Harrison E. Salisbury
I 900 giorni L’assedio di Leningrado Traduzione di Adriana Dell’Orto
Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © Harrison E. Salisbury, 1969 © il Saggiatore S.r.l., Milano 2014 Prima edizione: il Saggiatore, Milano 2001 Titolo originale: The 900 Days: The Siege of Leningrad
I 900 giorni alla popolazione di Leningrado
Nessuno dimentichi, Nulla sia dimenticato. olga bergholtz
Sommario
PARTE PRIMA
La notte senza fine
Personaggi principali
13
1. Le notti bianche
15
2. Non tutti dormirono
25
3. Quel fatidico sabato
33
4. La notte volge al termine
43
5. L’alba del 22 giugno
55
6. Che cosa aveva saputo Stalin
73
7. Che cosa credeva Stalin
87
8. Cieli senza nubi
101
9. Una questione di particolari
113
10. Sulle vie d’accesso più lontane
119
11. Arriva la Freccia Rossa
133
12. Persino i morti
143
PARTE SECONDA
La campagna d’estate
13. I giorni bui
159
14. Ždanov in azione
169
15. I cigni bianchi
179
16. L’Armata Rossa si ritira
189
17. I primi giorni
201
18. La linea della Luga
215
19. La linea della Luga crolla
231
20. Il nemico alle porte
241
21. Stalin al telefono
255
22. Il disastro di Tallinn
263
23. La Dunkerque russa
277
24. La crisi del Nord
289
25. Gli ultimi giorni d’estate
299
26. La città sarà abbandonata?
309
PARTE TERZA
Leningrado assediata
27. Il cerchio si chiude
323
28. Le nubi rosso sangue
341
29. Non tutti furono coraggiosi
355
30. Un osso duro
365
31. Žukov al comando
373
32. Fate saltare la città!
385
33. Scavano trincee!
397
34. La Fortezza della Corona
413
35. Deus conservat omnia
425
36. Sette uomini sapevano
441
PARTE QUARTA
L’inverno più lungo
37. «Quando sarà tolto l’assedio?»
461
38. La Strada della Vita
477
39. La città della morte
497
40. Gli slittini
511
41. Un nuovo tipo di reato
525
42. La città di ghiaccio
541
43. L’apocalisse di Leningrado
557
44. «T» sta per Tanja
571
45. La strada dei ghiacci per l’entroterra
587
46. Morte, morte, morte
597
PARTE QUINTA
La morsa d’acciaio si spezza
47. Il ritorno della normalità
613
48. Operazione Iskra
629
49. I Novecento Giorni continuano
647
EPILOGO
50. L’Affare di Leningrado
669
Note sulle fonti 683 Note 705
PARTE PRIMA La notte senza fine
Che questo racconto viva in eterno nei nostri cuori, in eterno udito! Il suo ricordo sia la nostra coscienza.
Personaggi principali
Achmatova, Anna: poetessa di Leningrado, vittima dell’oppressione dopo la Seconda guerra mondiale. Bergholtz, Olga: poetessa di Leningrado, autrice di un vivace diario, sopravvissuta all’assedio. Beria, Lavrentiy P.: capo della polizia segreta di Stalin. Budjonnij, maresciallo Semjon: già comandante della cavalleria dell’Armata Rossa, nominato capo della Riserva la notte in cui i nazisti attaccarono l’Unione Sovietica. Bycevskij, colonnello B.V.: comandante del genio a Leningrado. Duchanov, generale Michail: ex capo di Stato maggiore di Leningrado, comandante della lxvii Armata. Fedjuninskij, maresciallo Ivan I.: comandante dell’importante fronte di operazioni di Leningrado. Govorov, maresciallo Leonid: specialista di artiglieria e comandante del fronte di Leningrado dall’aprile del 1942. Inber, Vera: scrittrice moscovita che visse l’assedio di Leningrado, autrice di un diario. Ketlinskaja, Vera: scrittrice di Leningrado, intima amica di Olga Bergholtz. Kočetov, Vsevolod: giornalista praticante della Leningradskaja Pravda, allo scoppio della guerra, autore di un diario. Kuznetzov, Aleksej A.: segretario del Partito di Leningrado, braccio destro del capo del Partito di Leningrado, Andrej A. Ždanov. Kuznetzov, generale F.I.: comandante del Distretto Militare Speciale del Baltico (Fronte nordoccidentale) allo scoppio della guerra.
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Kuznetzov, ammiraglio N.G.: commissario della Marina allo scoppio della guerra, prolifico autore di memorie. Luknitzkij, Pavel: corrispondente dell’agenzia Tass da Leningrado, autore di un diario. Malenkov, Georgij M.: membro della Segreteria del Partito comunista, membro sostituto del Politburo, deciso avversario del capo del Partito di Leningrado, Andrej A. Ždanov. Mereckov, maresciallo Kirill A.: comandante del fronte di Leningrado. Michailovskij, Nikolaj: giornalista, aggregato alla Flotta del Baltico. Molotov, Vjačeslav M.: membro del Politburo, intimo collaboratore di Stalin. Pantelejev, L. (Aleksej): abitante di Leningrado, scrittore, autore di un diario. Pantelejev, ammiraglio Juri A.: capo di Stato maggiore della Flotta del Baltico. Pavlov, Dmitrij V.: responsabile del vettovagliamento di Leningrado, cronista dell’assedio. Popkov, Pjotr S.: sindaco di Leningrado, collaboratore di Ždanov. Rozen, Aleksandr: scrittore, autore di un diario. Sajanov, Vissarion: scrittore di Leningrado, autore di un diario. Stein, Aleksandr: drammaturgo di Leningrado, autore di un diario. Stalin, Iosif: dittatore sovietico. Tarasenkov, A.K.: corrispondente di guerra sovietico, autore di un diario di Leningrado. Timošenko, maresciallo Semjon K.: commissario della Difesa sovietico allo scoppio della guerra. Tribuc, ammiraglio Vladimir F.: comandante della Flotta del Baltico. Visc’nevskij, Vsevolod: corrispondente navale, drammaturgo, autore di un diario. Voronov, maresciallo Nikolaj N.: comandante dell’artiglieria sovietica, consulente sul fronte di Leningrado. Vorošilov, maresciallo Kliment: collaboratore di Stalin, comandante del fronte di Leningrado fino all’11 settembre 1941. Ždanov, Andrej A.: segretario e capo del Partito di Leningrado, principale candidato alla successione di Stalin. Žukov, maresciallo Georgij K.: comandante sovietico, responsabile del fronte di Leningrado dal 12 settembre al 7 ottobre 1941.
