L'incantatore anteprima

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Iris Murdoch

L’incantatore Postfazione di Peter Cameron A cura di Cristina Tizian Traduzione di Gioia Guerzoni


Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreEd Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © Iris Murdoch, 1956, 1984 Per la postfazione: © 2014 by Peter Cameron Published by Arrangement with Agenzia Santachiara © il Saggiatore S.r.l., Milano 2014 Titolo originale: The Flight from the Enchanter


L’incantatore



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Erano più o meno le tre di un venerdì pomeriggio quando Annette decise di lasciare la scuola. C’era lezione di italiano. L’insegnante, con voce acuta e artefatta, stava leggendo ad alta voce il dodicesimo canto dell’Inferno. Aveva appena iniziato il brano sul Minotauro. Ad Annette non piaceva l’Inferno, le sembrava un testo crudele e sgradevole. Perché il povero Minotauro doveva soffrire in quel luogo? Non era colpa sua se era nato mostro. Era colpa di Dio. Il Minotauro andava avanti e indietro, in preda al dolore e alla frustrazione, diceva Dante, come un toro che ha ricevuto il colpo mortale. Pàrtiti, bestia, leggeva con voce affettata l’insegnante di italiano. Era un’inglese, che da giovane aveva seguito un corso di cultura italiana a Firenze. Virgilio si stava rivolgendo al Minotauro in tono sprezzante quando Annette decise di andarsene. Non imparo niente qui, pensò. D’ora in poi, alla mia istruzione ci penserò da sola, studierò alla Scuola della Vita. Impilò ordinatamente i libri, si alzò, e attraversò l’aula, facendo un rapido inchino all’insegnante, che aveva interrotto la lettura e la stava fissando con aria di rimprovero. Annette uscì dalla classe, chiudendosi piano la porta alle spalle senza far rumore. Appena si trovò nel corridoio coperto di moquette spessa, scoppiò a ridere. Era tutto così incredibilmente semplice, non riusciva a capire perché non ci avesse pensato prima. Percorse il corridoio a grandi balzi, facendo tremare sul piedistallo un grazioso vaso di fiori, e scese tre alla volta i gradini che portavano al guardaroba. Il Ringenhall Ladies’ College era una costosa scuola di perfezionamen  7


to per signorine di Kensington, dove alle future giovani debuttanti venivano insegnate tutte le arti necessarie per accalappiare un marito, nel giro di una o al massimo due stagioni. Le lungimiranti madri del gruppo sociale da cui Ringenhall reclutava le allieve non erano certo ricche come lo erano state in passato, e volevano risultati rapidi. Il college aveva i mezzi per dare questi risultati con la severità di un’operazione militare. Annette studiava a Ringenhall da più o meno sei mesi. Suo padre, un diplomatico, voleva che «debuttasse» a Londra, e si era convinto che un breve periodo in un’istituzione di quel genere avrebbe conferito alla sua «monella cosmopolita», come chiamava Annette, almeno una parvenza di giovane donna inglese sufficiente a farla passare per tale durante la stagione sociale, che secondo lui era una parte necessaria dell’educazione, se non proprio il suo coronamento. Andrew Cockeyne, che aveva lasciato l’Inghilterra a ventitré anni e detestava profondamente quel paese, che considerava tedioso e opprimente, si era comunque assicurato di mandare il figlio maschio alla sua stessa scuola. L’istruzione di Annette, che era meno importante e che le aveva permesso di imparare quattro lingue e poco altro, era stata acquisita un peu partout; ma era essenziale, nella visione di suo padre, che arrivasse al suo culmine solo e soltanto a Londra. La madre di Annette, che era svizzera, aveva aperto le braccia e acconsentito, e se anche aveva avuto qualche perplessità se l’era tenuta per sé. Annette aveva quasi diciannove anni. Su Ringenhall, non era stata sfiorata dal dubbio nemmeno per un secondo. Aveva odiato la scuola dal primissimo giorno. Provava un misto di disprezzo e compassione per le sue compagne, e puro disprezzo per le istitutrici, che erano chiamate «tutor». Per la direttrice, una certa Miss Walpole, provava un odio totale e disinteressato. Disinteressato perché la signorina Walpole non si era mai comportata in modo sgradevole con lei, anche perché non le aveva mai prestato la benché minima attenzione. Annette non aveva mai odiato nessuno in quel modo, ed era orgogliosa di quel nuovo sentimento, che le pareva un segno di maturità. Al programma di studi del Ringenhall aveva opposto una resistenza ostinata e costante, determinata a impedire che anche una sola delle idee che conteneva trovasse una sistemazione nella sua mente, seppur temporanea. Quando le era possibile, in classe leggeva un libro o scriveva delle lettere. Quando non era possibile, si abbandona8


