Tenera Valse
Anatomia della ragazza zoo
Anatomia della ragazza zoo
Nel resoconto che segue voglio rendere omaggio alle forme perverse di amore e alla semplicità dei discorsi dei bambini che per loro natura le contrastano, all’orgasmo ripetitivo da cui sono nata e alla dimora insulsa delle abitudini: la famiglia. Dalla quale ho imparato che le conseguenze dell’amore sono sempre incerte. Come i padri.
PARTE A Anatomia parallela
Famiglia significa sesso. Djuna Barnes
Fisiologia di un ricordo
La storia della mia famiglia comincia con un danno ottico: mio fratello davanti a mio padre, composto, costretto a domandargli perdono in ginocchio, e si ferma per molti anni alla fase dei perché, non potendo procedere più speditamente. Chi non possa disporre di certezza se le informazioni che riceve siano corrispondenti a una qualche verità, sia pure illusoria, va cercando certificazioni di senso ovunque e comunque, solo per tentare di capire se la pellicola che gli scorre sugli occhi, ustionandoli, sia un sogno, una visione, un’immagine – fosse solo una speranza, anche. Di volta in volta, nel sentimento di confusione che si viene a creare, sembra di poter ritenere che sia esistito un tempo in cui le cose che ho visto non avevano niente a che fare con la mia testa e che mai ce le avrei messe di mia volontà, soltanto mi si sono piazzate davanti, e avevo gli occhi aperti. Le impressioni visive non sempre si accontentano di rimanere una nausea. Più spesso si condensano in abitudine. La data in cui vidi mio fratello davanti a mio padre nella posizione dell’inginocchiato non la ricordo. Non è memorabile come giorno, il numero arabo di un tempo istantaneo. Quanto piuttosto un’epoca, diviene significativa. Un volume sensoriale a forte impatto visivo che mi impregna. Nella posizione in cui si trovavano mio padre e mio fratello, vicinissimi a pochi centimetri l’uno dall’altro, di lì a poco sarebbe accaduto qualcosa. Difficile predire cosa. L’emozione che provai fu sessuale, però 13
non era desiderio. Piuttosto la sensazione di partecipare visivamente a qualcosa di potente e del tutto inatteso. Come quando le nuvole addensandosi si animano in uno schieramento fitto che forma l’impressione di un complotto, e poi immediatamente viene il buio. Stando serrate e compatte si accordano nel giro di qualche secondo, scaraventano la cateratta violenta, riversano un volume d’acqua da cui è impossibile ripararsi. I bambini non sanno come si fronteggiano i corpi quando si sfidano. E io, che avevo nove anni, non capivo se quello a cui assistevo sarebbe stato un incontro, una lotta, un amplesso, un diverbio, una danza. Oppure un delitto. Quel corpo a corpo tra mio fratello e mio padre cadde nell’oscurità per molti anni. Misi così in moto lo sforzo per non ricordare, dimenticandolo. L’estensione luttuosa del silenzio sonoro che seguì quell’evento però la ricordo. Fu simile all’eco di una conflagrazione. Vedere così precocemente e in modo così violento mi fece catalogare la vista come un senso ingannevole. Ne diffidai. Per molto tempo fui convinta di essere abitata da quelle estranee, che furono le immagini. Per me le immagini erano idoli che non si potevano contrastare. Dimenticai quell’accadimento come una cosa vera, che non si può risolvere né svelare fino in fondo, e m’innamorai di tutte le altre immagini. Per lo più non ero io a sceglierle. Apparivano istantanee, frontali e poi mi si scioglievano addosso: una sensazione molle, umida, fatta di suono, fatta di volume, e di colore. Alcune mi investivano come il crash di un incidente stradale, impazzavano su di me con uno spostamento d’aria da spezzare le vene, il fiato. Altre mi infastidivano come mosche estive o un capello fuori posto o un vento che scompiglia. Le immagini dei cartelli pubblicitari erano le più manichee e mi procuravano attrazione e ripulsa. Dalla maggior parte di loro mi facevo abitare senza proferire parola né controbattere alcunché e percorrere in lungo e in largo, come di notte quando con una certa leggerezza s’impossessano di chiunque dorma, in sogno. Oppure svaniva il corpo, ero terra, o una strada, quando mi sovrastavano, prendevo la forma di un paesaggio. Per svariati anni portai con me nascosto da qualche 14
parte un pezzo di specchio e lo utilizzavo come schermo. Di tanto in tanto vi proiettavo sopra la mia faccia. Ce la buttavo sopra con tutti i suoi sberleffi, come un documentario da telefonino, facendo smorfie. In questo modo esorcizzavo e sfottevo le prime contrarietà che si provano non appena, crescendo, ci si rende conto che si sarà costretti a stare per lo più con se stessi e soltanto occasionalmente con gli altri. Sognavo che mi proteggessero da quell’immagine che non riuscivo a svelare. Le immagini erano le mie divinità guida, i miei simulacri e io stessa disperdendomi in loro ero diventata un’immagine. Questa mia isteria visuale fu così persistente e intensa, per così lungo tempo, che perfino il mio corpo lo figurai come un velo che si proietta su chi mi stava intorno, fatto di membrane trasparenti, organi sottilissimi e lucidi a vetro. Per me le immagini furono tutto. Ne fui distratta e capovolta a tal punto che dimenticai quel delitto. Perché questa è la storia di un delitto e io so che un delitto si compie in ginocchio. Ora che è diventato l’immagine di un addomesticamento, posso ricostruire esattamente come per sempre rimase inguarito quel danno ottico, e raccontarvi quella strana perversione che sono oggi: perché io sono la ragazza zoo e questa è la storia vissuta del mio corpo, la mia anatomia retrodatata che – per scrupolo di non perdersi e desiderio di non tralasciare particolari importanti di ciò che vissi – risale al mio tempo fetale. Qui a terra accanto a me c’è ancora il grande lenzuolo bianco che conteneva i miei fantasmi, ogni tanto mentre scrivo vibra, lo alzo e spunta il mio delitto.
