Anthony Majanlahti Amedeo Osti Guerrazzi
Roma divisa 1919-1925 Itinerari, storie, immagini
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Roma divisa 1919-1925
Alcune cose sono troppo terribili per entrare a far parte di noi al primo impatto; altre contengono una tale carica di orrore che mai entreranno dentro di noi. Solamente piÚ tardi, nella solitudine, nella memoria, giunge la comprensione: quando le ceneri sono fredde, la gente in lutto è andata via; quando ci si guarda intorno e ci si ritrova in un mondo completamente diverso. Donna Tartt, Dio di illusioni
Sommario
Introduzione. Città di sangue 11 Cronologia 27 1. Il Vittoriano: da monumento nazionale ad altare fascista
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Itinerario 1. Nel ventre della belva 49
2. Anni rossi, anni neri
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Itinerario 2. L’arrivo del re 64
3. Guerra, classi sociali e l’inizio della guerra di classe
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Itinerario 3. La classe operaia 85
4. Preparandosi per la rivoluzione: politica e classe operaia a Roma
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Itinerario 4. Le organizzazioni socialiste 106
5. La nascita del fascismo romano
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Itinerario 5. La nascita del Fascio romano 124
6. Botte da orbi: il collasso delle istituzioni liberali Itinerario 6. L’apertura di una stagione violenta: il massacro del 24 maggio 1920 151 – Itinerario 7. L’inizio dello squadrismo e l’autodifesa del proletariato, 19201921 158 – Itinerario 8. Lo squadrismo in azione. La parata del 27 luglio 1921 167
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7. Il congresso del novembre 1921 e l’umiliazione dei fascisti
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Itinerario 9. Il seppellimento inquieto di Enrico Toti, 22-24 maggio 1922 184
8. Dalla Marcia su Roma al delitto Matteotti
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Itinerario 10. La fortezza della classe operaia romana: Trionfale 204 – Itinerario 11. Scene da un omicidio: l’assassinio di Giacomo Matteotti 234
Un triste finale: le conseguenze dell’assassinio, l’Aventino e l’inizio della dittatura
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Note 259 Bibliografia 276 Fonti iconografiche 279 Indice dei nomi 280 Indice dei luoghi 289
Introduzione Città di sangue
Fu un momento di terrore. Tutti fuggivano urlando, mentre le guardie regie rincorrevano chiunque scappava, tirando a bruciapelo nella schiena. L’Avanti!, 26 maggio 1920
Il Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale testimonia la tranquilla autorevolezza di uno stato moderno ed efficiente. Fu costruito nel 1883 per ospitare delle mostre d’arte, un’idea piuttosto progressista, e il suo edificio esprime il linguaggio visuale del potere: colonne, volte a cassettoni, lo stesso ingresso sembra un arco di trionfo. Nulla ricorda il massacro avvenuto sulla scalinata d’accesso il 24 Il Palazzo delle Esposizioni appena terminato. maggio 1920, quando le «forze dell’ordine» stroncarono con caotica ed eccessiva violenza una manifestazione di studenti. La dimostrazione, e le sue conseguenze, riempirono i titoli dei giornali e si imposero anche nel dibattito parlamentare; furono il primo segnale importante che Roma, come altre città italiane, stava per essere coinvolta da una violenza che le autorità non erano preparate ad affrontare e men che mai a reprimere. La dimostrazione fu soltanto uno dei molti episodi di violenza che causarono dozzine di morti e centinaia di feriti tra il 1919 e il 1924, quando Roma fu uno dei teatri più importanti dei disordini seguiti alla Prima guerra mondiale. Di tutta quella violenza, di tutto quel dolore, non è rimasto praticamente nulla. La memoria pubblica italiana, e la storiografia, si sono concentrate quasi completamente sulle violenze scatenate dalle squadre fasciste nel Centro-Nord della Penisola, mentre gli scontri e le aggressioni avvenuti a Roma sono stati relegati in secondo piano, a fronte di una tradizione che vede nella capitale una città di impiegati e commercianti, quasi priva di lotta di classe, e con una forte attenzio-
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ne da parte dei governi pronti a reprimere sul nascere ogni tentativo di turbare l’ordine pubblico.1 Eppure i quartieri di Trionfale e San Lorenzo avevano poco da invidiare, in quanto a capacità combattiva, ai più noti quartieri operai del Centro-Nord (come l’Oltretorrente a Parma, famoso per aver respinto le squadre di Italo Balbo nel 1922), e anche il centro storico vide le sue strade bagnate con il sangue. Il risultato di questa totale perdita di memoria è la mancanza di qualsiasi traccia, di qualsiasi monumento o targa (a eccezione di quello per la commemorazione di Matteotti) che ricordi le vittime della violenza del fascismo. Luoghi come via Tolemaide, nel quartiere Trionfale, o il Caffè Aragno, furono centri della vita cittadina, e luogo di scontri estremamente violenti. Ma chi ricorda più che a piazza Risorgimento ebbe luogo una vera e propria battaglia combattuta dalla Regia Guardia con cavalleria e autoblinde per stroncare la resistenza operaia? Oppure che a San Lorenzo ci volle ancora l’intervento delle autoblinde, questa volta chiamate dai carabinieri, per arrestare i lavoratori che si erano opposti alle spedizioni punitive dei fascisti? Il lavoro di ricostruzione di questa memoria perduta è reso estremamente difficile da due fattori principali. Innanzitutto, la conquista fascista del potere nel 1922 e il ventennio successivo imposero una memoria collettiva dettata dalla propaganda del regime, mentre moltissimi documenti della polizia semplicemente furono fatti sparire. Furono i fascisti a cancellare l’imbarazzante ricordo della resistenza di Roma. In secondo luogo, dopo la caduta del fascismo, l’Italia si impegnò in una politica della memoria che voleva dimenticare il fascismo stesso e i suoi antecedenti, preferendo stendere un velo di oblio sul ventennio appena trascorso piuttosto che confrontarsi con le scomode verità di quel periodo. Questo libro offre la possibilità di invertire questo processo di oblio. Il testo invita il lettore a esplorare, attraverso una serie di itinerari, i luoghi della guerra civile a Roma, combattuta tra il 1919 e il 1924, e cerca di ricordare come il fascismo non avrebbe potuto stroncare l’opposizione popolare senza avere come alleato lo Stato italiano. I fascisti, con il tacito o esplicito incoraggiamento delle «forze dell’ordine» statali, portarono la nazione nel gorgo di una guerra civile tanto inutile quanto squilibrata, subito dopo una guerra mondiale che aveva devastato e diviso la società.
