Lucilla Albano
Il divano di Freud Mahler, l’Uomo dei Lupi, Hilda Doolittle e altri I pazienti raccontano il fondatore della psicoanalisi
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Il divano di Freud
Che cosa può significare: dire di più di quanto si sa? S. Freud, Il problema dell’analisi condotta da non medici
Così le mie Memorie, sebbene mi sforzassi di renderle concise al massimo, sono diventate più voluminose di quanto avrei voluto in origine. Si possono quasi definire un breve romanzo familiare. da una lettera dell’Uomo dei
Lupi
You Freud, Me Jane? da
Marnie di Alfred Hitchcock
Sommario
Introduzione
9
Ringraziamenti
25
Wilhelm Stekel (1868-1940)
27
Bruno Walter (1876-1962)
30
Gustav Mahler (1860-1911)
34
L’Uomo dei Lupi (1887-1972)
39
Helene Deutsch (1884-1982)
59
Adolph Stern (1879-1958)
66
Raymond de Saussure (1894-1971)
71
James Strachey (1887-1967)
73
Anna Guggenbühl (1894-1982)
76
Abram Kardiner (1891-1981)
96
Ernst Blum (1892-1981)
117
Joan Rivière (1883-1962)
140
Roger E. Money-Kyrle (1898-1980)
142
Maryse Choisy (1903-1979)
147
Marie Bonaparte (1882-1962)
155
Smiley Blanton (1882-1966)
158
Theodor Reik (1888-1969)
171
Roy R. Grinker (1900-1993)
190
H.(ilda) D.(oolittle) (1886-1961)
194
Joseph Wortis (1906-1995)
209
Heinz Hartmann (1894-1970)
239
Appendice
247
Note
261
Indice dei nomi dei pazienti citati
279
Introduzione
Quando, nel 1920, Wilfrid Lay scrive a Vienna al Professor Freud chiedendogli quale è il modo migliore per comprendere più a fondo la psicoanalisi, Freud gli risponde: «L’analisi personale è forse l’unica cosa che posso offrirLe»,1 e conclude spiegandogli che, contrariamente ai suoi propositi, era obbligato a trattare gli studiosi allo stesso modo dei pazienti, e che il suo onorario era di 10 dollari l’ora. Aggiungeva inoltre che non era disposto ad accettare nessuno per meno di tre mesi. Wilfrid Lay, psicoanalista americano del quale sappiamo oggi ben poco, neppure se venne effettivamente analizzato da Freud, fu uno tra i tanti – proprio a partire da quell’anno, che vide l’inizio di un flusso ininterrotto di richieste da parte di allievi – a scrivere al maestro di Vienna, esprimendo il desiderio di entrare in analisi con lui. Nel 1938, quando Freud era ormai alla fine della sua vita e già in esilio a Londra, l’amico Stefan Zweig andò a fargli visita insieme a Salvador Dalí (che ne dipinse un ritratto) e al giovane poeta Edward James, che intendeva candidarsi per l’analisi. A Zweig, dopo questa visita, Freud scriverà: «... Quanto all’altro Suo visitatore, il candidato, sono incline a porgli qualche difficoltà, in modo da mettere alla prova la forza del suo desiderio...».2 La forza di questo desiderio Freud l’aveva d’altra parte già sperimentata, negli anni precedenti, in tutti quei pazienti che avevano rifiutato di andare in analisi da altri psicoanalisti, che avevano pazientemente atteso anche per anni il loro turno, che spesero tutti i loro risparmi per pagarsi le sedute, o che soffrirono gravemente, come Victor Tausk e Wilhelm Reich, per il rifiuto che Freud oppose a una loro analisi con lui.
10 Il divano di Freud
Il desiderio di «essere in analisi con Freud» è, ancora oggi, una delle prime e prepotenti fantasie che possono affacciarsi alla mente quando si è in analisi da uno psicoanalista freudiano, fantasia dietro cui forse si cela, subdolamente, anche una forma di resistenza alla terapia analitica. L’immagine di Freud è quella di un grande padre e di un grande sapiente, che miracolosamente e magicamente risolve paure, fobie, sofferenze e nevrosi e che trasmette scienza, potenza e autonomia intellettuale. «Al che Freud disse ridendo – all’amica e allieva Lou Andreas-Salomé –: “Io credo che Lei consideri la psicoanalisi come una sorta di distribuzione di strenne natalizie!”.»3 Naturalmente più che di «strenne natalizie» si tratta di una fantasia – cioè il bisogno di affidarsi a una figura paterna potente e idealizzata – comune non solo a molti pazienti, ma anche a tutti quelli interessati, oltre che alla terapia personale, alla psicoanalisi come scienza, alla sua storia e alle sue teorie. Il desiderio di «essere in analisi con Freud» rimanda infatti a quell’inizio mitico della psicoanalisi non così lontano: in fondo poco più di un secolo ci separa dai primi pazienti che si distesero sul primo divano psicoanalitico per cominciare la loro talking cure. «Dunque si tratta di una specie di magia. Lei parla e ogni male dilegua.»4� Certo, se non proprio dalla magia faustiana, questa fantasia non è poi tanto diversa dal meccanismo infantile che ci spinge a riconoscere, negli adulti che ci attorniano, i protagonisti onnipotenti delle favole più amate (Sigmund Freud come Mago Merlino e come Peter Pan?), o ci induce a far rivivere i morti, come se il tempo non fosse passato, oppure a trasformare il buio in luce e la notte in giorno, ad animare ciò che è inanimato, o a rendere umano ciò che è solo animale. A trovare insomma una «scorciatoia» regressiva a quel «lavoro lungo e faticoso» che, come «l’esperienza ci ha insegnato»,5� scrive Freud, è la terapia psicoanalitica. Se dunque l’analisi, nella sua realtà lunga, faticosa, ma efficace, fa poi smettere di sognare e di desiderare di essere in analisi con Freud, per cercare semplicemente di «fare la propria analisi», questa antologia – che raccoglie i ricordi di diversi pazienti di Freud, di coloro cioè che furono realmente in analisi con lui – è un modo per concretizzare quella fantasia, per renderla un po’ più vera delle «cose vere» che sono le immagini dei nostri sogni.6
Introduzione 11
