David Forrest E a mio nipote Albert lascio l’isola che ho vinto a Fatty Hagan in una partita a poker Traduzione di Ida Omboni
E A MIO NIPOTE ALBERT LASCIO...
Tirate una linea in direzione sud dalla Bishop Rock alle Isole Scilly. E un’altra, in direzione sud sud-ovest, da Capo Penninis a St. Mary. Nel punto d’incontro, a circa ottantasei miglia al largo dell’estrema punta occidentale della Francia, c’è una barchetta...
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«Avete balene, da queste parti?» «Mica tutti i giorni» rispose il barcaiolo. «Be’, a me pare che ce ne sia una laggiù, dritto davanti a noi» dichiarò, Albert studiando col binocolo la sagoma nera che spuntava all’orizzonte, fra le onde. «Qua, dia un’occhiata.» Il barcaiolo si appoggiò di peso al timone tenendolo fermo col petto e mise a fuoco il cannocchiale del passeggero. «Una balena? Ma quella è la sua isola!» Albert gli strappò quasi il binocolo di mano. «E allora dove sono gli alberi?» «Quali alberi? L’unica cosa che cresce lì, è la barba. Ma quanto a erba e piante...» La gobba di roccia diventava sempre più grande, più grifagna e più brutta. «Io credevo che tutte le Isole Scilly fossero un paradiso di fiori e di alberi» si ostinò Albert. Non si rassegnava all’idea che l’isola della sua eredità fosse brulla e spelacchiata. «Magari una volta c’erano,» opinò il barcaiolo «ma devono essere volati via al primo soffio di vento.» «È sicuro che quella è Roccamalora? Non può essersi sbagliato?» 9
Il marinaio sorrise. «Figliolo, sono tanti anni che faccio ‘sto viaggio... C’è una sola Roccamalora, da queste parti, ed eccola lì.» La lancia entrò in una piccola insenatura, sul versante occidentale dell’isola. A distanza ravvicinata, Roccamalora era ancora più tetra e scostante. Era gradevole solo vicino all’acqua, dove le alghe pendevano a ciuffi dagli scogli bianchi di sale. «Non posso tirare la barca in secca. Deve fare un salto. Si scelga uno scoglio bello pulito se no le alghe la spediscono col culo a mollo. Torno a prenderla nel pomeriggio, verso le quattro. A proposito...» Il barcaiolo, improvvisamente, diventò molto sollecito. «Non vada a nuotare da solo e non faccia scemenze del genere. Mi seccherebbe perdere un cliente che paga subito.» «Ci vediamo!» gridò Albert, mentre balzava a terra. «E non si dimentichi di me, mi raccomando!» Era una calda giornata di giugno e il mare faceva frusciare dolcemente la ghiaia della riva, mentre la barca si allontanava. «Accidenti ai dépliant turistici!» ringhiò Albert, fra sé, mentre s’incamminava lungo il suo regno. «Venite alle Isole Scilly: fiori, palmizi, lunghe spiagge di rena dorata. Serre e castelli, giardini e lagune. E cosa mi trovo? Una schifosa pietraia. Nemmeno una margheritina.» D’un tratto si accorse, meravigliato, di essere nel centro dell’isola. Gli ci erano voluti esattamente settantacinque passi. Era nel punto più alto, uno spiazzo levigato, sei metri più su della linea dell’alta marea. Avrebbe potuto gettare una pietra in mare da tutti i punti cardinali. A destra e a sinistra aveva solo trentasette metri e mezzo di terra. E davanti, altri settantacinque. «Mondo boia» pensò, placidamente. «Nemmeno un vassallo prosternato, nemmeno un servo della gleba a rendermi omaggio...» 10
Un movimento, su un piccolo scoglio poco distante, nel mare increspato, attirò la sua attenzione. «I miei fedeli sudditi...» E li esaminò. Gli interessati ricambiarono l’esame. Due cormorani lo fissavano con aria bieca. Un gabbiano argenteo, scalcinato e decisamente zoppo, lo sogguardava con apprensione da dietro un ciuffo di alghe avvizzite. Albert sprofondò in un inchino regale. «Dame e gentiluomini, popolani e soldati, il vostro sovrano ha deciso di abdicare.» Un’occhiata era stata sufficiente. Decise di tornare subito a St. Mary. Ma quando arrivò alla spiaggia facendosi strada fra scogli e crepacci scoprì che il barcaiolo ormai non era più a portata di voce. Intravedeva appena la lancia, un