Giacomo Di Girolamo
Dormono sulla collina 1969-2014
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Dormono sulla collina a Serena e Adele
I morti sono furfanti che fingiamo di amare benché a volte li sentiamo parlare esattamente come ci parlarono, e li vediamo sorridere come un tempo sorrisero con i capelli vividi che avevano in vita. Jamie McKendrick La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là d’ogni possibile realizzazione. Italo Calvino, Lezioni americane Perché, senza entrare nel merito, è soltanto questione di spirito. Vladimir Vysotskij, De profundis
Prefazione
State attenti all’Italia: è una forma pericolosa. A dare il titolo a questa opera, Dormono sulla collina, è un verso del poeta Edgar Lee Masters, ripreso e tradotto e cantato da Fabrizio De André. Non è in questo modo però che vanno le cose. L’Italia, che sembra importare tutto, è un potente immaginario che crea da sé eventi di portata mondiale, figure universali e figurine adesive, esplorazioni e scoperte. C’è un modo di sopravvivere tutto italiano, il che significa che l’Italia dispone di una difesa tutta sua contro la morte. Se, saltando oltre 1250 pagine, andate a vedere come finisce questa storia, scoprirete di quale difesa si tratta: è il rudere, l’anima che si fa fossile, una commistione che rappresenta la memoria e il superamento dell’oblio. È certamente la Spoon River italiana, quella allestita da Giacomo Di Girolamo. Di Girolamo, già autore dell’Invisibile (Editori Riuniti) e di Cosa Grigia (pubblicato per questa casa editrice), si configura qui, a tutti gli effetti, come uno scrittore per eccellenza. È egli autore che percorre i sentieri della scrittura come immersione; scrittore che esonda, quando la corrente è lieve; che carezza, quando ci sarebbe da sferrare un pugno. La tragedia, la commedia, persino la comicità; emergono qui relitti di ogni fenomeno linguistico, che non può che essere fenomeno umano. Qui Giacomo Di Girolamo si configura come autore enciclopedico, anche. La sua è una forma deviata e poetica dell’enciclopedia delle enciclopedie, cioè quella dei Lumi francesi, il cui Discorso preliminare è scritto da d’Alembert. Vi si legge: Un tribunale – che diventò potentissimo nel mezzogiorno dell’Europa, nelle Indie, nel Nuovo Mondo – condannò un celebre astronomo, colpevole di 23
aver sostenuto che la Terra si muove, e lo dichiarò eretico; all’incirca come il papa Zaccaria qualche secolo prima aveva condannato un vescovo perché non condivideva l’opinione di Sant’Agostino circa gli antipodi, e aveva intuito la loro reale esistenza seicento anni prima che Cristoforo Colombo li scoprisse. In questo modo l’abuso dell’autorità spirituale, congiunta a quella temporale, obbligava la ragione al silenzio, e poco mancò che si negasse al genere umano il diritto di pensare.
