Al calore di soli lontani

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Isabel Wilkerson

Al calore di soli lontani Il racconto epico della Grande migrazione afroamericana Traduzione di Luca Fusari


www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore

© Isabel Wilkerson, 2010

© il Saggiatore S.p.A., Milano 2012 Titolo originale: The Warmth of Other Suns­­


Al calore di soli lontani A mia madre e in memoria di mio padre, che emigrando hanno reso possibile la mia nascita, e ai milioni di persone che, come loro, hanno osato realizzare i propri sogni.



Lasciavo il Sud per lanciarmi nell’ignoto, [‌] io mi portavo una parte del Sud per trapiantarla in suolo straniero, per vedere se potesse crescere in modo diverso, se poteva bere nuove e fresche piogge, piegarsi sotto venti stranieri, rispondere al calore di altri soli, e, forse, fiorire‌1 Richard Wright



Sommario

PRIMA PARTE. Nella

terra degli avi

11

Partire

13

Gli inizi Ida Mae Brandon Gladney Il montare dello scontento George Swanson Starling Robert Joseph Pershing Foster Una dura schiavitù Il risveglio Il distacco

25

SECONDA PARTE.

TERZA PARTE.

L’esodo Il tempo del loro ritorno La traversata

QUARTA PARTE.

L’amante più gentile

27 43 53 75 97 125 161 175 177 197 213

Chicago

215

New York

217

Los Angeles

219

Quel che si lasciarono alle spalle

227

Trapiantati in suolo straniero

231


Divisioni

247

Piegarsi sotto venti stranieri

269

L’altra riva del Giordano

283

Complicazioni

309

Il fiume scorre ancora

327

I prodighi

339

Disillusione

345

Rivoluzioni

357

Il compimento della Migrazione

383

QUINTA PARTE.

L’indomani Nei luoghi che abbandonarono Lutti Più Nord e Ovest che Sud Redenzione E, forse, fiorire L’inverno delle loro vite L’emancipazione di Ida Mae

399 401 409 419 427 441 451 475

Epilogo

485

Note metodologiche

497

Postfazione

501

Ringraziamenti

503

Interviste e fonti

507

Lista parziale delle istituzioni che offrirono aiuto e accoglienza ai migranti

511

Note

515

Credits

549

Indice analitico

551


PRIMA PARTE

Nella terra degli avi

I nostri materassi erano fatti di cartocci di pannocchie e di tillanzia grigia e morbida che penzolava dagli alberi […]. Dalle paludi prendevamo tartarughe per il brodo e piccoli di alligatore e nei boschi andavamo a prendere procioni, conigli e opossum.2 Mahalia Jackson



Partire

Questa terra è prima di ogni altra cosa il prodotto delle sue mani. Fu lui a mettere ordine nelle lande selvagge primordiali… Ovunque si guardi in questa terra, qualunque cosa si veda è opera dell’uomo, fu eretta dagli affannati sfiancati corpi dei neri.3 David L. Cohn, Fuggono dalla terra che li ha generati.4 W.H. Stilwell

Contea di Chickasaw, Mississippi, fine ottobre 1937 ida mae brandon gladney

Era scesa la notte, e le nuvole coprivano le terre salate a est dei laghetti lungo le anse del fiume Yalobusha. Alla fine erano riusciti a raccogliere tutto il cotone. Adesso, per Ida Mae era il momento di preparare i bambini, raccogliere i vestiti e le coperte e trovare il modo, uno qualsiasi, di scacciare i pensieri e l’agitazione. Aveva venduto i tacchini e dato via in segreto i vecchi sgabelli, i catini, la tinozza di latta, il pagliericcio dei letti. Suo marito regolava con il signor Edd i conti di un anno di lavoro, e lei non sapeva come sarebbe finita. Nessuno di loro aveva mai preso un treno, escluso il locale che sferragliava da Bacon Switch a Okolona, quello su cui «appena ti siedi sei arrivato». Nessuno di loro era mai uscito dal Mississippi. Né dalla contea di Chickasaw, se è per questo. Non era il caso di spiegare ai piccoli James e Velma il perché delle borse stracolme e del disordine, quale fosse la posta in gioco o perché dovessero tenere le scarpe ai piedi e non piangere, né attirare inutilmente l’attenzione di qualcuno che poteva accorgersi della loro partenza. Doveva sembrare una cosa normale, come una delle rare, rarissime volte in cui si recavano in città. Velma aveva sei anni. Sedeva a gambe incrociate, i capelli raccolti in tre trecce e faceva quello che le dicevano. James, con i suoi tre anni, era troppo piccolo per capire. Era sconvolto dal trambusto. «Adesso stai fermo, James. Fatti mette-


