Sul monte verità anteprima

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Edgardo Franzosini

Sul Monte VeritĂ Romanzo


I protagonisti di questa storia sono persone, se non proprio tutte, per la gran parte realmente esistite. Le circostanze nelle quali agiscono sono invece assolutamente immaginarie. Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreEd Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © Edgardo Franzosini, 2014 Edizione pubblicata in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA)


Sul Monte VeritĂ a mio figlio Sergio



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Fu solo per un caso se una mattina di aprile di diversi anni fa…

Fu solo per un caso se una mattina di aprile di diversi anni fa venni a sapere che Else Beer era morta, in un letto di ospedale, all’età di centodue anni. Quel giorno i quotidiani italiani, per non so quale questione sindacale, non erano usciti. Nelle edicole, il ripiano in prima fila solitamente destinato alle pile dei giornali nazionali era stato occupato da alcune copie di quotidiani stranieri, non necessariamente i più autorevoli e nemmeno i più diffusi. La Gazzetta del Ticino riportava la notizia della morte di Else Beer nella pagina della «Cronaca dal Locarnese», dedicandole una trentina di righe su due colonne dal titolo: «Addio all’ultima monteveritana», proprio a fianco di un trafiletto che dava conto della decisa presa di posizione dell’Ordine dei farmacisti del Canton Ticino contro l’invio dei medicinali per posta. Avevo conosciuto Else Beer ormai più di vent’anni fa. Un pomeriggio di agosto ero andato a farle visita nel suo piccolo appartamento di Ascona. Fu lei che mi parlò di Alceste Paleari, l’eremita del culto della noce di cocco – e di quel culto forse   7


unico adepto – trovato morto un giorno sul Monte Verità, ai piedi di una palma. Della sua palma. Ritagliai l’articolo e la fotografia che lo accompagnava. Ritraeva un gruppo di persone che lavorava con fervore in un giardino coltivato a frutta. Ognuno di loro indossava una tunica bianca che arrivava ai piedi. Accanto a un filare di alberi bassi e frondosi si riconoscevano Henri Oedenkoven, Ida Hofmann e Lotte Hattemer, vale a dire i fondatori, assieme ai fratelli Gräser, della comunità. Oedenkoven e la Hofmann, con una gerla sulle spalle, coglievano frutti da un ramo, mentre Lotte Hattemer innaffiava il piede dell’albero. La didascalia sotto la foto precisava: «Lavori di giardinaggio sul Monte Verità nel 1906».

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ii

Era la fine di agosto e le nuvole in cielo sembravano annunciare la pioggia…

Era la fine di agosto e le nuvole in cielo sembravano annunciare la pioggia. Noemi, un’amica che lavorava alla Televisione della Svizzera Italiana, mi aspettava alla stazione di Lugano. Eravamo d’accordo che avremmo trascorso insieme il fine settimana e che avremmo visitato Casa Anatta. Questo edificio – che il Giornale svizzero dei maestri falegnami in un numero uscito nel 1930 aveva lodato per le sue pareti doppie e le sue volte a botte, arrivando a definirlo la più originale casa in legno di tutta la Confederazione – ospitava da alcuni anni la mostra permanente sulla storia del Monte Verità. «Ti ho anche combinato un incontro con l’ultima persona ancora in vita di quel calderone di matti» mi aveva detto Noemi al telefono. Da un po’ di tempo mi interessavo alle vicende di coloro che all’inizio del Novecento avevano abitato la collina di Ascona. Persone furiosamente eccentriche. Qualcuno, senza illudersi, credo, di riuscire a indicarle tutte, si era azzardato a compilare un elenco di quei personaggi suddiviso per categorie: teosofi,   9


antroposofi, anarchici, occultisti, astrologi, mistici, vegetariani, adoratori del sole, naturisti, digiunatori, rabdomanti, evocatori di demoni lunari, massoni, esperantisti, maghi bianchi, maghi neri, dadaisti eccetera eccetera. Ma c’era stato chi li aveva considerati semplicemente individui in preda alla pazzia. Debole pazzia in alcuni, più accesa in altri. Uomini che si coricavano per dormire sotto coltri di terra e che al mattino, per sprimacciare e rincalzare il proprio letto, usavano zappa e rastrello. Altri che avevano abolito asole e bottoni per sostituirli, più utilmente a parere loro, con noccioli di pesca, ghiande e gusci di noce. Altri che avevano assunto quale obiettivo della loro rivolta contro la società quello di trasformare radicalmente l’ortografia (maiuscole, minuscole, accenti, apostrofi, punti, virgole, parentesi erano considerati limitazioni allo sviluppo della personalità) e di cambiare la calligrafia (pance e gobbe delle b e delle q venivano ritenute null’altro che convenzioni). Noemi, il corpo minuto, i capelli biondo chiari, il viso dall’espressione spiritosa, mi venne incontro nell’atrio della stazione. «Mi ha appena chiamato il mio capo al telefono» disse appena salimmo sulla sua auto. «Devo dare una mano in redazione questo pomeriggio, pare sia urgente.» Poi aggiunse mettendo in moto: «Da Else ci dovrai andare da solo». Mentre percorrevamo la strada che portava a Locarno, Noemi mi parlò di Else Beer. Else, mi raccontò, era arrivata sul Monte Verità alla fine della Prima guerra mondiale assieme a Rudolf von Laban, il teorico della danza libera, della danza assoluta. Sulla collina di Ascona von Laban aveva costruito un teatro all’aperto e fondato una scuola che aveva chiamato Schule für Kunst. 10