Siamo all’inizio della Encyclopédie e tutto è italiano: Galileo, Colombo, i vescovi e i papi, perfino il santo naturalizzato. C’è un peso della storia che grava sulla Nazione. Il suo passato è sempre il suo futuro, ha tradotto l’impero in una forma di primato della scoperta e ha fondato l’idea stessa di immaginario moderno. Chi dorme sulla collina sono i morti, che enunciano le arti e i mestieri praticati in vita, gli esempi della commedia umana eletti a emblemi della tragedia collettiva. Non sarà però un caso che la prima «voce» di questo coro non sia umana: a parlare è la Bomba di Piazza Fontana. È uno degli innumerevoli inizi italiani e a cantarlo è un ordigno capace di segnare l’immaginario di quell’Italia che possiamo in modo equivoco definire «contemporanea»: là dove accade sempre tutto in contemporanea. Anni plumbei, anni mirabili, anni di schermi televisivi accesi e di fari spenti nella notte, anni di pop e di partiti popolari, con le inevitabili afferenze di mafie, logge, piovre, rivoluzioni mancate, riforme promesse e promesse rimandate, cronache nere e cronache rosa, un partigiano come presidente e presidenti campioni di partigianeria. Si potrebbe andare avanti all’infinito, iniziando dal 1969 e arrivando a oggi. Questa enciclopedia collettiva e letteraria evita proprio di andare avanti all’infinito. Sceglie le voci dei propri poetici fantasmi e li fa parlare in prima persona, singolare e plurale, guidando chi legge in una stupefazione che non può non dare le vertigini, come appunto fa l’autentica narrazione di storie, sempre e ovunque. È significativo che la composizione e la pubblicazione di un simile compendio di storia e immaginario avvenga in un tempo come il presente, in cui sembra affievolirsi la memoria e i liceali stentano a ricordare chi fossero Aldo Moro o Enrico Berlinguer (due tra le migliaia di personaggi che 24
affollano la scena di quest’opera). L’avvento di quelle «reti», che in Italia si chiamavano «cibernetiche» nel 1970 e «social» nel 2014, ha condotto a una sorprendente esportazione della memoria, fuori da tutti noi. Il progressivo imporsi dell’onnipresenza di Wikipedia, al pari della pervasività di tutto il Web, sembra avere ottenuto un duplice effetto. Da un lato esiste una deresponsabilizzazione della memoria, con tutto ciò che questo comporta. Si va a cercare fuori di sé il ricordo: nomi, date, identità – ovunque i database e i motori di ricerca hanno preso il sopravvento. E, d’altro canto, insieme all’esplosione di saperi e di memorie istantaneamente raggiungibili con una ricerca su smartphone o pc, ha presentato il conto una certa poesia di cui la memoria collettiva è sempre stata costituita. Una bellezza liberatoria o consolatoria o esplorativa governa la scelta, il percorso, l’elezione che si compiono ricordando. Qui interviene lo scrittore, che è un filosofo e un giornalista, come in effetti è, appunto, Giacomo Di Girolamo, eroico estensore di questa enciclopedia italiana sterminata ed epica, lirica e folta di dati. Sembrerebbe l’impronta di una mente, impressa su pagine di carta. E lo è, ma non si riesce a distinguere dove quella mente sia individuale (dell’autore) o collettiva (di tutti noi). È un atto di precisa poetica che ha fatto sì di depositare le moltissime note di quest’opus magnum in Rete e non su carta. Poiché la ricognizione, per quanto letteraria, è rigorosa e precisa, esistono gli apparati. Ci siamo abituati a leggere uno degli infiniti atti fondativi dell’Italia, cioè la Commedia dantesca, con il testo che corre sopra uno sproposito di notazioni. Tuttavia il poema di Dante rimane appunto un poema e come tale lo si può leggere, prescindendo dalle note. In un tempo dei saperi diffusi e condivisi, l’opera rimane il testo dell’autore, che è sempre chiarissimo e definisce gli eventi e i personaggi, mentre le informazioni di base sono stabilmente reperibili fuori, in Rete. I migliori morti della nostra vita parlano qui in qualità di spettri, come in tutta la letteratura. E parlano da fantasmi, come in tutte le occasioni di unità nazionale, il cui apice è forse televisivo, per quanto riguarda l’arco temporale che occupa questo cantico delle creature italiane. Si tratta di Alfredino, un primato esclusivamente italico: la morte per la prima volta trasmessa in diretta su piccolo schermo e, incredibilmente, non fatta vedere, consumata in un buco. Quel buco compare senza soluzione di continuità nella vicenda italiana: 25