punto all’orizzonte che si faceva sempre più piccolo. Albert maledisse gli accordi che aveva preso; adesso era inchiodato sull’isola fino a sera. «Merda» sospirò. Poi si riempì d’aria i polmoni e ripeté il concetto a gran voce: «Meeeerda!». I due cormorani schizzarono in cielo, in preda al panico, si scontrarono e piombarono in mare come un fagotto malfatto. Il gabbiano in disarmo traballò due passi più in là, come un ubriaco, sbirciando Albert con la coda dell’occhio e andò a sbattere contro uno spuntone di roccia, restando inebetito. «Prendetevi un giorno di ferie» concesse il giovane, magnanimo. «Sua Maestà Albert I è in vena di indulti e largizioni.» Il sovrano affondò le mani nelle tasche dei jeans e spedì un grosso ciottolo in mare con una pedata. Poi riprese a passo lento la visita al suo regno. «Che mucchio di sassi» pensò. E in quel momento avvistò il motoscafo, una freccia azzurra ormeggiata nelle acque placide di un’insenatura. «Oh diavolo» si disse. «Qualcuno vuole rimorchiar via la mia isola. Bella faccia tosta. Pirati. Sono arrivato appena in tempo. A me la guardia! Oh santo cielo!» 11
Una ragazza lunga e dorata giaceva venti metri più in là, su una roccia levigata dal mare: era così abbronzata che quasi si confondeva con le alghe che pendevano dagli scogli in ampi festoni. E scintillava dove i raggi del sole rispecchiati dal mare colpivano la pelle cosparsa di crema. Era morbida e liscia, snella di vita e di cosce. I capelli biondi erano raccolti in una coda di cavallo. Ed era nuda, interamente nuda. Se ne stava supina, con le mani sotto la nuca, a far da cuscino. Il seno tornito e giovane era bruno come il resto del corpo. Albert guardava. Da buon collezionista di ragazze si rendeva conto che quello era un esemplare altamente appetibile. E nella sua testa cominciò a comporre un piccolo catalogo di dati statistici. “Anni: diciassette circa. Li compirà a ottobre, probabilmente. Ceto: abbiente, vedi barca. Liceo... no, collegio di lusso. Nativa della zona o non impiegata. In vacanza permanente, a giudicare dal grado di abbronzatura. Statura, 1,68 circa. Peso, 46. Statistiche vitali, 90, 55, 90. Bionda naturale, quindi occhi azzurri o grigi. Fumatrice novellina. Tipo artistico. Beve birra scura.“ “Fidanzato? Improbabile perché è abbronzata dappertutto, quindi passa un mucchio di tempo sola. Si considera troppo su, per la fauna locale. E la stagione è ancora indietro, quindi non ha avuto molte occasioni con i villeggianti, quest’anno. Deve aver finito le scuole nel settembre scorso, per cui è probabile che non abbia nessuno. Esperienza sessuale limitata.” Albert rimuginò sull’interessante statistica. “Io qui sono il re. Potrei catturarla: ha invaso il mio territorio. Potrei farla prigioniera di guerra.” Un’ottima linea di pensiero, meritevole d’essere approfondita: si poteva far prigioniero di guerra un invasore, se non c’era stata dichiarazione di guerra? O la ragazza era semplicemente un’immigrante clandestina, che bisognava de12
portare? D’altro canto poteva trattarsi di un’emigrante desiderosa di stabilirsi nel suo regno. Albert decise che era una turista: dopo tutto i piccoli stati come il suo avevano bisogno di turisti, per rinsanguare l’erario. Albert s’immaginò in una rutilante divisa scarlatta con le spalline dorate, la bottoniera d’ottone e un gran chepì. Col chepì austeramente piantato in testa si sarebbe avvicinato alla ragazza a passo lento e le avrebbe chiesto il passaporto. «Passaporto?... Come? Niente passaporto? Allora subito al fresco, mi dispiace.» L’avrebbe lasciata qualche giorno a pane e acqua, poi l’avrebbe fatta condurre nei suoi appartamenti, lavare e avvolgere in vesti di seta. E l’avrebbe invitata a cena. Era una tecnica classica dei film e avrebbe funzionato, lo sapeva: la fanciulla gli si sarebbe gettata spontaneamente fra le braccia, per gratitudine. Albert si alzò e s’incamminò verso la sconosciuta. Lei allungò placidamente una mano e si