Manuele Gragnolati
Amor che move Linguaggio del corpo e forma del desiderio in Dante, Pasolini e Morante
Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © il Saggiatore S.r.l., Milano 2013
Amor che move per C.H.
Sommario
Introduzione 9 1. Identità d’autore. La performance della Vita Nuova
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Crearsi nel testo, 17 – La trasformazione del desiderio, 23
2. Rifare e disfare Dante. Dalla Mortaccia alla Divina Mimesis
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Plurilinguismo e alterità, 36 – L’omicidio dell’autore, 39
3. Una perfomance queer. Petrolio e l’orgoglio del fallimento
51
La Visione del Merda, 51 – Sessualità e tragicommedia, 55
4. Dal riflesso al mezzo. Il corpo animato tra Inferno e Purgatorio
69
Antropologia escatologica, 69 – Ripetizioni infernali, 79 – La terapia del dolore, 83
5. «Forse non pur per loro, ma per le mamme». La nostalgia del Paradiso e gli abbracci della Commedia
91
Corpi mortali e vanità delle ombre, 91 – Carne gloriosa, 104
6. Ritrovarsi all’inverso. Aracoeli e la resurrezione di corpo e linguaggio
111
La «resurrezione carnale dei morti», 111 – Totetaco: allattamento e lingua materna, 118 – Nella Storia: i Quartieri Alti e la Legge del Padre, 124 – El Almendral, 131
7. Forme del desiderio Aracoeli e la forma senza forma, 139 – Nell’Empireo, 149
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Note 163 Bibliografia 199 Ringraziamenti 221 Indice analitico 223
Introduzione
«Sometimes you can see a celestial object better by looking at something else, with it, in the sky» Ann Carson
Il coming of age amoroso e poetico della Vita Nuova; l’epos ultramondano nell’orrore e nella gloria con la Commedia; la crisi dell’impegno nella Divina Mimesis; il viaggio tragicomico nella Caduta e nel sesso in Petrolio, nuovo Satyricon; e quello all’indietro, angosciato, verso la madre in Aracoeli: è questa la costellazione dei testi di Dante, Pier Paolo Pasolini ed Elsa Morante creata in questo libro per esplorare le diverse figurazioni espresse o prodotte, di volta in volta, dall’intreccio di desiderio, corporeità e linguaggio. Ispirato all’analisi di Erich Auerbach sulla nuova individualità e storicità dei personaggi della Commedia, il volume vuole discutere come nell’opera dantesca, generalmente considerata il culmine e la summa di una Weltanschauung medievale, sia anche presente una concezione protomoderna di soggettività in cui un senso paradigmatico degli esseri umani si intreccia con quello di una loro singolarità corporea.1 Allo stesso tempo, il libro utilizza questa prospettiva su Dante per leggere due grandi voci del secondo Novecento che dialogano con la storia contemporanea in maniera critica e da una posizione deliberatamente marginale ed eccentrica. L’analisi permette di riconoscere in particolare come essi propongano configurazioni diverse del rapporto tra linguaggio, desiderio e corporeità e mettano in discussione il modello del soggetto moderno generalmente imposto come “normale”. In questo senso, un aspetto comune a Pasolini e Morante è la mobilitazione di una temporalità non-lineare, contorta, interna, che permette l’articolazione di desideri e piaceri che non posso-
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no essere iscritti in una logica normativa di progresso e di produttività ed esprimono, invece, una forma di resistenza contro l’appiattimento e l’omologazione imperanti. Questo dialogo tra Dante e il Novecento permette non solo di illuminare certi aspetti fondamentali delle opere di Pasolini e Morante che sarebbero altrimenti difficili da riconoscere, ma anche di arricchire l’operazione dantesca di nuovi significati e nuove sfumature. Ne emerge un Dante meno compatto o “risolto” di come è stato spesso rappresentato, attraversato invece da diverse tensioni e conflitti che rimangono aperti e lo rendono affascinante proprio nella sua posizione particolare di apertura alla modernità e di differenza da essa. Se, come scrive Ann Carson, a volte un oggetto celeste si vede meglio se insieme ad esso si guarda a qualcos’altro nel cielo, la mia proposta è dunque che questo possa succedere anche per Dante, Pasolini e Morante. Mentre Carson propone una lettura di Simonide di Ceo e di Paul Celan senza che esista un rapporto diretto tra il poeta lirico del v secolo a.C. e quello rumeno di lingua tedesca del xx secolo d.C. («they do not know one another, did not live in the same era, never spoke the same language»),2 gli autori che prendo in considerazione in questo volume sono legati tra di loro. Non solo parlano tutti la stessa lingua, ma Pasolini e Morante hanno anche avuto un lungo e intenso rapporto di amicizia e condivisione artistica. Ed entrambi conoscono bene l’opera di Dante, con la quale si confrontano lungo il corso di tutta la loro produzione – Pasolini in maniera frontale e Morante in maniera più obliqua. Così la Divina Mimesis ha la forma di un rifacimento della Commedia e Petrolio dialoga in diversi modi importanti col poema dantesco; a sua volta, Aracoeli dialoga con l’opera di Pasolini (sul quale è tra l’altro modellata la figura del suo narratore-protagonista) e con quella di Dante. Sarebbe sicuramente interessante approfondire le influenze di un autore sull’altro, ma questo non è lo scopo principale del libro, come non lo è contribuire alla storia dell’emergere di una concezione moderna di identità e della sua crisi e decostruzione nel xx secolo. Ho voluto, piuttosto, creare una costellazione di testi che si illuminino a vicenda e proporre dialoghi incrociati fra di essi anche quando i legami sembrano essere meno diretti. In questo senso, e passando dagli astri della lirica di Simonide e Celan alla speculazione sulla fisica, la mia lettura è in sintonia con il metodo di «lettura per diffrazione» (diffractive reading) formulato dall’e-
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pistemologa e studiosa della scienza Donna J. Haraway. Rifacendosi al fenomeno ottico della diffrazione, secondo il quale delle onde luminose che incontrano un oggetto non danno luogo a un’ombra che ripete con precisione la forma dell’oggetto ma producono un pattern di diffrazione complesso che dipende tanto dalle onde quanto dall’oggetto, Haraway propone una strategia di lettura che, invece di riflettere, attui una diffrazione. Secondo Haraway, la lettura per diffrazione, che fa interagire i testi al di là di ogni legame apparente di parentela e li studia non solo insieme ma anche l’uno attraverso l’altro, produce una nuova «coscienza critica» che non è interessata alla riflessione ostinata sul rapporto tra l’originale e la sua copia ma cambia la prospettiva e vuole produrre qualcosa di nuovo: I modelli di diffrazione registrano la storia di interazione, interferenza, rinforzo e differenza. La diffrazione riguarda una storia eterogenea, non gli originali. A differenza delle riflessioni, le diffrazioni non spostano il medesimo altrove, in una forma più o meno distorta, originando in tal modo industrie di metafisica. Al contrario, la diffrazione può essere la metafora per un altro tipo di coscienza critica alla fine di questo sofferto millennio cristiano, una coscienza impegnata strenuamente a fare una differenza invece che ripetere la Sacra immagine del medesimo.3
Molteplici sono i tipi di diffrazione sperimentati nei capitoli che seguono, ad esempio l’uso del concetto di performance per leggere tanto l’identità dell’autore nella Vita Nuova quanto il rapporto tra anima e corpo nella Commedia; l’operazione testuale della Vita Nuova per entrare in quella della Divina Mimesis e di Petrolio; o l’analisi incrociata del rapporto tra il linguaggio, la memoria e il concetto di resurrezione del corpo in Aracoeli e nella Commedia; o, ancora, l’esame del rapporto tra sessualità e forma del testo nella Divina Mimesis e in Petrolio come griglia per capire l’estetica di Aracoeli e del Paradiso. Il libro che ne risulta, da una parte, si concentra sulle singole opere e ne indaga in profondità alcuni aspetti specifici e, dall’altra, le lega l’una all’altra in un percorso ricco di connessioni e di intrecci che ne evidenzia le analogie e le differenze. I primi tre capitoli esplorano la figura dell’autore nella Vita Nuova, nella Divina Mimesis e in Petrolio e, riferendosi alle teorie di studiosi quali John L. Austin e Judith Butler, mettono in luce