nella Banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana lo si vede inghiottire cose e persone nel luogo preciso della detonazione; il pozzo artesiano di Vermicino è un foro intorno a cui si muove tremulo il presidente; il «buco» del Banco ambrosiano o di Parmalat fa sparire le sostanze e le sicurezze degli azionisti, in una misura eccessiva, mai raggiunta nella storia internazionale. Foro di pallottola, conca oscura del dopobomba, vuoto del tubo catodico – l’Italia accade storicamente e poeticamente come fossa scoperta, come traforo e miniera, come buco nero che inghiotte la luce della ragionevolezza. Del resto, all’Italia appartiene la maternità della Bomba per eccellenza: fu Enrico Fermi a procurarne la matrice atomica. Questa è un’opera indefinibile: è una caratteristica, da sempre, di tutte le opere autentiche. Tra enciclopedia e romanzo (criminale o epico) si dà una via di mezzo: potremmo dire: è l’antologia. Eppure nemmeno il genere antologico riesce a dare conto di un immaginario ordinato e impazzito come il nostro. Il fiore della fantasia italiana si presenta qui attraverso un intreccio di voci, di motivetti, di slogan politici e pubblicitari, di frasi tratte da canzoni o intercettazioni. L’Italia, paese via via bel, senza, normale, vecchio, corrotto, per essere illustrato esige operazioni al tempo stesso coraggiose e caute. Una nazione capace di assassinare un proprio poeta si merita la sua condanna in forma di assoluzione, proprio il canone che portò Pasolini a definire l’Italia «un equilibrio caotico». Tentiamo allora una definizione. «Equilibro caotico»: può essere una delle tante formule per descrivere l’opera che tenete in mano. Andrea Gentile luglio 2014
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Sorelle d’Italia – Piazza Fontana, Milano 12 dicembre 1969
Dov’è Pietro che vende bestiame? E Carlo, il nonno di Elisabetta? Dov’è Luigi: cerca ancora i suoi clienti? E Paolo, che non ce la faceva a riposare? Dov’è Angelo, padre di undici figli? Dove sono Giovanni, Attilio, Gerolamo? Il gestore del cinema, il macellaio, l’agricoltore. Cercateli, cercateli in piazza Fontana. Sono entrati in una banca, sono usciti a pezzi. In un tappeto di vetri rotti. Noi bombe siamo la grammatica della storia patria: Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus eccetera, eccetera, eccetera… come recitava Gaber. E io sono, in tutti i sensi, la sorella maggiore. L’inizio di una strategia. Il peso di una verità negata che lo Stato italiano ancora oggi porta dentro di sé. Ore 16 e 37. Banca nazionale dell’agricoltura. Diciassette vittime, ottantotto feriti. In televisione, a Canzonissima, Massimo Ranieri canta «Se bruciasse la città». Mancano dodici giorni a Natale. Ricordatemi come volete: la bomba contro il popolo, luna rossa d’odio, il giorno dell’innocenza perduta, primo rintocco di campana. Io sono l’erezione cutanea nella grigia nebbia padana che ha sfregiato il viso bello del Paese. Ma chi non ha avuto la sua inquietudine adolescenziale? C’è sempre un momento in cui bruci tutti i ricordi del tuo passato, tutte le bambole con cui dormivi. Lo cantavano pure i Pooh alla loro «Piccola Katy». Canzone, non a caso, del 1968. 27
Io sono quel momento. Così fragorosa, così evidente da rendere stucchevole ogni tentativo di cercare una scusa. Così allarmante da procurare – negli anni a venire – un silenzio profondo. Un silenzio che è la fine del mondo. Chiudi pian piano e ritorna a dormire nessuno nel mondo ti deve sentire… Ciao ciao, piccola Katy.