coprì con una grande salvietta da bagno. Non diede altro segno di aver notato la sua presenza. Gli occhi erano sempre chiusi, o così pareva. Albert fece l’atto di sollevare il cannocchiale che aveva al collo. Per un attimo aveva avuto la tentazione di servirsene per esaminarla più a fondo, ma se avesse aperto gli occhi sarebbe stato imbarazzante. Dopo tutto era solo a pochi passi da lei. L’ombra di Albert cadde sull’inquilina abusiva. Lei aprì un occhio. Era di un azzurro sconcertante. Poi aprì anche il secondo occhio e Albert constatò, con sollievo, che era del medesimo colore del primo. «Lei si è piantato davanti al mio sole.» «E lei si è sdraiata sulla mia isola.» La ragazza lo guardò con tanto d’occhi. «Perché non va a tuffare la testa sott’acqua, mentre mi vesto? Ci metto sì e no dieci minuti.» Albert distolse lo sguardo per tre minuti esatti, fissando 13
le piccole onde che si frangevano contro gli scogli. Alle sue spalle avvertiva un fruscio di abiti. «Poco fa l’ho sentita gridare qualcosa» disse la ragazza. «Cos’è? Il suo motto di famiglia? Adesso può guardare.» Albert la guardò. E si chiese perché si fosse scomodata a mettere il bikini. Era così microscopico... Ce n’era solo quanto bastava per capire che era giallo. I capelli biondi della ragazza erano solcati da ciocche argentee, schiarite dal sole. Le sopracciglia erano quasi bianche. I tratti incredibilmente nordici. Gli ricordava la principessa giocattolo che faceva pubblicità ai reggiseni modellanti Slancio sui cartelloni della metropolitana. Comunque, si astenne dal domandarle se il suo reggiseno aveva resistito alla prova lavatrice. Era soddisfatto di aver indovinato il colore degli occhi e l’accento della ragazza. E a questo punto notò, ancora più soddisfatto, che non portava anelli. Con il pensiero Albert la sedusse. La voce morbida di lei lo riportò alla realtà. «Non l’ho mai vista... eppure vengo qui da secoli a prendere sole.» Albert trasse di tasca un pacchetto sgualcito e le offrì una sigaretta. «È la mia prima visita» spiegò. «Ho ereditato l’isola da poco. Quindi, suppongo di essere il re.» «Mi faccia pure causa, Maestà. E se lo tenga tutto il suo regno. Non serve a niente, salvo per i bagni di sole.» «Tipica colonialista. Prendete tutto quel che potete da un paese, poi fate finta che non valga nulla, quando vi sbattono fuori.» «Scommetto che lei è ricco» replicò la ragazza. «Un socialista con un conto in banca reazionario.» «Manco per idea... Quest’isola è tutto quello che ho. Lavoro in un cinema. E lei cosa fa?» 14
«Niente. Mio papà è avvocato a St. Mary e io vivo con lui. E vengo qui, nei giorni afosi. Dove ha lasciato la sua barca? Sul versante occidentale l’ormeggio non è sicuro.» «Sono venuto a nuoto» dichiarò Albert. «Sono un nuotatore di fondo eccezionale. E per una passeggiatina di cinquanta chilometri...» «Lei è suonato come un piffero!» Albert le accese la sigaretta e confessò di essere inchiodato sull’isola per qualche ora. «Io ho dei sandwich e mi è venuta fame. Se non le spiace scendere alla mia barca faremo a metà. Sono in un contenitore di plastica. Tra parentesi, come si chiama?» «Albert» rispose il giovane. «Albert Quinlan.» La ragazza fece un risolino. «Cosa c’è di tanto comico?» «Niente... solo che io mi chiamo Victoria.» Albert si alzò e s’incamminò verso il motoscafo. Victoria studiò la sua figura alta e asciutta. Il giovane si chinò a cercare il contenitore sotto i traversini di mogano, poi si rizzò e respinse dalla fronte i capelli bruni con un gesto disinvolto del capo. “Niente male” pensò la ragazza. “Ventiquattro anni o giù di lì. Si muove bene. Fianchi sexy. Accento londinese. Mica scemo. Occhi grandi, da cane devoto. Super!” Albert tornò alla base. «La barca è uno splendore» osservò. «Sua?» «Di papà.» Mangiarono i panini in silenzio. Albert era contento di non essere riuscito a richiamare il barcaiolo. Si sfilò la camicia e si sdraiò accanto alla ragazza. Il sole picchiava forte e cominciava ad alzarsi un vapore sottile dagli scogli ai confini tra l’acqua e il mare, dove mormoravano le onde. 15