Dopo l’estate del 1914, allo scoppio del conflitto tra gli imperi centrali e l’Intesa anglo-franco-russa, il paese si era lacerato tra «neutralisti» e «interventisti», tra chi vedeva nella guerra niente altro che un conflitto tra opposti imperialismi, e un avvenimento foriero di lutti e disastri, e chi invece riteneva la guerra come una grande opportunità per distruggere il «militarismo prussiano» e raggiungere una reale giustizia tra tutti i popoli europei, oppressi dall’Impero asburgico.
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Tra i neutralisti i più rappresentativi erano Giovanni Giolitti, l’anziano statista piemontese più volte presidente del Consiglio, che riteneva che l’Italia avrebbe potuto ottenere «parecchio» (così si espresse, suscitando le ire dei demagoghi di destra), anche rimanendo neutrale, attraverso il gioco della diplomazia. Accanto a lui vi erano, alleati imbarazzanti per un politico che era comunque un liberale monarchico, i socialisti del Partito socialista italiano e i sindacati riformisti, come la Confederazione generale del lavoro (il sindacato nazionale di ispirazione socialista). Per i socialisti, capitanati da personaggi come Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati, la guerra era un disastro che si doveva evitare perché a pagarne le conseguenze, come poi avvenne, sarebbe stato il proletariato, privo ancora in gran parte di diritti fondamentali, ma obbligato a combattere per una classe dirigente che lo vessava e lo disprezzava. Il fronte interventista era, se possibile, ancora più variegato e diviso. Tra gli interventisti vi erano i nazionalisti, convinti che l’Italia avrebbe dovuto combattere per imporsi come grande potenza e quindi ottenere vantaggi economici e territoriali. I nazionalisti erano così convinti della necessità dell’intervento che in un primo tempo richiesero che l’Italia si schierasse accanto ad AustriaUngheria e Germania, alle quali, tra l’altro, era alleata dal 1882. Ma vi erano anche gli interventisti «di sinistra», o democratici, convinti che questa guerra sarebbe stata «l’ultima», perché una volta distrutti gli imperi centrali, la democrazia avrebbe regnato in Europa e i popoli oppressi sarebbero stati liberati. Altri ancora ritenevano, invece, che la guerra avrebbe significato la rivoluzione, la distruzione del vecchio mondo e la trasformazione complessiva della società. Tra questi ultimi si trovavano personaggi diversissimi tra loro, come alcuni sindacalisti (i cosiddetti sindacalisti rivoluzionari), anarchici e transfughi dal Partito socialista, come l’editore e giornalista Benito Mussolini. Infine vi erano i futuristi, esponenti di un movimento politico-culturale, che vedevano la guerra come una grande avventura che avrebbe spazzato via il «vecchio» mondo liberale e che, capitanati da Filippo Tommaso Marinetti, trovarono un importante alleato nel poeta, tutt’altro che futurista dal punto di vista estetico, Gabriele d’Annunzio. Gli interventisti erano sicuramente pochi, in termini numerici, ma erano particolarmente decisi e rumorosi, maestri nell’arte di mobilitare l’opinione pubblica. Mussolini e il sindacalista Filippo Corridoni, a Milano, Manifestazione a favore della guerra sul Came D’Annunzio, a Roma, furono i più pidoglio, nel maggio 1915.