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re le scarpe» gli diceva Ida Mae. James si dimenava e scalciava. Le scarpe non gli piacevano. Nei campi correva libero. Cos’erano quelle? Che noia averle ai piedi. E Ida Mae lo lasciava andare scalzo. Miss Theenie stava a guardare. Uno dopo l’altro, i suoi figli l’avevano abbandonata e se n’erano andati su al Nord. Sam e Cleve nell’Ohio. Josie a Syracuse. Irene a Milwaukee. Adesso l’uomo che Theenie non avrebbe mai voluto far sposare a Ida Mae stava portando via anche lei. Ma Miss Theenie non aveva scelta, doveva incassare e lasciare che figlia e nipoti se ne andassero per sempre. Miss Theenie li attirò a sé, come faceva sempre quando qualcuno partiva. Disse a tutti di chinare la testa. Sussurrando, pregò che sua figlia e la famiglia di lei superassero incolumi il lungo viaggio che li aspettava sul treno di Jim Crow. «Che il Signore sia il primo a salire» pregò «e l’ultimo a scendere.» Giunto il momento, Ida Mae e i piccoli James e Velma salirono sul furgone di un cognato con tutto ciò che riuscivano a trasportare, pronti a raggiungere il marito allo scalo di Okolona e a iniziare il viaggio notturno che li avrebbe portati via dalla pianura per sempre.

Wildwood, Florida, 14 aprile 1945 george swanson starling

Era stato un certo Roscoe Colton5 a dare a Lil George Starling un passaggio fino alla stazione dei treni di Wildwood, su un pick-up che attraversava i frutteti fertili della Florida centrale. E Scolaretto, come lo avevano soprannominato per scherzo gli sdentati raccoglitori di arance, salì a bordo del Silver Meteor diretto a nord. Sulla scaletta che dava accesso al vagone, una ringhiera divideva il lato riservato ai passeggeri bianchi da quello dei neri. Per George fu l’ennesimo e ultimo segnale concreto di quanto fosse assurdo il mondo che stava per lasciare, la sua terra natìa. Non si lasciò turbare, perché in fin dei conti ne stava uscendo vivo. «Sono salito dove mi hanno detto di salire» commenta, a distanza di anni. Non aveva fatto in tempo a salutare tutti. Era passato da Rachel Jackson, che aveva un baretto sulla cosiddetta «Avenue», e da qualcun altro che poteva vedere senza rischiare, nel poco tempo che aveva. Probabilmente tutti quelli di Egypt Town, il quartiere nero di Eustis, seppero che se ne stava andando ancora prima che salisse sul treno, visto quant’era piccolo il borgo e quanto la gente mormorava. Era un pomeriggio limpido di metà aprile. Alto com’era, faticò ad accomo-