«Da chi ha ereditato l’isola?» «Dal mio vecchio zio Alf. Mi ha allevato lui. L’aveva vinta in una partita di poker. Quando ero piccolo mi diceva di aver vinto anche me in una partita di poker. Mia mamma era morta di polmonite e lo zio Alf doveva badare a me finché papà fosse tornato dalla guerra. Ma non tornò.» Zio Alf, spiegò Albert, era un manovale delle ferrovie, bevitore strepitoso, venuto in Inghilterra per aiutare la causa dell’ira. E si era innamorato così perdutamente della birra inglese da dimenticare quasi del tutto la ragione che l’aveva portato a Londra. Era scatenato per natura, ubriaco sette giorni su sette, ma aveva un cuore d’oro. Spendeva a rotta di collo, come se il denaro dovesse svalutarsi da un momento all’altro, ma ne conservava sempre abbastanza perché Albert avesse un tetto sulla testa e cibo a volontà. Lo zio Alf gli aveva fatto da padre, da madre e da cattivo esempio e lui gli voleva un bene matto. Da quando aveva vinto l’isola in una partita a carte all’O’Flaharty Bar, nell’East End, zio Alf aveva passato gli ultimi mesi della sua vita sognando di ritirarsi laggiù a vivere di quello che gli portava il mare. Alla sua morte, Albert, come unico erede, era diventato proprietario dell’isola, nonché di alcune centinaia di bottiglie di birra vuote, accuratamente riposte in tutti gli armadi a muro e gli sgabuzzini di casa. «Dopo tutto,» ripeteva zio Alf «un portafogli pieno di soldi si può rubare, ma chi si sognerebbe di sgraffignare delle bottiglie di birra?» Albert aveva sgomberato la casa e aveva rivenduto la collezione di bottiglie al bar del quartiere per nove sterline, quattordici scellini e due pence. Aveva provveduto perché suo zio avesse una sepoltura decorosa, e più tardi, alla veglia funebre, Fatty Hagan gli aveva detto che era una fortuna che 16
Alf fosse cattolico, perché se l’avessero cremato il suo corpo impregnato d’alcool sarebbe esploso. Albert aveva risparmiato ferocemente, per poter passare le vacanze sull’isola. Ed eccolo lì... «Non credo che possa fare gran che, con un posto simile» osservò Victoria. «è un po’ desolato. Io odierei doverci abitare d’inverno.» «Potrei trasformarlo in una riserva privata... Di passere...» rimuginò Albert sogguardando Victoria, meditabondo. «Oh, le piacciono?» «Moltissimo. Passo ore a guardarle» rispose Albert, sincero. E agitò il binocolo, comprato al magazzino residuati militari. «Con questo vedo anche i minimi particolari.» «E conosce bene anche gli altri uccelli?» «Riesco sempre a scoprire il nome di quelli che m’interessano.» «E quelli là come si chiamano?» domandò Victoria, indicando i cormorani. «Quello grasso è Leslie e quello magro Desmond.» Lei scoppiò a ridere. «Sono cormorani. E quell’altro?» Il gabbiano zoppo stava in equilibrio su una gamba sola sul suo posatoio di roccia. «È una cicogna» affermò Albert. «Si chiama Cedric.» Victoria rise di nuovo. «Lei è un bell’impostore. Non sa niente di uccelli.» «Ma sto imparando.» Le rocce offrivano poco riparo dal sole bruciante. Albert, infastidito dal riverbero dell’acqua, salì in un piccolo fossato ombroso, direttamente sopra a Victoria. Di lì poteva studiarla senza farsi notare, e più la studiava più la trovava interessante. «Facciamo una nuotata?» propose la ragazza. «Con cosa? Non ho il costume.» «E non ha neanche le mutande?» 17