«Il balletto prima di lui era tutto concentrato sulle punte dei piedi. Von Laban fece in modo di coinvolgere il resto del corpo. Più precisamente la schiena.» Aveva cominciato, continuò Noemi, studiando i movimenti che la gente compiva quotidianamente in casa, per la strada, o negli uffici. Aveva poi girato per un certo periodo le fabbriche di Manchester e di Birmingham per misurare la qualità cinetica del lavoro a cottimo. Si era messo infine a studiare le danze dei dervisci e perfino i gesti disarmonici dei malati di mente. L’auto di Noemi correva ora entro una cerchia di monti vasta e ombrosa, attraversando una piana un tempo occupata dalle acque del Lago Maggiore. Acque poi ritiratesi per l’accumulo secolare dei sedimenti che il Ticino aveva trasportato e depositato via via sui margini. «Lunghe e lente montagne…» dissi io indicando la cresta regolare di un monte. «Come?» «Così le chiama Borges in un libro intitolato Atlas, Atlante… Lo conosci?» domandai a Noemi. Il libro era uscito quell’anno o forse l’anno prima. Le montagne ticinesi «lunghe e lente» Borges le aveva vedute in occasione di un suo soggiorno in Svizzera, durante il quale aveva vissuto per un anno a Lugano. Nello stesso libro, la quartultima «voce», Staubach, dava allo scrittore la possibilità di osservare: «Ci sono tante cose nella molteplice Svizzera che c’è spazio anche per il terribile». «A proposito» esclamò Noemi allungando un braccio verso il   11


sedile posteriore «questo è per te», e mi porse un volume dalla copertina nera. Il libro aveva per titolo Monte Verità e per ponderoso sottotitolo Antropologia locale come contributo alla riscoperta di una topografia sacrale moderna. Il curatore era Harald Szeemann, uno svizzero geniale a cui si doveva la creazione del Museo del Monte Verità. Szeemann nelle prime pagine del libro, che mi misi subito a sfogliare, definiva la zona in cui si era sviluppata l’esperienza dei monteveritani un «triangolo delle Bermuda dello spirito». A suo parere la singolarità di questo territorio poteva risalire a questioni di tipo geologico. Poteva cioè essere in qualche modo legata ai giacimenti di metallo ferroso che si trovano sotto la baia di Ascona e che la rendono una zona dal magnetismo particolarmente elevato. Szeemann lamentava che non fosse mai stata analizzata scientificamente la reciproca influenza tra le anomalie magnetiche della crosta terrestre e il campo magnetico del corpo umano. L’ipotesi dell’esistenza di un campo magnetico specifico all’uomo veniva prospettata, a dire il vero, da Szeemann come una pura eventualità, ma ciò non gli impediva di aggiungere che senza opportune ricerche «non era possibile escludere nulla». L’ideatore del Museo di Casa Anatta accennava inoltre al fatto che gli aerei che sorvolavano il Monte Verità, a causa appunto delle forti radiazioni terrestri, perdevano talvolta la rotta. La smentita della Swissair, di cui con onestà rendeva conto, non sembrava convincerlo del tutto. Noemi mi invitò a pranzo in un grotto di Brione, un paese appena sopra Locarno. A tavola, davanti a squisiti filetti di pesce persico con un contorno di verdure cotte al vapore, il principale 12