Sono ricordi, memorie, diari, aneddoti, pagine autobiografiche e considerazioni storiche e teoriche che documentano il lavoro di Freud come psicoanalista dal 1902 al 1935 (alle cui introduzioni rimando per saperne di più) e dipingono un quadro, seppure parziale e soggettivo, non solo di Freud, all’opera con quel fondamentale «rapporto» della sua vita che fu la relazione analitica, ma anche della nascita di una scienza e di un movimento – in particolare quello delle Società Psicoanalitiche – che si andarono diffondendo in tutto il mondo. Infatti la maggior parte delle testimonianze proviene non da semplici pazienti, ma da allievi di Freud, che andavano in analisi didattica per diventare a loro volta degli psicoanalisti. Dipingono anche il quadro di un’epoca eroica in cui, insieme all’invenzione della psicoanalisi e al progredire della sua pratica terapeutica, l’Impero austro-ungarico moriva, mentre – sotto il peso di un’inaudita e terribile violenza – iniziava a nascere un altro mondo: il mondo della guerra, del fascismo e del nazismo. Rispetto alla prima edizione di questo libro, pubblicata nel 1987, oggi sono accessibili molti più documenti, testimonianze, lettere, diari allora sconosciuti. Inoltre disponiamo di più nomi e di più notizie a proposito dei pazienti di Freud. Non solo, infatti, si sono verificati fortunosi ritrovamenti, ma hanno avuto la possibilità di essere pubblicati o messi a disposizione degli studiosi una serie di documenti – lettere e interviste innanzitutto – grazie al lavoro di ricerca di Kurt Eissler e recentemente di Harold P. Blum: custodi e depositari, oltre che direttori, dei Sigmund Freud Archives alla Library of Congress a Washington. Nel frattempo sono stati pubblicati e, in parte, tradotti in italiano, altri libri che si sono occupati di tale importante questione relativa alla storia, alla teoria e alla clinica della psicoanalisi. E così tra illazioni, congetture, resoconti,7 evidenze scientifiche, pettegolezzi, dubbi e convinzioni – il cui accumulo non sempre ha giovato all’approfondimento e alla chiarezza – diversi studiosi e storici della psicoanalisi ritengono abbastanza certe le testimonianze che sono in grado di fornire in merito alla pratica clinica del maestro di Vienna. Anche se la possibilità di raggiungere una simile certezza è stata messa in dubbio dallo stesso Freud: «Resta purtroppo il fatto che nessuna descrizione di analisi può riprodurre le impressioni che si provano svolgendo l’analisi stessa, e che una convinzione definitiva non può mai essere ottenuta con la lettura, ma solo mediante un’effettiva esperienza».8
12 Il divano di Freud
I pazienti di Freud furono uomini e donne di diversa età, nazionalità, religione e formazione, che con coraggio, lungimiranza e anticonformismo, superando grandi difficoltà economiche e pratiche, trasferendosi da paesi lontani, come gli Stati Uniti, rischiavano la loro reputazione e le loro carriere per «andare in analisi da Freud». Oppure, come ricorda Abram Kardiner, confidavano in una «carriera emozionante» e si contrapponevano ai dettami sociali, culturali e scientifici dell’epoca per «andare a Vienna a studiare con il Professor Freud». Dopo la fine della Prima guerra mondiale Freud divenne il centro di tutto l’insegnamento psicoanalitico. Come Franz Alexander racconta, il fondatore della psicoanalisi «conosceva quasi tutti i giovani promettenti analisti in Europa e aveva per loro un grande interesse personale. Andare a Vienna al n. 19 della Berggasse per avere un colloquio con Freud era una procedura comune sia a chi insegnava, sia a chi apprendeva la psicoanalisi».9 C’è chi può scrivere, raccontando la propria esperienza personale, come fa Jeanne Lampl-de Groot: «Cominciai la mia analisi nel 1922. Il mio analista era Sigmund Freud».10 O come Hilda Doolittle, in analisi nel 1933: «... E ora c’è un dottore che se ne sta seduto dietro al divano dove sono distesa. È un dottore molto famoso. Si chiama Sigmund Freud».11� «Sono oggi ben poche – scrive Kardiner, in analisi nel 1921 – le persone che hanno avuto il privilegio di un’analisi personale con Freud.»12� Esperienza unica, avventura intensa e irripetibile, così come era in qualche modo irripetibile all’esterno, difficilmente raccontabile, il rapporto analitico. «Non sono in grado – osserva Freud – di scrivere la storia del mio paziente né dal punto di vista puramente cronologico né da quello puramente tematico; non posso fornire né la sola storia del trattamento né la sola storia della malattia; mi vedo quindi costretto a fondere i due sistemi di esposizione. È noto che non s’è ancora trovato il modo di trasmettere al resoconto di un’analisi la forza persuasiva che emana dall’analisi stessa. Né servirebbe a questo scopo la redazione di verbali esaustivi di quel che accade durante le sedute; comunque tale procedimento non è compatibile con le regole tecniche del trattamento.» E più avanti: «Descrivere fasi così primordiali e strati così profondi della vita psichica è un’impresa in cui nessuno prima d’ora s’era mai cimentato...».13 E ancora, in un altro testo, parlando del procedimento delle associazioni libere: «Esattamente al contrario di quel che accade col trattamento ipnotico o con quello di
Introduzione 13