«Non tocchi argomenti delicati.» «Io non ho niente contro le mutande. Non m’imbarazza, se nuota con quelle.» Albert si spogliò, restando in slip stampati a etichette di birra. I due giovani nuotarono per un po’ nell’acqua limpida, poi tornarono a riva e si sedettero sul loro scoglio, ad asciugare al sole. «Ah, qui non c’è confronto, con il Tuttestelle di Manny!» esclamò Albert. «Cos’è?» «La topaia dove lavoro. Sono il vicedirettore. Se ci fossero tanti spettatori quante tarme, il mio capo sarebbe milionario.» «Mi pare un locale piuttosto blah» osservò Victoria. «È peggio che blah, ma io ci sono affezionato. Il pubblico è meraviglioso. Sono quasi tutti pensionati. La settimana scorsa una vecchietta ha protestato con me perché un topo le aveva mangiato il sandwich, che aveva posato sulla poltrona vicina. Io le ho detto che era vietato l’ingresso in compagnia di topi. Lei si è divertita un mondo, ma ho dovuto offrirle una bistecca. Che mi è costata fior di soldi. E lei era entrata con un biglietto omaggio!» Victoria rise di nuovo. «E il suo capo cosa ne dice?» «Manny? È un tipo straordinario.» E Albert le raccontò tutto di lui. Manny era ebreo. Manny era un cuor d’oro. Non protestava mai quando Albert regalava biglietti omaggio a schiere di vecchi pensionati. D’inverno Albert faceva mettere al massimo il termosifone, per tener caldi i suoi clienti prediletti. I quali venivano al Tuttestelle ogni giorno e assistevano alle proiezioni dal primo pomeriggio fino all’ora di chiusura. Si portavano dietro da mangiare. In genere, i film erano vecchi e brutti sicché c’era sempre posto per gli spettatori paganti, 18
ma non veniva mai nessuno. Ogni tanto si dava un buon film ma le quadrate legioni di pensionati estromettevano i paganti. Con tutto ciò, Manny non si preoccupava. Forse, non avrebbe fatto milioni. Ma se non c’erano lui e Albert a occuparsi dei vecchi pensionati chi se ne sarebbe occupato? «Abbi un po’ di buon senso, Albert. Smettila di pensare alla tua isola. Il tuo avvenire è qui, con me, nel mondo dello spettacolo» ripeteva Manny. Albert si raddrizzava il cravattino e si lisciava lo smoking di seconda mano. Poi tornava in fondo alla sala ad ammirare il suo eroe: Douglas Fairbanks... senior, naturalmente. I film di Douglas Fairbanks junior erano ancora molto al di sopra delle possibilità di Manny. «È ora di rincasare» annunciò Victoria. Albert fece una faccia triste. Tornarono a St. Mary in motoscafo e fermarono il pescatore che andava a riprendere Albert poche centinaia di metri fuori dal porto. In camera, nella sua pensioncina, Albert si sedette sul letto e ripensò alla gita. L’isola rimaneva una delusione. Victoria, d’altro canto, era quanto mai promettente. Forse, nonostante tutto, le sue vacanze sarebbero state un successo. Poteva perfino darsi che ci fosse un galeone carico di tesori, fra gli scogli sommersi di Roccamalora... Ora, nella Villa Edoardiana della signora Pengelly, Albert si spogliò e cercò di fare la doccia. Non era semplice. La doccia della signora Pengelly era costituita da una brocca e da un catino. Albert posò il catino in terra, sopra un asciugamano e vi entrò con cautela. Si versò mezza brocca d’acqua fredda in testa e s’insaponò. Il secondo getto d’acqua portò via la maggior parte del sapone. Al resto pensò l’asciugamano. Albert si vestì e andò in paese, per incontrarsi con Victoria nell’intimità dell’Osteria del Pescatore. La ragazza era già là. Lui si assegnò un altro punto di merito. Nella manina deli19
cata Victoria stringeva un tazzone di birra da mezzo litro. Ad Albert piacevano le ragazze che bevevano birra. Avevano qualcosa di speciale... qualcosa di economico, per lo meno. Assieme a lei c’era un personaggio ben pasciuto, che pareva una caricatura dickensiana. Victoria glielo presentò come suo padre. Albert rimase imbarazzato. Si guardò in giro, furtivamente, per vedere se nei paraggi c’era qualche faccia divertita. Invece niente. Il padre di Victoria era evidentemente uno spettacolo familiare. James Rhodes si avvicinava ai cinquant’anni e ai centocinquanta centimetri di circonferenza. E, per usare una sua espressione, era alto sette bottiglie e mezza. «Di Gordon’s Gin, naturalmente.» In quel momento era in tenuta da bevitore. La sua giacca sportiva di mohair aveva bisogno del barbiere almeno quanto lui. Per giunta era vistosamente quadrettata e contrastava in maniera abominevole con la camicia a fiori che fluttuava sopra un paio di pantaloni a righe. Ai piedi, orbi