argomento di conversazione fu ovviamente il Monte Verità. Noemi ammise che, quando rifletteva su esperienze di quel genere, faticava a stabilire la linea che separava, disse, «la profondità di spirito dalla stupidità…». Nel caso poi dei monteveritani non riusciva a liberarsi del tutto dalla sensazione di avere a che fare con qualcuno da cui emanava «un diffuso, fastidioso sentore di misticismo mondano». Era anche a causa di questi dubbi, di questa diffidenza, che, quando le era stato chiesto di occuparsi, per un programma televisivo, di uno dei tanti personaggi che avevano legato il proprio nome alla collina di Ascona, Noemi aveva scelto Erich Mühsam, l’anarchico, l’«ebreo rosso», impiccato dai nazisti a Berlino. «Sul Monte Verità» disse Noemi «Mühsam arrivò sperando di trovare un luogo di raccolta per tutti gli individui inadatti a diventare utili membri della società. Gli spiriti indomiti, li chiamava. Meglio se delinquenti…» Terminammo il pranzo con un dessert dei Grigioni a base di pere aromatizzate alla cannella, nocciole, mandorle e uva secca. Dalle finestre del grotto le nuvole apparivano di un biancastro uniforme. Ci alzammo da tavola ma, prima di avviarci verso l’uscita, Noemi volle telefonare a Else Beer, per confermare il nostro incontro del pomeriggio. «Buongiorno, Else» disse. Quando mi passò la cornetta, udii dall’altro capo del filo una voce squillante che scandiva a una a una le parole che pronunciava. Dopo tanti anni, l’inflessione tedesca era appena avvertibile. L’ultima monteveritana mi diede appuntamento per le tre e mezzo a casa sua. «Parlerò volentieri di quegli anni» disse Else. «Anni che mi   13


sono cari come un vecchio abito che non si indossa più, ma con il quale…» aggiunse con un tono improvvisamente malinconico «si è comunque già deciso di voler essere sepolti…» «A questo pomeriggio allora…»


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Ad Ascona gli alberghi erano o troppo cari per le mie tasche o al completo…

Ad Ascona gli alberghi erano o troppo cari per le mie tasche o al completo. Noemi mi aveva trovato una sistemazione a Moscia, una piccola frazione a ridosso di Ascona. «A Moscia» disse Noemi mentre con l’auto infilava una strada che scendeva ripida verso Locarno «è cominciato Eranos… Sai, le sessioni…» Non c’era bisogno che Noemi mi spiegasse cosa fossero. Qualche settimana prima, sfogliando una rivista, mi era capitato di leggere un lungo articolo che si occupava dell’argomento. I convegni di Eranos avevano avuto inizio verso gli anni trenta, grazie a un’olandese nata in Inghilterra: Olga Fröbe-Kapteyn. Oltre a essere una perfetta cavallerizza, la Fröbe aveva curiosità intellettuali che spaziavano dalla storia delle religioni alla psicologia, passando per le filosofie orientali, la teosofia e l’etnologia. «Vestita di preferenza con lunghe tuniche bianche, il corpo sottile, i capelli elegantemente arricciati», si era fatta costruire a Moscia tre case al centro di un grande giardino in cui crescevano piante di eucalipto, di rododendro, di azalea, nonché   15


un frondoso cedro del Libano sotto le cui foglie, color grigio blu, troneggiava un tavolo di pietra circolare. L’incontro con Rudolf Otto, «il teologo» spiegava l’articolo «che ha indagato l’intima essenza del sacro, dandone una definizione destinata a diventare celebre: “mysterium tremendum et fascinans”», l’aveva convinta ad aprire una volta all’anno le sue case e il suo giardino a convegni (la Fröbe preferiva chiamarle «sessioni») durante i quali si potesse dialogare, «in un variegato intreccio di lingue ma anche di discipline», su temi che avevano a che fare, per lo più, «con la ricerca delle fonti generative: quelle mitiche e quelle spirituali» della vita umana. «Eranos» era una parola greca il cui significato sembrava sfuggire a una precisa interpretazione. Non era propriamente un banchetto, ma non era neppure un semplice consesso di amici e, men che meno, un solenne convivio. Károly Kerényi ne aveva proposto a un certo punto una traduzione forse un po’ disinvolta, ma che molti finirono per ritenere la più convincente: «pic-nic». Se era difficile stabilire il significato esatto della parola «Eranos», un compito ancora più problematico era cercare di definire il senso di quegli incontri. A Carl Gustav Jung un giorno era stata mostrata una fotografia. Ritraeva la grande tavola di pietra grigia posta all’ombra del cedro. I raggi del sole cadendo tra le foglie dell’albero formavano sottili spirali di luce. Attorno alla tavola erano disposte solo sedie vuote. «L’immagine perfetta dei convegni…» aveva sentenziato. Altri avevano paragonato le sessioni di Eranos a un «circolo del Rinascimento». Quanto a Olga Fröbe, a chi le faceva domande sul significato di quei convegni consigliava semplicemente, se volevano tentare di capirci qualcosa, di camminare almeno una volta per il suo giardino. 16


