Lucio Magri
Alla ricerca di un altro comunismo Saggi sulla sinistra italiana A cura di Luciana Castellina, Famiano Crucianelli, Aldo Garzia Prefazione di Luciana Castellina
www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Curatela editoriale di Liliana Rampello La traduzione dall’inglese del saggio di Perry Anderson è di Raoul Kirchmayr © il Saggiatore S.p.A., Milano 2012
Alla ricerca di un altro comunismo
Sommario
Prefazione di Luciana Castellina Ultima conversazione (2010-2011)
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Intervista a Lucio Magri di Famiano Crucianelli e Aldo Garzia 51 Saggi 1962-1993
Le novità del neocapitalismo (1962) Praga è sola (1969) Maturità del comunismo (1970) Poscritto a «Problemi della teoria marxista del partito rivoluzionario» (1970) Breve la vita felice di Lord Keynes (1972) La qualità nuova della crisi (1974) Intervento alla Camera dei deputati (1976) Le ragioni di una sconfitta (1977) In nome delle cose (1990) Relazione al Congresso di Rifondazione comunista (1993)
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Per Lucio Magri (1932-2011)
Un intellettuale rivoluzionario di Perry Anderson Un sito per Lucio Magri
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Prefazione di Luciana Castellina
La sua prima infanzia Lucio l’ha vissuta nel deserto libico. Suo padre, ufficiale d’aviazione ed esperto pilota incaricato di spericolati collaudi, era stato mandato laggiù e aveva avuto la bella idea di portarci moglie e figlio. Lucio ha così mancato l’indispensabile esperienza di socializzazione che sono le elementari: nel deserto di bambini bianchi c’era solo lui, e quelli neri a scuola non andavano affatto. Con loro, in realtà, era persino difficile giocare: non era, all’epoca, considerato «politically correct». Fu salvato dalla guerra: suo padre fu mandato a combattere e lui, con la mamma, rientrò a Bergamo dove le scuole c’erano. E però quella solitudine dei primi anni di vita deve aver contato nel conferirgli il pessimo carattere che si è poi portato dietro tutta la vita. Michelangelo Notarianni, raffinato intellettuale e suo solo vero amico, diceva di lui che gli «mancavano i sentimenti intermedi», quelli che rendono umani gli umani. Ma Michelangelo con quel suo giudizio voleva anche sottolineare che però aveva i sentimenti alti, qualche straordinaria qualità. Fra tutte la generosità intellettuale. Nel senso che a Lucio, che era molto creativo, non importava niente se le idee che partoriva di continuo non gli venivano attribuite e poi venivano portate avanti da altri: a lui bastava che vivessero. Così passava giorni a fare lo scribacchino per questo o per quello, distribuendo appunti a chiunque lo chiedesse. Tanto poco aveva il senso del possesso, che i suoi scritti non solo non li raccoglieva, ma per lo più li perdeva. Perse anche un intero manoscritto, un libro compiuto sulla storia degli Stati Uniti. Non lo cercò più di tanto, aveva già altre cose
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per la testa e quel che era stato interessante era aver studiato e riflettuto sulle vicende americane. Fra i suoi difetti Lucio aveva anche l’intransigenza. Rigidissima. Non integralismo, perché, anzi, era capace di continue autocritiche politiche; ma non sopportava l’incoerenza, l’eclettismo, l’assenza di rigore. Tutto doveva avere una logica e si arrabbiava con chi non riusciva a spiegare come da un certo inizio si sarebbe arrivati a certe conseguenze. Poiché in politica questo esercizio è assai frequente ha finito per litigare con molte persone. Non si trattava, naturalmente, di integralismo religioso. Se le origini della sua formazione avevano radici nelle organizzazioni cattoliche era solo perché a Bergamo la sinistra era difficile incontrarla. Non c’era quasi. «I preti e i comunisti» che – come constatarono gli americani appena sbarcati, erano gli esclusivi abitanti dell’Italia – erano geograficamente aggregati, in regioni bianche e rosse. E Bergamo era fra le province più bianche. La dialettica politica postbellica, che era quanto a Lucio interessava dalla prima giovinezza, si esauriva dunque nella sventagliata galassia della Democrazia cristiana, che allora comprendeva, oltre a una destra consistente, anche una sinistra rilevante, l’ala dossettiana. E fu così che Lucio Magri cominciò con l’essere un dirigente dei gruppi giovanili Dc, che più di ogni altro settore di quel partito cresceva all’ombra del deputato che poi abbandonò tutto, in opposizione alla definitiva scelta neocapitalista della Dc di Fanfani; e si fece prete, presto esiliandosi a Gerusalemme. I gruppi erano allora guidati da Franco Maria Malfatti, in seguito ministro e addirittura presidente della Commissione europea, che però all’epoca scriveva sulla rivista ufficiale dell’organizzazione – Per l’Azione, diretta da Bartolo Ciccardini – «non credo di sbagliare se dico che l’uscita delle opere di Gramsci ha rappresentato un avvenimento atteso e un lievito culturale importantissimo per la gioventù Dc». Malfatti aveva grande stima di Lucio e quando a nome di Enrico Berlinguer gli andai a chiedere di andare a Varsavia come osservatore al Congresso dell’Unione internazionale degli studenti (entro cui si era ormai consumata la rottura con le organizzazioni non socialcomuniste) mi rispose che per lui, delegato nazionale, era impossibile, ma che vi avrebbe mandato una persona di sua piena fiducia, uno di Bergamo, Lucio Magri. Le circostanze in cui si stabilì questo accordo furono curiose: allora, era il ’53 e la guerra fredda im-
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perava, che io andassi nel suo ufficio in piazza del Gesù, o che lui venisse nella sede della Fgci, a Botteghe Oscure, era impensabile. Terreni neutri non ce n’erano, tantomeno era adatto un bar. E fu così che salii sulla macchina di Malfatti e andammo a parlare, chiusi nella vettura, in piazza del Quirinale, disturbati da un ambulante che voleva mi comprasse una rosa, che infatti, per togliercelo di torno, mi regalò. Occorreva, per Magri, il visto per la Polonia e così la prima volta che lo vidi in faccia fu attraverso le foto tessera e il passaporto che mi inviò a Roma affinché portassi a buon fine la pratica. Dovetti recapitarglielo a Milano, in tempo perché prendesse il treno di mezzanotte per Varsavia, mentre io non potei partire perché all’ultimo il questore di Roma mi negò per l’ennesima volta il passaporto, essendo io già una pluriarrestata. Ci incontrammo al bar Zucca, in galleria, e la conoscenza ebbe come quasi tutti sanno qualche seguito: politico, perché è insieme che abbiamo fatto il manifesto, e sentimentale, perché anni dopo e per parecchio tempo, siamo stati compagni di vita. Non prima, ovviamente, che lui si fosse iscritto al Pci, altrimenti sarebbe stato impensabile per ambedue. I giovani Dc, così come la corrente dossettiana da cui traevano ispirazione, erano dominati dalla questione comunista: aprire al Pci era considerato il solo modo di avviare una politica anticapitalista e contrastare la scelta borghese ormai compiuta dai fanfaniani. Le incertezze che ancora in quegli anni percorrevano il mondo cattolico spiegano come sia stato possibile che su Per l’Azione siano potuti apparire articoli impensabili solo qualche anno dopo. E così troviamo proprio in quelle pagine un articolo di Lucio Magri, intitolato «I limiti del riformismo», più o meno lo stesso di un saggio scritto vent’anni dopo sul manifesto, in cui è detto: «La nostra dimensione rivoluzionaria è stata crudelmente compromessa dal ricatto di una politica angusta, che ci obbliga a una spossante attesa del futuro». Com’era evidente la Dc fanfaniana non poteva sopportare una organizzazione giovanile di questo tipo e infatti il suo esecutivo venne sciolto alla vigilia del congresso del partito, nel giugno del ’54 a Napoli. Magri, che dal ’53 era succeduto a Ciccardini alla direzione di Per l’Azione, non era riuscito a far uscire neppure un numero della rivista: ogni bozza venne da Fanfani gettata nel cestino, fino a quando la rivista stessa non cessò le sue pubblicazioni.