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Abito nudo
Serrato nella vulva di mia madre stretto tra le sue gambe avvolto in tessuti liquidi vestito da umori lievi nitidi trasparenti faccio fatica a immaginare come sarà il mio corpo una volta uscito di qui. In questo stato di benessere un tale elemento non riveste alcuna importanza. Stare nei suoi abiti mi piace, mi piace quando si copre al mattino quando si sveste se tira su le gambe per indossare le calze se sussulta per ridere e canta mi fa venire i brividi. Rinuncerei volentieri a nascere se potessi indossare mia madre per sempre. La sua pelle è il mio rivestimento, i suoi muscoli e gli organi un luogo abitato da me soltanto. Mi permea come una membrana aderisce si incolla a me pulsa mi fa muovere gesticola. Respiriamo insieme vestiamo gli stessi indumenti facciamo la stessa strada abitiamo sotto lo stesso tetto. Spesso si chiede se sarò alta o basso se avrò gli occhi verdi o neri se il mio naso sarà grande o piccolo se avrò seni belli come i suoi se avrà un maschio una femmina o non so cosa se saprò farmi avanti nel mondo se avrò un bel lavoro soldi amori. È stata l’unica donna di lì e per tutto il tempo a venire a farmi occupare il suo spazio senza dichiarare un utile prestabilito. Abitai nudo per molti mesi presso di lei e poi fui catapultato fuori. In base a criteri comunemente riconosciuti una volta nato non potevo essere più mia madre avere il suo nome vestire i suoi abiti né mai più dormire nel suo letto. Se qualcuno desi16
dera abitare il corpo di sua madre il reato di cui si macchia viene definito incesto. Ma vi assicuro che questo reato può confondersi con l’amore. Se l’abito di tua madre il suo corpo tornasse a essere la tua pelle probabilmente riconosceresti di non essere stato mai né nudo né uomo e di aver mosso i tuoi primi passi nelle vesti di donna.
Genealogia
Sono nata nel giorno terminale di un’epoca televisiva. Mentre mia madre partoriva andava in onda l’ultimo Carosello. Poche ore prima, intorno a mezzogiorno, la donna nel letto della clinica aveva le doglie che spasimavano nella pancia, le donne sui balconi delle case intorno (lì sul lungomare di Taranto) avevano i tappeti e le coperte stesi alle inferriate e a colpi di battipanni squattavano nuvoli di polvere nell’aria. Intere legioni di rumori e di pulviscoli venivano mobilitate a mezz’aria e scagliate nel sole nonostante fosse dicembre. È il tipico modo che hanno certe donne del Sud di infastidirne altre intente a fare più o meno la stessa cosa: reggere il mondo con la propria pazienza. Per le donne fuori, quei tonfi sordi nelle orecchie a metà mattina erano fuoco amico: pulizie domestiche natalizie. Per la donna nel letto – mia madre – quegli schiaffi sordi di magnitudo muscolare anni cinquanta accentuavano l’impulso a espellere. Non erano dispetti volontari quelli delle donne là fuori, partorire era un debito naturale, un mordere il freno una volta in più rispetto a quanto non si facesse di solito, colle mestruazioni dolorose, colla verginità da preservare, coi mariti che a letto chiedevano sempre tanto. Se si pensa che le due espressioni che ho sentito più spesso in bocca a mia madre sono state «Stringi i denti e vai avanti» (una sorta di bruxismo della necessità, un accumulo di rigidità per resistere al dolore) e «Se dio vuole!» (un inshallah cristiano), allora si capisce chiaramente perché 18
quelle donne sui balconi non avevano riguardo alcuno per le partorienti del palazzo accanto. Non dico che la nascita fosse un evento comune; anzi, era glorificata, ma alla resa dei conti negli anni settanta vigevano ancora le memorie di donne che lo avevano fatto in casa – con mezzi di fortuna e con ogni genere di motivazioni – dieci, undici volte nella vita, come coniglie. Si facevano figli per scongiurare qualunque pericolo incombente sulla casa: per evitare che il marito andasse in carcere, per evitare che il marito andasse al fronte, per evitare che il marito se ne andasse con un’altra, per essere accuditi in vecchiaia e via dicendo. E a dirla tutta, poi, con la medicalizzazione obbligatoria partorire non sembrava più tanto temibile. Erano altre le cose nuove che le donne comuni cominciavano a fare più di frequente, per le quali le dita e le lingue delle più vecchie si drizzavano a giudizio nei cortili e sul corso. Se una, invece di sposarsi a tempo debito, andava a lavorare al Nord, «Quella è pazza!» dicevano e, se cambiava città per studiare all’università, il