Noemi mi lasciò davanti all’albergo e mi diede appuntamento per l’indomani mattina. Il tempo di salire nella mia camera, di appoggiare il bagaglio ai piedi del letto e il libro di Szeemann sopra il comodino ed ero di nuovo in strada alla ricerca, come mi aveva suggerito Noemi, di un supermercato, o di un negozio che vendesse cibo per animali. Verso le tre, reggendo un sacchetto di plastica pieno di scatolette, presi un autobus, e in pochi minuti raggiunsi Ascona. Else Beer abitava in una casa gialla che sorgeva, appena un po’ più alta delle altre, in uno dei tortuosi vialetti che portavano al lungolago. La casa aveva fasce, lesene e spigoli di mattoncini rossi. Salendo due rampe di scale arrivai davanti alla porta del suo appartamento. Prima che potessi premere il campanello, la porta si aprì. «Buongiorno…» disse sorridendo un uomo dal corpo minuto e dalla pelle bruno-dorata. «Else… visite…» gridò rivolto verso l’interno. Poi fece un inchino deferente col capo e infilò le scale. Else Beer apparve sulla porta. Aveva un caschetto di ispidi capelli bianchi. Il suo sguardo conservava ancora, nonostante l’età, un luccicante brillio di altera civetteria. «Prego…» disse invitandomi a entrare. Guardando il sacchetto di plastica che le porgevo aggiunse: «È gentile da parte sua…». Al collo portava una collana d’ambra. Il corpo magro era avvolto in un lungo abito ormai logoro. «Viene dal Purang» disse Else accennando col capo alla porta di ingresso. «Lavora come uomo delle pulizie in un cinema di Locarno. È arrivato da noi quando era ancora un ragazzo, dopo l’intervento dei cinesi in Tibet… Lo sa che la Sviz  17


zera è la nazione occidentale che ospita il maggior numero di tibetani?» Si riferiva evidentemente all’uomo che avevo appena visto uscire. «Si chiama Tze-Cho, mentre il cognome» aggiunse «è decisamente elvetico: Mayr. Le autorità hanno chiesto a tutti i tibetani che non avevano un cognome, ed erano la maggioranza, visto che nel loro paese è un privilegio concesso a poche famiglie, di scegliersene uno svizzero. Del resto il nome non ha per loro molto valore. Sembra che dopo avvenimenti importanti, come ad esempio dopo una lunga malattia, se lo cambino…» La Beer mi fece accomodare in un locale con un divano dalla fodera sdrucita che occupava quasi tutta una parete. La polvere, notai, aveva disegnato sulle tendine bianche delle finestre tremolanti aloni di sporco. Nella stanza il profumo dolciastro che emanava dal corpo della padrona di casa sembrava coprire qualsiasi altro odore. «Ai primi tibetani che sono arrivati in Svizzera, ospiti della Croce Rossa, all’inizio degli anni sessanta» riprese Else, che sembrava avere un grande interesse a raccontarmi la storia di Tze-Cho, «il paese era piaciuto subito. Per via delle montagne, innanzitutto. Del resto quando pensavano agli edifici sacri che erano stati distrutti nel loro paese si consolavano dicendo che tutte le cime coperte di neve erano invece rimaste intatte. Pare che non pochi di quelli tra loro che non hanno voluto lasciare il Tibet siano fuggiti su montagne sempre più alte, su cime sempre più inaccessibili ai soldati dell’esercito di occupazione… e qualcuno di loro abbia anche simulato la pazzia, si sia esibito in incredibili stravaganze allo scopo di confondere le autorità cinesi, che alla fine hanno preferito lasciarli in pace…» 18


Alle pareti della stanza erano appesi diversi quadri e qualche fotografia. Il quadro più grande si trovava sul muro di fronte a noi. «Dunque lei si interessa al Monte Verità?» mi domandò Else in tono dolce e insinuante. «Sì…» ammisi «da qualche tempo…» Else scosse la testa. «Per tanti il Monte Verità è stato solo una stravagante colonia di espatriati, di psicopatici, ognuno dei quali era in preda a un proprio personale sogno, o delirante o semplicemente puerile… niente di più. Un’eterogenea comunità di matti visionari, insomma.» «Di emarginati, si direbbe oggi.» «Sì. Per lo più inoffensivi. Che si tenevano lontano dal mondo e dalle sue attività. Io ho sempre pensato che per spiegare quel che è stato il Monte Verità non ci sia definizione migliore di questa: una grande rupe primordiale nel mezzo di un prato ben coltivato. Per prato ben coltivato intendo naturalmente il mondo occidentale all’inizio del secolo, un mondo e un’epoca spiritualmente allo stremo… Ma io non le ho ancora offerto nulla. Gradisce un bicchiere di vino forse?» Mentre Else raggiungeva la cucina ne approfittai per alzarmi dal divano e osservare più da vicino il grande quadro. Vi era raffigurato, su uno sfondo di nuvole, un edificio di pietra grigia, una costruzione a metà tra un castello medievale e un tempio ellenistico. Al centro svettava una torretta ottagonale con finestre ad arco e bifore, mentre nel giardino che la circondava si intravedeva una specie di peristilio sorretto da colonne scanalate. Di lì a poco Else tornò reggendo nelle mani due piccoli boccali di ceramica colmi sino all’orlo di vino bianco. Vedendomi   19