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la dimensione performativa con cui il testo di Dante fa nascere l’autore moderno e i testi di Pasolini lo distruggono. «Identità d’autore. La performance della Vita Nuova» esplora il libello dantesco dalla prospettiva della doppia esistenza e doppia temporalità delle sue liriche, che furono inizialmente composte secondo la consuetudine dell’epoca nella forma di rime indipendenti l’una dall’altra e solo in un secondo tempo raccolte e organizzate in maniera innovativa in un racconto unitario. Alle liriche la Vita Nuova aggiunge una narrazione in prosa creando un’autobiografia esemplare che, nel raccontare un’evoluzione paradigmatica, spesso cancella il significato originario delle liriche e lo sostituisce con uno diverso. Sebbene quindi solo raramente la Vita Nuova introduca delle varianti testuali nelle vecchie liriche, essa ne attua comunque una vera e propria riscrittura. Questa riscrittura può essere pensata nei termini di una “performance dell’autore” magistralmente riuscita in due sensi: non solo perché compiuta da un autore che mette in scena il proprio passato come un itinerario ideale e teleologico che porta al controllo sul desiderio e a un nuovo modo di fare poesia; ma anche nel senso più forte che attraverso la presentazione stessa di questa narrazione si forma un nuovo autore che, combinando l’esemplarità e l’autorevolezza dell’auctor medievale con un carattere personale e individualizzato, rappresenta una delle prime istanze di autorialità in senso moderno, poi ulteriormente perfezionata nella Commedia. I due capitoli successivi indagano il confronto ininterrotto di Pier Paolo Pasolini con Dante e lo prendono in esame in relazione alla sua riflessione su cosa significa essere un autore nel xx secolo. Dopo una discussione della lettura gramsciana che negli anni cinquanta Pasolini aveva dato di Dante come modello della contaminazione plurilinguista con cui l’autore borghese poteva avere accesso alla soggettività del tanto ammirato e desiderato sottoproletariato delle borgate romane, «Rifare e disfare Dante. Dalla Mortaccia alla Divina Mimesis», si concentra in particolare sull’opera pasoliniana che più esplicitamente si presenta come una riscrittura di Dante. Iniziata e abbandonata intorno alla metà degli anni sessanta per poi essere ripresa dall’autore poco prima della morte e pubblicata nella sua forma finale e incompleta nel 1975, anche La Divina Mimesis ha, come le liriche della Vita Nuova, una testualità stratificata e una temporalità multipla ma, a differenza della Vita Nuova, le esibisce invece di
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sintetizzarle o cancellarle, disintegrandosi in frammenti incompleti che si accumulano senza unità e presentandosi come una serie di progetti non realizzati. In questo modo La Divina Mimesis non solo fa vedere e quindi scardina il meccanismo performativo che nella Vita Nuova aveva dato luogo alla nascita dell’autore moderno, ma anche mette provocatoriamente in scena il proprio fallimento. «Una performance queer. Petrolio e l’orgoglio del fallimento» esplora il significato profondo di tale messa in scena e, mettendolo in relazione a Petrolio, il romanzo iniziato da Pasolini nel 1972 e interrotto nel 1975 dalla sua morte, lo lega a una declinazione particolare di desiderio e di sessualità. In particolare, con Petrolio Pasolini prende una posizione che leggo come “queer” nel senso della definizione radicale proposta da Lee Edelman, vale a dire, una posizione che rifiuta una forma di temporalità legata all’ideologia di progresso e associata al «futurismo riproduttivo» della (etero)normatività, a favore invece di una ripetizione e di una negatività non teleologiche e legate a una forma di sessualità sovversiva e non-riproduttiva.4 L’analisi di Petrolio mostra che la dimensione desiderante e intersoggettiva sottesa agli ideali pasoliniani degli anni cinquanta si trasforma negli anni settanta nella rivendicazione di una sessualità masochista che si traduce, dal punto di vista formale, nella scelta del «non riuscito». Entrambi i testi pasoliniani attuano, dunque, una modalità di quella che, in dialogo con Freud, Leo Bersani chiama «sublimazione artistica»5 e che non consiste nel trascendere il desiderio, ma nel riprodurlo nella forma del testo: come Petrolio propone una testualità che procede caoticamente all’infinito senza mai arrivare da nessuna parte e dà all’impegno la forma disperata dell’irrisione e della parodia, così la decisione di pubblicare un testo incompleto e a quel punto anche “fuori tempo” come La Divina Mimesis può essere interpretata come un gesto provocatorio che dice di no all’ordine normativo e capitalista del progresso, della linearità e della loro estetica. Se finora si è mostrato come Pasolini frantumi la figura dell’autore moderno inaugurata da Dante e replichi nel testo il movimento di un desiderio e di una sessualità non addomesticati dalle convenzioni borghesi, i due capitoli successivi propongono il concetto di «antropologia escatologica» ed esplorano il significato del desiderio e della corporeità nella Commedia. Infatti, sebbene descriva la condizione delle anime separate
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nell’aldilà, il poema dantesco attribuisce grande importanza alla fisicità e immagina che, quando si separa dal corpo e giunge nell’oltretomba, l’anima crei un corpo d’aria che le permette di avere una forma e di continuare ad esprimere tutte le facoltà sensoriali. «Dal riflesso al mezzo. Il corpo animato in Inferno e Purgatorio» esamina prima il modo al contempo sofisticato e originale con cui, nel proporre la teoria del corpo aereo, la Commedia si riferisce ad alcune teorie embriologiche dibattute nella filosofia scolastica alla fine del xiii secolo. Poi, concentrandosi sul diverso tipo di dolore provato dai golosi in Inferno e Purgatorio, discute i diversi modelli del rapporto tra anima e corpo che esso esprime e mostra che nella Commedia una concezione performativa di identità – secondo la quale il corpo è un effetto dell’anima – si intreccia con un senso più “materiale” e non discorsivo della corporeità. «“Forse non pur per loro, ma per le mamme”. La malinconia del Paradiso e gli abbracci della Commedia» mostra che se la conversione dell’anima nel Purgatorio prevede il distacco dal corpo e dai suoi affetti, poi il corpo ritorna inaspettatamente come oggetto del desiderio nel Paradiso. Il capitolo si concentra sul trattamento dantesco del motivo classico degli abbracci impossibili tra un vivo e un morto e mostra che, nonostante la pienezza anche sensoriale accordata all’esperienza “aerea” dell’anima nell’aldilà, la dottrina della resurrezione del corpo – di un corpo, cioè, composto non di aria ma di carne e concettualizzato non come espressione dell’anima ma come indipendente da essa – continua a strutturare la temporalità escatologica della Commedia e diventa la garanzia che la singolarità dell’individuo e la portata affettiva del suo passato rimangano parte integrante della gloria del Paradiso. L’esplorazione della corporeità continua negli ultimi due capitoli, che ne approfondiscono il legame con la memoria e il linguaggio. «Ritrovarsi all’inverso. Aracoeli e la resurrezione di corpo e linguaggio» si concentra sull’ultimo romanzo di Elsa Morante (1982) e mostra che, come in Dante, anche per Morante il motivo della resurrezione del corpo esprime un ideale corporeo di relazionalità e intersoggettività. In Aracoeli si assiste però a un’inversione di temporalità rispetto al paradigma dantesco: la resurrezione non è più un evento futuro che avverrà alla fine dei tempi, ma la possibilità, attraverso un viaggio a ritroso nella propria psiche, di riattivare nel presente le tracce delle esperienze del passato condivise con gli altri