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E però una parte dei giovani Dc non si rassegnò: consumata la separazione con chi fra loro aveva scelto di adeguarsi e intraprendere brillanti carriere governative, promosse altre pubblicazioni: il ribelle e il conformista, diretta da un altro bergamasco, Carlo Leidi, molti anni dopo militante del manifesto. E poi la rivista Prospettive, in cui ritroviamo i nomi di tutti coloro che alla fine abbandonarono la Dc per approdare nelle file comuniste: Chiarante, Baduel, Guerzoni e tanti altri. Ciccardini e Baget Bozzo dettero invece vita a Terza generazione, in cui un ruolo importante fu giocato da Felice Balbo, una rivista che per una breve fase cercò di collocarsi fuori dalla Dc ma non contro di essa. La vicenda dei gruppi giovanili Dc non fu un caso anomalo. Una crisi analoga subì la ben più corposa Gioventù dell’Azione cattolica, la Giac, i cui presidenti, Carlo Caretto e poi Mario Rossi, furono obbligati a dimettersi in contrasto con la linea integralista e fortemente anticomunista di Gedda, ambedue seguendo la strada di un appartato sacerdozio missionario, già imboccata da Dossetti. Il Pci, e tanto più la Fgci, non capirono il travaglio della nuova generazione cattolica. Continuarono a proporre riduttive tematiche rivendicazioniste (i campi sportivi per i proletari, la riduzione delle tasse universitarie per gli studenti) come terreno di incontro, laddove il problema posto dal gruppo di giovani Dc che alla fine abbandonò il partito conteneva una domanda assai più ampia e strategica. Lucio Magri fu molto ferito da questa incomprensione, lo racconta anche nella conversazione con Garzia e Crucianelli, quando riferisce del deludente incontro che lui e Chiarante ebbero, proprio a casa mia, con Enrico Berlinguer. E sulla questione cattolica è poi tornato spesso, sia quando entrò nel Pci, sia, in seguito, quando divenne segretario del Pdup, come prova un convegno promosso sulla questione nel ’75.1 Una problematica anomala rispetto alla cultura molto «classista» della nuova sinistra, in cui peraltro finirono per militare molti ragazzi provenienti dalle organizzazione cattoliche. In polemica con la cultura laico-radicale Magri insistette nella sua relazione su un dialogo che si fondi su valori e bisogni, quelli di una riforma intellettuale e morale. Contro la rimasticatura di un’etica individualistica, contro un punto di vista anarchico libertario, di mera insubordinazione in cui si va involgendo la spinta del ’68. Scrive Del Noce, in merito a questa vicenda rimasta assai in ombra nel-
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la storiografia che racconta i primi anni cinquanta (in Genesi e significato della prima sinistra cattolica italiana post-fascista), che si trattò di «un fenomeno singolarissimo, di cui l’esempio senza paragone più importante sta nella vicenda della sinistra Dc di Dossetti in cui il capo abbandonava, per rigorosa coerenza intellettuale, e per nient’altro, la politica. Ora la gioventù Dc era stata influenzata in maniera decisiva da questo indirizzo. A chi rivolgersi ormai dopo il silenzio politico del maestro? Sta di fatto che negli anni approssimativamente tra il ’53 e il ’58, l’unico pensatore cattolico che ebbe udienza presso la gioventù Dc fu Felice Balbo. Né può essere sottovalutata l’importanza che ebbe la rivista Terza generazione, ispirata da lui anche se la sua durata fu breve». In realtà l’incontro con Balbo fu importante soprattutto perché fu attraverso di lui che la parte più decisa dei Gruppi giovanili entrò in contatto con il leggendario Franco Rodano, indiscussa autorità dei cattolici comunisti ma anche assai influente presso il Pci stesso, sebbene Rodano sia rimasto sempre appartato. E però con Balbo i giovani Dc si trovarono su una soglia attraverso la quale stavano procedendo in direzione inversa: un gruppo importante di catto-comunisti (Balbo, Fedostiani e altri) abbandonava il Pci, loro andavano alla sua scoperta. È così che Magri, assieme a Baduel e a Chiarante, approda al Dibattito politico, il settimanale (in seguito quindicinale) diretto da Mario Melloni (futuro Fortebraccio, il popolarissimo corsivista dell’Unità) e Ugo Bartesaghi, deputati Dc espulsi dal partito per avere votato contro la creazione della Ueo (riarmo europeo), ma di fatto da Franco Rodano. La pubblicazione, in cui Magri scrive moltissimo (e con una molteplicità di pseudonimi) di tematiche sempre più connesse con il confronto politico e teorico interno al Pci, ebbe una sorte singolare: pensata come sede di dialogo fra cattolici e comunisti, finì per avere grande influenza nelle file stesse del Pci, dove si cominciava a discutere dell’ipotesi di centro-sinistra, un’opzione cui Rodano era fortemente contrario. Egli sospettava infatti del rapporto Dc-Psi e forze laico-borghesi, privilegiando un rapporto diretto Dc-Pci, fondato sul fatto che gli appariva assai più anticapitalista, per valori e interessi sociali, la base popolare e ancora contadina di quel partito rispetto ai ceti medi borghesi rappresentati da Psi, Pri, Psdi. Una posizione, questa, che si incontrava per molti versi con quella della sinistra comunista e che però portò Roda-
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no, molti anni più tardi, a sostenere il compromesso storico, che era in realtà tutt’altra cosa. È un fatto che in quegli anni Lucio Magri si trovò così a essere un eretico del Pci ancor prima di iscriversi a quel partito, cui avrebbe voluto aderire già subito e non poté. Come racconta lui stesso a Garzia e Crucianelli, resterà fuori dal Pci più a lungo di quanto avrebbe auspicato perché gli stessi dirigenti del partito, in nome di un accorgimento tattico un po’ miope, preferivano di gran lunga che si occupasse di dialogare con la sinistra Dc piuttosto che vederlo intromettersi nei propri delicati confronti interni. Ci riesce, finalmente, nel 1958. E subito decide di abbandonare Roma per affrontare una prova sul terreno, nella piccola Federazione della sua città, Bergamo. È qui che incontra un personaggio straordinario, che è poi stato una figura chiave del manifesto e del Pdup e nella vita di Lucio, alla cui saggezza ha sempre finito per affidarsi: Eliseo Milani, allora segretario della Federazione, operaio già a undici anni alla Dalmine, leggendario per aver effettuato, solo nella sua fabbrica, uno sciopero nazionale indetto dalla Fiom nel primo dopoguerra. Mai chiuso nella sola problematica di classe, Milani era stato uno dei primi segretari di Federazione a porsi seriamente il problema dei cattolici, tanto è vero che fu proprio in un convegno sull’argomento promosso dalla Federazione di Bergamo che Togliatti pronunciò il suo famoso discorso in cui dava all’alleanza con i credenti una valenza strategica. Quando Milani morì, di questo militante arrivato al comunismo dalla concreta vita operaia, Lucio scrisse che rappresentava «un pezzo di storia comunista italiana più di tanti verbali di direzione sempre volutamente elusivi». Fu a Bergamo che Lucio, sotto la direzione di Milani, imparò, nel concreto, cosa era la classe operaia; fu lì, nelle fabbriche di quella zona bianca, che insieme formarono uno straordinario nucleo di quadri, molti dei quali seguirono poi il manifesto nel momento della radiazione, unico caso in tutta Italia. Da quell’esperienza proseguita a Milano nel Comitato regionale del Pci, Lucio trasse la convinzione del ruolo nuovo che giocava la classe operaia, un altro dei temi controversi su cui crebbe il confronto fra destra e sinistra comunista.
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È importante rilevare – disse anni dopo nella relazione a un seminario sulle «Origini del manifesto», tenuto nel settembre 1973 a Rimini – che già alla fine degli anni cinquanta, inizio sessanta, cioè nel momento stesso della sua costituzione, il tema su cui si misurò la sinistra comunista sul terreno delle scelte operative immediate fu proprio quello del carattere nuovo e dell’importanza diversa che occorreva dare alle lotte operaie. È un dibattito, questo, che ebbe tappe successive e complesse. Si cominciò con una battaglia, tra il ’57 e il ’58, ancora molto arretrata, ma importante: quella per far prendere atto al movimento politico e sindacale delle novità intervenute nella struttura produttiva e della necessità di adeguarvi forme e contenuti delle lotte operaie. Su quella base si delinearono proposte alternative. Primo problema era il posto da dare alla lotta operaia. Mentre Togliatti e la maggioranza del gruppo dirigente del partito tendevano a mantenere le lotte operaie come una delle molte ed equivalenti componenti di un largo fronte di lotta popolare, una delle tante rivendicazioni, noi cercammo di fare delle lotte operaie l’asse di una nuova azione di massa, affermando che il capitalismo, proprio perché si stava sviluppando, doveva essere aggredito nei suoi punti nevralgici. Questa tematica, che fu attaccata come «operaismo», fu al centro della Conferenza operaia promossa dal Pci a Genova nel marzo del 1965, la prima volta in cui lo scontro fra amendoliani e ingraiani esce allo scoperto. Contemporaneamente vennero qualificandosi i contenuti di questa lotta operaia; cercammo cioè di fornire a essa un contenuto qualificante, di potere. Si trattò del dibattito sulla questione delle paghe di classe nella siderurgia (qualifica non più in base alle competenze soggettive ma come conseguenza della collocazione oggettiva nel processo produttivo), sui premi di produzione, sui cottimi, sull’organizzazione del lavoro. Si trattava di cambiare una linea rivendicativa che era sempre stata genericamente salarialista, e soprattutto indifferenziata, per il contratto nazionale, che aveva progressivamente lasciato fuori dalla contrattazione le grandi fabbriche, delle cui peculiarità si finiva per non tenere conto. Così il grosso degli elementi costitutivi della condizione operaia restava fuori da ogni controllo, il che significava che la stessa gestione delle lotte era delegata a un vertice sindacale ristretto. Le parole d’ordine «contrattare l’intero salario e l’intera condizione operaia», «riportare la lotta operaia all’interno delle fabbriche», furono i due elementi di contenuto discriminanti all’inizio del 1960;
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quello su cui, grazie anche a una grande spinta di base, meglio riuscimmo a incidere sulla pratica complessiva del movimento operaio.