interessato al dipinto disse: «Le piace? È l’Elisarion, o più esattamente il Sanctuarium Artis Elisarion. Si trova non lontano da qui, a Minusio. È stata l’abitazione di Elisàr von Kupffer. Lui stesso l’ha ideata e costruita». Elisàr von Kupffer, mi disse la Beer, era stato un pittore, un poeta, un architetto e un filosofo. Era nato in Estonia. Il padre, medico oculista e filosofo anch’egli, era l’autore di un libro, al cui concepimento non era stata estranea l’ebbrezza che gli procuravano le foglie d’oppio. «Il libro aveva per titolo Due testimoni della rivelazione divina: il Cosmo e l’Uomo. Elisàr lo lesse a dodici anni e fu colpito da alcuni concetti che, variamente rielaborati, avrebbe utilizzato poi nella formulazione di un suo personale sistema filosofico: il Clarismo.» La Beer alzò tre dita della mano: «“Vedere chiaramente, pensare chiaramente, agire chiaramente!” Così rispondeva Elisàr a chi gli chiedeva di illustrare i princìpi del suo sistema». Un gatto dalla pancia gonfia e che si reggeva a malapena sulle zampe sbucò da sotto il divano e si arrampicò sino al ventre di Else, che prese a carezzarlo teneramente. Ci fu una breve pausa di silenziosa attesa, poi la donna mi domandò: «Lei viene dall’Italia, da Milano, mi ha detto Noemi». «Sì, Milano» annuii. «Quell’uomo era anche lui milanese, un suo concittadino…» disse indicando una fotografia appesa a una parete a lato della porta. «La stacchi dal muro, per favore, e me la porti qui.» La fotografia, montata in una cornice di legno, ritraeva un gruppo di donne e di uomini, forse una dozzina in tutto, davanti alle acque di un lago sopra il quale incombevano nere montagne. 20


Eseguivano una specie di danza: le braccia alte sopra la testa o distese in avanti, una gamba sollevata in aria, i corpi inarcati. «Un bel gruppo di Balabiott…» disse Else ridendo. «Così gli abitanti di qui chiamavano i monteveritani, e significa nel loro dialetto “quelli che ballano nudi”. Il primo, l’uomo con i baffetti, è Rudolf von Laban, poi ci sono la Perrottet, Katja Wulff, la Lederer che ha in mano un gong, ci sono io…» Alcuni erano completamente nudi. Altri avevano un drappo chiaro arrotolato attorno alle anche e sotto l’inguine. Ma c’era anche chi indossava una tunica che arrivava sino alle caviglie. Componevano un’immagine insieme ridicola e solenne. Per ottenerla avevo l’impressione che dovessero essere rimasti in posa, immobili per qualche tempo. Si intuiva una notevole tensione dei muscoli del corpo, unita allo sforzo di mantenere almeno nell’espressione del viso l’apparenza della naturalezza. Una sola figura del gruppo, la penultima a destra, non aveva potuto, o forse voluto, restare ferma. La sua immagine era sfocata. Il suo corpo aveva perso consistenza, era diventato come fumo. «Paleari, Alceste Paleari, questo era il suo nome, è quello lì» disse Else. «È il penultimo… quello che si è mosso. La foto è stata scattata il mattino dopo la grande Festa del Sole. Io e Alceste ci eravamo conosciuti qualche anno prima a Monaco nella Scuola di von Laban.» Parlando si carezzava la guancia solcata da piccole rughe. «Paleari, l’eremita del culto della noce di cocco, fu trovato morto un giorno ai piedi di una palma. La testa sfracellata contro una delle sei grosse pietre scure che erano disposte in cerchio ai piedi dell’albero. La sua vicenda è stata singolare… Capisce quel che voglio dire?… strana e singolare anche…»   21