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e contenute nel corpo. Rifacendosi poi alla relazione tra linguaggio, corpo e desiderio messa in evidenza dal pensiero femminista di Julia Kristeva e Hélène Cixous, il capitolo individua un rapporto tra il motivo della resurrezione del corpo e quello della suzione del bambino al seno materno, che costituisce l’immagine fondante della meditazione di Morante sull’origine del linguaggio. In particolare il capitolo esamina la soggettività del tormentato protagonista di Aracoeli, scisso tra la sfera affettiva e corporea della lingua materna (lo spagnolo appreso nell’infanzia e poi dimenticato) e quella disciplinare e gerarchica della lingua paterna (l’italiano imparato solo più tardi nel contesto delle prescrizioni imposte dal regime fascista). In questo modo la mia lettura indica che Aracoeli non può essere ridotto (come spesso è stato fatto) al tentativo autodistruttivo da parte dell’autrice di mandare in frantumi l’incanto narrativo dei romanzi precedenti, ma denuncia invece in maniera lucida e articolata le ferite inflitte ai soggetti dall’ordine simbolico, che impone dualismi e opposizioni binarie e non lascia spazio per forme ibride e integrate di esistenza. Il capitolo finale, «Forme del desiderio», riprende la tesi sul legame tra desiderio e forma del testo nelle ultime opere pasoliniane e prima mostra come in Aracoeli il motivo della resurrezione del corpo si leghi anche alla possibilità di creare una testualità che faccia riemergere la tessitura corporea del linguaggio, replicando – e rivendicando – una forma di sessualità non-edipica analoga a quella «polimorfamente perversa» proposta da Freud nei Tre saggi sulla teoria sessuale.6 Poi torna a Dante e, in dialogo con il saggio di Gary Cestaro sulla componente “materna” del volgare dantesco7 e con quello di Teodolinda Barolini sulla nuova testualità del Paradiso,8 mostra come l’importanza del desiderio operi anche nell’estetica dei testi danteschi. Sia la Vita Nuova sia la Commedia sono generalmente sorrette da un senso teleologico di progresso, che si riflette nel controllo che riescono ad esercitare sul lettore: la performance con cui il libello rilancia un nuovo autore e l’autorevolezza con cui nella Commedia l’autore si fa addirittura scriba Dei e che si riflette nella perfezione dell’architettura e nel suo ritmo inarrestabile verso la meta. Entrambe le opere descrivono la trasformazione del desiderio, che viene progressivamente controllato e che appare ben diverso dalla sessualità queer rivendicata nei testi di Pasolini e Morante. Eppure sia la Vita Nuova sia la Commedia mettono in atto anche altre figurazioni del desiderio e se nel libello la
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conclusione aperta potrebbe retroattivamente apparire come il modo di lasciare nuovamente spazio per piaceri meno lineari rispetto alla teleologia del percorso descritto, questo è proprio quello che è messo in scena nei canti finali del Paradiso dedicati all’Empireo. Qui, non solo la resurrezione del corpo è anticipata nel presente e la temporalità lineare seguita sino ad allora si trasforma in un istante di simultaneità e compresenza; ma la testualità si infrange in un ritmo pirotecnico e il desiderio si intensifica e il piacere si moltiplica; e l’appagamento nel raggiungere la meta coesiste – in un vortice di paradossi – con la fantasia di una dissoluzione di sé che ricorda Petrolio e con l’articolazione di una corporeità ricca di memoria che ricorda Aracoeli. Questo è l’ordine con cui nel libro vengono analizzate le singole opere di Dante, Pasolini e Morante nella loro specificità e nella loro profondità, ma le connessioni discusse tra di esse sono numerose. Il mio augurio è che i lettori e le lettrici possano sentirsi ispirati a completare i dialoghi incrociati del libro e a proporne degli altri, portando avanti la diffrazione e deviando la prospettiva con cui leggere questi grandi autori e non solo pensare alle domande che sollevano insieme, ma anche farle proprie, riconfigurandole e in qualche modo lasciandosi riconfigurare. Oxford-Berlino, dicembre 2012
1. Identità d’autore. La performance della Vita Nuova
Crearsi nel testo Dante incomincia la sua attività di poeta lirico non ancora diciottenne e per una decina d’anni scrive rime pensate, secondo la consuetudine del tempo, come testi a sé stanti e indipendenti l’uno dall’altro. Si tratta di una produzione variegata e multiforme che parte dallo stile circonvoluto e guittoniano degli inizi e – passando per diverse maniere ispirate alle modalità della poesia romanza – arriva alla purezza e alla rarefazione di quello che in Purgatorio xxiv sarà retrospettivamente chiamato «dolce stil novo». Se già in questa produzione giovanile si possono cogliere i primi segni di quello sperimentalismo che costituisce la cifra di tutta la produzione dantesca, è con la Vita Nuova, composta intorno al 1294 all’età di circa trent’anni, che Dante compie una prima operazione veramente spericolata e inusuale: quella di raccogliere trentuno liriche – per la maggior parte sicuramente scritte in precedenza come rime eterogenee – e organizzarle all’interno di una narrazione unitaria in prosa che, dando indicazioni sulla loro genesi e sul loro significato, si presenta come il resoconto unitario della giovinezza del poeta e del suo tirocinio amoroso: le varie fasi dell’innamoramento per la «gentilissima» Beatrice, la morte di lei, lo “sbandamento” per la «donna gentile» e infine il ritorno a Beatrice. L’operazione testuale della Vita Nuova è descritta nel paragrafo proemiale nei termini della celebre immagine della memoria come libro composto da diverse sezioni, tra cui anche il capitolo della giovinezza con le
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liriche e i ricordi del passato che adesso il poeta si accinge a trascrivere e a glossare: In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit vita nova. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’assemplare in questo libello, e se non tutte, almeno la loro sentenzia (i 1 [1.1]).1
Incipit vita nova: inizia il racconto di una vita che è “nuova” sia perché riguarda le vicende giovanili dell’amore per Beatrice e delle prime prove poetiche, sia perché la vita raccontata è straordinaria nel suo avere a che fare con una creatura d’eccezione come Beatrice, sia – ancora – perché da Beatrice la vita del poeta è trasformata e rinnovata nella sua maniera di intendere il desiderio e la poesia. Ma c’è un altro senso in cui inizia una nuova vita, che ha a che fare con l’identità d’autore che emerge dal racconto del libello dantesco. È questo senso che mi interessa approfondire nel presente capitolo e la mia ipotesi è che esso possa essere spiegato nei termini di una nozione specifica di “performance”. A prima vista, l’interesse per la dimensione performativa del libello dantesco potrebbe sorprendere, visto che in esso sono assenti quegli aspetti di performance che costituiscono una componente fondamentale della poesia europea del Medioevo, soprattutto di quella occitanica, a cui sono strettamente legati sia il testo dantesco sia la tradizione lirica italiana da cui esso ha origine. L’aspetto di performance più ovviamente assente nella Vita Nuova è quello della simbiosi tra musica e poesia, legata all’esecuzione orale del testo di fronte al pubblico aristocratico della corte: non c’è una corte nella Firenze comunale di fine Duecento e, soprattutto, nel libello è avvenuta la separazione tra poesia e musica che invece era stato un aspetto essenziale della tradizione lirica dei trovatori.2 Un altro aspetto tipico della poesia dei trovatori assente nella Vita Nuova, anch’esso legato all’esecuzione orale del testo poetico nel contesto collettivo della corte, è quello che si potrebbe definire la creazione di un io-sociale legato alla ripetizione e riaffermazione delle convenzioni e dell’ethos del pubblico cortese. Non è chiaro se questo tipo di performance abbia continuato o meno a essere presente nella poesia siciliana di inizio Duecento, ma di certo la fungibilità sociale dell’io dei trovato-