va a qualche vivace fantasticheria, si lasciava cadere in uno stato istupidito di trance. A quello scopo, apriva leggermente la bocca e si concentrava sull’oggetto più vicino finché il suo sguardo non si faceva vacuo e non aveva nessun pensiero in testa. Dopo qualche tempo però, decise di interrompere quella pratica, non tanto perché le istitutrici iniziavano a pensare che non avesse tutte le rotelle a posto – questo non faceva che divertirla – ma perché aveva scoperto che riusciva perfino ad addormentarsi, e questa sua abilità la spaventava enormemente. Annette indossò il cappotto, pronta per uscire. Ma quando raggiunse il portone di ingresso si fermò di colpo. Si voltò, fissando il corridoio. Sembrava tutto uguale: le costose composizioni floreali, le annacquate riproduzioni di dipinti famosi, la curva della candida scala ammirata da tutti. Annette osservò ogni dettaglio. Le sembrava uguale a prima, eppure diverso, come se avesse attraversato lo specchio. Si rese conto di essere libera. Mentre rifletteva, quasi con timore reverenziale, su quanto le era stato facile fare quel gesto, ebbe la sensazione che Ringenhall le avesse insegnato la lezione più importante. Ritornò sui suoi passi, sbirciando le porte e toccando gli oggetti. Si aspettava quasi di trovare stanze nuove nascoste dietro porte familiari. Si diresse verso la biblioteca. Entrò senza far rumore e vide che la sala era vuota come al solito. Rimase ferma, in silenzio, finché non le parve che fosse la biblioteca di una città saccheggiata. Quei libri non appartenevano a nessuno ormai. Nessuno sarebbe più venuto lì dentro. Tra qualche tempo le pareti sarebbero crollate, lasciando entrare pioggia e vento. Annette si rese conto che in effetti avrebbe potuto anche prendere un paio di libri per ricordo. I volumi non erano disposti in un ordine particolare, né erano catalogati o etichettati. Esaminò parecchi scaffali. Erano in disordine ma in condizioni perfette, perché la lettura non era un’attività popolare a Ringenhall. Scelse con cura una copia rilegata in pelle dell’Antologia di Poesie di Browning e uscì dalla sala con il libro sotto braccio. In quel momento si sentiva così felice che avrebbe urlato di gioia se non fosse stato per il delizioso incantesimo che ancora la avvolgeva e le faceva godere di quel silenzio. Si guardò intorno con aria compiaciuta. Ringenhall era alla sua mercé. C’erano due cose che Annette desiderava fare fin da quando era arrivata al college. Una era incidere il proprio nome sul busto di legno, opera di Grinling Gibbons, che torreggiava nella sala comune. C’era qualcosa di   9