1. Le notti bianche
Freddo e vento, freddo e vento – così fu la primavera del 1941 a Leningrado. L’ultima neve era caduta il 1° maggio, e i partecipanti al corteo sfilarono incespicando dinanzi al Palazzo d’Inverno in stivali e cappotti fradici. Il freddo durò sino a giugno, e pareva che le nebbie del Baltico non dovessero mai più diradarsi. Non che fosse un fatto insolito: Pietro il Grande aveva fondato la sua minacciosa capitale sulle paludi della Neva senza preoccuparsi minimamente del clima o delle comodità. Il tempo cominciò a cambiare con una serie di temporali il mercoledì, 19 giugno, e poi ancora l’indomani. Finalmente, con il 21, solstizio d’estate, comparve il sole e all’improvviso un limpido cielo azzurro salutò la città. Leningrado viveva dell’aforismo di Puškin, secondo cui «la nostra estate nordica è soltanto una parodia di un inverno del Sud», e per tradizione il solstizio d’estate era una giornata speciale: il giorno più lungo dell’anno, un giorno che non aveva fine, la più bianca delle «notti bianche», quando a mezzanotte è appena il crepuscolo e la notte non scende mai. Il cambiamento dei venti, il dolce tepore del sole, l’alchimia che trasformava il grigio della Neva in scintillante azzurro, la fioritura dei tigli, delle forsythia, dei gelsomini conferirono alla città un’aria di festa. Nel complesso di edifici settecenteschi color crema e giallino dell’antica università, il 21 giugno si conclusero gli esami e furono sospese le lezioni. Ragazzi in completi blu stirati di fresco e ragazze in abitini di organza bianca si riversavano sul Ponte del Palazzo, provenienti dal lungofiume dell’università, preparandosi al guljanije, la passeggiata delle notti bianche, i canti al suono di bajan e chitarre, gli appuntamenti nei caffè della Prospettiva Nevskij, gli incontri in gelateria alle undici, alla «Rana Verde» a mezzanotte, all’angolo dei magazzini Elisejev all’una. Per tutta la serata la
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gente fece la coda davanti all’Hotel Astoria e all’Europa; dentro, gruppi di ragazzi ballavano il fox-trot sulle note del successo del giorno, Ci ritroveremo a Leopoli, il mio amore ed io, una canzone resa popolare da Eddij Rozner e dalla sua Metropol Hotel Jazz Band. La primavera era stata incerta a Leningrado – e non solo per via del tempo. Nell’Unione Sovietica persisteva una pace precaria, ma la Seconda guerra mondiale era ormai entrata nel secondo anno, e chi poteva dire quanto sarebbe durata la pace? Il governo assicurava a Leningrado, e al resto della Russia, che il patto nazisovietico, sottoscritto alla vigilia della guerra, nell’agosto del 1939, garantiva il paese contro possibili attacchi. Durante le riunioni di cellula negli stabilimenti di Leningrado i propagandisti del Partito battevano e ribattevano sul chiodo secondo cui, in base alle clausole del trattato, ciascuna delle due nazioni s’impegnava a non aggredire l’altra. Qualsiasi accenno al contrario, lasciavano intendere, equivaleva suppergiù a un tradimento. Gli editoriali della Pravda celebravano l’era di collaborazione senza precedenti, in cui la Russia spediva grano e petrolio al Terzo Reich in cambio di macchinari (e materiale bellico). Ma gli uomini e le donne di Leningrado non cessavano di preoccuparsi. Ostentavano una sfiducia profonda nei confronti dei nazisti. Nulla nel corso della guerra aveva indicato che ci si poteva fidare seriamente delle promesse di Adolf Hitler, checché ne dicesse Stalin. Dopo la spartizione della Polonia tra Germania e Russia nell’autunno del 1939, avevano visto i panzer nazisti travolgere Danimarca, Norvegia e Francia nel 1940, ed erano rimasti sconvolti dalle selvagge incursioni della Luftwaffe sull’Inghilterra. Tali dimostrazioni della potenza nazista erano fonte di costernazione per l’uomo della strada sovietico. Ciò che rese ancor più inquieta per Leningrado la primavera del 1941 fu la nuova campagna della Wehrmacht: la fulminea, fortunata guerra contro la Jugoslavia, la rapida conquista della Grecia, l’occupazione di Creta, la minaccia contro Suez delle agili forze del deserto di Rommel. Ora che s’erano impadroniti del continente europeo, quale sarebbe stata la prossima vittima dei nazisti? La risposta ovvia era: l’Inghilterra; ma di tanto in tanto a Leningrado correva voce che l’Unione Sovietica era la meta successiva nella lista di Hitler. Mosca smentiva tali voci (la smentita più recente risaliva ad appena una settimana prima), e nessuno era disposto a sfidare pubblicamente le fiduciose assicurazioni di Stalin riguardo al patto con Berlino. Molto più sicuro accettare la linea del Partito e seppellire in fondo alla propria coscienza qualsiasi riserva in merito. E tuttavia, la preoccupazione perdurava in molti cuori. Se, contrariamente a tutti gli impegni, le promesse e le assicurazioni, Hitler attaccava la Russia, Leningrado non aveva via di scampo. La città costituiva un obiettivo militare per la sua stessa storia e la sua tradizione, fondata com’era stata da Pietro il Grande nel 1703 come bastione contro gli Svedesi, i Polacchi, i Litua-
1. Le notti bianche 17
ni, i Finlandesi e i Tedeschi, che per secoli avevano lottato per aprirsi la strada verso le terre russe. Pochi, però, tra coloro che iniziavano l’esodo estivo alla volta delle stazioni di villeggiatura sulle isole del golfo di Finlandia, delle nuove spiagge e dei nuovi laghi strappati alla Finlandia in seguito alla campagna dell’inverno 1939-40, pensavano seriamente in quel momento alla minaccia nazista. Era una giornata troppo bella, gli auspici del tutto rassicuranti. Alla maggior parte degli abitanti di Leningrado pareva che la città fosse più sicura di quanto lo era stata da molti anni a quella parte, più sicura di quanto lo era stata dacché Lenin si era trovato costretto a ritrasferire «temporaneamente» la capitale russa a Mosca nel 1918, di fronte alla minaccia di una conquista tedesca. Il «temporaneo» trasferimento era diventato permanente allorché Finlandia, Lettonia, Estonia e Lituania, dopo il 1917, si erano staccate dalla Russia, lasciando il confine finno-sovietico a una trentina di chilometri appena da Leningrado ed esponendo la città ai pericoli di una facile conquista. Ora, grazie alla campagna invernale contro la Finlandia, Leningrado aveva un certo spazio di manovra. In effetti, proprio tale spazio era stato l’obiettivo del brutale attacco