di calzini, c’era un paio di sandali fatti a mano. Ma era l’estremità superiore del padre di Victoria a fomentare la confusione di Albert. Rhodes aveva i capelli grigi, dove li aveva, cioè sulle tempie e sulla nuca. Dove ne era sprovvisto portava la parrucca. Cosa che sarebbe parsa meno eccentrica se il toupet non fosse stato fatto vent’anni prima, per accordarsi con le chiome superstiti, che a quei tempi erano rosse. Ora se ne stava appollaiato sullo scalpo come una gallina arrabbiata su un nido grigio. Rhodes trasse di tasca una manciata di spiccioli e li fece passare. «Ha qualche pezzo da sei pence?» domandò. Albert gliene porse un paio e l’avvocato si diresse verso la macchinetta mangiasoldi. «Papà è una frana» sospirò Victoria. «Non è mai cresciuto. Si è fatto buttar fuori dal Reparto Legale della marina perché dicevano che beveva più rum lui di tutto l’arsenale. Ha fatto diventare ricco sfondato il fornitore della flotta. E mia madre 20
è scappata col fornitore. Da quel giorno papà non ha più toccato una goccia di rum.» In seguito Rhodes aveva aperto uno studio legale a Londra. Per evitare le esorbitanti tasse sul reddito aveva preso l’abitudine di farsi pagare parte degli onorari in gin. Disgraziatamente, i bottegai del quartiere – uomini di poco spirito – si erano mostrati recalcitranti ad accettare il saldo nella stessa moneta. Alla fine si era trovato così impegolato nelle sue battaglie legali private da non aver più tempo per i clienti regolari. Così quando Victoria aveva lasciato il collegio, Rhodes aveva deciso di trasferirsi alle Scilly. Dove, con la pensione della marina e qualche sporadica transazione legale per i floricoltori delle isole, se la passava notevolmente bene. Il bicchiere di Rhodes non stava mai fermo. O andava in su o andava in giù. In quel momento era in discesa, vuoto. Ma Albert ne scorse un altro di riserva, già pronto sul banco del bar. «Prenda un gin» offrì l’avvocato. «Preparane due, doppi» ordinò al barista. E a Victoria: «Tu la vuoi, un’altrabirra?». Albert non ebbe il tempo di dire che anche lui avrebbe preferito una birra. «Non vorrà rovinarlo con l’acqua, eh?» domandò Rhodes, mentre gli passava il bicchiere. Albert decise di tener chiuso il becco e poiché detestava il gin lo buttò giù d’un fiato, contemporaneamente al «salute!» di Rhodes. «Adesso tocca a me» si affrettò a dire, prima che l’altro potesse ordinare il bis. Mentre sbirciava Albert attraverso il fondo del bicchiere, Rhodes lo soppesava con notevole perspicacia: i giovanotti di Victoria, fino a quel momento, erano stati tutti esili, pallidi e decisamente ginnasiali. Quello era diverso. Aveva una sicurezza di sé che lo preoccupava. Nonché un impertinente fascino popolare. 21
Victoria era una ragazza che poteva piacere molto e non aveva quasi mai nulla da fare. Da piccola, durante le vacanze nelle isole, gli aveva dato un mucchio di grattacapi, nuotando al largo, tuffandosi tra gli scogli pericolosi e uscendo col mare grosso in barchette che parevano gusci. E adesso, invece di diminuire, i grattacapi sarebbero aumentati. Gli sarebbe toccato sorvegliare romanzetti stagionali con pivelli assortiti. Rhodes sperava ardentemente che l’istruzione ricevuta a scuola avesse preparato sua figlia a simili evenienze. Né Albert né la sua isola interessavano l’avvocato in maniera particolare. L’isola non serviva a nulla e forse altrettanto si poteva dire del giovanotto. Roccamalora era solo un pericolo per le navi e Albert, probabilmente, un pericolo ancora più grave per Victoria. Tuttavia Rhodes pensava che quella sera, facendo sfoggio di una certa personalità, avrebbe potuto mettergli in corpo abbastanza timor di Dio da garantire la sicurezza della figlia. Il fatto che Albert fosse il padrone dell’isola preferita di Victoria gli dava un vantaggio che non lo rallegrava affatto. Ciononostante fu molto amabile con lui, e Albert, a garanzia del suo avvenire con Victoria, permise all’avvocato di batterlo