solenne e florido in quell’opera che le faceva venire voglia di sfregiarla. Il legno era tenero, invitante. Ma poi respinse quell’idea, non tanto perché il nome di Grinling Gibbons non suscitasse in lei una certa magia, ma perché non riusciva a trovare il suo coltellino da tasca. L’altra cosa che aveva sempre voluto fare era appendersi al lampadario della sala da pranzo. Si voltò subito in direzione di quella stanza ed entrò in fretta. I tavoli e le sedie immobili la fissavano con disapprovazione. Annette alzò lo sguardo verso il lampadario e il cuore si mise a batterle forte. Quell’affare sembrava incredibilmente lontano, irraggiungibile. La catena da cui pendeva era robusta; Annette l’aveva già notato studiandola attentamente altre volte. Aveva anche visto una solida sbarra di metallo al centro, a cui da tempo voleva aggrapparsi. Tutt’intorno alla sbarra erano sospese piccole gocce di cristallo, che brillavano in tanti minuscoli punti di luce pura, come se un’onda meravigliosa si fosse arrestata sul punto di frangersi mentre il sole vi risplendeva sopra. Prima di quel giorno, era convinta che dondolandosi dal lampadario la musica racchiusa nei cristalli sarebbe scoppiata in mille rintocchi di campane. Nella sua immaginazione, Annette avrebbe raggiunto la sbarra con un balzo dal tavolo dei professori, ma ora capiva che non era un’idea fattibile. Più decisa che mai, si mise a trascinare uno dei tavoli verso il centro della stanza. Poi prese una sedia, la piazzò sul tavolo e ci montò sopra. Già dal tavolo si sentiva lontana da terra. Annette aveva paura dell’altezza, ma salì sulla sedia con fare risoluto. Da lì, alzandosi sulle punte, poteva afferrare la sbarra di metallo. Si fermò, senza fiato. Poi, con un movimento rapido, diede un calcio alla sedia e penzolò rigida a mezz’aria. Il lampadario sembrava reggere, la sua presa era salda, e non ci furono cigolii sospetti quando la catena si tese dal soffitto. Dopotutto, pensò Annette, non peso molto. Tenne i piedi ben uniti e puntati verso il basso. Poi, con un’oscillazione delle anche cominciò a dondolare delicatamente, avanti e indietro. Il lampadario si mise a suonare: non era uno scampanio assordante ma un tintinnio acuto, delicato, il tipo di suono, in effetti, che ci si aspetterebbe di sentire in mare se un’onda fosse stata immobilizzata e tramutata in vetro: un impercettibile sciabordio, un misto di suono e luce. Annette era del tutto rapita da quel rumore e dal ritmo lento dei propri movimenti. Cadde in una sorta di trance e mentre si cullava con aria sognante immaginò di rimanere lì per tutto il pomeriggio finché le convittrici del Ringen10


hall non fossero arrivate alla spicciolata per cena e, superando i suoi piedi oscillanti, si sarebbero sedute senza prestarle un’attenzione maggiore di quella che avrebbero riservato a un pezzo del mobilio. In quel momento la porta si aprì ed entrò la signorina Walpole. Annette, che si stava dondolando, lasciò di colpo la presa, mancò il tavolo e, con un tonfo, le cadde ai piedi. La signorina Walpole la fissò dall’alto con un cenno di disappunto. Non sapeva ancora con certezza cosa disprezzasse maggiormente, se le adolescenti o le bambine: queste ultime facevano più baccano, certo, ma alla lunga risultavano più facili da gestire. «Si tiri su, signorina Cockeyne» disse ad Annette con il suo solito tono stanco. Sospirava sempre quando parlava, come se l’interlocutore la annoiasse; e siccome non le interessava quasi niente in particolare, nulla la sorprendeva. Quella calma indifferenza le aveva fatto guadagnare un’ottima reputazione come preside. Annette si alzò massaggiandosi. Nella caduta si era fatta male. Poi si voltò, spostò il tavolo e raddrizzò la sedia, che si era ribaltata di lato. Dopo di che prese il cappotto, la borsa e la copia di Browning e affrontò la signorina Walpole. «Cosa stava facendo signorina Cockeyne?» chiese la preside sospirando. «Stavo dondolando dal lampadario» disse Annette. Non aveva paura della direttrice; non si era mai fatta ingannare dalle sue pretese di eccellenza morale o intellettuale. «Perché?» chiese la signorina Walpole. Annette non era preparata a quella domanda e pensò di saltare un paio di passaggi nella conversazione con un solerte «Mi dispiace» e poi «Ho deciso di lasciare Ringenhall». «Posso chiederle di nuovo perché?» Era una donna molto alta, il che era forse uno dei segreti del suo successo, e sebbene anche Annette fosse alta, doveva alzare la testa se voleva guardarla negli occhi. Annette fece un paio di passi indietro e arretrò finché la linea che univa i loro sguardi fu pressoché orizzontale. Voleva darsi un contegno. Ma più si allontanava, più la signorina Walpole avanzava impercettibilmente, scivolando in avanti come se qualcuno la spingesse alle spalle, tanto che Annette dovette ancora una volta allungare il collo. «Ho imparato tutto ciò che c’era da imparare qui» disse Annette. «D’ora in poi penserò io alla mia istruzione. Andrò alla Scuola della Vita.»   11