sollecitazione, cose appartenenti allo stesso contesto si presentano in epoche e stadi differenti del trattamento. Ciò fa sì che un eventuale ascoltatore estraneo – che nella realtà non può essere assolutamente ammesso alle sedute – non comprenderebbe nulla della cura analitica».14 Ciò che con queste parole Freud stabilisce sono i limiti – la difficoltà di trasmettere la «forza persuasiva» dell’esperienza analitica, o l’impossibilità, per un osservatore esterno, di comprendere la cura – le regole – il fondere i vari sistemi di esposizione senza però avvalersi di «verbali esaustivi», lasciando cioè che il resoconto proceda dal ricordo di quella che è stata «l’attenzione fluttuante» dello psicoanalista – e infine le novità – mai nessuno prima aveva descritto «strati così profondi della vita psichica» – di un nuovo «genere letterario» (se così si può dire) e di inedite «strategie narrative»:15 quelle del «romanzo terapeutico»16 e del «caso clinico». Freud stesso ci ha dato dei magistrali esempi di questo nuovo «genere» con i suoi famosi cinque casi clinici: Dora, il piccolo Hans, il caso Schreber, l’Uomo dei Topi e l’Uomo dei Lupi. Rispetto a questi casi raccontati da Freud, le memorie dei suoi pazienti e allievi rappresentano l’altra faccia della luna, ovvero l’altra faccia della storia e dell’esperienza. Se ha senso parlare di una corrispondenza poetica tra l’arte di curare e l’arte di narrare (come osserva Hillman e come i casi clinici pubblicati da Freud dimostrano), esiste forse anche una corrispondenza tra l’«arte di guarire» – disponendosi a una imprevista costruzione della propria storia da parte di qualcun altro (da Freud, nell’esempio) – e l’arte, il desiderio, di raccontare di nuovo, ancora una volta, questa storia. Sfidando in tal modo sia il divieto – di trascrivere le proprie sedute – che l’impossibilità di fare partecipi altri della propria esperienza analitica. Esperienza che, in questo caso, non si configura tanto come resoconto clinico e «romanzo terapeutico», quanto come reperto storico, come testimonianza, come memoria di un evento straordinario di cui tutti, pazienti e allievi, sono perfettamente consapevoli. E infatti se c’è un punto comune, di pari intensità, fra tutte queste testimonianze, è l’emozione dell’incontro con Freud: incontro con un genio, con un uomo che già al primo impatto appare in tutta la sua grandezza scientifica e umana. Ciò non toglie che – sebbene sia legittimo considerare queste memorie all’interno di uno stesso genere – sfumature, varietà o differenze tra l’una e l’altra sono a volte notevoli: dal «romanzo familiare e intimo» (Abram Kardiner,
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Theodor Reik, Hilda Doolittle) alle memorie autobiografiche (Wilhelm Stekel, Bruno Walter, l’Uomo dei Lupi, Helene Deutsch), dal diario seduta per seduta (Smiley Blanton, Joseph Wortis, Ernst Blum e Anna Guggenbühl) al ricordo en poète (Maryse Choisy), dall’esperienza scientifica (Adolph Stern, Roy Grinker) alla riflessione teorica (Raymond de Saussure, Heinz Hartmann). Nella ricchezza e varietà di tutti questi motivi, quella che se mai manca – per autocensura, forse, o perché queste memorie, appartenendo per lo più ad allievi, risentono di un particolare freno – è la forza sconvolgente del caso clinico, è l’emozione della conoscenza intima di un mondo psichico. In certi casi, infatti, si procede più per aneddoti sulla personalità e il pensiero di Freud che per introspezioni e svelamenti analitici. Cosicché il piacere regressivo dell’incontro con il genio, con il grande uomo fondatore di una nuova epistemologia, vanifica a volte lo spessore soggettivo e fenomenologico di queste testimonianze, le quali, va detto, sono quasi tutte state scritte per un pubblico e perché sono analisi con Freud. Qui non si tratta infatti di «scandalistici» racconti sulla propria analisi, come è stata giudicata, suo malgrado, la descrizione fattane dallo psicoanalista Tilmann Moser nei primi anni settanta;17 tutt’al più – come nel caso, ma è l’unico, di Joseph Wortis – di «scandalistici» ritratti di Freud e della psicoanalisi. Questi ricordi hanno quindi più un valore storico e biografico che psicoanalitico. Alcuni infatti si trovano all’interno di autobiografie di personaggi notevoli – come Bruno Walter, Helene Deutsch o Theodor Reik – in scritti che hanno un valore e un interesse indipendentemente dal fatto che si parli anche dell’analisi con Freud. Date le idee di Freud sulla scelta dei pazienti – a cui accenneremo nell’introduzione a Walter e a Mahler – dei venticinque finora conosciuti che hanno lasciato un ricordo della loro analisi con Freud (Wilhelm Stekel, Bruno Walter, Albert Hirst, Gustav Mahler, l’Uomo dei Lupi, Helene Deutsch, Adolph Stern, Raymond de Saussure, James e Alix Strachey, Abram Kardiner, Joan Rivière, Jeanne Lampl-de Groot, Roger Money-Kyrle, Ernst Blum, Maryse Choisy, Anna Guggenbühl, Marie Bonaparte, Medard Boss, Smiley Blanton, Theodor Reik, Roy R. Grinker, Hilda Doolittle, Joseph Wortis, Heinz Hartmann, John M. Dorsey) non è un caso che molti siano persone di grande valore, il cui nome è noto anche al di là dell’ambito strettamente psicoanalitico: per esempio Stekel,
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Walter, Mahler, Deutsch, de Saussure, Kardiner, Money-Kyrle, Strachey, Choisy, Bonaparte, Reik e Hartmann. Inoltre Sergej Pankejeff è proprio per la sua analisi con Freud che è diventato famoso, con il nome di «Uomo dei Lupi». Ed è leggendo quanto di questa analisi Freud scriverà a Ferenczi (cioè che all’inizio della prima seduta il paziente gli offre di avere rapporti anali e poi di defecargli in testa) che salta agli occhi con evidenza lo iato che ci può essere tra il resoconto pubblico di un’analisi, tramandato ai posteri (quel tono pacato, quasi idilliaco, dei Ricordi dell’Uomo dei Lupi) e ciò che l’analisi è nella sua dimensione intima, privata e profonda. Il rapporto analitico infatti può sempre «raccontare» quattro storie: dalla prima, la più segreta, dipendono le altre tre ed è la storia che il paziente racconta all’analista durante l’analisi. La seconda è quella che viene costruita in analisi, ascoltando le formazioni dell’inconscio del paziente. «Fra paziente e analista non accade nulla, se non che parlano tra loro. [...] L’analista riceve il malato in una data ora del giorno e lo lascia parlare, lo sta ad