«Anche per il Monte Verità?» «Sì, certo. Singolare a cominciare dal fatto che Paleari fu il solo, credo, che arrivò sul Monte Verità provenendo dal Sud, dall’Italia… D.H. Lawrence, che prima di mettersi alla ricerca di una montagna sacra nel Nuovo Messico si fermò per qualche tempo su questa collina, ha scritto una volta che quando si cammina bisogna andare o a occidente o a sud, e che camminare verso nord è come camminare in un vicolo cieco, verso un muro… tutti in effetti arrivavamo da nord… Hermann Hesse la chiamava “la mia Honolulu”… anche Hesse è stato sul Monte Verità. A quell’epoca aveva qualche problema con l’alcol…» Else appoggiò delicatamente il boccalino di ceramica per terra, si portò le mani al mento, poi disse: «Per noi questa collina era… era Tahiti, era la Nuova Guinea. Benché si tratti, in fondo, sempre della Svizzera, del Canton Ticino, e la vegetazione abbia una netta prevalenza di castagni, di felci e di muschio, e il terreno sia coltivato a vigna, e vi siano orti dove in inverno risulta difficile curare ortaggi e piante. Eppure, inspiegabilmente, un gran numero di palme ha messo radici nella Confederazione. E proprio nel cantone ticinese. E la gran parte fiorisce e prospera sopra le colline che si affacciano sul lago. Alberi magnifici: il tronco squamoso, un pennacchio di foglie verdi e lucenti, i piccoli frutti a grappolo. Non è la specie da cocco, ma quella che viene chiamata palma di san Pietro, o di san Pietro martire, o anche palma da scope. La cosa più stupefacente è stata la capacità che hanno avuto queste piante esotiche di contendere spazio vitale alle piante indigene, fino a sostituirsi a esse». Else guardò oltre i vetri della finestra. «Le racconterò la storia di Alceste Paleari…» 22


iv

L’eremita del culto della noce di cocco fu trovato morto…

L’eremita del culto della noce di cocco fu trovato morto un giorno di giugno del 1933 ai piedi di una palma, della sua palma. Indossava soltanto un paio di pantaloni di tela che gli arrivavano ai polpacci. Lucidi per la sporcizia. La testa sfracellata contro una grossa pietra scura. Il suo corpo, che per statura e robustezza poteva considerarsi appena sopra la media, era riverso a terra, in una posizione che lo faceva sembrare enorme, gigantesco. Le ipotesi che vennero avanzate furono tre. Paleari poteva essere caduto dalla cima dell’albero per una disgrazia, essersi gettato per sua volontà a testa in giù, o ancora essere stato ucciso con quella stessa pietra sulla quale era appoggiata la sua testa. Per accertare come si erano svolti i fatti fu aperta un’inchiesta. Autorità competente era il Corpo di Gendarmeria Cantonale, il delegato della stazione di Brissago, Gualtiero Biasca, venne incaricato delle indagini. Biasca, oltre ad avere compiti di sorveglianza sui forestieri, gli accattoni, i vagabondi e, in ge  23


nerale, le persone sospette, aveva inoltre, quale delegato, la responsabilità dello svolgimento delle indagini preliminari in caso di infortuni o di delitti. Biasca era un ometto piccolo e tondo, vestito sempre con ricercatezza: abito scuro, panciotto traversato dalla catena d’oro dell’orologio, camicia con il colletto rigido. Benché respingere al confine gli stranieri senza mezzi o privi di recapito o ritenuti in qualche modo pericolosi fosse la sua principale occupazione, svolgeva l’incarico con umanità e buonsenso. Si raccontava che anni prima si fosse rifiutato di arrestare e quindi di consegnare all’autorità giudiziaria tre operai italiani che, dopo aver assistito a un comizio in piazza Indipendenza a Lugano, si erano diretti verso l’edificio che ospitava il Regio Consolato d’Italia, avevano asportato dal muro lo stemma consolare e lo avevano gettato nelle acque del lago. Gliene era sopravvenuto qualche fastidio, che non gli aveva impedito tuttavia di venire nominato, di lì a qualche anno, delegato di Polizia, il giorno che il Consiglio di Stato aveva deciso di istituire una Delegazione a Brissago. «Un posto modesto ma gradito» aveva commentato Biasca. Poiché il morto era cittadino italiano, dovette occuparsi di questa vicenda anche la Polizia del suo paese. Da Como arrivò, il giorno dopo la scoperta del cadavere di Paleari, un ispettore di Pubblica Sicurezza. Si chiamava Mapelli. Era piuttosto giovane e di bell’aspetto. Fumava a piccoli sbuffi dei sigari toscani. Il caso volle che i due già si conoscessero. Biasca mi raccontò che qualche anno prima avevano frequentato, a Milano, lo stesso corso di aggiornamento sul «Segnalamento descrittivo». Al corso erano stati ammessi anche agenti della Gendarmeria 24