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importanti oratori in affollatissimi comizi dove i neutralisti, come Giolitti, venivano additati al pubblico disprezzo e accusati di tradimento. Inoltre gli interventisti potevano contare sull’appoggio della grande stampa e dei maggiori gruppi industriali, che vedevano nella guerra un ottimo affare, e soprattutto del governo guidato, all’epoca, da Antonio Salandra (presidente del Consiglio dei ministri) e da Sidney Sonnino (ministro degli Esteri). Salandra e Sonnino erano convinti della necessità di partecipare al conflitto se il paese da loro governato voleva mantenere il rango di grande potenza. Nella primavera del 1915 furono quindi portate avanti le trattative sia con gli imperi centrali sia con gli anglo-francesi, che si conclusero il 26 aprile 1915 con la stipula del Patto di Londra, che prevedeva, in sintesi, l’acquisizione dei territori del Trentino Alto-Adige e della Venezia Giulia. La società italiana si spaccò in due: interventisti e neutralisti, «salandrini» e «giolittiani», socialisti e nazionalisti erano fazioni che non potevano in alcun modo dialogare. Da una parte un atteggiamento pacifista e razionale, dall’altra una spinta irrazionalista ed emotiva, che faceva leva sugli istinti patriottici e su una retorica che si ispirava, distorcendola, alla tradizione risorgimentale, alla metanarrativa, e che quindi aveva formato le ultime generazioni attraverso la scuola e i rituali pubblici. Per decenni, infatti, gli italiani erano stati educati a conoscere e amare gli eroi delle guerre di liberazione contro il dominio austriaco, abituati a vedere negli Asburgo i nemici secolari della patria, e a leggere libri come Le mie prigioni di Silvio Pellico, che descriveva le sue vicissitudini negli ergastoli della duplice monarchia. Garibaldi, Cavour e i giovani carbonari che avevano tramato contro gli oppressori erano i modelli presentati agli studenti, i quali trovarono nella guerra contro gli Imperi centrali la loro possibilità di ripercorrerne le gesta. Gabriele d’Annunzio, sempre pronto a fomentare la folla e a lanciare accuse tanto gravi quanto generiche, vide nell’indecisione della classe dirigente Gabriele d’Annunzio, uno dei maggiori prota- l’ostacolo all’intervento italiano che gonisti dell’interventismo italiano. riteneva necessario.
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Nel maggio del 1915 egli arrivò nella capitale e tuonò, dal balcone del suo albergo: «È necessario che non sia consumato in Roma l’assassinio della patria. Voi me ne state mallevadori, o Romani. Viva Roma vendicatrice!».2 La guerra, però, lungi dall’essere un’epopea di stampo risorgimentale, lungi dal rappresentare una meravigliosa avventura, si rivelò una «inutile strage», come disse papa Benedetto xv (1914-1922) nel discorso natalizio del 1916. Milioni di uomini sperimentarono sul loro corpo le più spietate invenzioni della modernità, i più orribili marchingegni ideati dall’uomo per mutilare, uccidere, accecare i suoi simili. Una poesia di Wilfred Owen, nella sua crudità, racconta meglio di tante descrizioni quale orrore dovevano affrontare i soldati di trincea quando venivano aggrediti dai gas: In due, come vecchi straccioni, sacco in spalla, le ginocchia ricurve, tossendo come megere, imprecammo nel fango finché volgemmo le spalle all’ossessivo bagliore delle esplosioni e verso il nostro lontano riposo cominciammo ad arrancare. Gli uomini marciavano addormentati. Molti, persi gli stivali, procedevano claudicanti, calzati di sangue. Tutti finirono azzoppati, tutti orbi: ubriachi di stanchezza; sordi persino al sibilo di stanche granate che cadevano lontane indietro. Il gas! Il gas!! Svelti ragazzi! – Come in estasi annasparono, infilandosi appena in tempo i goffi elmetti; ma ci fu uno che continuava a gridare e a inciampare dimenandosi come in mezzo alle fiamme o alla calce… Confusamente, attraverso l’oblò di vetro appannato e la densa luce verdastra, come in un mare verde, lo vidi annegare. In tutti i miei sogni, davanti ai miei occhi smarriti, si tuffa verso di me, cola giù, soffoca, annega. Se in qualche orribile sogno anche tu potessi metterti al passo dietro il furgone in cui lo scaraventammo, e guardare i bianchi occhi contorcersi sul suo volto, il suo volto a penzoloni, come un demonio sazio di peccato, se potessi sentire il sangue, ad ogni sobbalzo, fuoriuscire gorgogliante dai polmoni guasti di bava, osceni come il cancro, amari come il rigurgito di disgustose, incurabili piaghe su lingue innocenti… amico mio, non ripeteresti con tanto compiaciuto fervore a fanciulli ansiosi di farsi raccontare gesta disperate, la vecchia Menzogna: Dulce et decorum est pro patria mori.3
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I soldati italiani si trovarono a marcire nelle trincee o a farsi massacrare in offensive demenziali sul fronte dell’Isonzo. Fu così che nel novembre del 1917, quando gli austro-tedeschi scatenarono una violenta offensiva, ben preparata, con truppe ottimamente addestrate e con delle tattiche innovative, i soldati italiani, spossati da due anni e mezzo di guerra e da una disciplina ferrea e inumana, furono presi dal panico e la sconfitta, passata alla storia come la disfatta di Caporetto, si trasformò in una rotta disordinata. I soldati, ormai mollato ogni freno disciplinare, buttavano i fucili e inneggiavano alla pace e a Giolitti, insultando o sparando agli ufficiali che tentavano di frenarne la fuga. I numeri parlano da soli: 11 000 soldati italiani uccisi, 20 000 feriti e 265 000 prigionieri. La reazione delle classi dirigenti, e dei vertici dell’esercito, fu isterica. Invece di tentare di capire le cause tecniche della sconfitta, accusarono i neutralisti, in primis Giolitti e il Partito socialista, di aver boicottato lo sforzo bellico e di aver fomentato l’indisciplina e la diserzione. Si parlò di traditori, di sciopero militare, della necessità di una dittatura interna. La stessa Canzone del Piave, la più nota della guerra, recitava «ma in una notte triste / si parlò di tradimento», mentre Mussolini, dalle colonne del suo giornale, Il Popolo d’Italia, invocava «uomini feroci» per ristabilire l’ordine. Si assistette a una vera e propria ventata di follia collettiva. Nel paese fiorirono associazioni e «Fasci» che dovevano vigilare sul «Fronte interno» per smascherare i traditori della patria e rinsaldare la coesione nazionale. (La parola «Fascio» veniva dal latino fasces, e nell’antica Roma era il simbolo dell’autorità della Repubblica e dei funzionari pubblici, e fisicamente si presentava come un’ascia circondata e legata assieme a delle verghe.) Le lacerazioni dell’anteguerra, in un momento di grave crisi, invece di ricomporsi, diventavano sempre più profonde, anche a causa delle notizie provenienti dalla Russia, dove la Rivoluzione di Ottobre rovesciò il governo Kerenski e portò al governo Lenin e i bolscevichi, che in breve L’ossessione del tradimento in una cartolina tempo firmarono la pace di Brest-Litovsk, sancendo l’uscita di quello che di propaganda.