1. Identità d’autore 19
ri perde importanza e se una voce individuale più distinta si afferma già nella poesia siculo-toscana e stilnovista, la Vita Nuova si presenta addirittura come narrazione autobiografica incentrata su un soggetto storico e individualizzato.3 Non c’è dunque evidenza di una situazione letterale di performance – l’autore che recita o canta live di fronte a un pubblico – e neppure dell’io collettivo e sociale prodotto da tale esecuzione pubblica. La mia ipotesi è che invece nella Vita Nuova sia presente un altro tipo di performance, più legato alla testualità e alla creazione della figura autoriale. Un primo aspetto di questa complessa performance si può dedurre da alcuni saggi ormai classici sulle strategie con cui il libello dantesco si presenta come la ricostruzione del passato del protagonista-actor secondo un modello ideale di sviluppo amoroso e poetico che corrisponde alla sua trasformazione in un auctor, vale a dire uno scrittore che è allo stesso tempo anche “un’autorità”, qualcuno cioè non solo da leggere ma anche da rispettare e a cui credere.4 Come è indicato nel paragrafo proemiale, la figura autoriale della Vita Nuova presenta la sua attività di interprete del proprio passato come una serie di operazioni distinte e progressive: 1) l’operazione dello scriptor, il copista che trascrive dal proprio libro della memoria le liriche scritte per celebrare il proprio amore per Beatrice e i ricordi connessi alla loro scrittura; 2) quella del compilator, che non solo copia dal libro della memoria liriche e ricordi, ma anche li seleziona e li organizza secondo un ordine significativo e teleologico; e 3) quella del commentator, che nelle spiegazioni in prosa delle liriche (le cosiddette «ragioni» e «divisioni») ne rivela il significato profondo: secondo Michelangelo Picone, infatti, la «sentenzia» che il poeta si propone di trascrivere («Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’assemplare in questo libello, e se non tutte, almeno la loro sentenzia») si riferisce al «significato ultimo e definitivo» delle liriche copiate nel libello – un significato che non era necessariamente conosciuto o capito nel momento in cui esse furono composte o gli eventi ebbero luogo, ma che viene autorizzato dalla visione celeste descritta nell’ultimo sonetto e finalmente rivelato nel libello.5 Sono le stesse operazioni che sino ad allora erano state utilizzate per interpretare le Scritture e gli auctores classici del passato, ma che ora, invece di essere attribuite alla collaborazione di vari operatori cultura-
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li all’interno dello scriptorium medievale, sono tutte riunite nella figura dell’autore che mette insieme i propri ricordi per costruire la narrazione del proprio passato. Il risultato di queste operazioni, che sono presentate come il mezzo per scoprire e comunicare il vero significato degli eventi e delle poesie del passato, è l’affermazione di un auctor che, nonostante sia ancora vivente e scriva in volgare anziché in latino, ha ottenuto una dignità simile a quella degli auctores del passato e può anche presentare il proprio percorso di poeta-amante come exemplum per gli altri poeti che costituiscono una parte importante del pubblico a cui si rivolge. La Vita Nuova può dunque essere considerata la performance di un autore nel senso di una Selbstinszenierung, una mise-en-scène in cui il poeta presenta il proprio passato secondo i parametri di uno sviluppo ideale dagli inizi incerti ed erronei fino alla scoperta di una forma corretta di desiderio e di scrittura.6 In particolare, attraverso la rappresentazione dell’evoluzione del protagonista, il testo mostra che, a differenza di quanto avveniva nella tradizione precedente, il desiderio per la donna amata non è necessariamente incompatibile con quello per Dio o con una dimensione etica legata all’uso della ragione, ma può essere integrato in una nuova, corretta costellazione di desiderio, ragione e fede che si propone come culmine del discorso lirico romanzo e come soluzione ai suoi limiti. Incomincia quindi a delinearsi quel percorso di superamento del dualismo cortese e di integrazione dell’amore per la donna amata a quello per la divinità che costituisce una delle soluzioni più originali della Commedia.7 La maniera in cui l’autore si mette in scena e si presenta nel testo è un aspetto importante della Vita Nuova, ma la mia idea è che essa possa essere considerata una performance dell’autore anche in un senso più forte, che va oltre la scoperta, la ricostruzione e la rappresentazione del suo passato, secondo un modello di sviluppo esemplare, e che ha a che fare, piuttosto, con la distinzione originaria di John L. Austin tra enunciati constativi e performativi: gli enunciati constativi sono quelli che descrivono la realtà e possono quindi essere giudicati come veri o falsi, mentre gli enunciati performativi – come quelli dei giuramenti e delle promesse, del varo di una nave, o della celebrazione di un matrimonio – “fanno” qualcosa e rispondono piuttosto al criterio della buona o cattiva riuscita dell’azione che compiono.8 Particolarmente rilevante per il mio discorso è l’uso che Judith Butler fa del concetto austiniano di performatività. Come noto,
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Butler instaura un legame tra la costituzione del gender e l’uso performativo del linguaggio e propone che il gender sia non tanto l’espressione di ciò che uno/a è, quanto il risultato di ciò che uno/a fa. Ne deriva che l’identità personale non è l’espressione di un’essenza o una sostanza originaria, ma viene costituita attraverso la ripetizione di azioni che, come i performativi di Austin, dipendono da convenzioni sociali e modi abituali di fare qualcosa in una determinata cultura. Come ci sono modi socialmente determinati di fare delle promesse o delle scommesse, di dare ordini o di sposarsi, così ci sono anche modi socialmente determinati di essere uomo o donna.9 Da questo punto di vista, l’idea che esista una differenza essenziale e sostanziale dei sessi è il risultato di una performance così riuscita (felicitous nei termini di Austin) che non si è consapevoli della loro costituzione performativa. Allo stesso tempo, se le convenzioni si solidificano attraverso la loro reiterazione, possono anche essere cambiate. Tornando alla Vita Nuova e all’operazione di raccogliere delle liriche composte in precedenza come rime a sé stanti e di glossarle con un commento in prosa che le unisce in una narrazione unitaria, si può dire che essa non è tanto constativa, quanto performativa: diversamente da quanto sostiene di fare, il libello dantesco non scopre né descrive il vero significato delle rime originarie, ma crea delle nuove liriche che, nonostante spesso appaiano testualmente identiche, non esistevano prima e che ora vogliono sostituire gli originali e cancellarli, come se non fossero mai esistiti. Il punto di partenza della mia analisi è dunque che le liriche della Vita Nuova cambiano a seconda che siano lette come rime, vale a dire come testi composti indipendentemente l’uno dall’altro secondo l’usanza del tempo, o come poesie inserite all’interno della narrazione del libello.10 Alcune di queste differenze furono già notate negli anni settanta da Domenico De Robertis, che indicò l’esistenza di qualche variante d’autore risalente a una redazione anteriore a quella del prosimetro e poi cambiata al momento dell’inserzione delle liriche in esso.11 Eppure l’importanza della doppia prospettiva temporale dei testi poetici del libello non è stata ancora pienamente riconosciuta dalla critica, che si è soffermata piuttosto ad analizzare la «sentenzia» della Vita Nuova, vale a dire il significato delle liriche nel libello, presentato come quello vero finalmente scoperto e rivelato.12 In un articolo sulle rime dantesche, ad esempio, Picone fa notare come i testi poetici abbiano un significato diverso a seconda che vengano let-