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Sorelline d’Italia – Le altre bombe 12 dicembre 1969
Disse la gente: a piazza Fontana forse è scoppiata una caldaia. Ma fu questione di attimi. Poi arrivammo noi, le sorelle minori, a spiegare che non si trattava di un incidente nella storia d’Italia; semmai di un deragliamento. Altra emergenza: una bomba nella sede milanese della Banca commerciale italiana, in piazza della Scala. Viene fatta brillare. Ma la radio interrompe i programmi, come in una giostra dei gol: 16 e 55. Attenzione, attenzione, qui Roma. Chiediamo la linea: una bomba esplode in via Veneto, all’ingresso della Banca nazionale del lavoro. 17 e 20, c’è una bomba davanti all’Altare della Patria. 17 e 30, bomba in piazza Venezia, quattro persone ferite. Cinque attentati in cinquantatré minuti. E gli italiani a chiedersi: cosa sta succedendo? Qualcosa di organizzato e potente, rispondiamo noi. Mica caldaie. Per capire da dove veniamo, dovete capire dove eravate. Riassunto delle puntate precedenti: l’Italia è un Paese in fermento. C’era stato il ’68 e gli operai avevano cominciato a protestare. «Agnelli e Pirelli ladri gemelli» era uno degli slogan del movimento operaio. «L’autunno caldo» lo chiamavano i giornali. Capelloni, operai in marcia, gente che contesta, scioperi per chiedere case, soldi e diritti. Lo Statuto dei lavoratori, che per la prima volta riconosce i diritti di chi sta in fabbrica. 29
L’apertura di tutte le facoltà universitarie ai diplomati delle scuole medie superiori. E c’è qualcuno a cui questo non piace. No, non si può più dormire. Chi è stato a mettere le bombe? La Polizia sarà sveltissima: sono stati gli anarchici. Anche perché, si sa, gli anarchici fanno questo: mettono le bombe. C’è subito un colpevole: Pietro Valpreda. Ballerino, squilibrato, drogato. Anarchico, appunto. C’è anche un tassista, Cornelio Rolandi, che lo ha portato fino alla banca; dice che aveva una borsa. C’è una verità ufficiale, robusta come una caldaia di piombo pronta a esplodere. Perché dubitare?
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Giuseppe Pinelli
ferroviere, 15 dicembre 1969
Forse è davvero una questione di caldaie impazzite, perché io sono morto di caldo, a Milano, a dicembre. Quella sera a Milano era caldo ma che caldo che caldo faceva «Brigadiere apra un po’ la finestra» e ad un tratto Pinelli cascò. Io sono l’anarchico, quello morto accidentalmente. No. Io sono l’anarchico che si è suicidato. No. Io sono l’anarchico che hanno visto spingere giù, dal balcone della Questura di Milano. No. Io sono l’unica vittima in Italia di una malattia rarissima, il «malore attivo», per fortuna non contagiosa. E sono l’unico a essere ricordato nel luogo della morte con due targhe. In una si dice: ucciso innocente nei locali della questura di milano. Nell’altra: innocente morto tragicamente. Potrebbero metterne una, a fare sintesi di tutto: si apre, per cambiar aria, una finestra e un corpo piomba nel cortile. Ma io ero soprattutto un ferroviere. Mi piaceva stare con gli amici, leggere, studiare l’esperanto. Che ne sapevo di teoria del volo? La bomba di piazza Fontana fu il primo tocco di campana del mio funerale. Io non lo sapevo, non lo sapeva nemmeno quel giovane commissario che 31
mi fermò due ore dopo la strage. Luigi Calabresi, si chiamava. Ci odiavamo con rispetto. C’eravamo visti in così tanti cortei, io che sfilavo, lui che controllava. Alla fine era nata una specie di amicizia. Io gli avevo regalato anche l’Antologia di Spoon River, lui invece mi aveva dato Mille milioni di uomini, un diario di viaggio di Enrico Emanuelli. Ero orgoglioso di quel libro. Mi ha detto: seguimi con il motorino fino in Questura. E io l’ho fatto. Quarto piano, ufficio politico. Tre giorni stremanti di interrogatorio. Cattivo mangiare, poco dormire. Fumare tantissimo, fumare tutti, come turchi. Con il freddo che faceva aprirono pure la finestra per fare arieggiare un po’. Calabresi mi interrogò a lungo. Peccato che fosse in un’altra stanza a quell’ora di notte, quando accesi la mia ultima sigaretta e il mio corpo si esibì nella scomposta e fatale imitazione di un volo. Un volo anarchico. Un ruotare sgraziato sulla ringhiera. Questo precipitare nel vuoto. La brace della sigaretta che mi accompagna, come un lumino di un camposanto. A Pietro Valpreda, il mio amico ballerino, sarebbe venuto meglio.
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