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era stato l’Impero degli zar dal conflitto. I socialisti nostrani furono considerati alla stregua dei bolscevichi e la loro propaganda in favore di una pace senza vinti né vincitori, che intendeva soltanto far finire il conflitto, fu interpretata come il tentativo di sabotare la guerra italiana. Nonostante la propaganda parlasse della fiera resistenza dei soldati e della compattezza della società nel suo insieme, la disillusione e lo scoramento si stavano facendo strada anche tra i cittadini lontani dal fronte. A Trastevere il poeta di strada sor Capanna cantava: «Er General Cadorna ha scritto alla Reggina: / Si voi vedé Trieste / compra ’na cartolina».4 Il fronte, dopo settimane di combattimenti durissimi, fu stabilizzato sul Piave. I vertici dell’esercito si convinsero finalmente che i soldati non potevano più essere costretti a combattere soltanto con la forza, e avviarono una politica più attenta alle necessità della fanteria, l’arma che più era stata sacrificata nelle grandi offensive del 1915-1917. La propaganda per i soldati, i cosiddetti «giornali di trincea», cominciò a spiegare i motivi della guerra, adesso apertamente difensivi e quindi più facilmente accettabili per i «fanti contadini». Si iniziò a parlare non soltanto di Trento e Trieste, ma di obiettivi più concreti, quali la redistribuzione delle terre ai lavoratori o le riforme politicosociali che avrebbero tangibilmente ricompensato gli anni passati in trincea. Non si sa come, ma lo slogan «La terra ai contadini», in un esercito formato in larghissima percentuale proprio da questa categoria, cominciò a essere considerata come la politica ufficiale dello Stato italiano. In molti pensarono che il Dopoguerra avrebbe visto la realizzazione dell’agognata giustizia sociale. Furono inoltre sviluppate nuove tecniche di combattimento e si formarono i reparti di «Arditi», soldati specializzati negli attacchi a sorpresa, meglio addestrati e meglio nutriti, che non dovevano svolgere i logoranti turni nelle trincee, ma venivano impiegati soltanto negli attacchi più rischiosi e contro gli obiettivi più importanti. Il 24 ottobre 1918 l’esercito attaccò sul fronte del Piave e sul Monte Grappa e dopo alcune difficoltà iniziali travol- Il mito degli Arditi in una pubblicazione dell’im se l’esercito austriaco. mediato Dopoguerra.
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La notizia dell’ingresso delle truppe italiane in Trento e Trieste raggiunse Roma il 2 novembre 1918; non si sa chi, e come, la diffuse, ma scatenò una gioia incontenibile tra i cittadini della capitale. La liberazione delle terre «irredente», come venivano chiamate dalla propaganda nazionalista, rappresentava da una parte la fine della guerra, e dall’altra il raggiungimento dell’unità territoriale della nazione e il compimento delle aspirazioni risorgimentali. Tutta la politica italiana, dalla proclamazione del Regno d’Italia, aveva avuto come scopo quello di ricongiungere i territori di lingua italiana alla madrepatria. Con la Quarta guerra del Risorgimento, oppure la Grande guerra, come era stata chiamata all’epoca la Prima guerra mondiale, tutti i territori della Grande Italia finalmente si potevano considerare «redenti». La pace, dopo quattro anni di sofferenze, lutti e privazioni intollerabili per i combattenti e per la società nel suo insieme, sembrava praticamente a portata di mano. Trento e Trieste significavano a un tempo la vittoria e la pace. Il 4 fu annunciato l’armistizio. Il bollettino della vittoria, stilato dal comandante supremo, il generale Armando Diaz, poteva orgogliosamente affermare che «i resti di quello che era stato uno dei più potenti eserciti d’Europa risalgono in rotta e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza». Per un brevissimo momento, grazie alle notizie che venivano dal fronte, tutti i dissidi e le fratture vennero superate in un delirio di gioia. La guerra era finita, insieme al dolore e alla sofferenza, le ferite e i lutti potevano, per un istante, essere dimenticati in nome del risultato raggiunto. L’orrore non era stato invano.
