suo editor di allora, Tim Redmond, «trovò i rivoltosi in un piccolo villaggio, incontrò il loro leader, il subcomandante Marcos, e raccolse inter26
viste e informazioni che gli altri media non potevano neanche sognare di avere.» Insofferente all’offrire il suo lavoro in esclusiva, Ross scriveva contemporaneamente per cinque giornali statunitensi, uno peruviano e uno messicano, proponendo a ognuno articoli diversi. Negli anni, perse un occhio a seguito di un pestaggio della polizia californiana, e mise a repentaglio la propria vita quando affrontò il presidente messicano all’aeroporto di Città del Messico, accusandolo di corruzione. Nel 1973, si trovava all’interno del fragile perimetro di sicurezza attorno all’ormai condannato presidente cileno Salvador Allende, mentre il generale Augusto Pinochet lanciava l’assalto finale del suo colpo di stato. Trent’anni dopo, depose il suo computer portatile per farsi scudo umano, difendendo i civili iracheni dal fuoco delle truppe Usa. Questa dedizione incondizionata era per Ross un’espressione di libertà. Quando nel 1967 venne scarcerato dopo due anni di reclusione a Los Angeles, in seguito al rifiuto di combattere in Vietnam (il suo modo di dar notizia del movimento pacifista fu unirsi a esso), una guardia gli disse: «Ross, non hai mai imparato il mestiere del detenuto». Si è spento come da sue precise istruzioni, sorreggendosi a un albero sulle rive del lago messicano di Páztcuaro, ammirando la sponda opposta, lontana.
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Robert Sargent Shriver Jr. Il vero liberal del clan Kennedy
Uomo politico e statista americano, nato nel 1915 a Westminster, Maryland, membro chiave della tendenza «liberal» del partito democratico, ha operato sotto le presidenze di Kennedy e di Johnson, durante gli anni ’60, quando fondò i Peace Corps e diede vita ad altri storici progetti di riforma sociale. È stato candidato senza successo alla Casa Bianca come vice presidente di George Mac Govern nel 1972. È morto il 18 gennaio 2011 a Bethesda, nel Maryland, per complicazioni del morbo di Alzheimer. Robert Sargent Shriver discendeva da un’antica famiglia stabilitasi fin dal diciottesimo secolo nel Maryland, l’unico stato cattolico tra le tredici colonie inglesi che dichiararono l’indipendenza del 1776. Studiò in una prestigiosa scuola privata e poi alla Yale University, prima di essere chiamato in guerra come ufficiale della Marina americana. Tranne che per la sua religione, era la quintessenza della vecchia classe dirigente americana – un esponente di quelle famiglie ricche, soprattutto protestanti, della East Coast, note semplicemente come «The Establishment» – che dominava la vita pubblica degli Stati Uniti. Solo dopo la seconda guerra mondiale, un piccolo numero di cattolici ed ebrei riuscì ad entrare nel club; ma la loro importanza fu fondamentale nel segnare i momenti più esaltanti (e 28
quelli più bui) dell’era liberal iniziata da John Fitzgerald Kennedy, con la conquista della presidenza nel 1960. Shriver, cognato del giovane presidente Kennedy (aveva sposato la sua sorella Eunice), fu la stella di prima grandezza in una costellazione di consiglieri e riformatori, in mezzo a veterani dell’esercito e laureati di Yale, Harvard e Princeton. Sotto la bandiera della «Nuova Frontiera», l’amministrazione Kennedy pose le basi per stabilire una democrazia di tipo europeo in un paese che usciva da un decennio di caccia alle streghe. Probabilmente nella storia americana non ci fu periodo più idealista in politica, e un’eccezionale energia venne sprigionata dalle iniziative fondate o dirette da Shriver. La più famosa tra queste è il «Peace Corps», che arruolava giovani americani per prestare servizio come insegnanti o tecnici nei paesi economicamente poveri. Dopo cinquant’anni di attività, nel 2011, il bilancio dei Peace Corps è di 200 000 volontari formati e inviati in 139 paesi. Dopo l’assassinio di Kennedy, nel novembre del 1963, Shriver prese la guida del più importante sforzo riformatore nazionale, la «guerra alla povertà» del presidente Johnson. Sotto questa etichetta il governo lanciò una campagna di investimenti senza precedenti nel campo dell’istruzione, del lavoro, dell’assistenza legale e sanitaria per la parte più povera dell’America. Poi arrivò l’elezione di Richard Nixon nel 1968, l’inizio di un attacco durato quarant’anni a tutti i progetti sociali che Shriver aveva contribuito a costruire. Ambasciatore a Parigi dal 1968 al 1970, Shriver, nel 1972 divenne il candidato alla vice presidenza, con George Mac Govern candidato alla presidenza: la coppia più di sinistra che un partito politico americano abbia mai visto. Il risultato fu la vittoria a valanga di Nixon per il suo secondo mandato. Fino alla metà degli anni ’80, Shriver fu vittima delle attenzioni e dello spionaggio dell’Fbi, che cercava di provare che le sue iniziative sociali e politiche avessero un lunga mano so29
vietica alle spalle. Le accuse non vennero mai provate; Shriver terminò la sua carriera nella parte di un tranquillo avvocato di diritto internazionale con uno studio nella capitale. Ricomparve brevemente sui media nel 1986, quando sua figlia Maria sposò l’attore bodybuilder e futuro governatore della California Arnold Schwarzenegger. Nel 2003 venne fatta per lui la diagnosi di Alzeihmer, morbo che in otto difficili anni ha costruito la fine della sua vita.
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