«Quanto all’aver imparato tutto ciò che c’è da imparare qui» disse la signorina Walpole «ovviamente non è vero. Il suo stile è chiaramente continentale e, come ho avuto modo di farle notare l’altro giorno, sale ancora le scale a quattro zampe, come un cane.» «Intendevo» disse Annette «che ho imparato tutte le cose che considero importanti.» «Cosa le fa pensare» disse la signora Walpole «che in una scuola si possa insegnare qualcosa di importante?» Sospirò di nuovo. «Si rende conto, immagino» proseguì «che i suoi genitori hanno pagato in anticipo retta, vitto e alloggio fino alla fine del prossimo trimestre, e che il rimborso è fuori questione?» «Non importa» disse Annette. «Lei è fortunata a poter dire così» ribatté la signorina Walpole. «Quanto all’istruzione che lei chiama Scuola della Vita, dubito, se posso esprimere un’opinione personale, che lei abbia già i requisiti per poter trarre beneficio dal suo corso di studi. A ogni modo, cos’è quello?» chiese indicando il volume di Browning, che Annette stava infilando in borsa. «È un libro che volevo donare alla biblioteca come dono di commiato» disse Annette porgendolo alla signorina Walpole, che lo prese con aria sospettosa. «È una bella edizione» disse la preside. «Gliene saremo grati.» «Vorrei che venisse messa una piccola etichetta» aggiunse Annette «con scritto che è un dono di Annette Cockeyne. E ora arrivederci, signorina Walpole.» «Arrivederci, signorina Cockeyne» disse la preside. «Si ricordi che il segreto dell’apprendimento è la pazienza e che la curiosità non è identica alla sete di sapere. Si ricordi anche che io sono sempre qui.» Annette, che non aveva nessuna intenzione di imprimersi nella mente quel pensiero sgradevole, disse «Grazie» e si diresse in fretta verso la porta. In un attimo percorse velocemente il corridoio e poi uscì con con un balzo in strada. Appena fu fuori si mise a correre. Non tanto per scappare dal Ringenhall Ladies’ College ma perché ogni volta che era felice ed eccitata correva: come Nike, la si vedeva sempre in movimento, con un solo piede poggiato a terra in uno svolazzo di drappeggi. Sotto il vestito, Annette portava due o tre sottogonne colorate e così quando correva, con il ven12