ascoltare, poi gli parla a sua volta ed è l’ammalato che ascolta. [...] Parole, parole e ancor sempre parole, come dice Amleto.»18 La terza storia è quella che emerge dalla stesura del caso clinico da parte dello psicoanalista. E la quarta, la storia meno praticata e meno studiata, è quella che il paziente racconta a partire dalla sua prima storia ricostruita nella seconda, ma è anche quella che si avvicina maggiormente, pur come un’ombra scolorita, addolcita e spurgata, alla prima storia segreta, risentendo degli ulteriori effetti di ricostruzione che – anche quando la relazione analitica è chiusa – il lavoro dell’inconscio continua a produrre per azione differita (Nachträglichkeit). Tutte e quattro queste storie sono infine figlie della quota d’infinito che caratterizza il tipo di sapere evocato in analisi. Mentre le prime due storie esistono solo all’interno della relazione analitica e sono storie orali, il cui statuto di esistenza si basa proprio sull’espressione verbale, le ultime due esistono invece solo in quanto vengono scritte e quindi rese pubbliche, e si pongono al di fuori e separatamente dalla relazione analitica. Si può dire che in questa antologia sono raccolte molte possibili forme disomogenee tra loro – alcune sono dei libri, altre sono soltanto poche righe – di questa «quarta storia». Cosa ne viene fuori, allora, del «nodo», del «punto centrale» di tutte queste «quarte storie», e cioè della pratica terapeutica di Freud, del suo modo di condurre l’analisi, del rap-
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porto che instaura con il paziente? Molti sono stati gli studiosi e gli psicoanalisti che hanno cercato di definire e rintracciare la tecnica analitica di Freud,19 sia attraverso i suoi scritti, sia attraverso interviste e testimonianze, come quelle qui pubblicate, di ex pazienti. E infatti nelle pagine antologizzate – pur con i limiti già rilevati – sono ben evidenziate alcune delle caratteristiche di Freud psicoanalista: i suoi interessi più teorici che terapeutici, i suoi forti sentimenti di controtransfert sia positivi che negativi, e i suoi «errori» – giustamente sottolineati in alcune di queste testimonianze –, di cui Freud era ben consapevole. Poi la sua grande libertà, che consisteva sia in un atteggiamento di continua scoperta e invenzione, sia nel rifiuto di pregiudizi, generalizzazioni, imposizioni o moralismi. Inoltre il rispetto costante dell’unicità e della singolarità dell’analizzando. Infine, il suo comportamento «non ortodosso»: per esempio poteva diventare molto loquace durante le sedute, invitare i pazienti a prendere il tè, portarli con sé in vacanza, curarli gratis o addirittura prestare loro del denaro. E soprattutto, il fatto forse più eterodosso, analizzava madri e figli, mogli e mariti, amici e coinquilini o addirittura la propria figlia, Anna. Era invece molto fedele a certe regole «esterne» del setting analitico: la puntualità, la regolarità, la durata, il luogo e la posizione della seduta. Nemmeno le barricate dell’insurrezione socialista del 1934, racconta Roy R. Grinker, furono un valido motivo per arrivare in ritardo o per saltare delle sedute di analisi. Lo spazio e il tempo nei quali, per la prima volta, venivano pronunciate le parole più libere, i desideri più proibiti, la sincerità più dissacrante e l’esplorazione più coraggiosa, dovevano essere regolati da una ferrea disciplina. In realtà: se su un piano teorico Freud poteva dichiarare che la tecnica analitica consisteva essenzialmente nel favorire il superamento delle resistenze e nell’analizzare il transfert attraverso l’interpretazione dei sogni e le libere associazioni, sul piano dell’esperienza Freud psicoanalista agiva in modo diverso a seconda di chi si trovava di fronte. Come sostiene Kardiner nella prefazione al racconto della sua analisi, Freud «non trattava tutti allo stesso modo»; e rivelare la sua tecnica vuol dire farlo sempre rispetto «a un singolo caso». È a una lettera, scritta nel 1961 dalla poetessa H.D. (Hilda Doolittle) che si deve una riflessione illuminante su questo atteggiamento insieme teorico e terapeutico di Freud: «... Naturalmente, come diceva il Professore: “C’è sempre qualcosa di più da scoprire”.
Introduzione 17
Io provai l’impressione che stesse parlando per se stesso (in un momento informale, mentre stavo per andarmene). Era quasi come se qualcosa che avevo detto fosse nuovo, che lui stesso riteneva che io fossi una nuova esperienza. Deve aver pensato la stessa cosa di ognuno, però io avvertii la sua gioia personale, io ero nuova. Anche ogni altro era nuovo, ogni sogno e ogni associazione onirica erano nuovi. Dopo tutti quegli anni di ricerca paziente e incessante, tutto era nuovo».20 Abbastanza giustamente due psicoanalisti – Luciana Nissim Momigliano in una conferenza dal titolo Una stagione a Vienna21 e Johannes Cremerius in un capitolo del suo libro, già citato, dedicato a «Freud al lavoro: uno sguardo al di sopra della sua spalla» – osservano che Freud aveva una «scarsa considerazione» e un atteggiamento «negligente» e «riduttivo» riguardo all’interpretazione del transfert e del controtransfert. Cremerius afferma che questo è particolarmente evidente nelle testimonianze di Kardiner, di Hilda Doolittle e di Money-Kyrle. Se mi è permessa però una piccola notazione a proposito della testimonianza di Money-Kyrle (qui antologizzata), in realtà Cremerius incorre in una svista: Money-Kyrle infatti non dice «che Freud partiva tanto raramente dall’interpretazione della traslazione, che può ricordare solo due circostanze in proposito»,22 ma afferma il contrario, e cioè che «solo occasionalmente [Freud] si allontanava dalle interpretazioni del transfert. Ma ciò era così raro che mi vengono