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ti singolarmente o nella Vita Nuova o nel Convivio,13 ma sostiene poi che una lirica una volta che è stata inclusa in una delle due opere «ha perduto il suo carattere di prova estemporanea, per entrare a far parte di una totalità letteraria e di un ingranaggio compositivo dai quali soltanto riceve il suo significato».14 Quest’ultimo assunto lo spinge a trarre la conclusione che le liriche incluse nella Vita Nuova o nel Convivio perdono il loro status di “rime” e non devono quindi essere pubblicate in un’edizione delle Rime di Dante. Da un’altra prospettiva Teodolinda Barolini discute la tesi di Picone e nota che le sue conclusioni sono condizionate non solo dall’esigenza di rivelare la «sentenzia» delle liriche trascritte (lasciandosi così convincere da quanto Dante scrive di stare facendo), ma anche dall’eventuale decisione di Petrarca di inserire le proprie liriche in una collezione unitaria e organica. Barolini obietta che in questo modo una tradizione lirica come quella delle Rime, che non vedeva nulla di strano o di sbagliato in una lirica composta come indipendente e non inserita in una raccolta unitaria, viene giudicata da una prospettiva scorretta che la descrive nei termini di quello che essa non è.15 Così Barolini decide di inserire tutte le liriche nell’edizione delle Rime, e il suo commento traccia l’itinerario di come Dante è diventato Dante («how Dante became Dante»), ricostruendo la mappa del suo sviluppo intellettuale e dei legami tra le liriche e la Commedia.16 Guardando alla Vita Nuova da un punto di vista performativo, la questione del vero significato delle rime perde importanza rispetto a come il libello riesce a creare nuovi significati in maniera così convincente da rimpiazzare quelli precedenti. Come ho indicato sopra, alcune volte sono introdotte delle varianti nel momento in cui le rime vengono inserite nella Vita Nuova, ma spesso sono la messa in scena delle liriche e il loro nuovo contesto a compierne un’efficace riscrittura e a conferire loro un nuovo significato che sostituisce quello precedente. Dalla mia prospettiva non c’è un rapporto di verità tra le rime nuove e quelle vecchie (nel senso che una lirica, una volta inserita nella Vita Nuova, diventa una lirica diversa e non è che una sia necessariamente più vicina alla “verità” dell’altra) e l’opinione critica che una volta inserita nel libello una lirica perda il suo status di rima non fa che confermare la riuscita della performance della Vita Nuova, che dà alle liriche un nuovo significato in maniera così convincente da rimpiazzare e fare dimenticare quello originario, come se non fosse mai esistito.17 Nella
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parte che segue, analizzerò il modo in cui il libello, utilizzando del materiale poetico precedente, riesce a creare delle nuove liriche e a presentarle come se fossero quelle originali, soffermandomi in particolare su come questa creazione contribuisca a fare emergere un nuovo autore.
La trasformazione del desiderio La Vita Nuova è il racconto memoriale e teleologico di come il protagonista è riuscito a superare i limiti della concezione cortese del desiderio e a trasformare il proprio amore per Beatrice in una nuova modalità, che consiste nella lode disinteressata della donna amata e permette di rimanerle fedele anche dopo la sua morte. Per raccontare questo percorso la Vita Nuova sottopone le liriche del passato a molteplici trasformazioni, e nella parte seguente mi concentrerò soprattutto su alcune delle fasi in cui il libello mette in scena l’evoluzione del protagonista in relazione alla figura di Guido Cavalcanti, il poeta-filosofo fiorentino di una generazione anteriore a Dante che aveva scritto in maniera sofisticata ed elegante dell’amore come passione dei sensi principalmente dolorosa che distrugge la razionalità e impedisce all’amante l’esercizio di ogni controllo su di sé. In particolare, mi concentrerò sul processo di sacralizzazione a cui è sottoposta la figura della donna amata (che diventa una «beatrice») e sul tentativo di rendere compatibile l’eros della tradizione cortese con il controllo della ragione. Sarà così possibile riconoscere alcune delle strategie testuali con cui il libello, presentando l’evoluzione del proprio protagonista, non solo afferma una nuova e ideale forma d’amore, ma fa anche emergere un nuovo autore e gli conferisce un’autorevolezza che deriva dalla maniera in cui il controllo sul testo corrisponde a quello sul desiderio.18 Già quanto succede al primo sonetto della Vita Nuova costituisce un esempio lampante di come nel libello si trasformino i testi poetici del passato. Leggiamolo: A ciascun’alma presa e gentil core nel cui cospetto vèn lo dir presente, in ciò che mi riscrivan suo parvente, salute in lor segnor, cioè Amore.
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Già eran quasi che aterzate l’ore del tempo che omne stella n’è lucente, quando m’apparve Amor subitamente, cui essenza membrar mi dà orrore. Allegro mi sembrava Amor tenendo meo core in mano, e nelle braccia avea madonna involta in un drappo dormendo. Poi la svegliava, e d’esto core ardendo lei paventosa umilmente pascea. Apresso gir lo ne vedea piangendo.19
Nella sua veste originaria di rima a sé stante composta, secondo la testimonianza della Vita Nuova, quando Dante aveva diciotto anni, il sonetto descrive una visione in cui Amore prima tiene tra le braccia la donna addormentata e poi la sveglia e le fa mangiare il cuore del poeta, per poi andarsene in lacrime. Il testo è un indovinello poetico non dissimile, quanto all’intento, dal sonetto contemporaneo Provedi, saggio, ad esta visïone che Dante da Maiano aveva mandato a diversi poeti perché lo decifrassero e a cui l’Alighieri rispose con Savete giudicar vostra ragione. A ciascun’alma descrive infatti in maniera volutamente ambigua un sogno dalla carica erotica sorprendentemente “spinta” e viene inviato ad altri poeti perché ne interpretino il significato, con l’obiettivo di stabilire un contatto e un dialogo tra il giovane Dante e i suoi contemporanei. Questo obiettivo sembra raggiunto, come risulta dalle tre risposte pervenute, che nella loro diversità danno un’idea dell’apertura all’interpretazione lasciata dal sonetto di Dante: Dante da Maiano risponde in chiave comica con il sonetto Di ciò che stato sei dimandatore, sostenendo che l’Alighieri sta farneticando e gli consiglia di curare la propria malattia d’amore con il lavaggio dei testicoli («che lavi la tua coglia largamente / a ciò che stinga e passi lo vapore / lo qual ti fa favoleggiar loquendo» [7-9]);20 Terino da Castelfiorentino propone invece che il sogno indichi una corresponsione di sentimenti da parte della donna amata; e anche Guido Cavalcanti dà un’interpretazione positiva della visione come segno di felicità raggiunta. Tra questi sonetti di risposta, solo quello di Cavalcanti, Vedeste, al mio parere, onne valore, viene menzionato nel libello, che indica come questo scambio poetico abbia segnato l’inizio dell’amicizia tra i due poeti.