to di aprile che faceva del suo meglio per alzarla da terra, le sue lunghe gambe apparivano avvolte dal caleidoscopio di un turbinio di colori. Per due volte fece cadere i libri e dovette fermarsi a raccoglierli. Per tre volte superò qualcosa che la incuriosiva e dovette tornare indietro finché non scompariva dalla sua visuale. Annette non aveva mai avuto problemi a guardarsi intorno per strada e a voltarsi indietro. Suo padre le aveva detto che era infantile e la signorina Walpole che era indecoroso. Ma suo fratello Nicholas, che Annette ammirava più di chiunque altro al mondo, aveva detto: «Chi non si guarda indietro si perde sempre qualcosa». E non c’era nulla che lei e suo fratello temessero tanto quanto perdersi qualcosa. Suo padre si era fatto una risata e aveva citato Orfeo e la moglie di Lot. «Io mi sarei guardata indietro se fossi stata al loro posto» aveva detto Annette. «Le cose più interessanti succedono sempre alle spalle.» «Il problema con te» aveva detto il padre «è che vuoi sempre essere dappertutto nello stesso istante. Un giorno esploderai in tanti piccoli pezzi.» Stava iniziando a piovere. Annette arretrò in fretta all’angolo di Queen’s Gate per guardare un uomo di colore, poi si voltò e aumentò il passò verso Kensington High Street. Voleva andare a casa subito, cambiarsi ed essere pronta per dare la notizia a Rosa. «Ora sono io il capo» disse ad alta voce mentre superava Barker’s. Due signore di passaggio la fissarono sbigottite. Annette aveva gli occhi e la bocca spalancati e le sottogonne che roteavano come una girandola. Cercando di alzare i tacchi per galoppare come un cavallo, per poco non cadde lunga distesa.

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2

Al piano di sotto, una porta sbatté rumorosamente. «Mia sorella è un mostro!» gridò Hunter Keepe. Calvin Blick non era interessato alla sorella di Hunter, che ormai aveva una certa età. E per di più, era una donna florida; a Calvin, semmai, piacevano le donne dalle gambe lunghe, pallide e snelle, con i piedi piccolissimi. Si era seduto sul bordo della scrivania di Hunter e stava dondolando le gambe. Hunter detestava quella confidenza. «Deve proprio sedersi sulla mia scrivania?» chiese. «Non c’è altro posto su cui sedersi» disse Calvin imbronciato. Era vero: nella stanza non c’era altra sedia se non quella occupata da Hunter. «C’è il pavimento!» fece Hunter. Anche quello era vero. Calvin si distese a terra, nella posizione reclinata di un etrusco sulla tomba. Era un uomo alto, con occhi scialbi di cui nessuno ricordava mai il colore. «Deve proprio sdraiarsi così?» disse Hunter. Trovava quella postura ugualmente irritante. «Non le va bene nulla, signor Keepe» disse Calvin. «Dove dovrei mettermi?» «Potrebbe sedersi lì, con la schiena appoggiata al muro» disse Hunter. Calvin si mise nel punto indicato da Hunter. «Questa stanza è un porcile» disse. «Guardi quanta polvere ho già sui pantaloni!» «Non posso permettermi una donna delle pulizie» disse Hunter. «E Rosa non si metterebbe a pulire qui. E comunque, è in fabbrica ormai.» 14