giudizio era simile: «Farà una brutta fine!». E tanto gliela tiravano che non di rado succedeva. E quando accadeva che qualche transfuga con un destino abortito tornava, se la trovavano bella ed elegante, dubitavano della sua integrità morale, altrimenti la compativano con dispacci apocalittici retroattivi che si diffondevano in piazza, dopo le faccende domestiche. Succedeva, dicevano: «Ben le sta», «Che ti avevo detto», intendendo per premonizione un anatema che aveva funzionato. Un’edizione orale di una novella duemila della gente comune, molto più efferata di quella dei vip: scattava istantanee d’assalto sulla vita personale degli altri, così oscene e scabrose da fare rabbrividire i paparazzi più spregiudicati, impietosi e disposti a tutto. Torniamo al parto di mia madre. Ci liberammo l’una dell’altra mentre Raffaella Carrà anestetizzava il resto degli italiani per la fine di un altro anno, il che non era difficile come oggi accade: staccare un foglio dal calendario era un traguardo e non una lotta contro il tempo, e vederlo sfumare significava una promozione come a scuola. Si invecchiava presto e alla meglio e quando nascevi era una sorpresa per tutti, perché non si usava l’ecografia prenatale, tanto che 19
mio padre fino all’ultimo pensò ad alta voce: «Avrò un bel maschio e lo chiamerò Daniele!». Era, quella del padre mio, una forma apotropaica di pensiero positivo, a suggellare la sua sfrenata ambizione che in genere funzionava: voleva un primogenito maschio, per un puro privilegio araldico, anche senza un patrimonio da conferire o amministrare, la linea maschile di discendenza gli era sempre sembrata un elemento di prestigio irrinunciabile per difendere il proprio cognome e la sua tempra di capostipite. Si dice che la repentina smentita dovuta al dato inequivocabile della mia nascita – una femmina! – gli abbia procurato il suo primo esaurimento nervoso. Ma di questo non c’è conferma negli annali della mia famiglia, una famiglia sconosciuta come la mia non possiede annali e quel poco che si sa della sua storia è dovuto a quella ricostruzione apologetica del passato che si fa a posteriori – intra moenia, per così dire – in occasione di matrimoni, funerali e vertenze interne. Il resto sono fotografie e filmini di vacanze o, se non ci sono le vacanze, filmini di compleanni e nulla più. Così, come accadrà o sarà accaduto sicuramente anche in tutte le famiglie, questa memoria è un volume incerto tramandato a voce e distorto dagli interessi dei singoli che tirano la coperta dalla propria parte, richiamando alla mente solo quello che gli fa comodo e quello che è scomodo che serve per litigare. Tanto che le uniche testimonianze scritte che riguardano l’economia quotidiana di una famiglia normale, a parte le bollette, sono i diari dei figli e delle figlie adolescenti, più numerosi quelli delle femmine, per la verità, di quelli dei maschietti, che a suddetta età, come si sa, hanno di ben altro da fare che riflettere davanti a carta e penna. Diari simili sono documenti che non di rado finiscono per rivelare taluni aspetti delittuosi del vincolo familiare del tutto sconosciuti in superficie e che emergono soltanto in occasione di un omicidio o di una scomparsa. Ovviamente anche io ne tenevo uno e da subito lo considerai una nobile forma di letteratura infantile nonché un modo per entrare nella storia, a dire che c’ero io, utile un giorno certa20
mente, a percorrere retroattivamente la mia presenza nel mondo, almeno così pensavo allora. E però fui costretta a distruggerlo perché mio padre, leggendolo di nascosto e quotidianamente, lo stava trasformando in un testo di cronaca nera annunciata, utilizzandolo come reperto preventivo di criminologia giudiziaria, in modo non dissimile da quanto si fa oggi nei casi gravissimi che riguardano giovanissime donne assassinate. Mio padre può a buon diritto ritenersi un’avanguardia storica in questa criminologia, poiché scrutava tra le mie parole di adolescente bambina i delitti possibili per stroncarli sul nascere. Fu anche così che la mia prima idea di intimità fu compromessa. Non accadde tutto a causa di quel diario, però di certo coincise con quell’evento la prima attendibile ricostruzione del regime al quale mi sentivo sottoposta in qualità di bambina, nella famiglia in cui ero nata. Retroattivamente mi parve un dominio pieno e incontrollato, come chiamò Aldo Moro la sua prigionia nelle mani delle Brigate Rosse.
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