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darsi sul sedile rigido, toccava con le ginocchia quello di fronte. Ma infine eccolo pigiato sulla carrozza di Jim Crow, dove erano stipati anche i bagagli, mentre il treno partiva. George era un fuggiasco, e non dormì sereno finché non si allontanò quanto bastava dalla contea di Lake e fuori dalla portata dei proprietari terrieri dei quali aveva infranto le leggi non scritte. Il treno sferragliava oltre gli agrumeti, oltre quegli alberi che George era abituato a scalare sin da ragazzo e dai quali aveva cercato di strappare un briciolo di dignità; e per un po’ ce l’aveva anche fatta. Ora potevano tenerseli. Lui non voleva rimetterci la vita. C’era andato vicino, e tanto bastava. Aveva incarnato in pieno il cognome che la sua famiglia si era ritrovata per caso. Starling, «storno». Lontano cugino del tordo. Aveva osato parlare forte e chiaro del mondo in cui era nato, come lo storno di Mozart o quello shakespeariano che tormenta il re pronunciando il nome di Mortimer. George, però, rischiava di pagare caro il tormento che aveva dato alla classe dominante, quella dei proprietari terrieri. Nel Sud di Jim Crow non c’era posto per uno storno di colore come lui. Non riusciva a immaginare cosa avrebbe fatto né come sarebbe stata la sua vita una volta approdato a New York. Non sapeva quanto sarebbe passato prima che potesse ricongiungersi a Inez. Sua moglie era su tutte le furie, ma le sarebbe passata. Non ne era certo, ma gli piaceva pensarlo. Si sedette con le spalle alla Florida, lo sguardo dritto verso il Nord. Stava scappando e sapeva che non avrebbe mai più rimesso piede a Eustis. Ma mentre si preparava a un viaggio di ventitré ore lungo la costa atlantica, capì che tutto sommato non avrebbe provato troppa nostalgia del villaggio in cui era cresciuto, della Florida e del Sud in generale.

Monroe, Louisiana, 6 aprile 1953, lunedì dell’Angelo robert joseph pershing foster

Alle primissime ore del mattino Pershing Foster mise in valigia i libri di chirurgia, la borsa da medico, il suo abito e i maglioni sportivi, e poi una carta stradale, una rubrica telefonica e il pollo fritto di Ivorye Covington avanzato dal sabato sera. Salutò il padre, che un giorno gli aveva detto di inseguire i suoi sogni. Se quelli del padre erano crollati, per il figlio c’era ancora speranza. Abbracciò senza troppo entusiasmo il fratello maggiore Madison che invano aveva cercato di convincerlo a rimanere. Poi puntò la sua Buick Roadmaster del 1949, bordeaux con


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strisce bianche sulle gomme e il radiatore a bocca di squalo, verso Five Points, il principale crocevia della cittadina. Percorse le stradine sterrate lungo le quali correvano i fossati che da ragazzino, quando pioveva, gli imbrattavano di fango il vestito della domenica appena stirato. Passò davanti alle case dei poveri, tuguri di legno allungati, appollaiati su blocchi di calcestruzzo, e sobbalzò sopra i binari della ferrovia, il confine tra la zona in cui toccava vivere a quelli come lui e quella dove le strade non erano più fossi di terra ma si facevano, di colpo, lisce e asfaltate. Si diresse verso Desiard Street, la via principale e, senza un briciolo di emozione, sfrecciò davanti agli edifici delle banche e dei fideiussori della cittadina, alle scale puzzolenti di urina del Paramount Theater e al St. Francis Hospital, dove i medici come lui non avevano il permesso di praticare neanche una semplice tonsillectomia. In fin dei conti era un chirurgo e forse, se gli avessero consentito di praticare o di entrare al Palace a provarsi un abito elegante degno di uno del suo rango, sarebbe rimasto. Ma negli anni il livore si era fatto sempre più pesante. Sapeva di essere un tipo sveglio, anzi, si credeva più sveglio della media, ma essere svegli serviva a poco, in una società di caste come quella. E adesso eccolo scappare il più lontano possibile da Monroe, Louisiana. I nodi che avevano strozzato la sua vita sembravano sciogliersi con lo scorrere del contachilometri. Come tanti suoi compagni di esodo, Pershing partiva da solo. Meglio esplorare il Nuovo mondo in solitudine e imparare a viverci, prima di tutto. Partì per l’Ovest in quel mattino immobile e attraversò il ponte Endom, l’arcata stretta su cui corre la strada a due corsie che porta a West Monroe, oltre il fiume Ouachita. Poi si addentrò nelle pianure della reazionaria Louisiana centrale e oltre il Red River, verso il Texas, dove lo aspettava il suo ex compagno di studi Anthony Beale. La sua meta ultima era la California. Pershing non sapeva né dove né come si sarebbe guadagnato da vivere, non aveva idea di quando avrebbe strappato sua moglie e le sue figlie dalle mani del parentado che dal primo istante aveva cercato di ostacolarlo. Per pensarci aveva davanti un’infinità di giorni tutti uguali. Dalla Louisiana seguì le linee disegnate sulla strada, che si confondevano all’orizzonte e univano luoghi diversi e lontani. Lo aspettavano più di tremilacinquecento chilometri di rettilinei e curve in completa solitudine: più di quanti ne facessero i braccianti che giungevano in Texas dal Guatemala, per non parlare di chi approdava in California da Tijuana, dove il vento del Sud spinge oltreconfine i panni stesi in Messico.