alla mente soltanto due esempi...», che sono, è vero, due esempi di negligenza e scarsa considerazione del transfert. Uno è effettivamente un po’ grave, non c’è che dire: si era messo a spiegare a Money-Kyrle la scena primaria prendendo «un po’» di materiale dall’analisi di un’altra paziente. L’altro era invece usuale in Freud: ogni tanto gli capitava di portare i suoi pazienti nella stanza attigua ad ammirare la sua collezione di statuette greche ed egiziane, approfittandone per riflettere sull’analogia tra i reperti archeologici e l’inconscio (ciò avviene anche con Kardiner e Hilda Doolittle). Come ha osservato Hartmann, in analisi nel 1935: «Freud analizzava in un modo molto libero, molto più libero di quanto facciamo oggi. Parlava più liberamente di quanto noi parleremmo con i nostri allievi. Era assolutamente disposto a trattarmi come un collega e se c’era un problema a cui io ero interessato esprimeva le sue opinioni. Era sempre dell’idea che in fondo sapeva fino a che punto poteva o non poteva spingersi, e probabilmente aveva ragione, e ciò che diceva e faceva non significava
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sempre che quella fosse la tecnica che ogni analista doveva adottare». C’è da considerare, quindi, che Freud aveva un comportamento diverso con i pazienti e con gli allievi. Quello che faceva con un allievo probabilmente non l’avrebbe fatto con un paziente, perciò lo sforzo per coglierlo nel vivo del suo lavoro di psicoanalista è limitato proprio dal tipo di testimonianze, quasi esclusivamente di allievi. Inoltre Freud aveva fretta, fretta di sperimentare e di imparare, nelle sue analisi, il più possibile: «... Solo pochi pazienti meritano le fatiche che dedichiamo loro. Non dobbiamo quindi neanche assumere una posizione terapeutica, ma essere contenti di aver imparato una cosa qualsiasi da ogni singolo caso».23 C’è inoltre forse un’altra considerazione da fare rispetto a una certa ambivalenza della prassi freudiana, non solo rispetto a una eventuale dicotomia allievi/pazienti, ma anche nei confronti di quella, sempre ipotetica, tra pazienti o allievi ebrei e quelli non ebrei; tra coloro verso cui sentiva una naturale empatia e affinità, anche sul piano culturale, oppure no; e poi il fatto di dover praticare l’analisi con allievi/pazienti inglesi o americani in una lingua conosciuta, ma non sua;24 infine la differenza che deve aver subìto l’analisi tra il prima e il dopo l’apparizione del cancro alla mascella: malattia che, a partire dal 1923, si è abbattuta come una vera «catastrofe» sulla sua possibilità di esprimersi liberamente.25 Così, è impossibile dedurre dalle varie testimonianze di analisi con Freud un modello univoco di trattamento. Infatti se Joan Rivière dice: «Ma, che si fosse in analisi o no, il suo interesse, a scapito di tutte le proibizioni preliminari e indispensabili, restava curiosamente impersonale. Si aveva sempre l’impressione di una certa riserva, dissimulata dietro questo ardente interesse, come se non fosse per lui stesso che desiderava comprendere le cose, ma in vista di uno scopo situato all’esterno»;26 nelle considerazioni del curatore del diario analitico di Ernst Blum (analisi avvenuta nello stesso anno di quella di Rivière), si legge invece che: «Il desiderio di Freud in questa analisi fu sempre chiaramente orientato a raggiungere una reciproca sintonia nel dialogo. L’atmosfera della relazione era determinata da una partecipazione attenta e da un’affettuosa presenza di Freud, che faceva sentire l’analizzando a proprio agio in una relazione priva di ambivalenza. Il processo analitico abbozzato da Blum si basava, dunque, su un comune sistema di valori e di convinzioni e si nutriva dell’identificazione reciproca: Freud, con la propria forza visionaria, dava le integrazioni o aggiunte adeguate a Blum come interpretazioni».27
Introduzione 19
Quella sua «spontanea noncuranza nella conduzione del processo analitico», come scrive Cremerius, Freud non l’avrebbe mai dettata tra le regole tecniche dell’analisi, né l’avrebbe scritta tra i Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico. Come i seguaci di Freud amavano ripetere: «Quod licet Iovi, non licet bovi». Non si spiegherebbero altrimenti alcuni «errori» che Freud commetteva, pur sapendo di commetterli, dato che aveva ripetutamente detto e scritto che erano, in termini tecnici, degli errori. Ma, come dice Hartmann, Freud si considerava al di sopra della tecnica e «in certi casi» – è Reik a scriverlo, in analisi con Freud nel 1931 – «spesso a causa di motivi esterni come, ad esempio, l’urgenza dei tempi, ma più spesso a causa di alcuni fattori nella situazione emozionale del paziente, sarà necessario produrre uno shock psichico». Mentre per se stesso sentiva di poter agire liberamente, Freud aveva un’estrema necessità di arrivare a stabilire delle regole rigide e dei controlli severi nei confronti degli altri psicoanalisti, soprattutto per controllare e arginare il controtransfert, tema scottante, di cui Freud, all’inizio, non osava neppure parlare pubblicamente, come testimonia una lettera del 31 dicembre 1911 a Jung: «... Non dobbiamo mai permettere che i poveri nevrotici ci facciano impazzire. L’articolo sulla “controtraslazione”, che mi sembra necessario, non dovrebbe essere stampato, bensì circolare tra noi in copie».28 Nei suoi Consigli Freud parla invece di «neutralità», dell’analista come «specchio opaco» e dell’analisi come «operazione chirurgica». Certo è che il suo comportamento non aveva nulla a che fare con quello di uno «specchio» neutro e anonimo, se non con chi non riusciva a interessarlo. Allora si trincerava dietro la cosiddetta «tecnica», come era capitato a James Strachey e a John Rickman, con cui non parlava mai o con cui addirittura si addormentava, come testimonia Kardiner (mentre a Blanton aveva dichiarato che non gli era mai capitato di addormentarsi durante un’ora analitica).29 Fuoco e fiamme invece, curiosità, aggressività, tenerezza, rabbia e amore, questi erano i sentimenti che, dichiarati e lampanti, venivano fuori con i pazienti che lo interessavano e che amava (come Marie Bonaparte e Hilda Doolittle) o che detestava (come Joseph Wortis). Così, da una parte, avviene che Strachey e Rickman instaurino una scuola inglese dove lo psicoanalista è freddo e non parla mai; dall’altra che una psicoanalista come Marie Bonaparte sia partecipe, calda e loquace, ospiti i suoi