«In che?» «In fabbrica» disse Hunter. «Non lo sapeva? È nato tutto perché ha preso il nome da Rosa Luxemburg. Non ha mai avuto una chance» disse con amarezza. «Oh, non sapevo» disse Calvin. «E che dire di me? Me la sono cavata bene.» «È una piccola fabbrica schifosa» disse Hunter. «Fanno rulli e spruzzatori per tinteggiare. Niente di eccitante.» «Be’, è utile» disse Calvin. «Siamo tutti produttori al giorno d’oggi, come dice Saint-Simon. Ma perché sua sorella va in fabbrica?» «Vuole essere a contatto con la Gente» disse Hunter con aria cupa «e rendere incolore la propria vita.» «Be’, per quello» disse Calvin «molti di noi ci riescono senza tanta fatica.» Voleva riportare la conversazione al punto da cui Hunter aveva deviato. «Mi dica, la rivista la fa qui?» «Sì» disse Hunter. «Questo è l’ufficio.» «Non mi sorprende che venda tre copie.» «Andiamo bene.» «Siete quasi in bancarotta» disse Calvin «e non capisco perché rifiuta la mia proposta. Non avrà altre offerte per il suo giornaletto da quattro soldi.» Calvin era stupefatto. Per tutto il colloquio, Hunter si era rivelato non del tutto irremovibile, ma apparentemente disinteressato. Continuava a piegare il capo come un cavallo imbronciato. Per qualche strano motivo Blick era convinto che il suo avversario non fosse un uomo forte. Non si aspettava quella resistenza, e non riusciva ancora a valutare la natura di quel giovane. «Non voglio vendere quello che definisce giornaletto da quattro soldi, né a lei né a nessun altro, ecco» disse, gettando all’indietro i lunghi capelli gialli. Hunter aveva ventisette anni e alcuni lo avrebbero definito «un bel ragazzo». Aveva un viso armonioso e un perenne sorriso sprezzante. La sua aria disordinata non faceva pensare a uno studente quanto piuttosto a un ragazzino. Assomigliava al padre, un pittore, anche lui biondo. Rosa invece aveva preso dalla madre, che aveva i capelli scuri e aveva fatto parte della Società Fabiana.   15


«Non è nemmeno suo, l’Artemis» disse Calvin. «Tecnicamente, appartiene a sua sorella, no?» «Oh, tecnicamente» disse Hunter «appartiene a un sacco di anziane signore che combatterono per i diritti delle donne intorno al 1910. Erano le prime azioniste, e molte di loro sono ancora attive, resistenti come vecchi scarponi. Quando nostra madre è morta, le sue azioni sono andate a Rosa. Gli uomini non possono avere azioni, sa, è nello statuto. Ma Rosa è solo un’azionista tra le tante.» «Quindi, in poche parole» disse Calvin «dovrebbero essere le azioniste a decidere cosa succede alla rivista.» «A loro non importa» disse Hunter. «Se ne sono dimenticate anni fa. Le azioni non valgono niente da anni. Indico una riunione degli azionisti agli intervalli convenuti, portando il resoconto e il bilancio d’esercizio, ma non viene mai nessuno. L’Artemis è cambiato così tanto negli ultimi vent’anni che quelle virago non lo riconoscerebbero più come il loro vecchio gazzettino delle suffragette. Sono io a decidere cosa succede ora. Sono io l’Artemis.» «E che ne pensa sua sorella?» chiese Calvin. «Oh, a Rosa non importa niente» disse Hunter piuttosto amareggiato. «Per quanto riguarda gli azionisti» disse Calvin «probabilmente sarebbero felici di vendere le quote. Dopotutto avrebbero un po’ di contante in cambio di azioni assolutamente prive di valore.» «Probabile» disse Hunter. «Quindi è solo lei che tiene in sospeso l’affare» disse Calvin «e quello che che non capisco è il perché? Non le piace nemmeno fare l’editor di quella rivista. Non ci guadagna un centesimo, e dall’aspetto di quest’ufficio si capisce che è solo una scocciatura.» «Non parli di “affare”» disse Hunter. «Non c’è nessun affare. Non ho intenzione di vendere l’Artemis, e questo è tutto. Ora, sia così gentile da andarsene.» Calvin si alzò fissandolo con aria infastidita. Non si sarebbe arreso così facilmente e di certo non era pronto ad andarsene prima di aver capito esattamente cos’aveva in testa Hunter. Era deciso a rimanere per il resto della giornata se fosse stato necessario. Si mise a camminare su e giù per la stanza, spostando con i piedi gli scatoloni, le pile di giornali e i vecchi numeri di Artemis che ingombravano il pavimento. 16