Ma il momento di gioia passò. Per la società italiana gli anni dell’immediato Dopoguerra furono gli anni della disillusione. Soprattutto le classi medie, e in particolare gli studenti liceali e universitari, vollero vedere con la vittoria il compimento delle loro aspirazioni. Ma anche le prospettive di una pace «con giustizia», cioè con l’espansione verso l’Adriatico delle frontiere orientali e l’acquisizione di nuove colonie, vennero frustrate dalla dura realtà della Realpolitik. L’Italia, strozzata dal debito estero e dalla mancanza di materie prime che doveva importare dalle nazioni alleate, non aveva i mezzi necessari per poter realizzare i propri progetti. Inoltre la guerra, nata conto l’Austria-Ungheria, si era conclusa con una nuova nazione alle sue frontiere, la Jugoslavia, che aveva le sue legittime aspirazioni identitarie. Seguendo i dettati del presidente americano Wilson, infatti, i popoli dell’ex Impero asburgico reclamavano la loro indipendenza nazionale. La conferenza di pace di Parigi, in sintesi, si rivelò un disastro per gli italiani, che si erano presentati con un programma rigido e ottuso, ovvero volendo ottenere ciò che era stato promesso a Londra nel 1915, cosa molto improbabile visto che l’Italia non aveva tenuto fede alle proprie promesse.5 Gli inglesi e i
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francesi avevano offerto agli italiani, in cambio della loro partecipazione al conflitto, alcuni territori che facevano parte dell’Impero austro-ungarico: il Trentino e il Sud Tirolo, la Dalmazia settentrionale compresa Zadar (Zara, in italiano) e la maggior parte delle isole dalmate, il Dodecanneso (occupato dagli italiani in seguito alla guerra italo-turca del 1911-1912), e altre concessioni. La delegazione italiana a Parigi reclamò anche la città di Fiume, che pur essendo situata sulla sponda opposta dell’Adriatico, era a larga maggioranza abitata da italiani. La risposta fu un deciso «no» da parte degli alleati, che imposero un trattato di pace che gli italiani vissero come un vero e proprio tradimento. (Nonostante tutto, il Trentino e il Sud Tirolo furono annessi all’Italia nel 1919.) Nacque allora il mito della «vittoria mutilata», dell’Italia tradita dall’ipocrisia degli alleati occidentali che da una parte imponevano dei confini «naturali» tra il nostro paese e il nuovo stato della Jugoslavia (che allora si chiamava Regno dei Serbi, Croati e Sloveni), e dall’altra si annettevano le ex colonie tedesche e gli ex territori dell’Impero ottomano con la scusa dei «mandati» internazionali. Il tentativo di Gabriele d’Annunzio di annettere la città di Fiume all’Italia (nel 1919-1920) si rivelò un fallimento, ma fu anche la più clamorosa insubordinazione di massa da parte delle truppe del Regio esercito in tutta la sua storia, sintomo evidente del malessere di parti consistenti dei militari e di tutto quel settore della collettività che aveva creduto nell’interventismo. In termini sociali aumentarono allora le fratture che si erano create prima della guerra. Gli interventisti accusarono i neutralisti di aver boicottato lo sforzo bellico e di voler rinunciare (da qui il termine dispregiativo «rinunciatari») ai frutti della vittoria. I neutralisti accusarono i nazionalisti di aver voluto un inutile massacro per ottenere, in fondo, territori che si sarebbero potuti acquisire mediante la diplomazia. La frustrazione regnò sovrana in tutti i settori della società. Le classi dirigenti, dopo Caporetto, avevano coniato delle parole d’ordine che illusero i combattenti. Per il Dopoguerra, i lavoratori italiani si aspettavano grandi rivolgimenti socia- Le grandi aspettative dei combattenti per il Doli, grandi novità, grande benessere. E poguerra in una cartolina che celebra la vittoria.
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sui giornali di destra si leggevano parole come quelle di Enrico Corradini, forse il giornalista più reazionario della stampa italiana: Bisogna mantenere e accrescere per le classi lavoratrici gli alti salarii. Non si possono diminuire a coloro che durante la guerra hanno lavorato nelle officine, non si debbono a coloro che torneranno dalle trincee e dai campi della vittoria. Questi debbono trovare abbondante lavoro e largo benessere.6
Antonio Salandra, il presidente del Consiglio che nel 1915 aveva voluto l’ingresso in guerra, uno degli esponenti più conservatori, se non retrivi, del panorama politico italiano, il 20 novembre 1918 così si espresse in Parlamento: Noi dobbiamo trasmettere il potere al popolo dei combattenti. Questo è il nostro dovere; ed è bene riconoscerlo. […] Vengano avanti i giovani; è il loro momento. Non l’avvenire, il presente è loro, deve essere loro. I vecchi che non vogliono ritirarsi sappiano ringiovanire. (Applausi). Nessuno pensi che passata la tempesta sia possibile un pacifico ritorno all’antico. La guerra ha un significato profondo di rinnovamento del mondo. Nessuno pensi che possano riprendersi le antiche consuetudini di vita.7
I soldati che tornavano dalle trincee, i lavoratori che si erano ammazzati di fatica nelle fabbriche (dove vigeva una disciplina militare durissima), avevano preso sul serio queste promesse, ed esigevano che i loro sacrifici fossero ripagati immediatamente. Le richieste dei lavoratori dell’industria e delle campagne trovarono sfogo in durissime lotte che portarono a miglioramenti fino ad allora impensabili. Fu ottenuto l’orario normale di otto ore per i lavoratori delle fabbriche, e furono migliorati notevolmente i patti agrari in favore dei contadini. I sindacati raggiunsero un numero di iscritti impressionante: la Confederazione generale del lavoro si trovò a inquadrare milioni di persone, assieme alla Federazione dei lavoratori della Terra. Anche il Partito socialista italiano conobbe un incremento inaspettato nel numero dei tesserati e dei votanti. Alle elezioni politiche nazionali del 1919, le prime con il sistema proporzionale, il Psi ebbe più di 150 deputati, ottenendo la maggioranza relativa, seguito dal Soldati che tornano dal fronte, festeggiati dal- Partito popolare italiano (di ispirazione cattolica) con circa 100 deputati. la popolazione.