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Nelle nostre case, nelle nostre chiese, ovunque due o tre di noi si radunino, si discute quale sia la scelta migliore. Dobbiamo rimanere nel Sud o andare via? C’è un posto in cui ci sentiremmo al sicuro come si sentono gli altri? È meglio che partiamo in tanti o solo qualche famiglia? Di queste e di molte altre cose si parla senza sosta.6 Una donna di colore in Alabama, 1902

La Grande migrazione, 1915-1970

Fuggivano come da un incantesimo o da un’epidemia. «Sembravano in fuga da una maledizione. Avrebbero fatto qualunque sacrificio pur di ottenere un biglietto ferroviario, e chi se ne andava era deciso a non tornare mai più.»7 Dall’inizio fino alla seconda metà del xx secolo, quasi tutte le famiglie nere del Sud degli Stati Uniti, vale a dire quasi tutte le famiglie nere d’America, dovettero prendere una decisione. C’erano mezzadri indebitati. Dattilografe che ambivano a un lavoro in ufficio. Braccianti che rischiavano l’impiccagione per aver detto una parola o fatto un gesto di troppo davanti alla moglie del padrone. La società era ingessata in un sistema di caste rigido e duro come l’argilla rossa della Georgia, e ognuno doveva decidere per sé, in maniera non molto diversa da chi a suo tempo aveva attraversato speranzoso l’Atlantico o il Rio Grande. Durante la Prima guerra mondiale un pellegrinaggio silenzioso mosse i primi passi entro i confini della nazione. La febbre scoppiò senza preavviso né segni premonitori e, esclusi i diretti interessati, se ne accorsero in pochi. Si placò soltanto negli anni settanta, con trasformazioni inimmaginabili sia al Nord che al Sud; nessuno, nemmeno chi si metteva in viaggio, ne sospettava la portata, e che ci sarebbe voluta quasi una vita per portare a termine tutti i cambiamenti. Gli storici la ribattezzarono «Grande migrazione». Fu la saga più grande e forse la più sottovalutata del xx secolo. Senza limiti. Senza leader. Seguì così tante migliaia di correnti e coprì un arco di tempo così ampio che fu arduo, per i giornali e gli studiosi, carpirla nel suo sviluppo. Per più di sessant’anni, quasi sei milioni di neri abbandonarono il Sud, la ter-