sovietico contro il piccolo vicino settentrionale. La frontiera era stata spostata indietro di molti chilometri, e quando Stalin nell’estate del 1940 aveva costretto gli stati baltici a riunirsi all’Unione Sovietica, Leningrado aveva ottenuto un nuovo scudo protettivo lungo le coste baltiche. Data la splendida giornata del solstizio d’estate, la città si svuotò rapidamente. La redazione del giornale Leningradskaja Pravda aveva acquistato una villa al Ponte della Volpe sul golfo di Finlandia, una trentina di chilometri a nord di Leningrado. Il sabato pomeriggio il materiale per l’edizione domenicale del 22 giugno era già stato approntato, non c’era in ballo niente d’importante, e la maggior parte dei redattori riuscì a partire alla volta della località di villeggiatura nelle prime ore del pomeriggio. Non tutti poterono lasciare Leningrado. Iosif Orbelj, direttore del grande museo dell’Hermitage, la cui barba fluente ricordava agli amici un profeta del Vecchio Testamento, passò la giornata dietro la scrivania nelle ampie gallerie di Piazza del Palazzo. Era preoccupato da una dozzina di problemi diversi. C’era ad esempio la nuova Sezione di Cultura Russa, entrata in funzione appena dal 26 maggio, dopo lunghi sforzi. Casse da imballaggio contenenti almeno duecentocinquemila pezzi destinati alla nuova sezione ingombravano i magazzini e bloccavano le uscite di sicurezza. C’erano spedizioni che si preparavano a trascorrere l’estate nelle località di scavo, e al museo una squadra di imbianchini aveva montato le impalcature dopo la festa del Primo Maggio, ma i lavori non erano ancora iniziati. Ora, la stagione più animata dell’anno era alle porte, e Orbelj era furibondo per il ritardo. Telefonò all’ufficio competente per i lavori pubblici; quel-
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li cercarono di tenerlo buono, promettendogli di dare inizio ai lavori di restauro «al più presto possibile», ma Orbelj non riagganciò sinché non gli fissarono una data precisa: i lavori avrebbero avuto inizio lunedì, 23 giugno. Orbelj lasciò l’ufficio a tarda ora. Prevedeva un grande afflusso di visitatori per domenica, e tutto doveva essere in ordine. Sulla scrivania, segnata a matita azzurra, c’era una copia della Leningradskaja Pravda di sabato. L’articolo che Orbelj aveva contornato con un tratto azzurro aveva per titolo: «Tamerlano e i Tamuridi all’Hermitage». Vi si descrivevano due sale consacrate alle opere d’arte del periodo mongolo. L’articolo avrebbe convogliato al museo altri visitatori, la domenica, Orbelj lo sapeva. L’interesse per Tamerlano era alle stelle, a Leningrado. Una settimana prima, una spedizione scientifica era giunta a Samarcanda per esaminare il mausoleo di Gur Emir, dov’era sepolto Tamerlano, e attualmente stava raccogliendo materiale per la celebrazione del quinto centenario della nascita di Alisher Navoi, il grande poeta dell’epoca di Tamerlano. Ogni giorno la Leningradskaja Pravda pubblicava un servizio da Samarcanda che riferiva i progressi dei lavori in corso. Mercoledì, il corrispondente della Tass aveva descritto l’operazione di sollevamento della lastra di giada verde del sarcofago di Tamerlano. «Stando alla leggenda popolare, tramandatasi sino ai nostri giorni» scriveva l’inviato della Tass «sotto questa pietra giacerebbe la causa di una terribile guerra...» Il racconto aveva fatto ridacchiare numerosi lettori. Che ridicola superstizione, credere che sollevando un’antica pietra si sarebbe scatenata nel mondo la guerra. Venerdì, la Leningradskaja Pravda riportava la notizia che il sepolcro di Tamerlano era stato aperto. L’esame dello scheletro aveva rivelato che una gamba era più corta dell’altra; ciò confermava la tradizione secondo cui Tamerlano era zoppo. Nel giornale di sabato non c’era il solito pezzo da Samarcanda. Forse, si disse Orbelj, perché hanno pubblicato l’articolo sulla mostra in corso al museo. Orbelj chiuse la porta dell’ufficio, augurò la buona notte alla guardia di fazione all’ingresso di servizio e uscì sulla Piazza del Palazzo. Era, quello, pensò Orbelj, il più imponente complesso architettonico del mondo: il magnifico Palazzo d’Inverno e l’Hermitage sul lungofiume della Neva, il massiccio edificio e l’arco dello Stato maggiore generale sull’altro lato della piazza, e al centro la colonna che commemorava Alessandro i. Rispecchiava l’impero. Aveva rispecchiato l’impero sin dal giorno in cui Pietro il Grande aveva cominciato a piantare massicce palizzate nelle paludi dell’estuario della Neva a prezzo di decine di migliaia di vite umane, per edificare prima la sua fortezza, la mole massiccia del bastione di Pietro e Paolo, poi la base navale di Kronstadt su una delle cento isole alla foce della Neva, e infine per erigere i palazzi, i viali, le piazze grandiose che evocavano paragoni tanto fioriti: la seconda Parigi, la Venezia del Nord. Così come Pietroburgo giunse a chiamare Caterina ii la Semiramide del Nord, in definitiva la sua capitale acquisì la denominazione che Orbelj preferiva: Palmira del Nord; Semiramide
1. Le notti bianche 19
e Palmira – il romanzo e il mistero antico dell’Asia Minore trasmutati nel ghiaccio e nell’inverno del settentrione russo. San Pietroburgo, Pietrogrado, Leningrado, Palmira: quale ne fosse il nome, certo la città non aveva l’eguale, anche se per il momento la vista dalla «finestra sull’Occidente» di Pietro il Grande poteva essere in qualche modo offuscata dalla tirannide staliniana. Orbelj s’avviò verso l’Ammiragliato con la sua guglia aggraziata. Al di là della Neva gli facevano riscontro la guglia della Fortezza di Pietro e Paolo e la facciata degli edifici dell’università, sulla sponda di Pietrogrado. Orbelj si volse in direzione della Prospettiva Nevskij, il grande viale che il poeta Aleksandr Blok riteneva «la strada più lirica, più poetica del mondo», dove più che in qualsiasi altro luogo c’era un che di misterioso nelle donne, una cupa bellezza nel loro aspetto, qualcosa di fantomatico nelle loro promesse. La città aveva sempre commosso profondamente chi l’aveva visitata. Per taluni era opprimente, mistica, tragica; per altri, eterea, magica, miracolosa. Per Lenin era un cumulo di tuguri trasudanti, maturi per l’agitazione, l’intrigo, la Rivoluzione. Per i Romanov era la capitale del mondo, il seggio dell’autorità assoluta, il mandato unto dalla benedizione della fede ortodossa. Sempre la città