«La smetta» disse Hunter. «Solleva la polvere.» «Vuole vedere una fotografia di mia madre?» chiese Calvin. «Non mi interessa.» Calvin estrasse un fascio di foto dal taschino, poi mostrò a Hunter la prima. Era una ragazza ben fatta in calze nere e scarpe con il tacco alto. «Non male» disse Hunter. «E questa è sempre lei dopo essersi tinta i capelli» disse Calvin porgendogli una foto di una bionda che usciva dalla vasca da bagno. «Mi basta» disse Hunter. «E comunque, da dove le ha tirate fuori?» Girava voce che Calvin Blick facesse da solo tutte quelle foto. «Oh, dall’album di famiglia.» Raccolse le foto come fossero un mazzo di carte con un rapido gesto delle mani pallide e lentigginose. Calvin portava abitualmente vari anelli, ma non erano sempre gli stessi. Hunter l’aveva notato e lo disprezzava. Le sue mani erano sporche e le unghie tagliate male, a punta. I due si fissavano le mani a vicenda, disgustati. «Capisce» riprese Calvin «che a parte il denaro che sua sorella potrebbe ricevere per le azioni, a lei verrebbe offerta una certa somma, per la quale saremmo disposti a qualsiasi proposta ragionevole, come ricompensa per la cessione dei diritti editoriali. Ora, lei è una persona di mondo, signor Keepe, non un uomo socialmente poco introdotto come me.» «Lei ora non lo è più» disse Hunter con aria maligna. Fu felice di scoprire che riusciva a tenere il passo in quella gara di spirito. Si concentrò sui pantaloni con l’elastico di Calvin, un altro elemento degno di disprezzo. Eppure, aveva motivo di temere quell’uomo e sperava che se ne andasse. «Mi chiedo se si rende conto che sta digrignando rumorosamente i denti» disse Calvin. «Conoscevo un uomo che aveva digrignato i denti con tanta forza per così tanti anni da frantumarli fino alle gengive. È un sintomo nevrotico, naturalmente. Da qualche parte Freud aveva scritto...» «Senta, Blick» disse Hunter «il suo capo è già proprietario di tre giornali e Dio solo sa quanti periodici e ogni sorta di bestialità stampata. Perché mai vuole la mia disgraziata Artemis? Perché non la lascia perdere?» «La vuole e basta» disse Calvin. «Tutto qua. La vuole e basta.» «Be’, se la vuole, lasci che venga lui a chiederla» disse Hunter, spazientito. «Che venga di persona a discuterne, invece di mandare i suoi servi.» Calvin lo fissò. «Aha!» disse. Incominciava a capire.   17


In quel momento la porta dell’ufficio si aprì e Annette entrò come un piccolo tornado. In un balzo, raggiunse la scrivania di Hunter dove si appollaiò, e la gonna ricadde in drappeggi multicolori sopra le carte mentre rannicchiava le gambe come chi cerca rifugio su una roccia. «Oh, Hunter» gridò Annette. «Senti! Ho lasciato l’orribile Ringenhall.» «Annette!» gridò Hunter. «Quante volte ti devo dire di non entrare in ufficio senza bussare? Sono in riunione, devi andartene!» Annette notò Calvin e scese subito dalla scrivania. Ma era troppo tardi. Calvin si era alzato di scatto e le disse: «Aspetti, non se ne vada. Non siamo ancora stati presentati». Osservava Annette con evidente interesse. Hunter era furioso. «Lei è Annette Cockeyne» borbottò «lui è Calvin Blick.» Annette fece un grazioso inchino a Calvin e gli porse la mano. Il nome non le diceva granché, tuttavia sfoderò il suo più bel sorriso rivelando a poco a poco i piccoli denti bianchi che le illuminavano il volto. Erano disposti in un arco così perfetto che quando sorrideva li rivelava pian piano, finché il sorriso non si allargava su tutto il volto. «Enchantée» disse Annette. «Non potevo sbagliarmi. La somiglianza con sua madre è impressionante.» «Conosce mia madre?» disse Annette. Non era sorpresa. L’Europa era piena di uomini che conoscevano sua madre. «Ho avuto l’onore di incontrarla» rispose Calvin. Teneva i piedi perfettamente uniti e si era messo quasi sull’attenti prestando tutta la sua attenzione ad Annette. L’atteggiamento incurante di poco prima era scomparso. «Se ne vada!» gridò Hunter. «Posso chiederle se sua madre è a Londra?» le chiese trascurando le proteste di Hunter. «No, è ancora con Andrew in Turchia.» Da sempre Annette chiamava per nome i suoi genitori. «Lei vive a Londra, Annette? Ma posso chiamarla Annette?» «Blick, potrebbe andarsene?» disse Hunter. «Non essere scortese, Hunter. Cosa ti succede? Resto a Londra per quest’anno. Andavo a scuola qui, sa. Fino a oggi, diciamo.» «Dove abita?» chiese Calvin. 18