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La classe dirigente liberale, incapace di organizzare un partito di massa, rimase al governo grazie ai circa 200 deputati ottenuti, ma si trattava di rappresentanti di organizzazioni locali, che rispondevano a qualche «notabile» di provincia privo di una struttura organizzata alle spalle in grado di raccogliere il consenso in maniera razionale. Le elezioni amministrative dell’autunno del 1920 furono un altro trauma per la borghesia italiana. I socialisti e i popolari ottennero riscontri impressionanti, e vinsero in moltissimi comuni, anche molto importanti, come a Bologna. Le amministrazioni socialiste cominciarono allora una politica fiscale estremamente aggressiva che metteva in crisi i redditi della piccola e media borghesia, già duramente provata dall’inflazione e dalla crisi economica generale. Nel settembre 1920 si arrivò al culmine delle lotte operaie con l’occupazione delle fabbriche. Per alcune settimane i grandi opifici del Nord Italia furono gestiti direttamente dai lavoratori, creando il panico nel resto della società. Sembrava l’avvento della rivoluzione. Il Partito socialista, e la Confederazione generale del lavoro, invece, probabilmente con molta saggezza, impedirono che la lotta economica sfociasse in una insurrezione violenta, e l’agitazione si concluse con un compromesso (mediato dall’allora presidente del Consiglio Giovanni Giolitti), che fu comunque estremamente favorevole per i lavoratori. Per decenni si è discusso sulle occasioni mancate dai socialisti italiani, poi sbeffeggiati per la loro retorica incendiaria (proclamata dall’ala più radicale del partito, i cosiddetti «massimalisti») e la timidezza della loro politica (voluta soprattutto dall’ala moderata, i cosiddetti «riformisti»). Teoricamente, per i socialisti l’esempio dei bolscevichi era quello da seguire, e il mondo sarebbe ben presto cambiato perché le leggi della storia lo imponevano e la borghesia sarebbe stata spazzata via dalla rivoluzione. Proprio questa fiducia nelle leggi della storia mise in crisi ogni prospettiva insurrezionale, che comunque si sarebbe potuta risolvere in un totale disastro, dato che le forze armate erano fedeli al re e i socialisti non avevano preparato alcun tipo di formazione militare. Non lo avrebbero fatto fin quando non sarebbe stato troppo tardi, e le loro battaglie furono puramente difensive. Per la borghesia italiana la prospettiva di una rivoluzione era un vero e proprio incubo, che avrebbe distrutto il mondo conosciuto e avrebbe portato al potere le plebi assetate di sangue che avevano massacrato lo zar e tutte le classi dirigenti russe. In questa situazione di lacerazione della società le istituzioni liberali si rivelarono palesemente al di sotto di ogni auspicio. Loro compito sarebbe stato quello di mediare i conflitti e di dare una risposta alle aspettative delle varie classi sociali: difendere ed esaltare le richieste dei combattenti, nel campo sociale e della politica estera, pur tenendo conto dei limiti oggettivi dovuti alla situazione italiana nel quadro della politica internazionale, dato che l’Italia rimaneva sempre la «più piccola delle grandi potenze».