evocava superlativi, colpendo lo spettatore con la maestà dei suoi spazi, l’ampiezza delle dimensioni, l’intreccio d’acqua e pietra, di piloni di granito e snelli ponti, di bassi cieli e dell’interminabile freddo e neve dell’inverno. Era l’officina della Russia, il laboratorio della Russia, la culla della scienza e dell’arte russe. Qui Mendeleev ha scoperto la tavola periodica degli elementi; qui Pavlov ha lavorato coi suoi cani ai riflessi condizionati; qui Musorgskij ha scritto la sua violenta, cupa musica, e i piedi fatati della Pavlova hanno avvinto i cuori dei granduchi e dal seno del Balletto Imperiale sono sbocciati Bakst, Diaghilev, Fokin e Nijinskij. Leningrado era la capitale della vita creativa russa. Quel sabato, 21 giugno, si era provato tutto il giorno nelle aule della Scuola Statale di Balletto di Piazza Aleksandrinskij. La grande dame del balletto russo, Agrippina Vaganova, era una maestra severissima. Domenica, 22, il corpo di ballo doveva esibirsi al Teatro Mariinskij per festeggiare il trentesimo anniversario del debutto della danzatrice Je. M. Lukom e mercoledì, 25, era in programma il balletto Bela, a mo’ di saggio finale della classe 1941, istruito da Madame Vaganova. Per tutta la giornata di sabato continuarono, ora dopo ora, gli esercizi alla sbarra. Madame Vaganova aveva sessantatré anni, ma non aveva perso un briciolo del suo vigore e, come ebbe a osservare una delle sue allieve: «Madame Vaganova fu severa come non mai». Karl Eliasberg, direttore dell’Orchestra Sinfonica di Radio Leningrado, fece ritorno al suo appartamento sull’isola Vasilevskij piuttosto tardi, quel sabato. Anche egli era stato occupato l’intero pomeriggio con le prove. Ora si sedette a leggere il giornale e notò che domenica si sarebbe inaugurata al Palazzo di Cate-
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rina, a Puškin, una mostra celebrativa per il centenario della morte del poeta Lermontov. Decise che ci sarebbe andato. Un’altra personalità del mondo musicale, il compositore Dmitrij Šostakovič aveva programmi del tutto diversi. Šostakovič era tifoso di calcio. Il pomeriggio del sabato acquistò i biglietti per assistere alla partita di domenica, 22 giugno, allo Stadio Dynamo. Sabato ci fu grande attività presso gli studi un po’ sconnessi della Lenfilm, sull’altra riva della Neva, quella di Pietrogrado. Là, al numero 10 della Prospettiva Kirov, nei vecchi Giardini dell’Acquario (dove un palazzo del ghiaccio aveva divertito intere generazioni di ragazzi di Pietroburgo) si stavano per iniziare le riprese di una biografia filmata del compositore Glinka. Ljudmila, la moglie del drammaturgo Aleksandr Stein, passò la giornata a fabbricare barbe destinate a ornare il mento di patriarcali boiari, a provare i costumi per Cernomor e Russlan e Ludmilla, a dar forma agli eleganti colbacchi russi di un tempo, chiamati kokoscnikj. Il primo ciak sarebbe scattato lunedì. Stein non era con sua moglie. In qualità di ufficiale della Riserva era stato richiamato al principio della primavera a prestare servizio per tre mesi. Aveva portato a termine il periodo di addestramento da qualche giorno ed era andato a riposarsi in una nuova località di villeggiatura per scrittori nel lembo di Carelia già appartenente alla Finlandia, pochi chilometri a nord di Leningrado. Trascorse la sera del sabato, sotto un cadente portico di legno, a chiacchierare in quell’interminabile crepuscolo con un collega, il drammaturgo Boris Lavrenov. La sera era calma, ma in seguito Stein si ricordò d’aver scorto dei razzi solcare l’orizzonte lontano e, mentre andava a letto verso le quattro di mattina, gli parve di udire un rombo di aerei sul golfo di Finlandia. Per tutta la giornata di sabato c’era stato un continuo andirivieni a Smolnij, il cadente complesso di edifici classici russi lungo la Neva, un tempo scuola riservata alle fanciulle aristocratiche, ma divenuta simbolo della Rivoluzione dopo il 1917. Era stato là, infatti, che Lenin e i suoi Bolscevichi avevano insediato la postazione di comando per il colpo di Stato del novembre 1917, e là, da allora, aveva sede l’apparato del Partito comunista di Leningrado. Quel sabato, il Partito della città teneva quella che veniva definita una sezione plenaria allargata, vale a dire una riunione generale durante la quale segretari delle organizzazioni cittadine, direttori di fabbriche, esperti di economia, rappresentanti sindacali e funzionari municipali erano chiamati a discutere di vari importanti problemi: l’applicazione delle direttive approvate dal xviii Congresso Generale del Partito e nuovi piani per l’industria. La riunione nella Sala dell’Assemblea di Smolnij, la stessa in cui Lenin proclamò la vittoria della Rivoluzione Bolscevica, si concluse solo a sera. Alcuni delegati si diressero verso casa. Altri si confusero con la gente che affollava gli ampi viali cittadini, passeggiando pigramente nella luce soffusa di mezzanot-
1. Le notti bianche 21
te. Si soffermarono a osservare curiosi i manifesti affissi ai lampioni che annunciavano il balletto Romeo e Giulietta di Prokof’ev, per il giorno successivo al Teatro Mariinskij, in cui danzava Galina Ulanova. Su altri manifesti si leggeva: «Anton Ivanovič è arrabbiato... Anton Ivanovič è arrabbiato». Non tutti i delegati compresero che si trattava della pubblicità di un nuovo film di prossima programmazione nei cinema di prima visione. Scossero perciò il capo perplessi e proseguirono, sbirciando le vetrine illuminate della Prospettiva Nevskij. Le personalità di primo piano che avevano preso parte alla riunione non andarono a passeggiare. Tornarono direttamente in ufficio e attesero accanto al telefono eventuali chiamate. Poco prima che lasciassero Smolnij, erano stati tranquillamente avvertiti: «Non allontanatevi troppo. Potrebbe accadere qualcosa stanotte». Nessuno aveva lasciato loro intendere che cosa sarebbe potuto accadere. Avvezzi a eseguire meticolosamente e senza discutere gli ordini del Partito, ora sedevano accanto al telefono, fumando sigarette, fissando le montagne di scartoffie che costantemente li soffocavano e chiedendosi che cosa c’era in ballo. Non tutti si recarono in ufficio. Michail Kozin, organizzatore del Partito per le grandi acciaierie di Kirov, raggiunse in macchina la sua residenza estiva sul Rio del Molino, pochi chilometri fuori Leningrado, per trascorrere la notte in famiglia. Nella residenza