Cantonale, «visto l’intensificarsi nei due sensi della frontiera ticinese» mi spiegò Biasca «dei passaggi clandestini». Dopo aver esaminato, pare senza alcun significativo profitto, il rapporto del medico legale, i due poliziotti decisero, quale prima iniziativa, di ispezionare il luogo nel quale Paleari aveva trascorso in solitudine gli ultimi quindici anni della sua vita e nel quale era stato trovato cadavere. Ad assistere al sopralluogo si radunò una piccola folla di curiosi. Biasca e Mapelli, assieme a tre agenti, perlustrarono la caverna da cima a fondo, alla luce di una lampada elettrica, senza trovare alcunché. Niente per lo meno che potesse aiutare le indagini. Del resto Paleari non possedeva nulla, a parte una scatola di latta. Quando l’aprirono vi trovarono, credo, quello che Alceste aveva voluto mostrarmi un giorno: un temperino, un piccolo ago con del filo, una copia del Ramo d’oro di Frazer, una farfalla di bronzo e una fotografia sbiadita di un uomo e di una donna che sorridono davanti all’ingresso di un edificio, a fianco di una targa di marmo su cui si legge: english vegetarian society. I due poliziotti presero poi a esaminare la palma. Paleari nel corso degli anni ne aveva ripulito da cima a fondo il fusto, staccando a uno a uno i residui di vecchie foglie e strappando con cura i ciuffi di quella barba stopposa che lo ricopriva. Sulla corteccia, resa liscia da questa operazione, aveva poi inciso con la punta del suo temperino un gran numero di frasi. Biasca e Mapelli le trascrissero tutte scrupolosamente nonostante la difficoltà di separarle, di stabilire dove finisse una e iniziasse l’altra. Biasca avvicinava il viso al fusto dell’albero e leggeva ad alta voce: «Non fermarti in pianura… Genesi, 19,17!…». Mapelli   25


annotava le parole su un taccuino. «Che splendore ieri!» scandiva subito dopo Biasca. E ancora: «Danzare è arrestare per un attimo la vita delle stelle veloci…». Quando si trattò di decifrare le parole scritte da Paleari nella parte più alta della palma, a uno degli agenti fu chiesto di cercare nei dintorni una scala. L’uomo tornò di lì a mezz’ora portando in bilico su una spalla una lunga scala di legno. La appoggiò al fusto della palma e, mentre i suoi colleghi la reggevano ai due lati, salì fino all’ultimo piolo. «Era un albero e crollò. Era un leone e si perse d’animo…» urlava l’agente con le mani a imbuto davanti alla bocca. «L’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto.» E poi: «Per tutta la notte d’intorno, andammo vagando sinor, torniamo alla luce del giorno, con dolci ghirlande di fior…». Terminata quella lunga opera di decrittazione, Biasca e Mapelli si misero a osservare le sei pietre ai piedi della palma. Solo una di esse sembrò ai due poliziotti degna di interesse: la grande pietra contro la quale la testa di Paleari si era sfracellata, macchiata ancora dal sangue e dalla materia cerebrale schizzata via dal suo cranio. La esaminarono da vicino. La toccarono, prima l’uno e poi l’altro, sfiorandola appena con la punta delle dita. Di comune accordo decisero di prelevarla per poter eseguire altre verifiche. L’avvolsero con cautela dentro un panno, quindi gli agenti la sollevarono da terra e con fatica la portarono giù per il sentiero che scendeva verso Ascona. Si dovette quindi ricostruire le ultime ore di vita di Alceste Paleari. Quel giorno Alceste aveva messo piede fuori della sua grotta con ogni probabilità verso metà mattina. Col caldo o col freddo l’eremita del culto della noce di cocco indossava sempre 26