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Il compito del governo doveva essere quello di impostare una serie di importanti riforme sociali, per rispettare le promesse fatte ai «fanti contadini» che erano stati massacrati sui campi di battaglia. Infine lo Stato italiano avrebbe dovuto saper reprimere la violenza e ristabilire l’ordine pubblico messo in crisi dalle violenze di piazza. Ma la classe politica, purtroppo, era l’eterna classe politica italiana: timida, incerta e incapace. L’unica cosa che i vari governi seppero realmente fare furono delle modeste riforme (come il decreto Visocchi, sull’espropriazione delle terre incolte), e facilitare un accordo per concludere l’occupazione delle fabbriche, nel settembre del 1920, in maniera incruenta. Ma la scelta realmente decisiva che i politici del Dopoguerra scelsero di fare, fu quella di appoggiarsi ai movimenti di estrema destra per stroncare sul nascere qualsiasi velleità – dei socialisti prima e dei comunisti dopo – di cambiare o di modificare la società italiana. Fu una «controrivoluzione preventiva», uno schiacciare ogni volontà non tanto di palingenesi sociale o di rivoluzione cruenta, ma di qualsiasi tentativo di ottenere, da parte delle classi operaie e contadine, dei patti di lavoro più equi, dei diritti nelle fabbriche e nelle campagne e, in sintesi, una società più giusta. Lo Stato liberale abdicò al suo ruolo e rinunciò al suo dovere di trovare delle risposte a questi complessi problemi socioeconomici. Gli anni del Dopoguerra a Roma furono contrassegnati da una violenza mai sperimentata prima. I motivi principali furono diversi: da una parte il difficilissimo rientro dei soldati smobilitati, che ebbero moltissimi problemi nel reinserirsi nel mondo del lavoro, dall’altro il perdurare di una «mentalità» di guerra, un’abitudine alla violenza che portò a considerare normale l’aggressione fisica degli avversari politici. Se prima della guerra la violenza era stata completamente bandita dalla vita politica italiana, nel Dopoguerra bastonare l’antagonista era diventato normale. Altri motivi si aggiunsero. Per esempio, continuare a considerare l’oppositore politico un pericolo mortale per la propria fazione: per la destra erano i socialisti che avevano messo a rischio l’avvenire stesso della nazione in un momento di gravissima crisi della patria; per la sinistra erano le classi borghesi che avevano mandato al macello il proletariato per i propri interessi economici e imperialistici. Il monopolio più importante per ogni Stato è quello della violenza, e la più grave rinuncia dello Stato italiano fu quella della gestione dell’ordine pubblico, che invece affidò in subappalto a gruppi non governativi come gli squadristi dell’estrema destra, mentre assisteva, o peggio sosteneva le violenze squadriste contro operai in sciopero o contro amministrazioni locali socialiste democraticamente elette. Fu un esperimento disastroso, che portò alla fine dello stesso Stato liberale. La «controrivoluzione preventiva», infatti, era la meta delle classi dirigenti liberali e, forse, di altri gruppi di estrema destra come i nazionalisti. Non avevano assolutamente capito che lo scopo del fascismo era realmente la rivoluzione. Per raggiungere il potere, innanzitutto, i fascisti portarono il caos. La violenza
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gratuita, brutale, scatenata contro ogni singolo o gruppo che fosse percepito come il nemico (socialisti, sindacalisti, preti, persone vestite da operaio…), la distruzione degli edifici e dei simboli del «nemico», il terrore, erano gli strumenti dei fascisti, che ne capirono immediatamente l’efficacia. La violenza era, inoltre, sempre offensiva, almeno per quanto riguarda il caso di Roma. Le aggressioni da parte di «sovversivi» contro gli «elementi d’ordine», nei documenti qui utilizzati, risultano sporadiche e quasi inesistenti. Inoltre non esistono esempi di violenza pianificata e strutturata. Il fascismo invece si strutturò subito come un sistema terroristico, coordinato allo scopo di sconvolgere la vita sociale della città. Una volta organizzato lo strumento per l’aggressione, la violenza si sviluppò in maniera epidemica, rendendo praticamente ingovernabile la città. Nonostante tutto, le classi dirigenti, il ceto medio, la stampa liberale, plaudirono a piene mani alla violenza fascista. Mentre i dirigenti socialisti, i «rivoluzionari», si rivolgevano alle autorità per chiedere quell’aiuto e quella protezione che avrebbero dovuto ottenere, la stampa liberale incitava i fascisti a bastonare senza pietà i «rossi» e a «rimettere al loro posto» gli operai, colpevoli di essersi organizzati e di aver richiesto quei diritti che gli erano stati promessi durante la guerra. Da una parte, quindi, coloro che avevano fiducia nelle istituzioni e nelle regole democratiche, il socialismo riformista e perfino il Partito comunista, assolutamente incapace di avviare quella rivoluzione che affermava di voler far trionfare; dall’altra il caos, il fascismo e le sue squadre d’azione, con l’appoggio, spesso, di istituzioni e della stampa indipendente. Il risultato fu, anche se forse solo parziale, una vera e propria rivoluzione, ma nella direzione sbagliata. Lo stato liberale, nonostante tutti i suoi limiti, era uno stato legale, razionale, governato da una classe politica liberamente eletta, sottoposta al giudizio dell’opinione pubblica, della stampa e della magistratura. Venne sostituito da uno stato dove l’arbitrio, non solo a livello del dittatore, ma di qualsiasi gerarca locale, era la norma. Dove qualsiasi funzionario periferico poteva imporre il suo potere e la sua volontà in dispregio di qualsiasi legge, e dove i cittadini comuni erano sottoposti ai capricci di un sistema irrazio- «Squadra d’azione», vignetta del disegnatore sanale e arbitrario. Fu una rivoluzione tirico socialista Scalarini che denuncia la comconservatrice che bloccò ogni svilup- plicità delle istituzioni con la violenza fascista.