Hunter andò alla scrivania e sbuffando prese a rimettere in ordine le carte. «Be’, abito qui» disse Annette «con Hunter e Rosa. Conosce anche Rosa?» «Ho l’onore di conoscerla, sì» disse Calvin. Poi, con aria maliziosa ad Hunter: «Vedo che mi ha tenuto all’oscuro di tantissime cose!». Si voltò nuovamente verso Annette e con un sorriso compiaciuto le chiese: «Mi racconti della sua scuola. Cos’è questa storia che l’ha lasciata?» «Sì, è stato fantastico» disse Annette. «Ho preso e me ne sono andata!» «Perché?» chiese Calvin, squadrando Annette da capo a piedi. Notò con piacere il pallore del viso e le lunghe gambe lisce color panna. Secondo Calvin la pelle di una donna doveva avere un colore uniforme. «Non imparavo niente» disse Annette. «Ho deciso che d’ora in poi sarò io a educare me stessa. Me ne andrò alla Scuola della Vita.» Calvin rise. «Ben fatto!» disse. «Confido di vederla di tanto in tanto nel corso dei suoi studi!» «Deve andare adesso, Blick!» ripeté Hunter alzandosi. «Smettila Hunter. Dov’è Rosa?» chiese Annette. «È passata a trovare il dottor Saward. E poi andava in fabbrica» rispose Hunter. «A che ora torna? Chissà se faccio in tempo ad andare a trovare Nina.» «Oggi torna presto» disse Hunter. «Be’, allora andrò da Nina domani mattina. Voglio vedere Rosa appena torna.» «Parla di Nina la sarta?» chiese Calvin, con gli occhi che brillavano come due conchiglie bagnate dal mare. «Sì» disse Annette. «La...» «Andate via!» gridò Hunter, lanciando i fogli in aria. Una nuvola di polvere ricadde su tutti e tre. Annette si mise a starnutire. «Fuori di qui!» gridò ancora Hunter, spingendo Calvin verso la porta. Calvin non oppose resistenza e se ne andò e lo si sentiva ridere e starnutire mentre scendeva le scale. Hunter guardò Annette esasperato. Era affezionato a quella ragazza, ma come aveva detto a Rosa quando gli aveva proposto di accogliere Annette da loro, pensava che molto probabilmente avrebbe combinato dei guai; e a prescindere dalle altre preoccupazioni, la notizia che aveva abbandonato la scuola non lo rendeva certo felice. Ora ci siamo! pensò Hunter, alzando lo sguardo sulla ragazzina con aria sconfortata.   19


«Aspetta che Rosa sappia che stai cercando di lasciare Ringenhall!» disse. Annette impallidì lievemente. «A Rosa non dispiacerà affatto!» disse in tono di sfida. Era proprio ciò che Hunter temeva. Si strinse nelle spalle. «Adesso vai. Ho da fare.» «Cosa intendeva quell’uomo quando ha detto che lo tenevi all’oscuro di molte cose?» «Non ne ho la più pallida idea» rispose Hunter. «Vai via adesso, fammi il piacere, via!» E mentre la porta si richiudeva alle spalle di Annette, Hunter ripeté a se stesso: «Sì, sì, ora ci siamo».

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