un unico paio di calzoni di cotone. Nient’altro. Il torso era nudo, i piedi scalzi. Nessun copricapo. Lo vide il portalettere. «In meditazione, forse,» raccontò ai due inquirenti, «come accadeva spesso quando, andando a Losone a consegnare la posta, per fare più in fretta tagliavo per di là. Con la schiena appoggiata contro il tronco della palma e con le gambe incrociate.» Era una specie di preparazione – che avveniva nella più perfetta immobilità e nella concentrazione più profonda – al momento in cui si sarebbe arrampicato lungo il fusto con l’agilità di un animale e avrebbe raggiunto la cima della palma. Se il portalettere era stato presumibilmente l’ultima persona a vedere Alceste Paleari vivo, era toccato invece in sorte a Karl Vester di scoprirne il cadavere. Vester era un monteveritano che, da anni ormai, percorreva tutti i giorni la collina di Ascona e i paesi intorno con appesa al braccio una grossa cesta di vimini, vendendo il pane che egli stesso impastava e cuoceva. Preparato con farina mescolata al cruschello, aveva la forma di una pagnotta bassa e rettangolare, con una crosta ben cotta. Dopo aver fatto fermentare l’impasto per una notte, Vester lo cuoceva per due ore in un forno di pietra, alla fiamma viva della legna. Nella cesta, sotto le forme di pane, Vester aveva sempre tre libri. Uno era il Walden ovvero La vita nei boschi di Henry David Thoreau, che Karl considerava la sua Bibbia; gli altri erano i due volumi del dizionario italiano-tedesco Rigutini Bulle. Il dizionario gli serviva per tenere fede alla promessa che aveva fatto a se stesso di non pronunciare mai più una sola parola in tedesco.

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Non fu un interrogatorio semplice e neppure breve, mi raccontò il giorno dopo Vester mentre mi riempiva, con due grosse forme di pane, la borsa della spesa. A ogni domanda dei due poliziotti, Karl apriva le pagine del suo dizionario e cominciava a sfogliarlo. Voleva essere preciso. Il più preciso possibile. «Specie in quell’occasione, le parole italiane dovevano essere scelte con cura…» mi disse. L’ispettore italiano avrà apprezzato, credo, lo sforzo di Vester di esprimersi nella sua lingua. Una piccola ma consolante smentita, in fondo, a quella che all’epoca sembrava, dall’osservatorio di Roma, una pericolosa tendenza del Canton Ticino, e che i giornali italiani chiamavano «Il suo intedeschimento». L’interrogatorio durò l’intera mattinata. Vester aveva appoggiato la sua cesta sul pavimento, di fianco alla sedia su cui era stato fatto sedere. Quando suonò mezzogiorno fu sul punto di offrire ai due poliziotti un boccone del suo pane. Per Biasca del resto non era una novità. Lo aveva gustato più di una volta: crosta croccante e interno morbido. Ma Vester rinunciò all’idea, così almeno mi raccontò. «Ero stanco. Dopo tre ore di interrogatorio, passate a sfogliare continuamente il dizionario, mi venne in mente di prendere dal cesto una forma di pane e di tagliarne delle fette col coltello, di offrirle… Ma poi pensai che l’avrebbero interpretato nel modo sbagliato… Lasciai perdere. L’interrogatorio procedeva lento… Ma era solo, da parte mia, la volontà di non usare una parola per l’altra. Pazienza l’accento, questo non lo perderemo forse mai, né io né lei, Else, ma ciò che avevo veduto lo volevo descrivere nella maniera più precisa. Come dice il nostro grande poeta: “Raccogli le tue forze per ciò che è decisivo”.» Anche questo verso di Goethe lo pronunciò in italiano, 28


poiché persino le parole degli spiriti più eletti della sua, della mia patria, Karl ormai le traduceva. «Ho detto loro» proseguì «di aver veduto il cadavere solo quando mi trovavo a non più di un metro dal corpo… Non dico di esserci inciampato, in quel corpo, ma certo me ne sono accorto all’ultimo momento, con il rischio di calpestarlo. L’ho riconosciuto immediatamente. Sotto quell’albero non poteva essere che lui… Non so se ho gridato o se sono rimasto in silenzio, senza la forza di emettere un suono per lo spavento. Mi ricordo che ho curvato un poco la schiena, mi sono piegato sulle gambe e in quella posizione, con la cesta del pane sempre stretta al braccio, ho fatto un giro o forse due attorno al cadavere…» Vester accennò davanti a me una specie di girotondo sulle ginocchia. Gli allungai una mano, lui l’afferrò e si rimise in piedi. «L’ho toccato» continuò. «Gli ho toccato il braccio, il gomito per la precisione, il corpo era girato a pancia in giù. Attorno alla testa ronzavano le mosche. Guardavo ipnotizzato il cadavere, come se fissassi gli occhi di un serpente. C’era però da scendere in paese e avvisare il signor delegato di Polizia, dicevo tra me. Quando mi sono rialzato, dalla cesta mi è caduta una pagnotta ed è rotolata in un rigagnolo di sangue. La mollica ha cominciato ad assorbire il liquido… Il pane, piano piano, da bianco è diventato rosso scuro… L’ho raccolto, mi sono tolto la camicia, ho coperto con cura la faccia di Paleari e sono sceso di corsa giù per il sentiero…»

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