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ra dei loro avi, per inseguire una nuova e incerta esistenza che li portò in ogni angolo d’America.8 La Grande migrazione fu un punto di svolta nella storia del paese. Trasformò l’America urbana e riplasmò l’ordine sociale e politico di tutte le città che sfiorò. Costrinse il Sud a cercare la propria anima e ad accantonare, finalmente, un sistema di caste feudale. La Migrazione nacque dalle promesse mancate della Guerra di secessione e con tutto il suo peso esercitò una spinta decisiva per la rivoluzione dei diritti civili negli anni sessanta. Durante quei fatidici sessant’anni buona parte dei neri americani abbandonò le coltivazioni di tabacco della Virginia, le risaie della Carolina del Sud, i campi di cotone del Texas orientale e del Mississippi e i borghi o le regioni più sperdute degli altri stati meridionali: Alabama, Arkansas, Florida, Georgia, Kentucky, Louisiana, Carolina del Nord, Tennessee e, in una certa misura, Oklahoma. Gli emigranti partirono per città i cui nomi avevano pronunciato, sentito pronunciare o letto sui cataloghi di vendita per corrispondenza. Qualcuno lasciò i campi con in mano la Bibbia e una vecchia chitarra a dodici corde. Altri erano cittadini inurbati e ambiziosi, commercianti a caccia di clienti, pastori sulle orme del loro gregge. Giunsero in terre straniere con lingue veloci e costumi nuovi, con regole e leggi complicate. Il Nuovo mondo prometteva stipendi più alti ma imponeva anche affitti sconcertanti, che andavano calcolati come fossero in valuta straniera. Le destinazioni dei loro viaggi erano città grandi, spaventose e affollate come New York, Detroit, Chicago, Los Angeles, Philadelphia; oppure centri più piccoli ma altrettanto esotici: Syracuse, Oakland, Milwaukee, Newark, Gary. Ognuna si trasformò in «capolinea e porto sicuro», come scrisse il poeta Carl Sandburg mentre, da giornalista, documentava il dispiegarsi della migrazione a Chicago.9 Non c’erano tornelli da attraversare, come alla dogana di Ellis Island. Gli emigranti erano cittadini americani a tutti gli effetti, ma nessuno li trattava come tali nella loro terra natìa. A controllarne ogni passo c’erano le meticolose leggi di Jim Crow, il minstrel del xix secolo che simboleggiava le leggi di casta imposte con la violenza nel Sud. Il regime di Jim Crow fu in vigore dal 1880 al 1960, per circa ottant’anni, l’aspettativa di vita di un uomo in salute. Afflisse le vite di almeno quattro generazioni di persone e, come già prevedeva chi scappava, non se ne andò senza prima lasciarsi alle spalle una lunga scia di sangue. La Grande migrazione fu così imponente da ridimensionare la Corsa all’oro del 1850, con i suoi centomila partecipanti, e la migrazione della Dust Bowl, che negli anni trenta aveva spinto verso la California quasi trecentomila abitanti dell’Oklahoma e dell’Arkansas, minacciati dalle tempeste di sabbia.10 Ma, fatto assai più notevole, fu il primo gesto di indipendenza di massa di un popolo che ha vissuto più da schiavo che da libero nella propria nazione.11 «La storia della Grande migrazione è uno dei capitoli più drammatici e av-