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po democratico, ogni tendenza progressista, per imporre una struttura economica e politica che, per alcuni aspetti, fece arretrare la società italiana di decenni. Il fascismo a Roma si scontrò con una serie particolare di problemi. Roma, nel 1919, era una città insolitamente irrequieta e turbolenta, che subiva le contraddizioni e i problemi causati dalla sua trasformazione in capitale dello Stato italiano avvenuta nel 1871. La sonnolenta città papale aveva circa 150 000 abitanti nel 1850, ma nel 1871 il numero era salito a 209 000 e continuò a salire in maniera incontrollabile: 511 000 nel 1911, 650 000 nel 1921, 917 000 nel 1931.8 Oltre alle difficoltà di adattare una piccola città di provincia alle necessità amministrative della capitale di una grande nazione, si aggiunse il problema di dare un tetto al massiccio afflusso di immigranti, per la maggior parte poveri e privi di qualsiasi tipo di formazione lavorativa. Entrambe queste novità portarono a dei cambiamenti importanti nel tessuto urbano. La città aveva già cominciato a crescere al di fuori della cinta delle mura aureliane, con importanti quartieri a nord del Vaticano e di Porta del Popolo, e all’esterno delle antiche porte, lungo le vie consolari, un tempo molto strette e irregolari ma da poco ampliate e ordinate, altri quartieri continuavano a svilupparsi. Anche all’interno delle mura gli spazi verdi e le ville storiche erano stati distrutti senza pietà per costruire i nuovi quartieri residenziali, e le nuove grandi arterie (corso Vittorio Emanuele ii, via Cavour e altre) erano state tagliate attraverso il delicato tessuto urbano del centro storico. Su iniziativa del governo fu creato l’Istituto per le case popolari nel 1903, che aveva il compito di dare una risposta alle necessità delle masse di immigrati costruendo grandi complessi di condomini in luoghi eccentrici o disabitati del territorio cittadino, per la maggior parte al di fuori delle mura. Comunque, la domanda di case superò di gran lunga l’offerta, e nelle aree periferiche cominciarono a spuntare delle baraccopoli, che addossavano gli archi degli antichi acquedotti e si insediavano attorno alle torri medievali che punteggiavano la campagna romana. La povertà e la miseria caratterizzavano questi agglomerati: i loro abitanti erano dei disperati che non avevano niente da perdere, e tutto da conquistare, nei loro scontri con la polizia. Questa caratteristica di Roma è quasi scomparsa nella città attuale, ma fu una notevole fonte di ansia per la classe media e per il governo nel 1919. Anche a Roma la società si divise e le varie fazioni si scontrarono violentemente. La capitale però non aveva una classe operaia forte come nelle grandi città del Nord, e ovviamente non vi erano problemi riguardanti i mezzadri o i braccianti. Tuttavia non fu una città pacificata, come spesso si è letto nella storiografia che descrive una popolazione di preti, commercianti e impiegati. Come si è tentato di evidenziare nella nostra ricerca, quartieri come San Lorenzo, il Trionfale e soprattutto il centro storico furono la scena di scontri violentissimi, a volte di veri e propri massacri. Ciò che però ci ha sorpreso è stata la totale mancanza di me-
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moria di questa violenza: sembra quasi essere stata espunta dalla Storia. Luoghi come il Palazzo delle Esposizioni, oppure il Caffè Aragno, furono abbondantemente inondati di sangue, ma nel generale oblio che ha coperto l’avvento del fascismo a Roma, la scalinata è stata ripulita e i pavimenti scrostati fino a cancellare ogni traccia. Luoghi come la ex Casa del popolo, in via Capo d’Africa, o la sezione socialista di via dei Sardi, a San Lorenzo, erano edifici dove si riunivano migliaia di persone, e rappresentavano un vero e proprio centro della politica e della cultura romana. Di tutto questo nulla è rimasto nella memoria della città e nella monumentalistica. La Casa del popolo è, a nostro avviso, l’esempio più palese di come, da questo punto di vista, il fascismo abbia vinto. Un edificio imponente, che doveva raccontare alla città come il proletariato fosse stato capace di costruire per se stesso un grande palazzo, bello, pieno di motivi classici, esteticamente rispondente ai canoni tipici della moda borghese dell’epoca, orgoglio di una classe operaia che non intendeva rovesciare il mondo, ma soltanto partecipare delle sue ricchezze e della sua cultura; un edificio che è stato prima devastato dal fascismo, poi acquisito dalla sua burocrazia, e attualmente abbandonato. Il suo portone d’ingresso è stato murato, forse per evitare che sia nuovamente occupato dai neofascisti. Al momento in cui scriviamo è di proprietà della Regione Lazio, che con una spaventosa carenza di sensibilità storica sembra voler metterlo in affitto come degli uffici qualsiasi. Il tentativo di questa ricerca è di ricostruire, nonostante tutte le difficoltà nel reperire le fonti, una Roma per molti versi più strana e lontana di quella dei Papi e dei Cesari. Per alcuni aspetti, ricorda la Roma di oggi – una città di immigrati, di proteste di massa, trasporti pubblici e pesante presenza della polizia; una città politica e di politici – ma per altri versi sembra completamente aliena, con i suoi gazometri e il macello municipale a nord di Porta del Popolo, il suo centro ancora non toccato dalle colossali demolizioni del Ventennio, una città dove la classe operaia viveva ancora attorno a piazza Navona e a Campo de’ Fiori. La Roma di oggi è mediamente tranquilla, borghese, e accogliente per i turisti; la Roma del 1919 era turbolenta, violenta e incerta, elettrizzata da un senso di generale sfiducia e dall’intensa passione delle lotte di classe e dei conflitti politici. Non ci si deve lasciare ingannare dalle orgogliose costruzioni della Roma liberale, come il Palazzo delle Esposizioni o il monumento a Vittorio Emanuele ii, con le loro architetture tranquillizzanti prodotte da uno Stato certo del proprio potere. Per comprendere le profonde divisioni che spaccarono la città nel 1919 bisogna andare oltre le facciate per intravvedere quanto fragili fossero le fondamenta della società postbellica romana, e capire quanto terribili furono le conseguenze del loro collasso.