di campagna non c’era telefono, ma il suo autista fece ritorno allo stabilimento, pronto ad accorrere se succedeva qualcosa. Nel sobborgo di Puškin, l’antico villaggio imperiale di Tzarskoje Selo, l’aria tiepida e la pallida luce richiamavano frotte di coppiette sui viali di tigli e nei parchi tranquilli che circondavano lo squisito Palazzo di Caterina, opera del Rastrelli. Là, dove un tempo avevano abitato i poeti Aleksandr Puškin e Aleksandr Blok, una nuova generazione di ragazzi russi, molti dei quali reduci dagli esami di diploma, trascorreva passeggiando la lunga notte. Passando accanto ai tozzi edifici conosciuti col nome di Mezzaluna, presso i cancelli del palazzo, sostavano. Dalle finestre aperte della Mezzaluna si riversavano i suoni ossessivi di una sonata di Skrjabin. Erano il compositore Gavriil Popov e sua moglie, che suonavano su due pianoforti a coda in due stanze attigue, separate soltanto da tende. L’opera di Popov, Aleksandr Nevskij, era in prova proprio allora al Teatro Mariinskij, in vista della prima autunnale. Il Parco di Caterina era un nido di artisti. Poco distante, il compositore Boris Asafjev era al lavoro, intento a strumentare l’opera La bellezza slava, commissionatagli dal Teatro dell’Opera di Baku per l’imminente festival di Nizami. In un appartamento adiacente, il romanziere Vjačeslav Shishkov, di ritorno da un paio di giorni da una vacanza in Crimea, sedeva alla scrivania a correggere le bozze di un lungo romanzo storico. Il giovane scrittore Pavel Luknitzkij aveva lavorato per tutto l’inverno nel-
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la stessa casa di Shishkov, che un tempo era stata la villa di Aleksej Tolstoj ed era ora una casa di riposo per scrittori. Il 16 giugno, Luknitzkij, un giovane magro, bruno, bello, ardente e ancora scapolo, aveva finito il suo romanzo e l’aveva spedito all’editore. Attualmente era a Leningrado e si chiedeva come avrebbe passato l’estate. Magari sarebbe andato in Carelia, presso la nuova stazione di villeggiatura per scrittori. C’erano bei prati, e una spiaggia. Nella peggiore delle ipotesi, si disse, poteva sempre accettare un invito che aveva ricevuto per posta il giorno prima: l’Associazione degli Scrittori patrocinava un giro delle linee fortificate di Mafinerheim, in Carelia, cadute in mani sovietiche dopo la campagna invernale. Un certo numero di autobus riservati sarebbe partito alle sette e mezzo in punto del mattino del 24 giugno. In una grande casa al numero 9 del Canale Gribojedov, non lontano dalla Prospettiva Nevskij, il poeta Vissarion Sajanov passò la notte di sabato chiacchierando con un vecchio amico, un operaio che aveva conosciuto durante la campagna invernale contro la Finlandia. Sajanov aveva partecipato alla campagna in qualità di corrispondente di guerra, il suo amico in quella di commissario politico aggregato a un’unità di ricognizione. Davanti a una bottiglia di vodka, ricordarono il freddo pungente delle foreste finlandesi, i compagni superstiti e i caduti. Fu una piacevole serata di ricordi, e i due si separarono che la mezzanotte era passata da un pezzo. Sajanov, un poeta di mezz’età, dal volto tondo e gli occhiali cerchiati d’oro, accompagnò per un tratto l’amico prima di tornare a casa e mettersi a letto. La città era tranquilla nelle ore che precedevano il mattino – tranquilla, ma rischiarata da una luminosità rifratta che smorzava i colori, fondeva le ombre e conferiva ai grandi edifici di pietra trasparenze da porcellana. In lontananza si levavano echi di giovani voci. Cantavano una canzone popolare sovietica: «Daleko... daleko... Lontano... lontano», il lamento di un innamorato lontano dal suo amore e da casa. Il canto si fece più chiaro e squillante, e in fondo alla strada apparve un gruppo di studenti, gli abiti delle ragazze bianchi sullo sfondo scuro del selciato, i ragazzi in camicie chiare e calzoni blu. Si tenevano sottobraccio e camminavano adagio, e la bellezza del canto era rara e quasi soprannaturale. Gli abitanti di Leningrado, ormai, perlopiù dormivano, a eccezione dei ragazzi che ancora s’attardavano per strada. Sulla riva di Pietrogrado, la scrittrice Vera Ketlinskaja, mentre s’avviava verso casa lungo la Prospettiva Kirov, osservò un ragazzo giovane e sottile fermarsi e sollevarsi in spalla una ragazza perché potesse cogliere un ciuffo di gelsomino da un ramo pendulo. Il ragazzo e la ragazza raggiunsero il Ponte Kamennij Ostrov, oltre la Malaja Neva. Il ponte levatoio era sollevato, e i due attesero sul lungofiume, la ragazza rabbrividendo alla fresca aria notturna. Quando il ragazzo tentò di passarne un braccio attorno alle spalle, lei si svincolò decisa e disse: «Non sarò mai così stupida da sposarti!».
1. Le notti bianche 23
«Perché no?» domandò il ragazzo, disperato. «Perché no?» «È quello che tento di capire» rispose la ragazza. Finalmente il ponte levatoio si abbassò. Il ragazzo e la ragazza l’attraversarono in silenzio, lei sempre stringendo in mano il ciuffo di gelsomino. All’angolo si separarono, poi la ragazza chiamò: «Fedja!». «Sì?» fece di rimando il ragazzo. «Niente. Passa da me dopodomani. Ti restituirò i libri.» «D’accordo» fece il ragazzo. «Se non ci sei lasciali a tua madre. Farò un salto nel pomeriggio.» La giovane coppia sparì. Ora il viale si stendeva deserto e silenzioso. Leningrado dormiva nella notte che non era notte... la più lunga delle notti bianche.
2. Non tutti dormirono
Non tutti dormirono, quella notte. Non dormì il generale d’armata Kirill A. Mereckov, vicecommissario della Difesa, che alla mezzanotte del 21 giugno s’imbarcò sul rapido Freccia Rossa, a Mosca, incaricato di una missione urgente a Leningrado. Per ore e ore se ne stette a guardare dal finestrino del suo compartimento di mogano polito, le maniglie d’ottone massiccio, il tappeto di Bruxelles, i servizi igienici francesi. Viaggiava, infatti, su quella che era stata una vettura internazionale della compagnia dei vagoni letto francese, retaggio del passato imperiale. Procedendo verso nord, il fascio di luce della locomotiva della Freccia Rossa forava il crepuscolo, poi, a mano a mano che il treno percorreva la linea tracciata dagli ingegneri dello zar Nicola i, l’orizzonte andò sempre più schiarendosi. Mereckov conosceva bene quella regione. Negli anni 1939 e 1940 aveva comandato il Distretto Militare di Leningrado. Era stato lui il comandante delle truppe sovietiche durante la campagna d’inverno in Finlandia. Conosceva Leningrado dai tempi della Rivoluzione. Ogni chilometro o quasi della rada foresta di betulle e abeti tra Mosca e Leningrado gli era familiare. Mentre il paesaggio si spiegava nella luce fredda, il generale guardava fisso dal finestrino, osservando il sole salire in un cielo di un azzurro scialbo. Il treno si tuffava nel verde cupo della foresta, poi ne usciva lanciandosi per paludi acquitrinose. D’un tratto Mereckov udì le ruote rimbombare su un ponte, e dinanzi a lui apparvero le acque placide del fiume Volchov. Poi di nuovo acquitrini, altre abetaie, e ancora acquitrini. Il generale Mereckov avvertì un senso di crescente agitazione tornando a rivedere la campagna di Leningrado, di agitazione e di preoccupazione insieme, un senso di fierezza e il peso della storia. Gli vennero alla mente i versi di Puškin:
26 I 900 giorni Mostra i tuoi colori, Città di Pietro, E sii incrollabile come la Russia…
Guardava in silenzio dal finestrino, il volto teso e pensoso mentre il treno correva verso la capitale di Pietro il Grande. Al suo arrivo, avrebbe avuto molto da fare. Negli uffici simili a vecchie rimesse della Flotta Mercantile del Baltico di Leningrado, a lato del porto passeggeri e merci sulla Neva, sabato, 21 giugno, si formò la convinzione che qualcosa di strano era nell’aria. Che cosa, esattamente, nessuno sapeva dirlo con certezza. La cosa più preoccupante era il silenzio di Mosca, il silenzio del Commissariato del Popolo. Era cominciato venerdì. Quando Nikolaj Pavlenko, vicecapo dell’Ufficio Politico, arrivò in ufficio venerdì mattina, trovò sulla scrivania un radiomessaggio in codice, a firma «Juri». Il messaggio, che era stato captato poco prima dell’alba, fu messo in chiaro. Diceva: «Trattenuti. Impossibilitati lasciare porto. Non mandate altre navi… Juri… Juri… Porti tedeschi trattengono navi sovietiche… Protestate… Juri… Juri…». Il messaggio quasi certamente era stato trasmesso da un mercantile sovietico, il Magnitogorsk, impegnato a scaricare nel porto tedesco di Danzica. Il radiotelegrafista del Magnitogorsk si chiamava Juri Stasov, e il centro di deciframento ne riconobbe il tipico stile di trasmissione. Che significava? Che fare? Il Magnitogorsk non rispose ai messaggi radio. C’erano altre cinque navi sovietiche nei porti tedeschi. Nessuna notizia neppure da loro. Il messaggio di «Juri» fu ritrasmesso a Mosca. Nessuna reazione. Pavlenko non lasciò cadere la cosa. Telefonò ad Aleksej A. Kuznetzov, segretario del Comitato Regionale del Partito di Leningrado, chiedendogli come doveva comportarsi. Kuznetzov suggerì che bisognava esser cauti, ma avvertì che «evidentemente della questione se ne stanno occupando a Mosca». Per il momento non c’era niente da fare per quanto riguardava le navi che già si trovavano in acque tedesche, ma le autorità navali decisero di non mandarne altre a occidente finché non si sapeva che cosa stava accadendo. La motonave Vtoraja Pjatiletka e il piroscafo Lunaciarskij, in rotta per porti tedeschi, ricevettero l’ordine di sostare nel golfo di Finlandia e di tenersi pronti a dirigersi su Riga o Tallinn. La Flotta Mercantile attese per tutta la giornata di sabato istruzioni da Mosca. Ma non ne ricevette. Pavlenko si consultò nuovamente col segretario Kuznetzov, il quale acconsentì a che la Vtoraja Pjatiletka facesse rotta per Riga e il Lunaciarskij tornasse a Leningrado. Era un’insolita dimostrazione d’iniziativa personale da parte di burocrati sovietici, agire senza ordini da Mosca. Nel frattempo, le navi che si trovavano nelle acque del Baltico furono invitate a tenersi in continuo contatto con Leningrado. Verso sera, i capi della Flotta Mercantile si riunirono a consiglio. La dome-
2. Non tutti dormirono 27
nica era giornata di vacanza, ma decisero che il personale responsabile si recasse egualmente in ufficio. Gli altri sarebbero rimasti in città, pronti ad accorrere, in caso di emergenza. I più alti funzionari amministrativi e politici e i loro sostituti, ivi compreso Pavlenko, si trattennero in ufficio per buona parte della serata, poi se ne andarono a casa. Il Comando Militare di Leningrado abbracciava una vasta area. In caso di guerra sarebbe diventato il centro di comando per la zona che si estende dal Mar Baltico sino alle regioni artiche della penisola di Cola. Dal comando suddetto dipendeva, per quanto concerneva le operazioni terrestri, l’ammiraglio Arsenij G. Golovko, comandante della Flotta del Nord di Poljarnij, sulla costa di Murmansk. L’ammiraglio Golovko da tempo andava trasmettendo sempre più numerose notizie allarmanti. Nelle ultime settimane erano state segnalate incursioni di aerei da ricognizione tedeschi sulle installazioni sovietiche. Che doveva fare? La risposta era: «Evitare provocazioni. Non sparare ad alta quota». Golovko divenne sempre più ostinato. Il mercoledì precedente, 18 giugno, era giunto a Murmansk il generale di divisione Markian M. Popov, comandante del Distretto Militare di Leningrado e diretto superiore di Golovko nell’intricato sistema di comando sovietico. Golovko sperava di ottenere lumi, ma così non fu. Popov si limitò a far domande circa la costruzione di fortificazioni, nuovi aeroporti, magazzini di rifornimento e baraccamenti. Se anche era al corrente della situazione, non lo lasciò trapelare. «A quanto pare, non ne sa più di noi» annotò Golovko nel suo diario, il 18 giugno. Peccato. Una tale indecisione non è certo una prospettiva molto piacevole in caso di attacco improvviso. In serata Popov è partito per Leningrado. L’ho accompagnato fino a Cola. Ci ha offerto un’ultima birra nella sua vettura riservata e con ciò si è concluso il nostro incontro. Niente di preciso neppure da Mosca. La situazione permane poco chiara.
Né si chiari il 19 giugno, giovedì. Furono segnalate altre incursioni tedesche. Il venerdì, niente. Il sabato, il Teatro Musicale Stanislavskij, iniziando la tournée estiva in provincia, dava La Périchole di Offenbach a Murmansk. Golovko decise di andarci. Si fece accompagnare da un membro del suo Consiglio Militare, A.A. Nikolajev, e dal suo capo di Stato maggiore, viceammiraglio S.G. Kucerov. Il teatro era gremito. C’era persino gente in piedi. Golovko si distese e lasciò che la musica allontanasse dalla sua mente le preoccupazioni. Altrettanto fecero, pensò, a giudicare dalle loro espressioni, i suoi aiutanti.