due volte alle freccette. La mattina seguente Albert e Victoria s’incontrarono presto, per un’altra gita all’isola. Quella volta la ragazza fece da guida. Mostrò al suo compagno le pozze dove restavano prigionieri i pesci, i punti sotto gli scogli dove si trovavano i granchiolini e le conche al sole dove l’acqua era bollente. Victoria era brava col fucile subacqueo. Nuotò con Albert nel labirinto di alghe, dando la caccia ai branzini che giocavano nella schiuma delle onde. Insieme, frugarono nelle insenature più profonde, nella speranza di trovare qualche aragosta e rimasero sdraiati al sole per ore, parlando un po’ di tutto. Nei giorni che seguirono andarono regolarmente all’isola. 22
La sera la passavano al bar. Rhodes, rendendosi conto che si batteva per una causa persa, tornò al conforto dei gin a catena. Sabato 15 giugno fu una data storica. Albert lo sentì prima ancora di alzarsi dal letto. Rimase a giacere con le mani intrecciate dietro la nuca e gli occhi fissi sul soffitto pieno di crepe e si raccolse in meditazione. Victoria lo desiderava. Questo si era capito il giorno prima, senza ombra di dubbio. Albert decise di fare le cose con calma. Oggi, sperava, sarebbe stato un giorno speciale. Balzò dal letto e si stiracchiò. Sentiva i gabbiani che si radunavano sul tetto di un fienile poco lontano. Il sole era già caldo. Erano appena le sei del mattino. Albert si lavò e si rasò con cura. Uno schizzo di deodorante, un’ombra di talco, ed eccolo quasi pronto. Scelse una canottiera a righe bianche e blu e un paio di jeans puliti. Poi scese in fretta al porto e si sedette sul muricciolo ad aspettare. Victoria era in piedi, nuda, davanti al grande specchio del suo armadio di palissandro. Albert la desiderava. Questo si era capitò il giorno prima, senza ombra di dubbio. E lui non lo sapeva ma oggi l’avrebbe avuta. La ragazza si mise di fianco e si posò le mani sul seno. Che cosa si provava, quando era un uomo a farlo? In collegio parlavano quasi sempre di sesso, dopo il silenzio. E avevano letto tutte il Kama Sutra, ridacchiando. Avevano provato le posizioni sull’impiantito del dormitorio e avevano concluso che erano impossibili. Quale variante avrebbe scelto Albert? si domandò Victoria. Sarebbe stata una cosa romantica? Albert l’avrebbe spogliata o avrebbe dovuto fare da sé? Le avrebbe detto che l’amava? Sì, l’avrebbe detto, decise Victoria. Ce l’avrebbe costretto. Pensò che gli avrebbe dato gioia. Avrebbe fatto il possibile. 23
Niente biancheria. Il più piccolo dei suoi bikini, e sopra un vestito di cotone chiaro, per mettere in valore l’abbronzatura. Victoria aprì una bottiglia di profumo che le aveva regalato sua zia Dorothy per Natale. Ci fece quasi la doccia. E sorrise, al pensiero. Se zia Dorothy avesse saputo a che cosa serviva... Victoria infilò i sandali, afferrò la borsa già preparata e uscì in fretta. Arrivò al porto pochi istanti dopo Albert. Era un po’ accaldata, un po’ ansante e il giovane sospettò che avesse fatto tutta la strada di corsa. Albert controllò la benzina nel serbatoio e nella tanica di riserva, asciugò la rugiada dai sedili di fintapelle, poi scaldò il motore. Il motoscafo era veloce. Faceva quasi i sessanta all’ora. Albert lo guidò di slancio fino all’isola, sentendo l’urto delle onde indurite dalla velocità sotto lo scafo. Victoria gli sedeva al fianco. Il suo corpo, vicinissimo, lo riscaldava dove l’aria pungente del mattino l’aveva intirizzito. Tutt’e due erano molto emozionati. Il sole era ancora basso all’orizzonte quando arrivarono. Ma faceva più caldo, ora che il vento della velocità era cessato. Albert e Victoria sbarcarono sui ciottoli dell’insenatura. Tirarono la prua del motoscafo sugli scogli, l’ormeggiarono a un piccolo spuntone aguzzo e salirono allo spiazzo centrale dell’isola. Victoria prese Albert per mano. Arrivarono al punto in cui Albert si era fermato la prima volta a contemplare il suo regno. Di nuovo lui si fermò e tirò a sé Victoria. «Sediamoci qui, per un po’.» La ragazza si sfilò l’abito di cotone. «Mettimi l’olio solare.» Albert frugò nella borsa, cercando la bottiglia, e spalmò l’olio sulle spalle e sulle braccia di Victoria. 24