È a Milano – una città attraversata in quegli anni dalle prime manifestazioni operaie che dopo molto tempo tornavano a ripercorrere le strade, alla testa i giovanissimi entrati in fabbrica con il boom dell’elettromeccanica e magari con la raccomandazione del parroco, cui per la prima volta si univano gruppi di studenti – che si può dire si sia cominciato a formare il primo embrione della nuova sinistra interna al Pci. Ed è grazie ai rapporti personali che si stabiliscono fra Magri e Rossana Rossanda, allora membro della segreteria della Federazione milanesese, Aniello Coppola, redattore dell’Unità, Luca Cafiero, in seguito leader del movimento studentesco della Statale, Achille Occhetto, Michelangelo Notarianni e Lia Cigarini dirigenti della Fgci. Qualche volta arrivavamo da Roma per discutere coi milanesi, Chiarante, Baduel e io, che allora, assai contestata da Botteghe Oscure, dirigevo Nuova Generazione, il settimanale della Fgci. (Da cui fui alla fine allontanata: la goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata proprio una critica a Luciano Lama per via dell’accordo che la Fiom aveva firmato all’Italsider di Genova, accettando le odiate paghe di classe.) La prima ipotesi di rivista su cui discutemmo, anche se poi non se ne fece niente e del resto era rimasta poco più che una fantasia, avrebbe dovuto essere intitolata Il Principe. Un nome ambiziosissimo su cui aveva insistito Lucio, già criticamente impegnato sui temi del partito in nome della concezione gramsciana. Una tematica affrontata più volte e che non a caso è oggetto di un saggio pubblicato nel 1967 su Critica Marxista, poi ripreso con Filippo Maone sul manifesto nel ’70. Dominante è comunque in quell’epoca la discussione sulle nuove tendenze del capitalismo, e sull’automazione, mitica parola che fa ingresso nella nostra cultura e di cui ci insegnano sociologi e tecnici, primo fra tutti Silvio Leonardi, ingegnere, rientrato pieno di amarezza da un periodo di permanenza a Praga come funzionario della Federazione sindacale mondiale a nome della Cgil. Ed è anche l’epoca delle letture straniere, della nuova sinistra inglese (la New Left Review che inizia le sue pubblicazioni nel ’61 a Londra), ma anche di quella francese di Mallet e Gorz, per non parlare dei più anziani francofortesi che cominciano a esser pub-
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blicati in Italia). È anche però il tempo della riscoperta del Marx del Capitale, polemicamente riproposto contro la cultura storicista del Pci da intellettuali come Galvano Della Volpe e Lucio Colletti, allora attivi militanti del partito. Nel quadro di questo dibattito credo che l’intervento che Magri pronunciò a un convegno promosso dall’Istituto Gramsci nel ’62, e contestato da Amendola, segnò un punto importante. Per questo abbiamo ripubblicato in questo volume la versione rivista ed estesa che Lucio ne trasse per la pubblicazione su Les Temps Modernes, il mensile diretto da Sartre. «Gli straordinari anni sessanta.» È una frase spesso ripetuta. E in effetti sono stati straordinari, un tempo di apertura e di dibattito di grande livello, ma anche di sommovimenti sociali di enorme importanza che proponevano un’Italia diversissima, quella dell’epica emigrazione dal Sud al Nord, dell’abbandono delle campagne e dell’ingresso massiccio nelle nuove fabbriche, della scolarizzazione di massa con l’introduzione della scuola media unica, dei primi sussulti proletari: è del luglio ’60 la rivolta «delle magliette a strisce», quando i giovani, così chiamati dagli anziani sospettosi di un abbigliamento che li faceva ritenere americanizzati, bloccarono le strade contro la convocazione a Genova – città medaglia d’oro della Resistenza – del congresso del Msi, partito su cui si era appoggiato il democristiano governo Tambroni; è del ’62 la rivolta degli operai torinese che produce gli scontri di piazza dello Statuto; c’è stata una svolta profonda nel mondo cattolico con il pontificato di Giovanni xxiii e la straordinaria apertura offerta dal Concilio Vaticano ii. Senza parlare della spinta che veniva dall’avanzata vincente dei movimenti di liberazione nazionale, il Vietnam, l’Algeria, l’Africa, Cuba, visti con qualche diffidenza dagli ortodossi sostenitori di una coesistenza pacifica fra le due grandi potenze il cui equilibrio minacciavano. Non è vero che il ’68 sia nato spontaneamente: è stato, in realtà, frutto del ricco processo di accumulazione culturale e politica di quegli anni eccezionali. E infatti fu un movimento colto, diverso da quello del ’77. Furono Rossana e Lucio a «sentire» per primi quel ’68 e a darne conto: Rossana con L’anno degli studenti, Lucio con Considerazioni sui fatti di maggio, un’analisi degli eventi francesi, tutti e due pubblicati da De Donato, l’editore barese che svolse in quegli anni un ruolo importante per la sinistra comunista. Non così il gruppo dirigente
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del Pci, che diffida, sebbene senza mai arrivare alle rigide chiusure del Pc francese. È un fatto che all’ondata di mobilitazione delle fabbriche e delle scuole che attivizza una larga parte di giovani non corrisponde un rafforzamento del partito nelle fabbriche, e neppure della Fgci. Anzi. Nel saggio sul partito scritto da Magri con Maone nel quarto numero del manifesto si dà conto dell’inesorabile declino della presenza comunista proprio laddove lo scontro sociale si fa più forte. Ecco i dati:
Iscritti al PCI e alla FGCI
PCI 1946 1947 1948 1949 1950 1951 1952 1953 1954 1955 1956 1957 1958 1959 1960 1961 1962 1963 1964 1965 1966 1967 1968
FGCI 1.776.013 1.889.505 1.798.722 2.027.271 2.112.593 2.097.830 2.093.540 2.134.285 2.145.317 2.090.006 2.035.353 1.826.928 1.826.098 1.787.269 1.792.968 1.728.620 1.630.550 1.615.112 1.641.214 1.615.296 1.575.935 1.534.705 1.502.862
316.510
463.394
358.126
229.703 211.743 221.042 183.563 173.701 173.699 173.465 154.485 135.012 125.438
Prefazione  19
Operai iscritti in alcune federazioni
1960
Torino Milano Varese Bergamo Brescia Genova Venezia Napoli Taranto
operai iscritti 17.958 58.766 8.331 5.200 11.439 28.277 7.635 31.200 2.560
% 59,3 60,6 84,7 71,1 50,3 59,5 43,7 58,5 21,5
1967 sul totale iscritti 30.249 97.038 9.839 7.315 22.733 47.501 17.464 53.350 11.860
Operai iscritti 17.359 40.560 7.050 5.952 9.887 19.182 9.506 20.377 2.792
% 58,5 52,9 74,0 87,8 52,4 46,4 66,9 60,0 28,3
sul totale iscritti 29.655 76.738 9.530 7.185 18.870 41.252 14.211 33.977 9.847
Composizione sociale degli iscritti
1951
1954
1960
1964
1967
Operai
874.936 (41,7%)
856.314 (39,9%)
671.252 (37,4%)
658.014 (40,1%)
617.039 (40,2%)
Braccianti salariati agricoli
390.294 (18,6%)
382.257 (17,8%)
277.461 (15,4%)
180.368 (11,0%)
159.719 (10,4%)
Mezzadri coloni coltivatori diretti
317.905 (15,2%)
346.544 (16,2%)
322.488 (18,0%)
239.623 (14,6%)
190.106 (12,4%)
Artigiani piccoli imprenditori
99.040 (4,7%)
112.063 (5,25%)
105.815 (5,9%)
105.803 (6,4%)
100.866 (6,5%)
Impiegati tecnici professioni intellettuali
63.585 (3,1%)
58.836 (2,7%)
44.246 (2,5%)
50.633 (3,1%)
50.674 (3,3%)
Studenti
7.854 (0,4%)
6.252 (0,3%)
5.941 (0,3%)
6.575 (0,4%)
8.977 (0,6%)
269.758 (12,8%)
289.148 (13,5%)
252.818 (14,1%)
216.202 (13,2%)
196.237 (12,8%)
74.458 (3,5%)
93.903 (4,4%)
112.955 (6,3%)
183.996 (11,2%)
211.087 (13,8%)
2.097.830 (100%)
2.145.317 (100%)
1.792.976 (100%)
1.641.244 (100%)
1.534.705 (100%)
(esclusi gli iscritti alla Fgci)
Casalinghe e lavoratori a domicilio Pensionati e altri Totale iscritti
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Iscritti al PCI nelle grandi città 1956
Torino Genova Milano Venezia Bologna Firenze Roma Napoli Bari Palermo Totali
1959
1960
1961
1962
1963
31.516 19.600 19.587 19.733 18.492 18.573 (3,7%)* 54.870 40.838 39.823 40.185 38.804 37.914 (7,5%)* 63.315 47.557 42.269 42.410 37.883 37.495 (4,6%)* 7.995 4.904 4.904 6.411 5.192 5.192 (2,4%)* 44.943 46.824 52.983 48.295 47.998 47.630 (11,6%)* 25.922 22.288 20.268 20.052 19.322 19.410 (4,2%)* 50.711 38.942 39.368 36.890 34.336 31.222 (2,7%)* 37.196 28.800 27.047 27.047 20.290 19.462 (3,4%)* 5.540 5.309 5.204 5.204 3.363 3.967 (1,8%)* 2.655 6.317 6.006 3.572 3.572 5.012 (0,4%)* 324.663 261.379 257.459 249.799 229.252 225.177 (4,1%)*
1964
1966
1967
1968
16.116 15.911 16.001 (1,4%)* 35.546 34.324 33.790 (4,2%)* 31.261 29.871 29.871 (1,8%)* 5.489 5.386 5.469 (1,5%)* 47.088 47.186 47.236 (9,7%)* 18.454 17.276 16.743 (4,0%)* 30.341 31.022 29.274 (1,2%)* 16.573 16.015 16.266 (1,3%)* 2.774 2.745 2.780 (0,8%)* 4.314 4.314 5.200 (0,6%)* 208.316 204.050 202.640 (2,1%)*
18.634 38.227 37.186 5.969 47.852 19.329 32.596 19.317 3.105 4.962 227.177
* percentuale sulla popolazione residente
Età degli iscritti
Nord Numero degli iscritti
Centro
Sud
Totale
592.089
290.536
130.346
1.012.971
fino a 25 anni (%)
41.603 (7,0%)
22.689 (7,9%)
13.280 (10,1%)
77.572 (7,7%)
26-30 anni (%)
67.526 (11,4%)
34.493 (11,8%)
17.226 (13,2%)
119.193 (11,8%)
31-40 anni (%)
132.464 (22,3%)
76.364 (26,2%)
38.458 (29,6%)
247.286 (24,4%)
41-50 (%)
151.084 (25,6%)
75.987 (26,1%)
29.038 (22,2%)
256.109 (25,2%)
oltre 50 anni (%)
199.412 (33,7%)
81.279 (27,9%)
32.342 (24,9%)
312.811 (30,9%)
Prefazione 21
Al contrasto attorno a questi temi si aggiunge, a metà degli anni sessanta, quello sull’unificazione Pci-Psi, gettato da Giorgio Amendola – come lui stesso ebbe ad ammettere in seguito – «in modo improvvido nel dibattito». Ciò si collega all’avvento del primo centro-sinistra e alla conseguente scissione dal Psi della sinistra (che fonda il Psiup), contraria all’operazione. Su questi fatti il giudizio nel Pci è diviso, in favore di un equivoco riformismo gli uni, contrari quelli che ritengono la rottura a sinistra dei socialisti, e il loro cedimento alla Dc, un colpo fatale all’ipotesi di una vera alternativa. Di conseguenza, antipatia o simpatia verso il piccolo Psiup scissionista, che assume in quel periodo una posizione per molti versi di opposizione più radicale di quella del Pci. E infatti non pochi (compresi molti sessantottini) guardarono in quegli anni a quel partito con simpatia. È a partire da questo momento che il collegamento con Ingrao si fa più stretto e che la rete della sinistra si salda: nel Comitato centrale che discute del partito unico proposto da Amendola, Pintor, Milani, Coppola e Occhetto votano contro. Il confronto diventa più aspro in tutte le sedi del partito e del sindacato, mentre la Fgci è tutta schierata con la sinistra. Il rapporto con Ingrao e Reichlin, in particolare di Magri, Rossanda e Trentin, diventa quasi quotidiano, anche se nessun tentativo frazionista viene operato, la disciplina del partito così introiettata che a nessuno sarebbe venuto in mente di passare a forme organizzative per stringere legami con la sinistra che affiorava ovunque nelle federazioni territoriali. Ma anche nella Fgci Ingrao è ormai riconosciuto come leader. Per il suo cinquantesimo compleanno, nel ’65, io e Sandro Curzi, ormai fuori dall’organizzazione giovanile per raggiunti limiti di età, ma animatori dell’opposizione rappresentata da Nuova Generazione, di cui, prima lui e poi io, eravamo stati direttori, gli regalammo un paio di mocassini (i primi della sua vita) con una dedica che voleva suonare come una sollecitazione a procedere più decisamente: «Cammina coi tempi, cammina con noi». Lo scontro è meno sotterraneo di prima e all’xi Congresso, febbraio 1966, esplode. Ci si arriva con tensioni già forti, anche perché è il primo congresso da cui è assente Togliatti e nel quale manca quindi l’autorità da tutti riconosciuta che avrebbe potuto portare a una mediazione. Le due linee escono allo scoperto, il clima censorio si fa più pesante. Tanto che proprio alla vigilia la Federazione giovanile finisce per prendere le distanze dalla sinistra e la defezione di Occhetto, nel ’66 già segretario dell’orga-