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pazienti, vada con loro in vacanza, li aiuti economicamente e si occupi attivamente dei loro problemi. Tutti sentendosi ugualmente «freudiani», cioè comportandosi come Freud si era comportato con loro. Indicative, da questo punto di vista, sono le considerazioni di Polhen – il curatore del diario di Blum, paziente-allievo, in cui sembra che Freud avesse riposto molte speranze –, il quale sostiene che la scuola statunitense postfreudiana ha ridotto e annullato la pratica terapeutica di Freud a un approccio neutro, silenzioso e un po’ asettico. Con la prima delle testimonianze raccolte, quella di Wilhelm Stekel, analizzato da Freud nel 1902, si respira ancora aria di pionierismo, di lotta e di avventura; con Bruno Walter e con l’Uomo dei Lupi – che scelsero, un po’ per caso e un po’ per esclusione, di farsi curare da Freud, rispettivamente nel 1904 e nel 1910 – vi è sì la coscienza dell’efficacia terapeutica e del nuovo approccio clinico praticato da Freud, ma non ancora la consapevolezza della grande scoperta della psicoanalisi. Con Helene Deutsch invece, in analisi nel 1918, troviamo un Freud ormai famoso e una paziente e allieva ormai pienamente consapevole della «rivoluzione freudiana» e che a questa «rivoluzione» vuole partecipare in prima persona. Tra l’inizio del secolo e la fine della Prima guerra mondiale, tra le prime pazienti isteriche e l’arrivo dei primi allievi, si ha proprio il senso del progredire della storia, la percezione dello sviluppo e del cambiamento sia nel lavoro di Freud che nell’organizzazione della psicoanalisi. Infatti – leggendo cronologicamente queste testimonianze e ricostruendo nell’appendice, parzialmente, una «mappa»30 dei pazienti e degli allievi formati da Freud, oltre a indicazioni o questioni di tipo clinico e teorico – si affacciano interrogativi e ipotesi di storia della psicoanalisi.31 E questi interrogativi riguardano soprattutto le scelte che Freud fece nei confronti del lavoro di formazione dei suoi discepoli: vale a dire in che modo dal 1902, anno in cui ebbe i primi seguaci, al 1939, anno della sua morte, abbia pensato e valutato le modalità di organizzazione del training analitico. Va tenuto conto, infatti, che dal 1920 circa i pazienti di Freud furono quasi esclusivamente degli allievi: chi intendeva diventare a sua volta psicoanalista. Ed è proprio, leggendo uno dietro l’altro i nomi degli allievi di Freud, che vengono alla mente alcune domande: perché il maestro non formò direttamente la prima generazione degli analisti? Quali furono in seguito gli allievi che scelse di formare?
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Quali le ragioni, se ce ne furono – oltre ai condizionamenti materiali (gli stranieri potevano infatti pagare di più) – che lo portarono a formare molti più psicoanalisti americani e inglesi? E a questi interrogativi solo in parte sono state date delle risposte. Ma a un simile resoconto non può dedicarsi questa introduzione. Solo qualche sintetico cenno. Nella sua presentazione al decimo volume delle Opere di Freud, Musatti scrive che «certamente» Jung, Adler, Rank e Ferenczi furono tutti analizzati da Freud, anche se per breve tempo. A quanto si sa, Jung e Adler invece non andarono mai in analisi da lui, Ferenczi ci andò per sei settimane in tutto e Rank «sembra» che sia stato «analizzato» da Freud per pochissime sedute; e solo nel 1924, cioè dopo alcuni anni che esercitava la psicoanalisi e sostanzialmente dopo la sua defezione e il suo allontanamento da Vienna.32 Vi è inoltre il rifiuto, da parte di Freud, di analizzare Tausk, Federn e Reich, e il rifiuto della proposta di Jones e di Ferenczi, fatta nel 1912, che egli analizzasse a fondo un «limitato gruppo di amici». La proposta non fu raccolta, forse, anche a causa di ciò che Jung poco dopo gli scrisse: «... Vorrei attirare però la Sua attenzione sul fatto che la Sua tecnica, consistente nel trattare i Suoi allievi come Suoi pazienti, è uno sbaglio...».33 Si coglie infine, nei ricordi di questi pazienti, l’evoluzione della fiducia di Freud nella terapia psicoanalitica. Così dall’entusiasmo dei primi anni nei confronti delle risorse terapeutiche dell’analisi passa progressivamente, verso la fine della vita, a una lettura sempre più critica, lucida e disincantata dell’esperienza. È stato René Laforgue, suo seguace e uno dei primi psicoanalisti francesi, a riferire un’espressione del sereno pessimismo di Freud: «Purtroppo noi non possiamo che trasformare la sofferenza nevrotica in sofferenza umana, e quest’ultima è al di sopra delle nostre possibilità».34 Frase che ci rimanda a un’altra riportataci da Theodor Reik, di un Freud ormai vecchio e malato: «Non appena lo spirito conquista la pace, il corpo comincia a dare dei fastidi».35 Concludendo, quello che si può osservare o intuire, in queste analisi condotte da Freud, anche alla luce dell’esperienza odierna, è uno strano miscuglio di profondità e di sperimentazione, dovuto sia alla brevità dell’analisi, sia, soprattutto fino agli anni venti, allo stadio ancora non sviluppato della teoria psicoanalitica. Così lo psicoanalista americano Heinz Kohut descrive i successi terapeutici che Freud aveva avuto nei primi an-