28 I 900 giorni
Il pubblico pareva a suo agio, forse per via della presenza di Golovko e del suo seguito. «La situazione non può essere così grave, se i capi sono qui.» Questo lesse sui volti degli spettatori mentre si sgranchivano le gambe nel ridotto, tra un atto e l’altro. Per tutto il tragitto di ritorno al quartier generale, Golovko, Nikolajev e Kucerov si scambiarono opinioni sull’operetta. Giunti al quartier generale poco prima di mezzanotte, Golovko ordinò tè e si accinse a esaminare il rapporto sulla situazione nella tarda serata. Presso le installazioni del comando per la difesa di Leningrado di Kingisepp, sull’arcipelago Moonzund, davanti alla costa estone del Baltico, il maggiore Michail Pavlovskij trascorse il sabato, 21 giugno, al quartier generale per la difesa costiera. Da giorni riceveva rapporti circa un’insolita attività tedesca, ma il sabato non fu comunicato niente di nuovo. Mentre stava per lasciare il suo ufficio, telefonò un amico del 10° Reggimento di frontiera, il maggiore Serghiej Skorodumov. «Che ne dici di andare a prendere la tua metà e venire a teatro? Il complesso di canto e danza della nkdv dà un concerto e ho i biglietti.» Pavlovskij rispose che doveva chiedere a sua moglie. «Nessun incidente, oggi?» domandò poi. «Tutto tranquillo» replicò Skorodumov. Le due coppie andarono al concerto. Al termine dello spettacolo s’avviarono verso casa a piedi. La città era silenziosa. Perlopiù la gente era già andata a letto, benché sul Baltico fosse ancora chiaro come in pieno giorno. Pavlovskij e la moglie si stavano spogliando e parlavano di fare una gita in campagna il giorno dopo, quando trillò il telefono: lo richiamavano al quartier generale. «Che c’è?» domandò la moglie di Pavlovskij. «Non lo so, Klavdija» rispose il maggiore. «Non ne so assolutamente niente. Forse si tratta di un’esercitazione.» Diede un bacio alla moglie e, socchiudendo piano la porta per non svegliare i bambini, uscì di casa. Mancava poco a mezzanotte. Ciò che accadeva nella regione di Leningrado accadeva esattamente anche in altre zone di frontiera. Il 21 giugno trovò il generale di corpo d’armata Ivan i. Fedjuninskij al comando del 15° Corpo Fucilieri, di stanza a Kovel e a difesa del settore del fiume Bug sul Fronte Centrale. Le sue preoccupazioni s’erano fatte più vive a partire da mercoledì, 18 giugno, allorché un soldato tedesco disertore s’era presentato alle sue linee per riferire che i nazisti si preparavano ad attaccare l’Unione Sovietica alle quattro del mattino del 22 giugno.1 Quando Fedjuninskij riferì la notizia
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al suo diretto superiore, il generale M.I. Potapov della v Armata, si sentì rispondere laconicamente: «Mai credere alle provocazioni». Ma il venerdì, di ritorno dalle manovre locali, Fedjuninskij incontrò il generale Konstantin Rokossovskij. Rokossovskij, comandante di un’unità motorizzata aggregata alla v Armata, non mostrò di sottovalutare gli indizi di un imminente attacco nazista: in effetti, condivideva le preoccupazioni di Fedjuninskij.2 Era tarda notte, quando Fedjuninskij si ritirò nei suoi alloggi, ma non riuscì egualmente a prender sonno. Si alzò e si accese una sigaretta dinanzi a una finestra aperta. Diede un’occhiata all’orologio. Era l’una e mezzo. I Tedeschi avrebbero sferrato l’attacco quella notte? Tutto sembrava tranquillo. La città dormiva. Le stelle scintillavano nel cielo blu cupo. «Possibile che questa sia l’ultima notte di pace?» si chiese Fedjuninskij. «Il mattino ci porterà qualcosa di nuovo?» Stava ancora soppesando tale interrogativo, quando trillò il telefono. Era il suo superiore, generale Potapov. «Dove vi trovate?» domandò Potapov. «Nei miei alloggi» rispose Fedjuninskij. Potapov gli ordinò di recarsi immediatamente al quartier generale dello Stato maggiore e di restarvi in attesa di una chiamata sulla linea speciale riservatissima, il cosiddetto telefono vc. Fedjuninskij non perse tempo ad aspettare un’automobile. Si gettò la giubba sulle spalle e corse al quartier generale dello Stato maggiore. Vi trovò la linea vc fuori uso. Si servì perciò del normale telefono, e Potapov gli ordinò di porre in stato di allarme la sua divisione. «Però non reagite alle provocazioni» insistette Potapov. Mentre posava il ricevitore, Fedjuninskij udì una scarica di revolverate – l’automobile che era stata mandata a prenderlo per trasportarlo al quartier generale dello Stato maggiore veniva fatta segno a colpi d’arma da fuoco da parte di un commando nazista che aveva varcato la frontiera.3 Il viceammiraglio Vladimir Tribuc, comandante in capo della Flotta del Baltico e incaricato della difesa degli accessi marittimi a Leningrado, aveva seguito gli avvenimenti della sconcertante primavera del 1941 con malcelata apprensione. Forse più di qualsiasi altro ufficiale sovietico, Tribuc era al corrente dell’attività degli aerei tedeschi, dei sommergibili tedeschi, dei trasporti tedeschi, degli agenti tedeschi e dei simpatizzanti tedeschi. Quasi suo malgrado (a causa di certi problemi di sicurezza e della difficoltà di costruire una nuova base navale), Tribuc aveva spostato il quartier generale della Flotta del Baltico dalla sua storica sede presso la fortezza di Kronstadt, a Leningrado, al porto di Tallinn, circa trecento chilometri più a ovest. Lo spostamento era avvenuto quando i Sovietici si erano annessi gli stati baltici, nell’estate del 1940. Ciò aveva consentito all’ammiraglio Tribuc un posto d’osservazione entro le zone baltiche di nuova acquisizione e solo parzialmente assimilate. Cominciò a segnalare l’arrivo di truppe tedesche a Memel, appena oltre la nuova frontiera sovietica sul Baltico, già ai primi di marzo
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del 1941. Nello stesso mese le incursioni di ricognitori germanici divennero un fenomeno pressoché giornaliero per molte basi baltiche. In giugno, l’ammiraglio Tribuc stimò che almeno quattrocento carri armati tedeschi si fossero concentrati a pochi chilometri di distanza dalla frontiera sovietica sul Baltico. Ancora più indicativo era il comportamento dei tecnici tedeschi impegnati in lavori per conto della Marina sovietica. I Russi avevano acquistato dalla Germania verso la fine del 1939 un incrociatore non ancora terminato, il Lützow, e nella primavera del 1940 lo rimorchiarono a Leningrado per completarlo nei grandi cantieri del Baltico. Alcune centinaia di tecnici tedeschi lavoravano sul Lützow. In aprile, pezzi e rifornimenti non giunsero come previsto dalla Germania, benché in precedenza i Tedeschi si fossero mostrati puntualissimi. Tribuc accennò al ritardo con l’ammiraglio N.G. Kuznetzov, il commissario della Marina, il quale ne parlò a Stalin. Ma Stalin si limitò a suggerire di tener d’occhio la situazione. Qualche tempo dopo, i tecnici tedeschi, con questo o quel pretesto, cominciarono a prendere la via di casa. Alla fine di maggio, ne restavano a Leningrado solo venti, e il 15 giugno aveva fatto fagotto anche l’ultimo. Contemporaneamente, le navi tedesche sparirono dalle acque sovietiche. Il 16 giugno, non ce n’era neppure più una. Tribuc era così preoccupato