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nizzazione da qualche anno, non mancò di pesare. Un po’ defilati anche Reichlin, segretario regionale della Puglia, dopo esser stato rimosso dalla direzione dell’Unità all’inizio degli anni sessanta, e i sindacalisti. Magri rimase molto vicino a un Ingrao ormai più radicalizzato e anzi collaborò con lui fino alla vigilia alla stesura del suo intervento congressuale. Quello famoso in cui pubblicamente, nella solennità di un congresso, dice: «Non sarei sincero se dicessi a voi che il compagno Longo mi ha persuaso»; e, contro le critiche del segretario del partito, torna a raccomandare i vantaggi di un libero dibattito interno, assai più utile a una sostanziale unità di una reticente disciplina. L’intervento di Ingrao viene accolto da una standing ovation; ma è da quella volta che autoironicamente si prese l’abitudine di dire «speriamo che non applaudano Pietro». Perché, sebbene sempre applauditissimo dalla base, puntualmente subiva una sconfitta. La più grave fu questa dell’xi Congresso. Che si chiuse con l’eliminazione dal Cc di due esponenti della sinistra (poi ambedue fra i fondatori del manifesto), Ninetta Zandegiacomi, sindacalista veneta, ed Eliseo Milani, segretario della Federazione di Bergamo. Pintor e Rossanda restano membri del Cc ma vengono ambedue sollevati dalle loro precedenti funzioni: Pintor da vicedirettore dell’Unità a vicesegretario regionale della Sardegna, Rossanda da responsabile della Commissione culturale a semplice parlamentare, nel ’68 nemmeno rieletta. Più grave di tutte il ridimensionamento di Ingrao, cui viene affidato il prestigioso incarico di presidente del gruppo parlamentare della Camera, una collocazione che però lo taglia fuori dalla direzione reale del partito. Non fa più parte della segreteria. Per chi non era membro del Cc si ricorse all’allontanamento da Botteghe Oscure. Fu il caso, per esempio, di Filippo Maone, che andò ad aprire una libreria a Napoli, e il mio, spostata dalla sezione femminile centrale a un incarico non di partito, la presidenza dell’Udi, una collocazione niente male che fu però strappata a fatica da Nilde Jotti contro i più duri Alicata e Napolitano che mi volevano decisamente fuori dai piedi. Diverso fu il caso di Lucio. Immediatamente rimosso dalla delicata Commissione di massa (quella che si occupava fra l’altro dei sindacati), Amendola volle mantenerlo in collocazione marginale nel Palazzo. Temeva che la sua influenza avrebbe potuto guadagnare consensi alla sinistra
Prefazione 23
laddove fosse stato inviato. Gli fu negato persino il posto di vicesegretario della Federazione di Rovigo. Ed è proprio dopo quest’ultimo rifiuto che, piuttosto che restare in una mortificante collocazione burocratica a Botteghe Oscure, preferì andarsene. Restò per tre anni, fino alla vicenda del manifesto, semplice iscritto. Viveva centellinando le 30mila lire di liquidazione che aveva ottenuto e traducendo, come se si trattasse di latino, dall’inglese che non sapeva, i testi politici che gli passava Luca Trevisani, traduttore di mestiere dopo aver anche lui lasciato l’Unità. (Luca diventerà poi redattore capo del quotidiano il manifesto.) Poiché non avevamo quasi più niente da fare e non ci mandavano in giro il weekend a fare comizi o convegni, noi ancora occupati affittammo collettivamente una casa in montagna dove a turno andavamo a sciare e Lucio, che non aveva più abitazione a Roma, vi svolgeva le mansioni di «padre albergatore», come negli ostelli della gioventù. Se ripenso a chi era socio della nostra cooperativa sciistica ritrovo tutta la sinistra: da Pintor a Chiarante a Trentin e così via. Non fu una vacanza inutile. Lucio, che fra un turno e l’altro e in particolare nelle mezze stagioni, faceva la vita dell’eremita in qualche casa di villeggiatura vuota, consumando al locale bar una caramella mou per poter vedere la tv (non aveva soldi per sedersi a prendere un gelato), lesse intensamente e certamente quegli anni di studio fornirono molti degli apporti alla definizione delle Tesi del manifesto. Spesso si recava a Sant’Elia, porticciolo alla periferia di Cagliari dove, anche lui quasi eremita, viveva Pintor. D’estate occupava le case a Roma di chi andava in vacanza. Quando si arriva al xii Congresso, a Bologna nel febbraio del 1969, sono già accadute molte cose: l’inizio dirompente del lungo ’68 italiano; l’invasione di Praga da parte delle truppe del Patto di Varsavia; la ripresa delle lotte nelle principali fabbriche del paese. Il Pci non è già più la sola sede dove la sinistra si esprime, sono stati aperti nuovi e diversi terreni, ciascuno di noi avverte assai meno di prima il peso totalizzante del partito. Tanto che la sola ipotesi di venirne allontanati era sempre stata considerata come un suicidio. Prendiamo tutti più coraggio, ci sentiamo più estranei all’organizzazione in cui abbiamo così a lungo militato, ma in effetti anche al movimento studentesco, sia per ragioni generazionali che per cultura e abitudini. Lucio più di tutti.
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Ma comunque al xii Congresso siamo più decisi a rischiare, anche se Ingrao e i sindacalisti ci hanno detto che non lo faranno. L’ostilità nei nostri confronti è ora tanto più forte anche per questo. Nel congresso prendono la parola i membri del Comitato centrale, Rossana, Pintor e anche Natoli e Caprara, con i quali ci eravamo nel frattempo incontrati anche se non provenivano dalle file ingraiane. I loro interventi vengono tutti collocati alle 8.30 del mattino, in apertura della giornata, quando si sa che pochi sono ancora presenti. L’attesa per lo scontro ormai considerato imminente induce però ad affollare la sala, di giornalisti ma pure di delegati, anche in quell’orario antelucano. È in questo clima di isolamento, amputati dei dirigenti più anziani e autorevoli, che quanto resta della sinistra diventa davvero componente organizzata. Si costituisce a Bologna, all’Hotel Orologio, dove Lucio, che non è nemmeno delegato, regge le fila di tutto. È nella modestissima saletta dell’albergo accanto a San Petronio che si può dire sia nato il manifesto, anche se non sappiamo ancora che si chiamerà così. L’evento ha reso fiero in seguito il proprietario, che non so se è lo stesso dell’hotel assai più elegante e costoso che ora l’Orologio è diventato. Due mesi dopo gli indugi sono rotti e, direttori Magri e Rossanda, esce il primo numero del manifesto. Il nome era stato trovato dopo molto cercare mentre Lucio, Luigi e io eravamo a sedere su un muretto in via San Valentino, in faccia all’appartamento dove allora alloggiava Rossana. Non ricordo chi di noi tre ebbe l’immodesta idea, è un fatto che subito entusiasmò tutti, perché metteva l’accento sul richiamo all’azione, non sulla ricerca teorica. Un’altra delle nostre impazienze, di cui Lucio si è in seguito un po’ pentito. Fu affittata una casa delle Opere Pie, bellissima ma non cara perché parecchio slabbrata, che, oltre a servire da sede della redazione, di cui preziosa segretaria fu Ornella Barra, ex di Critica Marxista, divenne anche l’abitazione di Magri e Maone (in seguito di Milani e via via di altri compagni sessantottini chiamati a lavorare a Roma). A finanziarci, poiché siamo quasi tutti rimasti senza lavoro, le indennità dei nostri parlamentari: Bronzuto, Caprara, Milani, Natoli, Pintor. La vicenda approda al Cc, dopo una dichiarazione dell’Ufficio politico che condanna l’iniziativa e un durissimo articolo di Paolo Bufalini, il 3031 luglio, dopo che già due numeri della rivista sono usciti e quando mol-
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ti tentativi di mediazione sono falliti. Ed è solo in questa occasione che si cominciano a prospettare apertamente misure disciplinari. Che verranno assunte in modo definitivo, dopo che un documento della Commissione centrale di controllo, presieduta da Natta, relativo al caso, è stato dato in discussione alle sezioni (e anche frettolosamente ritirato, perché incontrava più consensi di quanto si fosse immaginato) e approvato alla fine di novembre in un nuovo Cc che decreta la radiazione (non l’espulsione, che implica un giudizio di indegnità) dei tre membri dell’organismo e di Lucio Magri in quanto codirettore della rivista. Contro la decisione solo Luporini, Lombardo Radice e Mussi, astenuti Badaloni, Chiarante e Garavini. Gli altri subiranno la stessa sorte, deliberata dalle sezioni di appartenenza, via via che la loro firma compare sul manifesto.2 Si poteva evitare? Magri esprime nella conversazione qui pubblicata qualche dubbio: forse – dice – dovevamo essere più prudenti per poter continuare a operare nel grande corpo comunista con le nostre idee. Ma si tratta di una riflessione a posteriori: in quel momento il movimento, nelle fabbriche e nelle università, cresceva e ci incalzava, il Pci non era già più il solo terreno su cui combattere la nostra battaglia. Lo stesso ragionamento vale per l’accelerazione organizzativa che il successo della rivista – 50mila copie vendute – aveva innescato. E che provocò la prima crepa al nostro interno: la presa di distanze di Aldo Natoli. La verità è che in larga parte non fummo noi a determinarla. Ricordo Pintor che diceva: «Dio solo sa che non avevamo nessuna voglia di fare un partito»; ed era vero. Ma fu dalle più disparate città che ci cominciarono ad arrivare, neppure delle richieste, ma addirittura delle comunicazioni di decisioni già prese: la costituzione di circoli del manifesto da parte di gruppi sessantottini che avevano trovato nelle pagine della rivista la risposta a tanti problemi cui si stavano accostando. E che non avevano alcuna intenzione di restare solo lettori. Tanto meno quei compagni iscritti al Pci che ci avevano seguito: molti a Roma, a Cagliari (l’intera sezione Lenin, la più importante, guidata da Salvatore Chessa), la maggioranza del Comitato federale di Bergamo, Napoli, Domodossola ecc. Noi del resto, tutti, non volevamo certo diventare un gruppo di intellettuali che si limitava a scrivere senza partecipare in prima persona alla lotta politica. Il primo incontro diretto con il movimento studentesco fu in un garage, a Roma, nei pressi di Monte Sacro. Era il fortissimo «collettivo di
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Medicina» della Sapienza, leader Famiano Crucianelli. Curiosamente, a testimoniare il ruolo della personalità nella storia, a lungo gli studenti di Medicina furono «manifestini», quelli di Chimica e Fisica di Potere operaio (per via di Piperno), quelli di Lettere di Lotta continua (forse perché affollata di futuri scrittori). Più difficile giudicare chi era lontano: non sapevamo se potevamo o meno dar loro la dénomination contrôlée. A Salerno capitò che si creassero ben due Centri di iniziativa del manifesto in feroce lotta fra loro. Dovemmo andare io e Valentino Parlato a indagare per poter scegliere, l’uno a un’assemblea, l’altro all’altra. Io fui più fortunata, capitai in quello buono, l’altro si era rivelato frutto di una poco chiara faida interna al locale Pci. Il mio era il collettivo operai-studenti, guidato da un operaio della Ideal Standard, fabbrica di utensili per il bagno – Antonio Cascella – che nell’entusiasmo per il mitico «salto della scocca» praticato alla catena di montaggio della Fiat per rallentare i ritmi di lavoro aveva introdotto nel suo reparto salernitano il «salto del cesso». Il contatto più fortunato fu con i bolognesi, anche lì «operai e studenti», ma già più maturi e infatti di operai ce n’erano già più di una trentina (e quasi tutti punto di riferimento nelle rispettive fabbriche). Andarono a Perugia a sentire Pintor, poi a Rimini a sentire Magri, invitato lì da un gruppo cattolico, il Circolo Maritain, e lo seguirono in macchina fino alla stazione di Bologna per agganciarlo fra un treno e l’altro. E poi, saputo che c’era una riunione a Roma, ammucchiati nella 128 del padre di Stefano Bonilli (poi direttore del Gambero rosso), arrivarono Massimo Serafini (poi nella «cupola» del Pdup), Roberto Dionigi (poi filosofo), Paolo Inghilesi (poi sindacalista Cgil), Paolo Passarini (poi vicedirettore della Stampa), Claudio Sassi (operaio Sasib e poi a lungo assessore). Fin dall’inizio si aggregarono anche figure importanti della cultura – Marcello Cini, Lisetta Foa, Franco Fortini, Massimo Salvadori, Francesco Indovina, Mario Mineo… per non contare Valentino Parlato, lontano al momento dei primi vagiti, ma poi e per sempre parte integrante del primo gruppo promotore. E, infine, Lidia Menapace, consigliere regionale di Bolzano e nota esponente della Dc. Lidia è diventata anche lei una delle massime dirigenti del manifesto e poi del Pdup, tuttora, come me ultraottantenne, attivissima militante nei movimenti. Tutte queste nuove energie, culture, esperienze, il Sessantotto, insom-