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La Vita Nuova cambia radicalmente il significato del sonetto e lo trasforma nel resoconto di una visione premonitrice dell’ascesa di Beatrice in Paradiso, avuta dal protagonista dopo il secondo incontro con la gentilissima e lo sconvolgimento fisiologico provocato dal suo saluto. Non vi è nulla però nel testo poetico in sé che faccia pensare che la donna tra le braccia di Amore sia Beatrice e solo nel libello, che è incentrato sulla morte di lei e che si apre e si chiude con l’immagine di lei in Paradiso (la «gloriosa donna de la mia mente» e la «benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus»), il sogno descritto nel sonetto diventa una premonizione della sua scomparsa e della sua gloria. La creazione di questo nuovo significato è rafforzata anche da altri particolari aggiunti dalla prosa: mentre infatti il sonetto si chiude con la semplice immagine di Amore che si allontana («appresso gir lo ne vedea piangendo»), la prosa della Vita Nuova non solo specifica il dettaglio (che potrebbe comunque essere implicito) di Amore che si allontana con madonna tra le braccia («con essa»), ma anche aggiunge il particolare, altrimenti assente, che se ne va «verso lo cielo». Se in questo modo la descrizione di un sogno erotico diventa la premonizione del destino glorioso di Beatrice in Paradiso, il sonetto cambia anche in un altro senso e da indovinello dal significato ambiguo diventa un testo dal significato definito ed evidente. Il libello chiude il caso che l’indovinello aveva aperto, ne rivela «[l]o verace giudizio» e indica che esso «non fue veduto allora per alcuno, ma ora è manifestissimo a li più semplici». Generalmente i commentatori indicano che «lo verace giudizio» del sogno si manifesta dopo la morte di Beatrice, ma a me sembra invece più interessante e accurato pensare che esso sia in realtà creato dal modo in cui il sonetto è inserito nella Vita Nuova. In altre parole, se è improbabile, come notano Foster e Boyde, che originariamente il sonetto si riferisse a Beatrice,21 il suo “vero” significato non è dunque tanto mostrato dalla morte di lei, quanto creato dalla Vita Nuova, che ricollega il testo poetico a Beatrice, lo inserisce in un contesto incentrato sul suo destino glorioso e vi aggiunge alcuni dettagli importanti. Si tratta di un’operazione così riuscita che dopo di essa è difficile ritornare al significato aperto che il testo aveva come rima a sé stante e che non solo non si riferisce alla morte della donna amata, ma probabilmente neanche a Beatrice.
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Inoltre, cambia anche l’azione esercitata dal sonetto: mentre originariamente A ciascun’alma fu scritto dal giovane Dante come pezzo di bravura occasionale e fatto circolare con l’intenzione di creare uno spazio di amicizia e di dialogo con altri poeti, nella Vita Nuova assolve invece un intento diverso e serve a confermare l’autorevolezza del suo autore, distinguendolo dagli altri poeti. E, come abbiamo visto, esso indica esplicitamente che tra vari «risponditori» che non riuscirono a cogliere quello che è ora indicato come il vero significato del sogno c’era anche Guido Cavalcanti. In questo modo, proprio nel momento in cui la Vita Nuova descrive l’ingresso del suo autore all’interno della comunità dei «Fedeli d’Amore» – cioè tra i poeti volgari del tempo – e attraverso l’indicazione dell’inizio dell’amicizia con Guido ne attesta l’accettazione ufficiale, è anche possibile cogliere una prima istanza delle critiche che la Commedia lancerà alle competenze conoscitive e filosofiche dell’ex primo amico.22 Il successo dell’operazione performativa della Vita Nuova continua con le liriche dell’episodio delle donne dello schermo (iv 1-xii 17 [2.35.24]), dove Dante dice di avere a un certo punto composto delle liriche che, simulando di amare prima una donna e poi un’altra, fossero «schermo de la veritade» (v 3 [2.8]) e proteggessero l’identità di Beatrice, l’amore per la quale ostacolava le facoltà vitali del protagonista e faceva sì che «molti pieni d’invidia» indagassero sull’identità della donna da lui amata (iv 1 [2.3]). In particolare, l’autore dice di avere composto «certe cosette per rima» a sostegno della finzione delle donne-schermo e di avere trascritto nel libello solo quelle che contenessero una lode esplicita di Beatrice (v 4 [2.9]). Anche in questo caso, il significato delle liriche nella Vita Nuova è molto diverso da quello originario, che non aveva nulla a che fare con la finzione delle donne-schermo. Ad esempio, senza la prosa il sonetto rinterzato O voi che per la via d’Amor passate è un lamento convenzionale per la perdita di un amore che era ragione di felicità, e solo con la prosa della Vita Nuova diventa un sonetto scritto per mostrare dolore per la partenza della prima donna-schermo verso un’altra città (vii 2 [2.13]).23 Una simile trasformazione ha luogo anche per il sonetto Cavalcando l’altr’ier per un cammino, a partire dal quale il libello incomincia a presentare un’istanza critica nei confronti di Cavalcanti, facendo uso della sua ideologia della mediazione per denunciare i valori cortesi tradizionali
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e in particolare la strategia del «simulato amore» (ix 6 [4.6]).24 Cavalcando l’altrier è una lirica sulla volubilità degli affetti e sul trasferimento del desiderio verso una nuova donna («novo piacere» [12]), e solo nella Vita Nuova diventa un testo in cui, dopo la partenza della prima donna-schermo, Amore appare al poeta e gli dice che deve cercarne un’altra per continuare a proteggere l’identità di Beatrice (ix 5 [4.5]). In questo modo un testo che come rima a sé stante descrive l’insorgere di una nuova passione e l’innamoramento per una nuova donna viene risignificato come testo che celebra la fedeltà del protagonista a Beatrice: l’operazione è audace, ma riuscita, come si vede dall’ipotesi critica, formulata ancora recentemente, che si tratti di un testo scritto appositamente per la Vita Nuova.25 Anche il significato di Ballata, i’ voi che tu ritrovi Amore cambia radicalmente: come rima a sé stante è un testo convenzionalmente legato alla tematica della volubilità degli affetti e al genere occitanico dell’escondig, in cui il poeta si discolpa dalle calunnie fatte circolare su di lui dai maldicenti, mentre nella Vita Nuova è indirizzato a Beatrice e diventa il testo con cui il protagonista si rivolge alla gentilissima per confermarle che ha continuato ad amare solo lei e che quindi sono infondate le voci di un suo amore che arreca «noia» alla seconda donna dello schermo. (È in realtà molto probabile che la ballata non fosse originariamente nemmeno rivolta a Beatrice – o almeno il testo poetico di per sé piuttosto convenzionale non ne reca traccia.) Se dunque nel caso delle liriche scritte per le donne dello schermo la Vita Nuova riesce a creare significati nuovi che non esistevano quando furono scritte originariamente, questa operazione ha creato nuovi testi anche in absentia. Infatti, mentre le donne dello schermo esistono solo all’interno dell’operazione testuale della Vita Nuova, l’indicazione di «certe cosette per rima» composte per le donne dello schermo e solo in minima parte inserite nel libello ha fatto sì che, soprattutto nel passato, si sia cercato di identificare quali rime non incluse fossero state scritte per il primo e quali per il secondo schermo. In altre parole, visto che nella mia interpretazione non ci sono liriche originariamente scritte per le donneschermo, la Vita Nuova è riuscita a semantizzare retroattivamente non solo le liriche che include ma anche quelle che lascia fuori. L’episodio delle donne dello schermo si conclude con il fallimento della strategia giovanile e con la perdita del saluto di Beatrice, a cui la