che il 19 giugno, giovedì, convocò il suo Consiglio Militare e decise di emanare un Allarme N° 2 per la Flotta del Baltico. Il capo di Stato maggiore, viceammiraglio Juri A. Pantelejev, si accinse a compilare gli ordini relativi, mentre Tribuc telefonava all’ammiraglio Kuznetzov, a Mosca. «Compagno commissario» disse Tribuc all’ammiraglio Kuznetzov «siamo giunti alla convinzione che un attacco tedesco è possibile da un momento all’altro. Dobbiamo dar inizio alla posa degli sbarramenti di mine o sarà troppo tardi. E a mio modo di vedere è indispensabile porre la flotta in stato di efficienza operativa.» Tribuc ascoltò per un attimo la replica di Kuznetzov, poi riagganciò. «È d’accordo per quanto riguarda l’ordine di mobilitazione» Tribuc disse a Pantelejev «ma ci ordina di essere cauti e di evitare le provocazioni. E dovremo aspettare per la posa delle mine. Avanti, mettiamoci all’opera…»4 La sera del 21 giugno, le frontiere marittime di Leningrado – la Flotta del Baltico, le basi costiere, l’artiglieria costiera fino a Libau, le sentinelle di fazione sulle isole del Baltico, la fortezza di Hangö di recente acquisizione, i sommergibili, le pattuglie e le altre unità navali – avevano tutte ricevuto l’Allarme N° 2, appena un gradino più sotto dell’ordine di mobilitazione generale. Erano state distribuite le munizioni; cancellate tutte le licenze. Gli equipaggi erano tutti ai posti di combattimento. Lo stesso Tribuc e il suo stato maggiore avevano lasciato la Città Vecchia e si erano trasferiti al nuovo posto di comando di guerra, un rifugio sotterraneo
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fuori Tallinn. Tribuc ricevette un ennesimo allarmante rapporto. Proveniva da una nave sentinella, il sommergibile M-96, in servizio all’imboccatura del golfo di Finlandia. Il capitano A.I. Marinesko riferì d’avere scorto un convoglio di trentadue trasporti, molti dei quali battenti bandiera tedesca, nei pressi del faro di Bengtscer, verso le quattro del mattino del 21 giugno. Quella sera, Tribuc si tenne in stretto contatto con l’ammiraglio Kuznetzov, a Mosca. Il commissario della Marina era un militare di provata esperienza. Militava nella Marina sin da ragazzo, e negli anni trenta s’era recato in Spagna in qualità di consigliere della flotta spagnola durante la Guerra Civile. Condivideva l’inquietudine di Tribuc, ma si reputava impotente ad agire in mancanza di istruzioni da parte del comando supremo. Aveva impartito l’Allarme N° 2 alle varie flotte sotto la sua personale responsabilità, definendolo tecnicamente una manovra di «addestramento». In effetti, si trattava di una precauzione contro l’eventualità di un improvviso attacco. Tribuc e Kuznetzov conferirono dopo il rapporto serale sulla situazione del vicecapo di Stato maggiore della Marina, V.A. Alafuzov (il capo di Stato maggiore, ammiraglio I.S. Isakov, s’era recato a Sebastopoli per le manovre del Mar Nero). Tribuc disse a Kuznetzov di considerare la situazione così grave, che tanto lui quanto il suo stato maggiore si riproponevano di restare ai rispettivi posti di comando tutta notte. Kuznetzov ripeté che aveva le mani legate per ciò che concerneva ulteriori iniziative. I due ufficiali conclusero lo scambio di opinioni molto depressi. Le preoccupazioni di Kuznetzov si aggravarono in serata quando l’ammiraglio ebbe uno scambio d’idee con il Comando del Mar Nero, che aveva sede a Sebastopoli, e il Comando Settentrionale di Poljarnij, e decise a sua volta di trattenersi in ufficio tutta notte. Ritelefonò ai comandanti della flotta, ammonendoli di stare all’erta. «Presso l’Alto Comando, sino a tarda ora della sera del 21 giugno» annota Kuznetzov nelle sue memorie «fu tutto calmo. Nessuno mi telefonò e nessuno mostrò un qualsiasi interessamento per lo stato di preparazione della flotta.» A un certo momento, tra le dieci e mezzo e le undici di sera, Kuznetzov ricevette una telefonata dal maresciallo Semjon K. Timošenko, commissario della Difesa, il quale gli disse: «Sono in possesso di certe importanti informazioni. Venite da me».5 Kuznetzov si precipitò fuori dall’ufficio assieme al suo vice, Alafuzov (il quale era preoccupatissimo perché aveva l’uniforme stazzonata e non c’era il tempo di cambiarsi). Il Commissariato della Difesa si trovava in Via Frunze, a breve distanza dal quartier generale della Marina, e i due uomini raggiunsero a piedi l’ufficio di Timošenko, situato in un piccolo edificio di fronte all’ingresso numero 5 del Commissariato.
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«Dopo una giornata afosa» ricorda Kuznetzov «era caduto un breve rovescio, e ora faceva un po’ più fresco.» Giovani coppie passeggiavano sul viale, e poco distante doveva essere in corso una festicciola da ballo: da una finestra aperta giungeva il suono di un grammofono. I due uomini salirono di corsa le scale che portavano al secondo piano del Commissariato della Difesa. Un alito di vento smuoveva le pesanti tende color rosso magenta, ma l’aria era così soffocante che Kuznetzov si sbottonò la giubba mentre varcava la soglia dell’ufficio di Timošenko. Al tavolo sedeva il generale Georgij K. Žukov, capo di Stato maggiore generale. Il maresciallo Timošenko stava dettando un telegramma e Žukov compilava un modulo. Ne aveva una pila, dinanzi a sé, e ne aveva già riempiti più di metà. Ovviamente, i due ufficiali erano al lavoro da qualche ora. «Può darsi che i Tedeschi attacchino, ed è necessario che la flotta si tenga pronta» disse Timošenko. «Fui allarmato da quelle parole» ricorda Kuznetzov «però non mi giunsero inattese. Riferii che la flotta si trovava già in stato di altissima efficienza operativa ed era in attesa di ulteriori ordini. Mi trattenni qualche minuto per farmi un’idea esatta della situazione, mentre Alafuzov tornava a precipizio in ufficio a trasmettere radiogrammi urgenti alla flotta. «Speriamo solo di fare a tempo» pensai, mentre tornavo ai miei alloggi. Kuznetzov telefonò immediatamente a Tribuc. «Non trascorsero più di tre minuti» scrive Kuznetzov «che udii all’altro capo del filo la voce di Vladimir Filippovich Tribuc.» «Non aspettate di ricevere i telegrammi che sono per via. Impartite alla flotta l’Allarme Operativo N° 1 – tutti ai posti di combattimento. Ripeto: tutti ai posti di combattimento.» «Quando, esattamente, il Commissariato della Difesa avesse ricevuto l’ordine: “Tenersi pronti a respingere il nemico” non lo so» riferisce Kuznetzov. «Comunque rimasi senza notizie sino alle undici di sera del 21 giugno. Alle undici e trentacinque, conclusi la conversazione telefonica col comandante della Flotta del Baltico. E alle undici e trentasette, com’è riportato nel diario d’operazioni, era già stato emanato l’Allarme N° 1, vale a dire che, tempo due minuti esatti, tutte le unità della flotta cominciarono a ricevere l’ordine di “respingere eventuali attacchi”.»6 La notte che non era notte scorreva lentamente. Più tardi Kuznetzov avrebbe scritto: «Vi sono eventi che non si possono cancellare dalla memoria. Oggi, a distanza di un quarto di secolo, mi ricordo ancora con esattezza le esperienze di quella tragica sera tra il 21 e il 22 giugno».