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ma, con il suo dinamismo e la sua creatività, spesso accompagnata da una notevole dose di rozzezza, credo di poter dire a nome di tutti noi anziani che sono state un contributo prezioso. Il nostro punto di incontro fu la percezione – che i movimenti, dotati di antenne sempre più sensibili di quelle delle organizzazioni consolidate, colgono con anticipazione – che una fase del capitalismo fosse in via di esaurimento e che dentro il suo orizzonte non sarebbe stato più possibile alcun progresso civile. Non ci incontrammo, certo, con tutto il Sessantotto. Una parte ci guardò subito, anzi, con diffidenza: venivamo dal Pci, e questo bastava a bollarci come destri. Per di più il movimento si era già frazionato in gruppi dogmatici o ultraspontaneisti. Restammo stupiti del poco interesse con cui la maggior parte di loro seguì le vicende praghesi: era «roba nostra», loro si consideravano immuni dal vecchio comunismo, laddove per noi una riflessione sulla Rivoluzione d’ottobre e sul suo approdo costituiva questione fondamentale; altri erano invece contro Dubček perché «socialdemocratico». Noi restavamo sbalorditi del loro estremismo. Guido Viale venne a portare il saluto di Lotta continua al congresso del manifesto, nel ’74, e disse che «il problema centrale era il problema del potere, di cui il problema dell’armamento delle masse è l’aspetto principale». Noi facemmo molta fatica a far passare l’idea che l’espressione «maturità del comunismo», titolo delle nostre Tesi del ’70, non alludeva all’imminenza di una rottura rivoluzionaria, ma a un processo di transizione sociale e culturale di lunga durata durante il quale sarebbero maturate a livello generale le tematiche marxiane: la critica del consumo e del lavoro alienato; la critica allo sviluppo quantitativo e alla democrazia puramente rappresentativa. E infine l’idea che la politica – intesa come mediazione e progetto – sarebbe stata sempre più necessaria a unificare soggetti che il capitalismo tendeva a differenziare sempre più e che spontaneamente non sarebbero affatto diventati proletariato uniforme. E però in una prima fase, ha ragione Magri a riconoscerlo (e questa era la posizione anche di Luigi e Rossana), è vero che ci lasciammo trasportare da iniziative spesso assurde. Come il tentativo di stabilire un accordo con Potere operaio, che nacque e naufragò con altrettanta rapidità nel Circo Medini di Milano dove, nell’inverno del ’71, si tenne una rissosa assemblea accanto a giraffe ed elefanti perché quello era il solo locale che potevamo permetterci.
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A ripensarci, comunque, meglio questi errori di quello, imperdonabile, che ci condusse nel ’72 a presentarci alle elezioni, capolista Valpreda, l’anarchico incarcerato sotto l’infame accusa di aver posto le bombe alla Banca dell’agricoltura a Milano. È vero che le nostre posizioni suscitavano simpatie, all’interno e all’esterno del Pci, ma non avevamo capito che altro conto è poi, in concreto, ricevere un voto che rischia di andar perso o non pesare. Luigi commentò: «Siamo il solo partito che ha più gente ai comizi di quanta ci voti». L’euforia per la folla che veniva ad ascoltarci cessò bruscamente quando scoprimmo che non avevamo raggiunto il quorum. Lucio si sofferma a lungo su questa decisione, su come ci si sia arrivati, su come tutti ce ne siamo pentiti. A favore giocò certamente il timore che una presa di distanza dalla scadenza elettorale potesse rafforzare le pulsioni antistituzionali che attraversavano la parte più sessantottina del nostro corpo politico. Pagammo un prezzo alto: molti si allontanarono sconcertati, fra questi Massimo Caprara. Anche Aldo Natoli, che pure restò ancora a lungo nel gruppo dirigente, da allora cominciò a prendere le distanze, perché il più vecchio e autorevole dirigente del Pci che aveva corso con noi l’avventura divenne sempre più polemico con le accelerazioni organizzative che tutti imprimemmo, Lucio certo più di ogni altro. Va però detto che a spingerci in questa direzione era un fattore oggettivo, la convinzione che se si fosse aperta una distanza fra lotte studentesche e operaie il ’68 avrebbe cambiato valenza, si sarebbe drammaticamente impoverito. Quelle spinte del resto venivano soprattutto dalla nostra base giovanile che voleva essere attiva e cercava un’identità, e dalla concomitante esigenza di dare una formazione politico-culturale al confuso sommovimento sessantottino, per frenare le sue spontanee spinte estremiste, qualcosa che si poteva fare solo se si costruiva un partito. Una rivista non bastava, perché insufficiente a dare soggettività a chi la leggeva, ma non scriveva. In realtà proprio questa formazione collettiva è quanto è tuttora restato di quella lontana esperienza: ovunque collocati, nella società civile (i più) o nella politica, quasi tutti i compagni di quel tempo sono rimasti distinguibili, davvero quadri un po’ speciali. Dopo le sfortunate elezioni del ’72, patimmo una fase di isolamento. I tempi erano duri, fra strategia della tensione e aggressioni dei fascisti. Ogni giorno si parlava di un possibile colpo di stato, usato dal Pci per giu-
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stificare il compromesso storico, da una buona parte della nuova sinistra per militarizzare la politica. In particolare dopo l’uscita del quotidiano, già nell’aprile 1971, il Pci elevò fino all’inaccettabile le sue denunce contro di noi, giungendo a scrivere sull’Unità il famoso corsivo «Chi li paga?». Nessuno dei dirigenti ci salutava più. Al xiii Congresso del Pci – Milano 1972 – il primo senza di noi e cui io assistevo come inviata del manifesto, Pajetta, dalla tribuna, disse di noi che non eravamo compagni che sbagliano, ma – e fece una pausa per dar più risalto alla sua frase – «uomini e donne di mezza età inaciditi – che ci sparano alle spalle». Quando scesi dalla tribuna stampa e nell’atrio incrociai i compagni con cui avevo lavorato per venticinque anni, attorno mi si fece il vuoto. Solo Emilio Pugno, segretario della Camera del Lavoro di Torino, mi si fece incontro e, prendendomi per un braccio, mi portò, ostentatamente, a prendere un caffè. Quel giorno si era abbattuta sul congresso la notizia che, proprio a Milano, avevano trovato il cadavere di Gian Giacomo Feltrinelli sul traliccio elettrico. Ho detto di Pugno. Fu, in realtà, proprio grazie alle lotte operaie dell’autunno ’72 che uscimmo dalla crisi del dopo elezioni, impegnando tutte le nostre forze nell’appuntamento per i rinnovi contrattuali. «Consideriamo decisiva questa scadenza» dice Magri al Convegno operaio del manifesto tenuto a Milano nell’ottobre ’72 «perché destinata a influenzare tutta una fase dello scontro sociale e politico in Italia. Sia le forze riformiste sia i gruppi della sinistra extraparlamentare hanno a lungo teso a negarne il valore. I gruppi della nuova sinistra, perché affermavano che i contratti sono una scadenza padronale, che le lotte operaie devono essere programmate su altri terreni, e con altri tempi. I sindacati o il Pci, invece, hanno a lungo tentato di presentarle come un fatto fisiologico che ogni tre anni viene a turbare la tregua sociale. Oggi sono rimasti in pochi a sostenere che questa scadenza non ha valore decisivo.» E fu così. Io penso che Magri sia, nella sua ultima riflessione su quegli anni, troppo severo sulla nostra esperienza. Non so se indotto da un ripensamento critico e autocritico, o perché il suo isolamento degli ultimi anni lo aveva reso pessimista. Lo dico perché credo che quella sia stata una fase in cui i nostri compagni giocarono un ruolo importante, e infatti si moltiplicarono gli iscritti non solo tra gli studenti, ma nelle fabbriche, compagni straordinari che riuscirono a esercitare una spinta preziosa nei confron-
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ti dei più moderati dirigenti sindacali e al tempo stesso a evitare il basismo spontaneista di Lotta continua che, contro l’idea di dare una valenza anche politica ai consigli di fabbrica, lanciava la parola d’ordine «tutti delegati» (oltre a ignorare la scadenza contrattuale perché si dovevano rifiutare i tempi dettati dai padroni). Entrarono nel manifesto quadri operai colti, contro cui qualcuno ironizzava dicendo che i nostri «parlavano in francese», un segno di disprezzo in nome del mito dell’operaio massa. Fra quelli che riuscirono ad avere un effettivo ruolo dirigente nella loro fabbrica Gianni Usai, Marcello Capri, Corrado Montefalchesi, Luigi Mara, Roberto Cucchini, Franco Petenzi, Bruno Ravasio, Elio Gambini, Salvatore Sanzone, Gianna Filardi, Nino Galante, Sostaro, Bellinelli…). Consolidammo la presenza negli organi dirigenti della Fiom proprio perché fummo l’unica realtà a sostenere e sviluppare la piattaforma molto avanzata proposta da Trentin nella Conferenza di Genova del ’73 (sulle qualifiche, contro le gerarchie, di apertura del sindacato al territorio con la proposta dei consigli di zona, le fantastiche 150 ore). A ciò si collegarono nuove aggregazioni: Medicina democratica, Psichiatria democratica ecc. Nelle fabbriche il ruolo dei quadri Pdup li rese protagonisti nell’aspra dialettica fra destra e sinistra che percorreva il sindacato. Non a caso avemmo un ruolo importante anche nella drammatica vicenda Fiat nell’80 (che segna l’inizio della controffensiva padronale). I nostri compagni furono fondamentali nei picchetti a Mirafiori e Massimo Serafini, responsabile per il lavoro nelle fabbriche del Pdup, rimase per settimane insieme a loro. I vecchi gruppi della nuova sinistra erano già spariti, per il Pci ci fu solo l’isolato gesto di Enrico Berlinguer, isolato anche rispetto al suo stesso partito. Proprio sul terreno della lotta di fabbrica Lucio dette un contributo prezioso, come testimoniano molte impegnative relazioni o conclusioni ai convegni operai che promuovemmo con grande frequenza. Come sempre puntiglioso e preciso nella definizione dei termini sindacali e delle nuove forme di organizzazione della produzione. Per la verità tutti diventammo esperti di fabbrica in quel periodo: Gianni Montani, ex operaio, poi sindacalista della Fim alla Siemens di Milano, diventato corrispondente del quotidiano da Torino tenne una vera e propria lezione in occasione di un Comitato direttivo nazionale per spiegare a tutti come era organizzata la produzione a Mirafiori.