Poi le porse il flacone. Lei glielo restituì. «E il resto, niente?» domandò, imbronciata. «Che furbetta» sorrise Albert, cominciando dalla punta dei piedi. Arrivato alle ginocchia si fermò. «Continua» ordinò Victoria. «No.» «Dammi la mano.» Albert eseguì. La ragazza gli prese il polso e lo girò, finché potè versargli un po’ di olio sul palmo. «Non voglio ungermi. Tra un momento devo pettinarmi» spiegò. Portò la mano piena di olio in posizione e se la premette sulla coscia con una carezza. «Visto? Non ti ha fatto male, no?» Albert deglutì a vuoto e pregò il cielo di non esser costretto ad alzarsi improvvisamente. Accese la prima sigaretta della giornata e guardò Victoria, stesa di schiena al suo fianco, sulla roccia levigata. Aveva il viso nascosto dai capelli che aveva sciolto col pettine. Albert sapeva che stava osservandolo, dietro la cortina dorata. Allungò la mano e la posò, con forza, sul dorso della ragazza. Le slacciò il reggiseno e tirò giù le spalline. Per un attimo le due strisce di stoffa rimasero attaccate alla pelle unta, poi ricaddero sullo scoglio. Di fianco, il seno tornito era solo lievemente più chiaro delle spalle. Albert si girò, sedendosi vicinissimo alla ragazza. Spense la sigaretta sullo scoglio, poi si chinò a baciare Victoria sul collo, all’attaccatura dei capelli. Lei si voltò, senza preoccuparsi del reggiseno, che le finì sotto la schiena. Albert sentiva i capezzoli piccoli e duri contro il suo petto. Victoria lo attirò a sé, poi le sue mani scivolarono giù, e s’infilarono sotto i jeans. Le mani girarono attorno ai fianchi di Albert, facendolo trasalire, quando gli sfiorarono il ventre. La ragazza gli si premette contro, spingendolo indietro, 25
finché fu sopra di lui. Staccò le labbra dalle sue e gli baciò la gola, il petto e le spalle, proprio come diceva il Kama Sutra. Le mani trovarono la lampo dei jeans e li fecero scivolare via lungo le cosce. Le labbra frugavano sempre più giù. Albert allungò una mano e premette la testa di Victoria contro di sé: i capelli morbidi gli ricaddero sui fianchi. Albert vi tuffò le mani e tirò il viso della ragazza contro il suo. Adesso erano tutt’e due nudi. Victoria si era tolta gli slip. Si sdraiò accanto ad Albert, supina. Ormai erano separati solo da un velo scivoloso di olio solare. Victoria trasalì. «Ahi!» Albert ebbe una scossa: gli aveva strillato in un orecchio. «Qualcosa mi ha punto.» La ragazza si rizzò a sedere, guardandosi dietro. «Non hai spento la sigaretta!» «Scusami» bofonchiò lui, poco all’altezza della situazione. «Mi fa male.» Albert le tastò la schiena con cautela. «Hai una bolla» esclamò. «Posso metterci qualcosa?» «Pizzica. Se facciamo una nuotata forse si calma.» «Adesso?» «Torneremo qui dopo.» «Donne!» digrignò Albert. Portarono gli abiti alla barca e li lasciarono sui sedili. Quando uscirono dall’acqua non si vestirono. Non c’era motivo. Erano soli, e tutt’e due sapevano che presto avrebbero fatto l’amore. A metà giornata Albert si accorse di avere freddo. Nelle ultime due ore e mezzo non aveva guardato più in là dei pochi centimetri che lo separavano da Victoria. Non avevano ancora fatto l’amore, ma erano rimasti sdraiati stretti l’uno all’altra. Ora alzò la testa e guardò oltre gli scogli. Il mare era scomparso nella nebbia bassa che incombeva sull’acqua. C’era sì e no una visibilità di cinquanta metri. La superficie del mare era piatta e stranamente tranquilla. Cedric, il gabbiano argenteo, era appollaiato sul solito scoglio. 26
«C’è un nebbione...» brontolò Albert. «Forse stavolta restiamo prigionieri sull’isola.» Victoria si rizzò a sedere e rabbrividì. «Non durerà molto» gli assicurò. «Abbiamo spesso di queste foschie, nella zona. Probabilmente, fra un’ora sparirà. Su, coccolami prima...»