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vincenti della storia americana» scrisse lo storico del Mississippi Neil McMillen. «E i suoi effetti perdurano ancora oggi anche se a stento ne cogliamo il significato.»12 La sua impronta è evidente ovunque nel panorama urbano contemporaneo. La struttura delle città come le conosciamo, la geografia dei quartieri bianchi e neri, la diffusione delle case popolari e al contempo la crescita di una classe media nera più raffinata, e poi ancora le ondate di emigrazione bianca e l’urbanizzazione dei sobborghi sono conseguenze, dirette o indirette, delle scelte o delle reazioni di chi fu toccato dalla Grande migrazione. In modo analogo, dall’esodo nacquero anche il linguaggio e la musica dell’America urbana, figlia dei blues portati dagli emigranti e capace di dominare ancora oggi le frequenze radiofoniche. Dalla Migrazione nacquero persone che non sarebbero esistite o avrebbero preso un’altra strada: James Baldwin e Michelle Obama, Miles Davis e Toni Morrison, Spike Lee e Denzel Washington, e ancora anonimi insegnanti, commessi, metalmeccanici e medici. Bambini ai quali un genitore o un nonno che aveva preso l’ardua decisione di partire schiuse un mondo di inedite possibilità. La Migrazione terminò soltanto negli anni settanta, quando il Sud cominciò finalmente a cambiare: la segregazione razziale allentò la presa, le scuole per bianchi aprirono a studenti di colore e il diritto di voto fu esteso a tutti. A quel punto, circa il 47 percento dei neri americani viveva fuori dal Sud, contro il 10 percento degli anni pre-Migrazione.13 «Spesso la pura e semplice fuga» scriveva negli anni trenta l’accademico di Yale John Dollard «è uno dei gesti più aggressivi che si possano compiere; inoltre, se come in questo caso i modi di esprimere il proprio malcontento scarseggiano, è una delle poche maniere di esercitare pressione.»14 E a Migrazione esaurita, nessuna città del Nord o dell’Ovest era più la stessa. Nella sola Chicago la popolazione nera schizzò dalle 44103 unità (poco meno del 3 percento del totale) di inizio processo al milione abbondante. All’avvento del xxi secolo un terzo degli abitanti della città era costituito da neri e ce n’erano più a Chicago che in tutto lo stato del Mississippi.15 Fu «un movimento popolare dal peso incalcolabile».16 Ma soprattutto, per i servi della nazione fu il primo, grande passo compiuto senza chiedere il permesso a nessuno. * Erano gli anni della Grande depressione, e un treno passeggeri fischiava per i monti della Georgia settentrionale. Quando passava per la città collinare di Rome, una ragazzina appena uscita da scuola correva lungo il terrapieno e aspet-


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tava di veder sfrecciare i vagoni al di là dei carrubi. Salutava i passeggeri di quelle scatole di metallo con le ruote, persone importanti che guardavano altrove, e sognava di poter sfrecciare come loro, un giorno. Anni dopo, anche lei salì su un treno diretto a nord. La carrozza traboccava dei volti speranzosi di chi confida nei diritti e nei privilegi della cittadinanza. Scese alla Union Station, nella città di confine di Washington, D.C. Era la porta del Nord, piena di piazze grandiose e circoli intitolati agli eroi nordisti della Guerra di secessione come Ulysses S. Grant, William Tecumseh Sherman, George Henry Thomas, David G. Farragut:17 nomi che il Sud disprezza ancora oggi. Raggiunse l’indirizzo che le era stato indicato e si accampò sul divano-letto di un lontano cugino che conosceva appena. Poco tempo dopo, celebrò il rituale d’arrivo che accomunava quasi tutti gli inconsapevoli emigranti: si fece fare una foto. Il passaporto dell’emigrante. La dimostrazione che era arrivata nel Nuovo mondo. La foto è seppiata, cinque centimetri per otto, e risale agli anni quaranta. Due giovani donne siedono sui gradini di una casa a schiera di R Street, a Washington, con un’aria decisamente alla Bette Davis. Tacchi appuntiti e spalline imbottite, cappotti di lana che sfiorano le ginocchia. Sono nuove del posto. Amiche d’infanzia in Georgia che si ritrovano ora nella grande città. Sul loro volto non v’è traccia delle umiliazioni subìte al Sud. Ormai è finita. Sono tutte sorrisi e ottimismo. Quando era piccola, la ragazza con la collana di perle andava a salutare il treno e sognava di salirci, un giorno. Diventerà un’insegnante e, anni dopo, mia madre. Da giovane trovai la foto in un cassetto del salotto, tipica destinazione di reperti come questo. Fissai i volti, cercai nella luce dei loro occhi e nell’ampiezza dei sorrisi le tracce del viaggio che le aveva portate fin là. Perché sono partite? Cosa cercavano? Dove trovarono il coraggio di abbandonare tutto il loro mondo per raggiungere un luogo che non avevano mai visto, e l’ambizione di essere qualcosa in più di ciò che, secondo il Sud, avevano il diritto di essere? Era più coraggioso restare o partire? Cosa sarebbe successo se quella ragazza non fosse venuta qui, se non avesse conosciuto e sposato quel pilota di caccia della Virginia, un immigrato come lei, che divenne mio padre? Io, come milioni di altri figli del Nord e dell’Ovest, sarei venuta al mondo? Cosa sarebbe successo se tutte le altre vittime di Jim Crow non si fossero riversate oltre i confini del Sud in cerca di una vita migliore? Se non fossero andate al Nord, come sarebbe oggi New York? Come sarebbero Philadelphia, Detroit, Pittsburgh, Chicago, Los Angeles, Washington e Oakland? E viceversa, come sarebbe il Sud? Sarebbe cambiato da solo? Oppure è stato l’esodo nero a costringerlo a ripensare se stesso in una maniera che nessuno credeva possibile? «Vuoi sapere cosa sarebbe successo se fossi rimasta?» disse mia madre, ripetendo la domanda che le avevo rivolto. «Non ci voglio neanche pensare.»