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Un segno della rottura del nostro isolamento fu anche il dibattito su «spazio e limite del riformismo», aperto da Magri sulle pagine del quotidiano, cui parteciparono i più importanti intellettuali della sinistra, a eccezione, naturalmente, di esponenti del Pci: Ruffolo, Riccardo Lombardi, Paolo Sylos Labini, Augusto Graziani, Giorgio Benvenuto, Claudio Napoleoni, Pino Ferraris, Antonio Lettieri, persino Giorgio La Malfa. La decisione di dar vita a un quotidiano, che uscì già nell’aprile del ’71, accelerò lo sviluppo dell’organizzazione politica. Del resto a questo scopo era stato pensato. Il documento che ne spiega il significato dice: È perché il momento è venuto di una iniziativa generale e unificante capace di rilanciare il lavoro di promozione di un movimento politico, di una iniziativa capace di ridare unità e continuità di orientamento al quadro e ai militanti già impegnati con noi e capace soprattutto di stabilire un contatto con quell’arco di forze sociali disarticolate che rifiutano l’ordine attuale che abbiamo bisogno di un quotidiano. Questa pratica efficace, questo soffio politico solo un quotidiano è capace di averlo. Il manifesto rivista mensile era una presa di posizione, il quotidiano è la risposta naturale a una fase di crescita, un modo per assumere l’impegno che ci compete, a noi e a tutta la sinistra di classe. La sua ragion d’essere è strettamente legata alla necessità di determinare una direzione, di esercitare un’influenza diretta sul movimento, di favorirne l’autorganizzazione, la capacità di analisi, di generalizzare gli obiettivi.
Il linguaggio è datato, ma il senso è chiaro. E così fu, oltre a consentire una ben più vasta influenza e condivisione della linea politica. Fu anche un grande evento giornalistico e editoriale, pioniere, grazie soprattutto a Filippo Maone, nelle nuove tecnologie: nessun gruppo della nuova sinistra aveva tentato di realizzare un progetto così ambizioso, senza mezzi (partimmo con 47 milioni di lire, raccolte una per una, un solo contributo corposo: un milione ciascuno da Yves Montand e da Simone Signoret). E solo tre che avevano esperienza del mestiere, il grande Pintor, Valentino (che si precipitò, convocato da un perentorio telegramma, dalla Liberia dove, dopo il licenziamento da Rinascita, era andato a finire per un lavoro precario), e io. Gli altri tutti ragazzini da addestrare, da cui poi è uscito il fior fiore del giornalismo italiano. Nella redazione di
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Milano, aperta già dopo pochi mesi nello stanzone gelido di una fabbrica dismessa lungo i Navigli (oggi si sarebbe chiamato loft) un gruppo di ragazze coraggiosamente guidate da un giovane che proveniva dai gruppi cattolici riminesi di don Giussani, Sandro Bianchi, in seguito, dirigente Fiom. Ma anche la straordinaria buona volontà di Rossana, Natoli, Lucio, che accettarono di mettersi alla macchina da scrivere e riconvertirsi, come semplici redattori, al mestiere. Vennero a imparare da noi da Parigi e poi da Berlino, e così nacquero Libération e la Tageszeitung. E tuttavia non bastava. Continuavamo a patire l’isolamento rispetto alle organizzazioni tradizionali del movimento operaio e questo metteva in discussione proprio la strategia che ci eravamo dati, quella che continuava a farci dire di noi stessi che ci consideravamo un partito transitorio, giacché la nostra vittoria sarebbe stata sciogliersi in una forza comunista rifondata, che non sarebbe cresciuta a partire da noi, ma per la convergenza e la maturazione di quelle della nuova e della vecchia sinistra. Anche questa – la provvisorietà – fu una dizione tipicamente «magriana», che gli altri gruppi consideravano sconcertante. Come si fa a dare a un partito l’obiettivo di sciogliersi? – commentavano ironici. Noi volevamo dire che un partito è un processo sociale o non è. Una mano ci fu offerta alla fine del ’73 da un altro gruppo proveniente da una analoga sconfitta elettorale: la minoranza del Psiup. Quando, nel ’72, neppure questo partito ottenne il quorum e confluì nel Pci, Vittorio Foa e parecchi sindacalisti avevano deciso di dar vita al Pdup, Partito di unità proletaria. E qui erano confluiti anche parte dei reduci di un’altra catastrofica esperienza elettorale, quella dell’Acpol di Livio Labor, dirigente delle Acli (Russo Spena, Iervolino, Migone ecc.), che con altri era invece andato nel Psi. Vennero a chiederci se non era il caso di unificare le nostre formazioni: loro erano autorevoli e nessuno avrebbe osato non intrattenere rapporti con loro come accadeva con noi reprobi; noi, in compenso, avevamo tantissimi giovani. Al congresso del manifesto-movimento organizzato, che tenemmo nel luglio del 1974 per decidere di creare il nuovo Pdup, risultò una media di età dei delegati così bassa (nonostante il peso degli anziani del gruppo promotore) che truccammo il dato nel comunicato stampa per non apparire una banda di ragazzini. La evidente diversità di età del grosso dei militanti delle due organiz-
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zazioni non fu il solo problema dell’unificazione. Contava anche la collocazione sociale: nel Pdup erano molti i funzionari del sindacato o delle cooperative, figure che seppure non contestate in linea di principio rendevano diffidenti i nostri sessantottini. E poi il peso delle due tradizioni, comunista l’una, socialista l’altra. Noi avevamo paura che il partito che andavamo a creare potesse esser visto come «una terza forza», e volevamo ribadire la nostra identità comunista. E così, fino all’ultimo, ci battemmo perché alle parole «di unità proletaria» fosse aggiunto «per il comunismo». (Pintor, arrabbiato per le obiezioni che venivano mosse alla parola «comunismo», intervenne dicendo che «comunismo significhi brežneviano mi terrorizza, ma molto di più lasciare a Brežnev la bandiera del comunismo».) Di comune accordo decidemmo che manifesto sarebbe rimasto il nome del giornale, il gioiello che portavamo in dote. Ma era soprattutto la distanza fra le nostre problematiche e le loro che rendeva difficile il dialogo: il femminismo, per fare l’esempio di una delle questioni più rilevanti, aveva già investito il manifesto, con i suoi effetti benefici e anche con le sue conseguenze dilanianti. (È sul numero 2 della rivista che appare come scritto firmato da due compagne che saranno tra le animatrici della Libreria delle donne di Milano, Cigarini e Pagani. E credo che la nostra organizzazione sia stata la sola ad aver mai dedicato un intero Comitato direttivo alla questione della sessualità.) Le campagne sul divorzio furono da noi prese sul serio anche perché furono l’occasione di una discussione ben più ampia e approfondita del semplice dettato della legge. Per il vecchio Pdup queste erano questioni marginali. Non è questa prefazione la sede per ripercorrere la storia complicata del manifesto e del Pdup. Oltretutto perché è stata una storia molto collettiva. Del resto, con grande attenzione, documentazione ed equilibrio, l’ha già scritta Aldo Garzia.3 Non entrerò dunque nei dettagli ma mi soffermerò solo su alcuni passaggi, quelli che più direttamente riguardano Magri e senza i quali, peraltro, i suoi stessi scritti sarebbero incomprensibili per chi non ha direttamente vissuto quel tempo. È stato detto che l’unificazione con gli ex socialisti del Psiup è stata solo un matrimonio di convenienza. Non è in realtà vero, perché esistevano le condizioni per aggregare forze piuttosto importanti e anche la difficoltà di mettere assieme le due tradizioni del movimento operaio era una scommessa che valeva la pena accettare. È vero che litigammo mol-
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to e alla fine ci separammo, ma non si trattò di una sommatoria facilona, produsse un dibattito serio. Lucio Magri tenne al congresso di scioglimento del «manifesto-movimento organizzato» una lunghissima relazione che riprendeva tutti i grandi temi e spiegò perché, proprio quando più evidente appariva la prospettiva di una lunga crisi, era necessario costruire una forza adeguata a raccogliere la spinta del ’68 e a «sollecitare il rinnovamento intellettuale, morale e organizzativo della sinistra italiana in grado di dare uno sbocco a una crisi così drammatica». La relazione si sofferma in particolare su una delle questioni su cui evidentemente c’erano incomprensioni, e lo fa precisando in modo puntiglioso il senso della parola d’ordine del «governo delle sinistre», che comincia a circolare. L’ipotesi – avverte – ha senso soltanto se non si tratta di una ripetizione frontista, ma se è vista già come strumento di una fase di transizione, il risultato di un processo che abbia già mutato i rapporti di forza nella società. Perché occorre scontare, e attrezzarsi a farvi fronte, il rischio che si sarebbe inevitabilmente creato di un pericoloso dualismo fra il carattere anticapitalista delle forze che si trovano a occupare uno strumento di potere così importante e che però funziona nella logica del sistema esistente. Altrimenti le logiche divergenti che un governo delle sinistre produce portano allo stallo – dice Magri – o, peggio, a uno scollamento, come dimostra l’esperienza dei fronti popolari. Non si può gestire, anche al meglio, ed essere al tempo stesso all’opposizione. Il che non vuol dire che non si possa stare al governo anche quando un’alternativa di sistema non sia compiuta, ma vuol dire esser passati dall’autonomia alla egemonia, vale a dire alla costruzione di processi che l’alternativa l’abbiano fatta emergere nella società. Foa, intervenendo nel dibattito, afferma che Magri, con la sua relazione, ha dato un contributo molto importante al lavoro comune, non perché abbia fatto delle concessioni all’altra parte, ma perché ha «proposto una piattaforma su cui è possibile un lavoro comune». Aggiunge solo che individua nella posizione del manifesto un giudizio troppo negativo sul Pci e sul sindacato. (Curiosa affermazione, per la verità, visto che solo un anno dopo Foa criticò aspramente le Tesi per il Congresso di fondazione del nuovo Pdup unificato e ispirate prevalentemente dalla componente manifesto, perché a suo parere troppo filocomuniste.)