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Vita Nuova fa seguire la scena del «gabbo», in cui Beatrice e altre donne si prendono gioco di Dante perché si è sentito mancare alla vista della gentilissima. La scena continua a offrire una riflessione sulle insufficienti forme liriche del passato e rappresenta il culmine della crisi cavalcantiana del protagonista, poi superata con la scoperta dello «stile della lode», presentato come una maniera poetica «nuova e più nobile che la passata» (xvii [10]). In particolare, la perdita del saluto di Beatrice, che non compare nelle rime a sé stanti, diventa nella Vita Nuova il fulcro intorno al quale creare tutta una serie di significati che esemplificano una scorretta modalità di desiderio e di scrittura legata all’autocommiserazione, al rivolgersi direttamente alla donna amata e all’aspettativa di riceverne qualche cosa in cambio. Il libello trascrive e glossa qui alcune liriche del passato scritte in una maniera apertamente cavalcantiana – che viene ulteriormente amplificata dagli interventi “cavalcantizzanti” della prosa – e instaura così un’associazione esplicita tra questa scorretta modalità d’amore e la modalità dolorosa della poesia di Cavalcanti. Rispetto ai testi poetici in sé, la prosa del libello aggiunge anche, o per lo meno rende esplicito, che questa modalità scorretta va contro i dettami della ragione ed è incompatibile con essa.26 In generale mi sembra che nell’episodio del gabbo la Vita Nuova miri non solo a presentare come errata la fase cavalcantiana del passato di Dante così da poterla poi superare nella fase successiva della lode, ma anche a fare in modo che ne emerga una figura di Cavalcanti come poeta unicamente doloroso, narcisista e irrazionale. Questa figura corrisponde solo parzialmente alla complessità della poesia di Cavalcanti, che non ha cantato esclusivamente l’amore doloroso:27 si pensi infatti ai testi i-iv dell’edizione De Robertis,28 dai quali il giovane Dante aveva imparato molto e la cui influenza si riconosce in diverse rime giovanili non incluse nella Vita Nuova (quali Sonar bracchetti e cacciatori aizzare, Per una ghirlandetta e Deh Violetta), o soprattutto ai testi xxii-xxvi, in cui Cavalcanti descrive positivamente e luminosamente la felicità, la gioia e la dolcezza che, spesso in maniera inaspettata, possono gratificare almeno temporaneamente il poeta-amante. Con l’episodio del gabbo e in generale in tutta la Vita Nuova, invece, è solo l’esperienza dolorosa a essere identificata con la poesia di Cavalcanti. In questo modo, lo stile della lode, che consiste nel lodare disinteressatamente la donna amata e che viene successiva-
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mente presentato come la soluzione per i limiti dell’amore cavalcantiano, può risultare un allontanamento dal primo amico più di quanto non lo sia realmente stato. Sono infatti d’accordo con l’idea che nella poesia di Guido Dante avesse ritrovato non solo i toni drammatici e dolorosi, ma anche quel «valore beatificante riconosciuto alla donna e all’amore» che nel libello è presente in molti testi della “nuova” maniera.29 Non stupisce dunque che a volte la Vita Nuova introduca varianti che rendano i testi della lode meno legati alla fase cavalcantiana di quanto non fossero originariamente.30 Ma tra le varie strategie con cui il testo dantesco costruisce l’affrancamento del protagonista dall’influenza di Cavalcanti, vorrei soffermarmi in particolare sul capitolo xxiv (15), dove in un sonetto scritto precedentemente viene ora instaurata una nuova analogia tra Beatrice e Cristo. Questa analogia rappresenta il punto d’arrivo del processo di sacralizzazione della figura di Beatrice ed è accuratamente preparata e resa possibile dalla maniera in cui è organizzato il libello. Da una parte infatti vengono lasciate fuori liriche del passato come il sonetto Ne le man vostre, gentil donna mia – in cui è il poeta-amante a essere cavalcantianamente paragonato al Cristo passionato – o come le canzoni Lo doloroso amor ed E’ m’incresce – in cui la condizione miracolosa di Beatrice è legata a caratteristiche cavalcantianamente mortifere e quindi incompatibili con l’ethos della Vita Nuova.31 Dall’altra parte, viene instaurato il legame – altrimenti assente nelle Rime – tra il numero nove e Beatrice e si amplificano gli effetti miracolosi e benefici della gentilissima, che da figura topicamente angelicata alla maniera stilnovista si trasforma in un essere quasi divino e avvicinabile a Cristo.32 Con Io mi senti’ svegliar dentro a lo core nel capitolo xxiv (15) i risultati di questa trasformazione sono eclatanti: Io mi senti’ svegliar dentro a lo core un spirito amoroso che dormia: e poi vidi venir da lungi Amore allegro sì, che appena il conoscia, dicendo: «Or pensa pur di farmi onore»; e ’n ciascuna parola sua ridia. E poco stando meco il mio segnore, guardando in quella parte onde venia,
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io vidi monna Vanna e monna Bice venir inver lo loco là ’v’io era, l’una appresso de l’altra maraviglia; e sì come la mente mi ridice, Amor mi disse: «Quell’è Primavera, e quell’ha nome Amor, sì mi somiglia».
Come rima indipendente il sonetto è una descrizione dell’amore risvegliato nel poeta-amante dall’arrivo di «monna Bice» (Beatrice) accompagnata da «monna Vanna» (Giovanna, la donna amata da Cavalcanti), mentre nel libello la scena assume un significato cristologico legato alla delineazione del rapporto di Dante con il suo primo amico. Questo nuovo significato è creato dall’indicazione che il nome «Primavera», riferito da Amore a Giovanna (v. 13), sia in realtà da interpretare come «prima verrà» e quindi associato a Giovanni Battista come figura premonitrice di Cristo: Queste donne andaro presso di me così l’una appresso l’altra, e parve che Amore mi parlasse nel cuore e dicesse: «Quella prima è nominata Primavera solo per questa venuta d’oggi; ché io mossi lo imponitore del nome a chiamarla così Primavera, cioè prima verrà lo die che Beatrice si mosterrà dopo la imaginazione del suo fedele. E se anche vogli considerare lo primo nome suo, tanto è quanto dire “prima verrà”, però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce, dicendo: “Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini”» (xxiv 4 [15.4]).