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ni della sua carriera, quando curava soprattutto donne isteriche: «... Alla luce della conoscenza attuale, i processi di elaborazione mobilitati e mantenuti in queste prime analisi erano inadeguati, e nessun analista potrebbe oggi ripetere tali cure con i mezzi che Freud, secondo le sue descrizioni, adoperava a quell’epoca. La causa reale della scomparsa dei sintomi del paziente era probabilmente che Freud, avendo scoperto un aspetto importante del principio che soggiace all’attuazione di una cura psicoanalitica, colpiva i suoi pazienti con il suo profondo convincimento riguardo l’insight appena raggiunto. Erano la pressione della sua personalità, la sua certezza carismatica che, attraverso la suggestione, provocavano un’alterazione del comportamento che egli riteneva manifestazione di un mutamento strutturale, realizzato attraverso l’interpretazione. Le prime cure erano quindi illustrazioni perfettamente rappresentate di un principio corretto. Le cure effettive invece (il conseguimento di mutamenti del comportamento che fossero manifestazioni di cambiamenti strutturali) cominciarono a essere effettuate solo molto tardi quando, oltre ad aver compreso il principio strutturale fondamentale della cura, Freud colse anche l’importanza del principio economico (ripetizione, elaborazione)».36 È proprio a questa autorità carismatica, a questo insight di Freud, che fa pensare il suo modo così poco convenzionale, ma sapiente e acuto, di intervenire durante le sedute analitiche. Si tratta di uno stile che ha poco a che fare con le regole tecniche che i suoi eredi hanno imposto all’analisi: come quando, a Bruno Walter che si lamenta del suo sintomo isterico, chiede inaspettatamente: «Lei è mai stato in Sicilia?»; o il brusco interrogativo che rivolge alla giovanissima e «saputella» Maryse Choisy che, per la prima volta distesa sul divano di Freud, stava «soppesando il genio»: «Allora, che ne pensa di me?». O l’incredibile audacia con cui, attraverso i loro sogni, intuisce – in un’interpretazione che, secondo i parametri postfreudiani, verrebbe da definire «selvaggia», ovvero prematura –37 i segreti familiari di Maryse Choisy e di Marie Bonaparte. È perciò che le due, provenienti da Parigi, ritornano di gran fretta alle loro case avite per chiedere conferma, l’una alla zia morente, e l’altra al vecchio guardiano di scuderia, di quanto esse negavano, scandalizzate, potesse essere quel trauma infantile, quell’evento scandaloso supposto dal maestro (e che entrambi i testimoni, a quanto pare, confermarono). Oppure, nell’ultima seduta con Theodor Reik – che gli racconta i suoi sintomi di vertigine e di
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soffocamento, mentre la moglie è ricoverata in ospedale – la semplice e risolutrice domanda, fatta al momento giusto e con tatto perfetto: «Lei si ricorda il romanzo L’assassino di Schnitzler?». O come quando, a Kardiner che dopo un sogno gli racconta la sua paura per le maschere, Freud risponde: «La prima maschera che Lei vide era il volto di Sua madre morta», avendo tratto la conclusione che, da piccolo, Kardiner aveva scoperto la madre morta mentre si trovava solo con lei in casa. E anche l’incredulo Kardiner, tornato in patria, riceverà poi conferma di questa storia dalla sorella maggiore. Un po’ detective – è stato per primo l’Uomo dei Lupi a paragonare Freud a Sherlock Holmes – un po’ stregone e scienziato, Freud è veramente, nelle pagine dei suoi pazienti, quel grande padre – «padre magico» lo definisce la Choisy –, grande sapiente e anche grande medico, di cui si era fantasticato. «Freud venne verso di me, mi strinse la mano e mi fece accomodare, mentre mi osservava attentamente. Incontrai il suo sguardo meravigliosamente bonario e caldo, così pieno di triste saggezza; e subito sentii come se una mano mi avesse rapidamente sfiorato la fronte e cancellato ogni dolore. “Ah!” – pensai – “Quest’uomo deve essere uno stregone come quelli che hanno i Pellerossa. Non ha bisogno di tutto il suo metodo, basterebbe che dicesse ‘Abracadabra’ per alleggerirti il cuore e migliorare la tua salute.” Così mio caro amico dovrebbero essere i medici! Non avevo mai incontrato nessuno come lui prima di allora».38 Anche qui si potrebbe rispondere, a chi afferma, secondo un cliché ricorrente, che Freud fosse un geniale teorico, ma non un grande medico: «Non un grande medico? Paragonato a chi?».39
Ringraziamenti
Ricordo ancora con emozione l’incontro con due anziane psicoanaliste americane: Muriel Gardiner che importunai nell’atrio di un albergo di Los Angeles e Marie Briehl la quale, nella sua grande gentilezza e comprensione, mi ha dedicato un pomeriggio, ricordandomi i suoi anni di formazione a Vienna con Anna Freud. Ringrazio inoltre lo psicoanalista americano Jay Martin che mi ha offerto informazioni e consigli utilissimi, le bibliotecarie degli Istituti di Psicoanalisi di New York e di Los Angeles per la loro solerte collaborazione e, per questa seconda edizione, la Bibliothèque Sigmund Freud a Parigi. Il mio ringraziamento va anche ai compianti Luciana Nissim Momigliano, a Piero Bellanova e ad Aldo Carotenuto che, molto gentilmente, mi ha messo a disposizione la sua preziosa biblioteca. A Jorge Canestri e a Mario Lavagetto un ringraziamento particolare per la loro lettura attenta di tutto il manoscritto e per i loro consigli. Infine esprimo tutta la mia gratitudine a Gabriella Ripa di Meana per i preziosi suggerimenti riguardanti alcune parti di questo libro.