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Comunque si procede: Rossanda, che con Magri ha un ruolo primario nella direzione del movimento, frusta i più diffidenti dicendo: «Andiamo all’unificazione e ne sollecitiamo i progressi persuasi come siamo che le formazioni politiche reali hanno un tempo reale politico, quello in cui il loro nascere corrisponde al massimo della loro rispondenza a un bisogno». Ed effettivamente di un più forte partito alla sinistra del Pci c’era grande bisogno. Tutto bene dunque? Sì e no. Il primo congresso del nuovo partito che si riunisce un anno dopo, a novembre del 1975 a Bologna, è imponente, presenti gli esponenti di tutti i partiti della sinistra, nuova e vecchia (anche il Pci e il sindaco Zangheri), sindacati, Fuci e Acli, numerosissime formazioni straniere (a ripensarci, persino un futuro presidente della Repubblica, quella portoghese, Jorge Sampaio). Il comandante partigiano Gino Vermicelli, uno dei nostri primi e rari anziani aderenti, assieme al corposo centro di Verbania, incaricato della Commissione verifica dei poteri, aveva reso, coi suoi dati, la nostra fotografia: fra i 415 delegati, 37% di studenti, 20% di operai, 17% di insegnanti, 12% di tecnici, 8% di professionisti. Il 76% dai 20 ai 30 anni. E però è il primo e anche già un congresso diviso. Tanto è vero che, dopo una breve introduzione di Eliseo Milani, vengono illustrate due diverse mozioni: la 1 da Rossanda, a firma anche di Magri, la 2 da Miniati, a firma anche di Foa e Migone. Le elezioni anticipate sono già nell’aria (e infatti si tengono già a primavera del ’76) e il nodo – presentarsi e se sì con quale linea strategica e con quale schieramento – già incombe. Nel concreto il fattore dirimente diventa: allargare le liste di Democrazia proletaria (denominazione già sperimentata in qualche circoscrizione nel voto amministrativo del 15 giugno ’75 fra Pdup e Avanguardia operaia, con cui si è nel frattempo avviato un positivo confronto), oppure aprirle anche a Lotta continua con cui pure, e secondo tutti, gravi differenziazioni permangono. Il significato di questa scelta è naturalmente molto più ampio e investe problemi politici e culturali di carattere generale; riguarda la necessità – come dice Magri nel suo intervento – di «un programma di transizione non sommatoria dei bisogni e delle esperienze di lotta» e che «presupponga l’avvio, graduale ma immediato, di una trasformazione radicale di tutti gli aspetti della società, delle sue istituzioni e dei suoi valori […] di
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una polemica con l’opinione estremista secondo cui gli obiettivi prefiguranti non hanno senso»; Miniati, che presenta la mozione in cui si rispecchia praticamente tutto il vecchio Pdup, aveva invece insistito sul fatto che la «convergenza politica di un arco di forze seriamente divise sia sulla strategia che sulla tattica non può indurci ad assumere rispetto a questo obiettivo atteggiamenti di aristocratico distacco». «Al di là di scelte di tattica elettorale» aveva invece concluso Rossanda nell’introdurre la mozione in cui si riflette il grosso del vecchio manifesto «noi crediamo che oggi la riunificazione dei “rivoluzionari” non può avvenire con connotati politici e strategici tali da comportare una rinuncia all’asse di fondo delle nostre tesi.» Subito prima che sia dichiarato ufficialmente costituito il Partito di unità proletaria per il comunismo (cui ha peraltro aderito anche un’ala del movimento studentesco milanese, fra cui il suo leader Mario Capanna), l’assemblea dei delegati si spacca praticamente a metà: 181 voti per la risoluzione Miniati-Migone-Foa, 194 per quella Rossanda-Magri. Ci sono però anche 38 astensioni che pesano, sono quelle proposte da Luigi Pintor, motivate dalla critica rivolta al gruppo dirigente di ambedue le componenti per non aver saputo delineare «una linea capace di sfuggire alle due tendenze che ci minacciano e che possono spingerci a una doppia subalternità: da un lato cadere nell’attrazione dei grandi partiti della sinistra, dall’altro precipitare nel risucchio di un cartello minoritario». A nessuno piace come è andato il congresso e il nodo che lascia aperto, ma Luigi vive la situazione con più pessimismo degli altri, anche perché, occupandosi soprattutto del giornale, già patisce le imposizioni della corrente del vecchio Pdup e teme di perdere autonomia. Tuttavia non riesco ancora, né io né gli altri, a capire la logica del suo gesto, cui seguono peraltro le dimissioni da direttore del quotidiano. Perché quanto accade in un precipitoso susseguirsi di eventi, con le elezioni ormai imminenti, dimostra proprio che una mediazione al congresso, quale Pintor aveva sollecitato, ci avrebbe costretto subito a scelte cui eravamo radicalmente contrari, Pintor ben più di noialtri, visto che in una trasmissione televisiva aveva dichiarato che non voleva «mischiarsi con la pozzanghera estremista». In ballo, in effetti, non c’era una qualche differenziazione ideologica, bensì una scelta molto concreta e rilevante: aprire o meno anche a Lotta continua – già percorsa dalle fibrillazioni estremiste che portarono
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in poco tempo questo gruppo all’autoscioglimento – le liste di Democrazia proletaria in cui sarebbero confluiti Pdup e Avanguardia operaia. Su questo specifico punto si votò infatti nel Cc successivo al congresso che decise a maggioranza di mantenere l’esclusione, nuovamente spaccando il partito fra le due componenti che gli avevano dato vita. Ma la minoranza del vecchio Pdup di Foa non accettò di tener conto del voto e depositò per conto proprio, insieme ad Avanguardia operaia, la sigla Dp. Così lasciando l’ex manifesto di fronte al fatto compiuto: non restava che subire, o rompere e rinunciare alla partecipazione elettorale, una scelta che avrebbe potuto avere anche un senso se però fosse stata fatta da tutti. La notte in cui si dovette decidere, nuovamente nella vecchia sede di piazza del Grillo, stipata dei nostri compagni «manifestini» del direttivo convocati d’urgenza, era la notte del terremoto del Friuli. Lo ricordo bene perché sedevo vicino a Rossana che rispose al telefono che aveva accanto: era un compagno di Udine che dava la notizia, ma l’atmosfera nella sala era così tesa che non si capirono: dal Friuli parlavano del terremoto vero, Rossana di quello politico che aveva scosso il Pdup. Ci volle un po’ perché si intendessero. Furono soprattutto i compagni operai che insistettero perché accettassimo la scelta che ci veniva imposta dalla minoranza. Ma tutti eravamo convinti che a quel punto non si poteva far altro se non volevamo esser cancellati dalla scena politica. Solo Pintor non accettò e, sebbene nel frattempo facesse parte della segreteria del partito e avesse ripreso la direzione del giornale coadiuvato da un organismo collegiale unitario composto anche da Ferraris, Foa, Rossana, Puleo e me (Parlato era passato a lavorare nella segreteria del partito con Magri), decise di abbandonare tutto e di ritirarsi come Cincinnato in campagna. Il colpo fu durissimo. La campagna elettorale, che avrebbe potuto essere significativa se ci fossimo presentati come Pdup, si trasformò in un terribile pasticcio: a parte la grande popolarità raggiunta da Lucio per via delle Tribune elettorali che finalmente ci avevano concesso, il resto fu un disastro: mai un comizio unitario della lista, ogni componente per conto suo e in palese contraddizione, gli elettori che ci chiedevano perché ci eravamo messi con Lotta continua che praticava lo scontro frontale con Pci e sindacato. Il risultato fu infatti misero: prendemmo sei deputati fra tutti, Magri, Milani, Castellina (Rossanda non aveva voluto presentarsi),
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Foa (che rinunciò per far posto a Corvisieri di Avanguardia operaia), Pinto per Lotta continua. E comunque non si può dire che quella presenza in Parlamento sia stata inutile, perché, a parte l’autorevolezza raggiunta da Lucio, il nostro piccolo drappello, per i legami che ancora c’erano con il movimento, riuscì a pungolare la sinistra: questi sono gli anni delle maggiori conquiste legislative. Nell’autunno tutto però precipita: il Pci decide di appoggiare il governo di unità nazionale, e così fa il Psi. Al congresso di Lotta continua che si tiene poco dopo Adriano Sofri, turbato per il rapido mutamento del clima politico dice nella sua relazione «che c’è il terremoto» e procede allo scioglimento dell’organizzazione, una decisione che lascia allo sbando migliaia di militanti. È che la vita della nuova sinistra si è fatta più difficile: per un verso cominciano ad arrivare i primi segnali della scelta terrorista di alcuni, per un altro il femminismo è esploso all’interno di tutti i gruppi, anche Lotta continua, destabilizzandoli. A febbraio ’77 si rompe definitivamente anche il Pdup per il comunismo: l’ala Foa-Miniati va con Avanguardia operaia, che prende il nome Democrazia proletaria, prima solo sigla elettorale, ma 62 membri del direttivo di Ao (Vincenzo Vita, Giuliana Sgrena, Giovanni Lanzone, Giovanna Pajetta, Aurelio Campi, Pier Scolari, Nicola Manca…) abbandonano la loro organizzazione e si uniscono agli ex manifesto che da allora conserveranno, come partito, il nome Pdup, mentre sul quotidiano ricompare la denominazione «quotidiano comunista». A marzo, all’affollata assemblea al Cinema Capranica del nuovo quasi dimezzato Pdup tiene la relazione Rossanda che si interroga sul perché di questa scissione: era sbagliato – dice – ritenere che si sarebbe arrivati a una stabilizzazione di regime, Dc-Pci, perché questo non sarebbe stato possibile senza che il Pci fosse passato a pratiche apertamente repressive, il che non era prevedibile. La fase che si apre è quella, piuttosto, di una deriva destabilizzante. La prova che l’unificazione, avviata nel ’74, non aveva funzionato, era visibile: «sembrava la celebrazione della vittoria di un movimento di liberazione» disse qualcuno dell’assemblea dei vecchi «manifestini», ora denominati «pduppini». Consapevoli di aver fallito un’occasione, tutti erano però contenti di ritrovarsi fra simili. Ma la precipitazione degli avvenimenti non finisce qui: la scena è stata
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occupata da un nuovo protagonista, il movimento del ’77. È diversissimo dal ’68, è già figlio dell’arretramento delle lotte, della disillusione rispetto alla grande avanzata complessiva della sinistra alle elezioni del ’76, che, però, invece di avere portato all’attesa alternativa, conduce il Pci, che ha avuto il suo massimo storico, 34,4% di voti, ad appoggiare un governo Dc. La libertà, che nel rapporto con le fabbriche e leggendo Marcuse, il ’68 aveva imparato a considerare vera e per tutti solo se fondata su rapporti sociali di produzione diversi, torna a essere individuale. Un’ala, stanca di aspettare il domani che avrebbe dovuto esser conquistato, decide di prendersi oggi quanto può, passando a comportamenti di liberazione personale, parlando di «autonomia, autovalorizzazione, autoproduzione di cultura e stili di vita», che peraltro hanno un effetto virale e rapidamente mutano la scena. Mentre l’ala più dura dei gruppi reagisce militarizzandosi e inasprendo lo scontro frontale con il «regime Dc-Pci» che giudica fascistizzante, perciò preparandosi all’insurrezione. Di lì al terrorismo il passo sarà breve e prevedibile, si avverte fisicamente nelle ultime manifestazioni unitarie della nuova sinistra, dove per un po’ continuano a confluire gruppi, «indiani metropolitani» e quelli che sotto il trench nascondono la P38. E anche la droga gioca la sua parte nel seppellire la positiva creatività del ’68. Il manifesto-Pdup non è toccato da questa deriva. Le sue basi politicoculturali sono ben più solide e nessuno viene coinvolto dall’ondata settantasettina. Anzi: nelle università i nostri assolvono a un ruolo importante nel contenere le spinte più estremiste. Ma non tutti danno lo stesso giudizio di quanto accade, c’è chi vi vede un pericolo serio, chi, in nome di un’accusa più dura al Pci, giustifica le reazioni che si producono (non il terrorismo, naturalmente). A Bellaria, nel primo seminario di valutazione di quanto accade, i giudizi nello stesso gruppo originario del manifesto si differenziano. Quello di Lucio Magri, come si legge nella sua relazione di allora, è più pessimista e drastico. «La nuova sinistra» dice «come base di un possibile nuovo soggetto politico unitario è finita.» Mentre nel suo intervento Rossana, che pure si è sempre mossa in pieno accordo con Lucio, gestendo assieme a lui i passaggi più delicati della nostra vicenda, forse perché preoccupata che abbia in mente un rientro nel Pci, dice: «Penso che è più necessaria e possibile che nel 1969 una forza alla sinistra del Partito comunista».