Non solo il contesto divinizzato della Vita Nuova fa sì che sia facile per il lettore completare l’analogia indicata nella prosa (Giovanna : Beatrice = Giovanni Battista : Cristo) con l’associazione di Beatrice a Cristo; ma, come è stato più volte sottolineato, questa analogia implica anche che, come Giovanni Battista aveva preparato la venuta di Cristo (e come Beatrice aveva preceduto Giovanna), così la poesia del primo amico è una preparazione per la poesia di Dante. Si tratta di una delle più audaci riscritture della Vita Nuova ed esemplifica bene i nuovi significati che, anche in assenza di varianti testuali, si creano per testi poetici composti precedentemente.33 Il nuovo significato di Io mi senti’ svegliar è dunque reso funzionale all’indicazione che la fase cavalcantiana del passato poetico di Dante non
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è altro che un apprendistato per arrivare a una poetica nuova e migliore di quella del suo primo amico.34 Allo stesso tempo, la Vita Nuova approfitta della riscrittura del sonetto per aggiungere qualche dettaglio polemico nei confronti del primo amico e sembra sottolineare che lo stesso Guido, che aveva imposto per volere di Amore il nome «Primavera» a Giovanna, lo avesse fatto senza sapere cosa stesse facendo. Guido non si sarebbe reso conto, cioè, che il motivo che aveva spinto Amore a fargli imporre quel nome è che esso significa “prima verrà” proprio perché Giovanna avrebbe preceduto Beatrice il giorno in cui, dopo la visione descritta nel capitolo precedente, le due donne si sarebbero mostrate al protagonista della Vita Nuova.35 Ma soprattutto il libello specifica che quando decise di scrivere un sonetto sull’apparizione d’Amore e di indirizzarlo a Guido, il protagonista non sapeva che il suo primo amico avesse smesso di amare monna Vanna, e compose la lirica credendo «che ancor lo suo cuore mirasse la bieltade di questa Primavera gentile». In tal modo la Vita Nuova collega esplicitamente a Guido il tema della mutevolezza del desiderio, che costituisce uno dei punti nodali della scena che segue alla morte di Beatrice, dove si assiste al conflitto tra la fedeltà alla memoria della gentilissima e l’attrazione per una «gentile donna giovane e bella molto» che qualche tempo dopo la morte di Beatrice aveva mostrato compassione nei confronti del lutto del protagonista.36 Come noto, i cinque sonetti per la donna gentile riportati nella Vita Nuova presentano le diverse fasi del conflitto psicologico che travaglia il protagonista in seguito all’attrazione crescente e sempre più pericolosa per lei: dalla nascita e crescita dell’attrazione (Videro gli occhi miei quanta pietate e Color d’amore e di pietà sembianti) ai primi scrupoli per un’attrazione troppo intensa (L’amaro lagrimar che voi faceste) e al rischio che essa prevalga sul ricordo di Beatrice (Gentil pensero che parla di vui); fino a una nuova visione della gentilissima che pone fine a questa tentazione e dà origine a un quinto sonetto (Lasso per forza di molti sospiri), scritto per dimostrare il superamento dell’attrazione per la donna gentile. Anche queste liriche vengono rifunzionalizzate e assumono sfumature e significati diversi rispetto a quelli che hanno come rime a sé stanti, e in questo caso la riscrittura serve a mettere in scena l’attrazione per la donna gentile come una ricaduta nella modalità cavalcantiana di un desiderio narcisista e incompatibile con la ragione.37 In questo modo, il ritorno a Beatrice,
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con cui la Vita Nuova conclude la rappresentazione del cammino ideale del suo a(u)ctor, rappresenta anche il superamento definitivo della tentazione poetica cavalcantiana, e il libello ne approfitta per ribadire il carattere cristologico della gentilissima che già il capitolo xxiv aveva legato al superamento della poetica di Guido. Tale carattere è, anche in questo caso, un’amplificazione della Vita Nuova, creata attraverso l’ordinamento e il commento che essa compie dei testi poetici. Mentre il penultimo sonetto del libello Deh, peregrini, che pensosi andate indica solo che i pellegrini a cui si rivolge l’autore vengono da lontano («da sì lontana gente»), la prosa aggiunge dovizia di particolari sul fatto che i pellegrini del sonetto si stanno recando a Roma per vedere la Veronica («quella imagine benedetta la quale Iesù Cristo lasciò a noi per essemplo de la sua bellissima figura»). Vengono così gettate le basi per la creazione di un legame con il sonetto successivo (e conclusivo), Oltre la spera che più larga gira, che descrive come il «pensero» di Dante (xli 3 [30.3]) arrivi all’Empireo e riesca a contemplare Beatrice in gloria: Quand’elli è giunto là ove disira, vede una donna, che riceve onore, e luce sì, che per lo suo splendore lo peregrino spirito la mira (vv. 5-8).
Al v. 8, il sintagma «peregrino spirito» richiama i «peregrini» del sonetto precedente e suggerisce l’analogia tra i «peregrini» e lo «spirito peregrino» da una parte e quella tra la Veronica (immagine di Cristo) e Beatrice dall’altra. In questo modo, il libello crea un’ultima analogia tra Beatrice e Cristo proprio nel momento in cui il desiderio del protagonista ha terminato il suo addestramento e arriva alla meta («è giunto là ove disira»). La riscrittura teleologica del passato è portata a termine e, forte dell’evoluzione messa in scena, l’opera si conclude con un’apertura al futuro e con la promessa di tornare a scrivere di Beatrice in maniera nuova, come mai nessuno prima: Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò
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io studio quanto posso […]. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna (VN xlii 1-2 [31.1-3]).
* Quelli analizzati in questo capitolo sono solo alcuni esempi delle strategie testuali usate da Dante nella Vita Nuova per dare nuovi significati al materiale poetico e ricostruire il proprio passato nei termini ideali del raggiungimento di una rinnovata forma d’amore in cui il desiderio per la donna amata incomincia a integrarsi con il controllo esercitato dalla ragione e con la fedeltà a Dio. La dimensione performativa costituisce dunque un aspetto fondamentale del libello e la sua operazione di riscrittura dei testi poetici può essere considerata la performance di un autore in almeno due sensi. Una performance è compiuta da un poeta che mette in scena il proprio passato come un percorso ideale e si conferisce l’autorevolezza di un auctor. Ma l’operazione della Vita Nuova è una performance anche nel senso che attraverso la risignificazione del materiale passato e attraverso la narrazione stessa il libello riesce a creare un autore nuovo rispetto a quello delle Rime. Infatti, uno degli aspetti più interessanti del libello dantesco è proprio la complessità archeologica e temporale delle sue liriche, che permette di aprire una finestra sull’officina testuale con cui Dante si costruisce la nuova identità d’autore e di vedere anche come questa identità non sia un’essenza che si esprime nel testo, ma una sua creazione audace e mirabilmente riuscita. La novità di questo autore non è solo dovuta al fatto che le liriche del passato acquisiscono un nuovo significato che sostituisce quello originario; ma nel suo combinare l’autorevolezza dell’auctor medievale, che sino ad allora aveva avuto un carattere impersonale e astorico, con un nuovo carattere personalizzato e individuale, emerge anche un nuovo tipo di autore, che funziona come l’autore moderno – e recentemente, in dialogo con Hannah Arendt, Roland Barthes e Michel Foucault, Albert Ascoli ha parlato proprio del “farsi” di un autore moderno (Dante and the Making of a Modern Author), ponendo il libello dantesco come una tappa significativa di questo processo.38 Certamente, nel libello la figura autoriale funziona, come nel caso dell’autore moderno, come garanzia della coerenza,
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dell’identità e del significato dei testi, al punto che riesce ancora a imporre le proprie scelte, come è mostrato ad esempio da coloro che pensano che una volte inserite nella Vita Nuova le liriche acquisicano il loro vero significato e perdano lo status originario di rime, come se non lo fossero mai state. Ben diverso, come vedremo nei prossimi capitoli, è invece il tipo di autorialità che si esprime nel dialogo con Dante di Pier Paolo Pasolini, che si oppone al tipo di performance attuata nella Vita Nuova e, facendola programmaticamente fallire, cerca di liberarsi dal controllo esercitato sul testo, sul desiderio e sul lettore.