Wilhelm Stekel (1868-1940)
Dopo il soggiorno di studio a Parigi con Charcot, Freud aprì il suo studio di neuropatologia – non ancora di psicoanalisi – nel 1886, e i suoi primi pazienti furono per la maggior parte giovani donne borghesi ed ebree sofferenti d’isteria, malattia allora enigmatica e misteriosa, che si intreccerà saldamente con l’origine e la scoperta della psicoanalisi. Le conosciamo sotto gli pseudonimi con cui Freud le chiamò nei suoi Studi sull’isteria, scritti in collaborazione con Breuer: le signore Emmy von N., Cecilia M., Katharina, Elisabeth von R. (con cui, nel 1892, applicò per la prima volta il metodo delle libere associazioni senza ipnosi) e Lucy R. Il primo nome di una paziente di Freud che si conosce è quello di Emma Eckstein, che presumibilmente è stata in analisi da Freud tra il 1894 e il 1898, secondo quanto testimonia il nipote, Albert Hirst: «Uno dei primi successi di Freud come analista, forse il primo, è stata la guarigione della nevrosi di mia zia Emma».1 Fu dopo il 1900, dopo la pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni, che Freud uscì dall’isolamento e, oltre ai pazienti, cominciò ad avere i primi seguaci e allievi. Wilhelm Stekel, medico, giornalista e scrittore, è stato uno dei primissimi seguaci di Freud e fu grazie a una sua sollecitazione che iniziarono, nel 1902, le famose riunioni del mercoledì sera in casa di Freud, con la presenza, oltre che di Stekel, di Alfred Adler, Max Kahane e Rudolf Reitler, primo nucleo della futura Società Psicoanalitica di Vienna, fondata nel 1908. Come racconta lo stesso Stekel nella sua Autobiografia,2 fu Max Kahane, un medico di grande talento, che, come lui, aveva rinunciato alla carriera accademica, a fargli per la prima volta il nome di Freud e a invitarlo a seguire le lezioni «originali e piene di nuove idee» che una volta alla settimana Freud teneva all’università. Stekel, che era stato allievo di Hermann Nothnagel, uno dei pochissimi profes-
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sori di medicina all’Università di Vienna a sostenere Freud, era molto interessato alle possibilità di cura delle nevrosi: «Qualche volta – scrive nella sua Autobiografia – mentre ero ancora ignaro delle ricerche e dei metodi di Freud, avevo rivolto alcune domande a delle persone a proposito delle loro ambizioni frustrate e della loro vita sessuale. Non mi era mai saltato in mente che l’uomo “nervoso” non sa qual è il suo punctum dolens. Non conoscevo l’inconscio, né sapevo che i fatti più importanti sepolti nell’inconscio vengono rivelati dai sogni». Stekel e Kahane, entrambi medici, entrambi interessati alle nevrosi e alla ricerca di nuovi metodi di cura – a quell’epoca i nevrotici erano per lo più trattati con l’elettricità o con l’idroterapia – vengono entrambi illuminati e colpiti dalle scoperte di Freud, e Stekel, attraverso il giornale dove scriveva articoli divulgativi sulla medicina, il Tägblatt, approfittò di tutte le occasioni per propagandare le scoperte e le opere di Freud, tanto che i suoi editori gli «chiesero di scrivere almeno una volta un articolo senza nominare Freud». «Fui uno dei primi – continua Stekel – a riconoscere la grandezza di questo genio [...] Io ero l’apostolo di Freud, che era il mio Cristo.» Nel 1912, per problemi teorici (Victor Tausk ad esempio lo accusò pubblicamente di inventarsi i resoconti dei casi clinici) e per problemi redazionali, che riguardavano il controllo del Zentralblatt für Psychoanalyse, Stekel ruppe con Freud e con la Società. La testimonianza che ci lascia della sua analisi con Freud, che è un paragrafo di poche righe della sua Autobiografia, anche se così breve, è preziosa perché è la prima, in ordine cronologico, di tutte le testimonianze pubblicate dai pazienti di Freud. In quale periodo esattamente si è svolta la sua analisi, Stekel non lo scrive, presumibilmente avvenne o nel 1901 o nel 1902; scrive invece che fu nel 1903 che iniziò anche lui, sotto la guida di Freud, ad analizzare i suoi pazienti. Forse Stekel è il terzo medico, dopo Freud e Rudolf Reitler, a essere diventato psicoanalista.
Quando incontrai Freud per la prima volta, avevo dei problemi sessuali e volevo consultarlo essendo egli la persona più autorevole in questo campo. Ho già accennato che Freud conosceva il mio studio su Il coito nell’infanzia. Egli così aveva scritto nel suo saggio sull’Etiologia dell’isteria: A me pare assolutamente indubbio che i nostri bambini si trovano esposti agli assalti sessuali assai più spesso di quanto non ci si dovrebbe aspettare dalle scarse precauzioni prese al riguardo dai genitori. Non appena cominciai a informarmi su quanto si conoscesse sull’argomento, alcuni colleghi mi segnalarono che già erano comparse varie pubblicazioni di pediatri,
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nelle quali veniva denunciata la frequenza con cui le balie e le bambinaie fanno oggetto di pratiche sessuali persino i lattanti. Alcune settimane fa ho anzi potuto avere tra le mani uno studio effettuato a Vienna dal dottor Stekel, nel quale viene esaminato il problema del Coito nell’infanzia.
Sentivo che potevo avvicinarmi a Freud con fiducia. Egli suggerì la psicoanalisi. Il mio trattamento durò non più di otto sedute. Raccontai a Freud la storia della mia vita e lui si mostrò sorpreso per il fatto che avessi così poche repressioni. In uno dei miei sogni egli scoprì ciò che definì una fissazione materna. Non potevo crederci. I pochi sogni incestuosi che avevo fatto prima mi apparivano come manifestazioni umane normali. Una volta Freud parlò anche del fatto che visto che avevo così poche repressioni riguardo la mia vita sessuale infantile, ero un inestimabile testimone della sua teoria della sessualità nell’infanzia. [W. Stekel, The Autobiography of Wilhelm Stekel, ed. Emil A. Gutheil, Liveright Publishing Corporation, New York 1950, pp. 107-108: traduzione di Letizia Ciotti Miller] Ernest Jones, nella sua biografia su Freud, con queste parole ricorda l’analisi di Stekel: «A quel tempo Stekel soffriva di un penoso disturbo nevrotico, che non ritengo opportuno precisare, e si rivolse a Freud perché lo aiutasse. L’aiuto fu immediato e decisivo. Stando a Stekel, la sua analisi sarebbe durata appena otto sedute, il che sembra assai poco probabile. Io stesso infatti, parlandone con Freud, ebbi l’impressione che fosse stata ben più lunga».3 Riferendosi a Stekel così Freud scrive nell’Interpretazione dei sogni, all’inizio del capitolo dedicato alla rappresentazione per simboli nel sogno: «Questo autore, che probabilmente ha danneggiato la psicoanalisi nella stessa misura in cui le ha giovato, presentò un gran numero di insospettate traduzioni di simboli, alle quali inizialmente non si diede credito, ma che in seguito trovarono per la maggior parte conferma e dovettero venir accettate. Il merito di Stekel non risulta diminuito dall’osservazione che il riserbo scettico incontrato non era ingiustificato. Infatti gli esempi, sui quali egli basava le sue interpretazioni, spesso non erano convincenti ed egli si serviva di un metodo che va respinto come scientificamente poco sicuro. Stekel trovò le sue interpretazioni dei simboli per via d’intuizione, grazie alla sua personale capacità di comprendere immediatamente i simboli».4