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La divaricazione non è in realtà così totale, perché – come chiarisce Magri nel suo intervento finale – dopo aver riconosciuto la legittimità della preoccupazione di chi teme che il discorso sulla ristrutturazione della sinistra finisca per esporci al risucchio della forza materiale del Pci […]. Quando propongo la rifondazione della sinistra, l’intervento sulla crisi dell’area riformista, non cerco affatto un rapporto meno conflittuale. Al contrario. Quello che dobbiamo fare, e di cui siamo i soli capaci, è di intervenire in prima persona sulla base sociale e sulle tematiche in cui la linea del Pci entra in crisi.
Per fare questo dobbiamo avere un partito. In una strategia di ristrutturazione della sinistra; questo partito deve concepire la propria provvisorietà e deve sapersi mettere in discussione, giocarvi di continuo in una iniziativa unitaria. Ma ciò esige tanto più una autonomia ideologica, una compattezza organizzativa, un’alta qualità dei quadri.
In realtà il dissenso con Rossanda verte sul giudizio relativo al Pci, se si sia ormai consolidata una collocazione di questo partito tale da dover prevedere, in prospettiva di una rifondazione della sinistra, una sua prioritaria crisi definitiva o se invece lo scontro con la sua stessa area sociale stimolata dalle lotte che si sapranno innescare, non potrà portare a un suo, almeno parziale recupero. «La rifondazione della sinistra avverrà, se avverrà, attraverso un processo di decomposizione del quadro politico nel quale troveremo una collocazione» dice Rossanda. Sarà questo – detto qui con qualche schematizzazione – il punto di attrito che condurrà nell’anno che segue alla drammatica separazione fra quotidiano e Pdup, e dunque alla spaccatura del manifesto storico. Il Pdup – guidato da Magri e in cui nell’81 confluisce il Movimento socialista dei lavoratori di Luca Cafiero (la componente maggioritaria di quello che era stato il movimento studentesco milanese) – in realtà sopravvisse per altri otto anni e riuscì finalmente a essere un partito non dilaniato e piuttosto efficiente. Il quotidiano decise unilateralmente di essere solo giornale, senza più alcun legame con il partito, da cui la redazione, a ca-
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po della quale erano restati Rossanda e Parlato (e dove tornò poco dopo Pintor che si era autoesiliato dopo le elezioni del ’76) si separò nonostante uno schiacciante voto del Congresso di Viareggio, nel gennaio del ’78, in favore della mozione Magri. Il contrasto nel giudizio sul Pci ne includeva naturalmente molti altri, che in qualche modo erano corollari: il giudizio sul movimento del ’77, sulle misure da assumere nei confronti del negoziato con i terroristi, sulle altre componenti della sinistra vecchia e nuova. Questa fu davvero una separazione dolorosissima, che per una fase logorò anche i nostri rapporti umani. Ma, come quando si litiga coi fratelli, cui tuttavia si continua a voler bene. Tanto è vero che poi via via i rapporti si ricostituiscono. Ma al di là delle vicende personali quella rottura produsse un guasto politico irreparabile: il Pdup perse la propria voce pubblica, il proprio organo di orientamento, e questo ne indebolì profondamente le potenzialità. Al punto che si trovò col proprio simbolo, accanto a ben altri tre, nelle indicazioni di voto del manifesto alle elezioni politiche del ’79: Nuova sinistra unita (Dp e qualche altro e che però non prese il quorum e non riuscì perciò a entrare in Parlamento), il Pci e addirittura il Psi in piena egemonia craxiana. Il quotidiano perse migliaia di lettori che solo successivamente riuscì a recuperare, né mai decollarono le «leghe del manifesto» che Rossanda cercò di lanciare per costruire attorno al giornale un’area militante. Il Pdup fu invece la sola formazione della nuova sinistra a entrare nuovamente in Parlamento, nonostante le impossibili condizioni in cui era stato posto dal distacco del quotidiano. Il Pci in realtà, alla fine degli anni settanta, prese atto che la politica delle larghe intese e del compromesso storico non aveva funzionato. A gennaio del ’79 esce dalla maggioranza che appoggiava il governo e passa all’opposizione. Pochi mesi dopo, nella riunione straordinaria del suo Comitato centrale, tenuta a Salerno subito dopo il terremoto dell’Irpinia, Enrico Berlinguer imprime un’altra svolta. Propone l’alternativa di sinistra, anche se è ormai tardi perché il Psi di Craxi già sta procedendo a un proprio accordo con la Dc che più in là lo farà diventare primo ministro. La svolta di Berlinguer è certo parziale e ancora piena di ambiguità, soprattutto nei confronti di una ipotesi di unità delle sinistre che a noi pareva potesse esser finalmente rilanciata. Diffida di una rottura così drastica con la Dc e infatti non risponde alla proposta avanzata dal «Centro per l’alter-
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nativa» che Magri propose assieme a Claudio Napoleoni in una lettera aperta pubblicata su Repubblica. Né i berlingueriani collaborarono in seguito al mensile, poi settimanale, Pace e Guerra cui il Centro dette vita, sebbene alla pubblicazione, a direzione collettiva (Castellina, Napoleoni, Rodotà, Notarianni), collaborassero molti intellettuali della sinistra italiana ed europea non comunista. Il Pdup aveva rinunciato a una pubblicazione di partito (esisteva solo un giornale a circolazione interna, Compagni e compagne) pur di creare un luogo di confronto, culturale e programmatico. E tuttavia una svolta importante del Pci ci fu: non solo la rottura definitiva col partito sovietico, ma anche molte lucide denunce e intuizioni di Berlinguer che andavano in gran parte nella stessa direzione in cui noi ci eravamo mossi. Anche su questo non ci fu accordo con i compagni del quotidiano, che non ritennero affatto significativo il mutamento di linea di Berlinguer, quello che fu poi chiamato «il secondo Berlinguer». In quella che a noi apparve una precoce e, con le nostre posizioni, consonante critica al sistema politico italiano degenerato, videro moralismo, e nel discorso sull’austerità, non una anticipazione di critica ecologista alla crescita dissennata e al consumismo, ma una connivenza con il governo che chiedeva sacrifici. Fino ad apprezzare addirittura la disinvoltura e il dinamismo craxiani, come si vede in un articolo di Pintor del 5 settembre 1978, «Chi ha paura di Bettino Craxi?». Anche il Pdup sbagliò: sottovalutò il fatto che quella linea di Berlinguer era in minoranza nel suo stesso partito e che con la sua morte sarebbe stata rapidamente sepolta. I verbali delle riunioni della segreteria e della direzione del Pci resi pubblici solo poco tempo fa testimoniano di quanto aspro fu il dibattito interno che per la prima volta spaccò in due il partito in modo esplicito, la destra assumendo una posizione sempre più critica verso il segretario. Che però aveva dato un segnale, aveva offerto un’occasione. Quando venne al nostro congresso (Milano, marzo 1984) e si sedette inaspettato tra gli ospiti per ascoltare la relazione di Magri, poi proponendoci il rientro nel Pci, ora che i contrasti che ci avevano diviso erano fondamentalmente superati, Berlinguer era consapevole del proprio isolamento. Per questo forse ritenne che la confluenza del nostro partito, piccolo ma dotato di quadri capaci e agguerriti, avrebbe potuto rafforzare la sua linea. C’era già stata in questo senso qualche prova pra-
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tica: il Pdup ebbe in quegli anni un ruolo importante nelle battaglie che si aprirono – soprattutto nella mobilitazione contro i missili, quando si creò per la prima volta un movimento di massa realmente europeo, che attraversava il Muro perché collegava pacifisti dell’Est e dell’Ovest in nome di un’«Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali», un’ipotesi che in qualche modo si coniugava con l’idea di «terza via» cui Berlinguer lavorava in frontale disaccordo con buona parte del gruppo dirigente del proprio partito. Le cose non andarono nel senso sperato, come si sa, perché Berlinguer morì poco dopo; ma soprattutto perché il Pci era nel frattempo cambiato in peggio, più di quanto non avessimo sospettato. La prevista crisi così ci fu, ma da opportunità per la rifondazione della sinistra si convertì in sbando. Se noi fossimo stati più numerosi e il Pdup fosse stato ancora collegato al giornale, sarebbe stato possibile rendere più efficace il dialogo con il Pci senza forse dover rientrare. Non c’è dubbio, tuttavia, che in quello scorcio di ’84 si stavano creando le condizioni per procedere sulla nostra linea, o, per lo meno, che esse si presentavano più favorevoli che mai nel passato. Magri ne parla molto nella relazione a quel congresso di Milano: A partire dal ’77-’78, nel momento in cui l’insieme della nuova sinistra di cui eravamo parte rendeva più definitiva la contrapposizione col Partito comunista e il sindacato, visti ormai come elementi attivi di un nuovo regime oppressivo o imboccava la strada del partito armato o si scioglieva nel movimento di contestazione o prendeva ancora più le distanze dalla politica, noi abbiamo fatto la scelta opposta… ci siamo più consapevolmente impegnati nello sforzo di riaprire i canali di comunicazione con la realtà complessiva del movimento operaio. […] A questo ci spingeva oltre la consapevolezza del declino della nuova sinistra, la previsione che proprio allora iniziava il declino della politica di unità nazionale. […] E la constatazione che, nel pieno di una crisi economica e politica, non era possibile salvaguardare e sviluppare il conflitto sociale senza coinvolgere le grandi forze, e senza porsi il problema del governo, delle politiche economiche, dei programmi. […] Per questo siamo stati i primi a batterci per la parola d’ordine dell’alternativa, senza nasconderci, e senza nascondere tutti i limiti e le ambiguità del processo politico che avanzava come svolta nella sinistra.