Partire   21

Non usò mai le parole «Grande migrazione afroamericana», né altre etichette altisonanti per definire il proprio viaggio, e non coglieva la ricaduta sociale di decisioni che riteneva private e personali. Tuttavia, insieme a milioni di altri, fu parte integrante di quel movimento. A un certo punto, la sola Chicago accoglieva diecimila immigrati al mese.18 Era un vero spettacolo sulle banchine della ferrovia, sia nel Nord che nel Sud. «Sono andato in stazione a salutare un amico in partenza» scriveva a migrazione appena cominciata Emmett J. Scott, funzionario del Tuskegee Institute dell’Alabama. «Non sono riuscito a entrare. C’erano tantissime persone, andavano avanti e indietro come api in un alveare.»19 * Di quei milioni di persone, e delle scelte che fecero, resta traccia in ogni ambito della cultura americana, nelle parole di Ralph Ellison e Toni Morrison, nei drammi di Lorraine Hansberry e August Wilson, nella poesia e nella musica di Langston Hughes e B.B. King o di artisti più giovani come gli Arrested Development e Tupac Shakur.20 L’opera di Richard Wright, il bardo della Grande migrazione, riecheggia le loro voci. Rappresentò i timori e i desideri dei suoi compagni nel romanzo Paura e nell’autobiografia Ragazzo negro. Era figlio di un mezzadro di Natchez, Mississippi. Nel dicembre del 1927 disertò dal Sud e, passando per Memphis, raggiunse Chicago in cerca del «calore di altri soli». Eppure, malgrado la sua grande influenza, la Migrazione fu così imponente da finire più spesso sullo sfondo della storia che in primo piano. Gli studiosi si sono dedicati soprattutto alla fase iniziale del fenomeno, quella che coincide con gli anni della Prima guerra mondiale. «Meno si è parlato della massiccia sequenza di trasferimenti avvenuta durante il secondo conflitto» scrive lo storico James N. Gregory «e una trattazione esaustiva della storia di un secolo di emigrazione nera non esiste.»21 Questo libro cerca di rimediare a tale mancanza. Le storie che racconta si basano sulle testimonianze di chi, per centinaia di ore, ha acconsentito a condividere con me quello che forse fu il più grande punto di svolta della propria vita e di quella di molti altri, selezionate dopo più di milleduecento interviste tra New York, Chicago, Los Angeles, Milwaukee e Oakland. Sono le voci di chi partì dal Sud durante la Grande migrazione, e la loro storia collettiva pervade ogni aspetto del libro. La Migrazione ha influenzato in maniera decisiva la personalità e il destino, benevolo o avverso, dei miei tre protagonisti – Ida Mae Brandon Gladney, George Swanson Sterling e Robert Joseph Pershing Foster – dei loro discendenti e dei compagni di viaggio: per questo hanno accettato di buon grado di rac-


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contarsi. I resoconti ufficiali mi hanno consentito di verificare quanti più dettagli possibile, ma a dare un carattere unico alle storie raccolte in questo libro sono i sentimenti più grandi e veri, la paziente rievocazione, da parte dei protagonisti, della propria crescita interiore e delle scelte che la guidarono. E a mano a mano che tramontano le generazioni dei primi emigranti, conservare le loro storie diviene indispensabile per comprendere a pieno questo grande esodo che mosse dal Sud verso il Nord e l’Ovest degli Stati Uniti d’America. * Questo libro copre un arco temporale di circa un secolo. Nello svolgersi della narrazione, le esigenze di fedeltà terminologica a ogni epoca hanno imposto scelte di linguaggio molto precise. Nella prima metà del xx secolo i neri, e soltanto essi, sono colored, «di colore», come dimostrano le scuole e le insegne dei servizi a loro riservati. Con gli anni sessanta si passa all’uso di black, «nero», che acquista popolarità nel periodo delle lotte per i diritti civili, mentre più di recente si è consolidato l’uso di «nero» e «afroamericano».22 Nel corso del tempo la storia della Grande migrazione ha subìto travisamenti che hanno gettato cattiva luce su un popolo intero. Dal momento in cui misero piede al Nord e nell’Ovest, gli emigrati divennero il capro espiatorio dei problemi delle città in cui abitavano. Li si accusava di avere gettato scompiglio nell’istituzione della famiglia, di avere, al contrario dei nativi, figli fuori dal matrimonio o di essere senza lavoro, dei parassiti dell’assistenza sociale. Tuttavia, negli ultimi vent’anni di ricerche meticolose da parte degli studiosi è emersa un’immagine totalmente diversa della Grande migrazione. L’analisi dettagliata di dati demografici inediti ha dimostrato che, a dispetto del luogo comune, i figli degli immigrati neri crescevano in famiglie spesso più solide del previsto. «Rispetto ai nativi neri del Nord» scrive il sociologo Stewart E. Tolnay, uno dei massimi esperti della Migrazione, «gli immigrati sudisti vantavano un tasso più alto di partecipazione alla vita attiva delle città, un livello di disoccupazione più basso, stipendi migliori, un minore livello di povertà e di dipendenza dai sussidi.»23 Le vite delle persone descritte in questo libro dimostrano la complessità del fenomeno della Grande migrazione e, grazie ai nuovi dati, rappresentano l’esperienza più comune degli emigranti meglio di certe cronache ormai obsolete. A dispetto della sovrapposizione di luoghi ed epoche nel racconto che segue, i suoi tre protagonisti non si sono mai conosciuti né incontrati. Le loro strade non si sono mai incrociate, se non nelle interviste che mi hanno concesso e, metaforicamente, nelle loro storie, di capitolo in capitolo. Ognuno seguì la sua corrente nel totale anonimato, il che testimonia sia l’ampiezza che il carattere marginalizzante della Migrazione.


Partire   23

Azioni e gesti di chi anima questo libro sono universali ma anche spiccatamente americani. La scelta di emigrare fu innescata da una struttura economica e sociale creata da altri e sulla quale era impossibile intervenire. E chi scelse di emigrare fece quello che gli esseri umani hanno fatto per secoli di fronte a condizioni di vita intollerabili: come fu per i pellegrini sotto la tirannia della legge britannica, gli immigrati dell’Irlanda del Nord in Oklahoma quando la loro terra si trasformò in sabbia, gli irlandesi quando non avevano più niente da mangiare, gli ebrei europei minacciati dal nazismo, i nullatenenti russi, italiani, cinesi e di tanti altri luoghi attirati da un richiamo allettante al di là dell’oceano. Ciò che lega i protagonisti di queste storie è la ricerca urgente, riluttante ma piena di speranza, di qualcosa di meglio, ovunque fosse. Fecero quello che gli esseri umani in cerca di libertà hanno fatto spesso, nel corso della storia. Partirono.


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