Anatomia di una rivolta

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Agnese Grieco

Anatomia di una rivolta Andreas Baader, Ulrike Meinhof, Gudrun Ensslin. Un racconto a pi첫 voci


www.saggiatore.it Š il Saggiatore s.p.a., Milano 2010


1. Il potere dell’immaginazione?

All’improvviso il cielo sullo schermo si riempie di mobili, soprammobili, libri, abiti, elettrodomestici. Il frigorifero. La lavatrice. Il televisore. Con l’immagine del presidente Nixon impegnato a tenere uno dei tanti discorsi alla nazione. Scagliati da una forza incontenibile, gli oggetti, belli come non sono mai stati, giusti per il culto e pronti per il museo, si librano nell’aria. Volteggiano al rallentatore, quasi senza peso, come gli astronauti sulla luna. Un attimo prima di esplodere. La giovane protagonista femminile della pellicola ha fermato la sua automobile a quella che potrebbe essere una verosimile distanza di sicurezza. Insieme allo spettatore in sala, si gode le immagini della villa dalla quale è appena uscita, un paradiso di comfort ad alto livello tecnologico, nel cuore della Death Valley, California. E che ora sta saltando in aria. Le cose, nel canto del cigno cinematografico, sembrano finalmente liberare la loro enorme e perturbante forza. Invase da un atomico cupio dissolvi scoppiano «da dentro». Su questa, famosa, scena si chiude Zabriskie Point, il film «rivoluzionario» realizzato in America negli anni settanta da Michelangelo Antonioni, e costato alla mgm milioni di dollari che non riuscì più a recuperare. La fine, l’inizio. Nella lunga sequenza di apertura, Antonioni riprende una riunione politica, fermandosi sui volti dei ragazzi. Guance, occhi, bocche come paesaggi viventi. La percezione di queste superfici, morbide o accidentate, è più importante delle parole pronunciate, dei dialoghi: bloccare le lezioni, occupare il campus universitario, ribellarsi. Davanti


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alla cinepresa le persone sembrano muoversi in modo imprevedibile, o difficile da prevedere. La mimica di un viso è ancora più complessa e differenziata di quanto lo sia la percezione che noi di essa possiamo avere. Le riprese della riunione politica indagano un’origine fisica, materiale – sulla soglia, anche, di una eventuale colpa – dell’azione, del determinarsi in nuce di una biografia individuale. Fuori, all’esterno del campus, l’America, solcata da strade di infinita lunghezza. Tracciato della civiltà moderna, lucido labirinto funerario sotto il sole della California. Il paesaggio urbano, nella sua trama di linee rette e angoli, si contrappone alla mobilità degli sguardi, alla tenerezza delle guance, alla dolce o ottusa impermeabilità dei visi «ancora adolescenti» colti da Antonioni. Le macchine, le case, con gli interni arredati e gli elettrodomestici, i cartelloni pubblicitari, gli stili di vita, i paesaggi urbani, le arterie di comunicazione ubbidiscono compatti a un modello, a un principio d’uso. In Zabriskie Point, nell’immaginare l’ideale città moderna che dovrà sorgere nel deserto, e si tratta di una grande speculazione edilizia, un pool di finanzieri costruttori presenta il progetto utilizzando bambole e testi pubblicitari al posto dei dialoghi. È ciò che meglio corrisponde al modello da realizzare. L’homo oeconomicus è l’ideale umano per eccellenza. Un consumatore informato. Un manichino dotato di un certo, limitato, numero di espressioni possibili. La natura? Una piattaforma abitativa iperfunzionale. Gli uomini veri appaiono anomalie, mutanti. Da eliminare. Se occorre. All’epoca si rimproverò ad Antonioni di offrire un’immagine stravolta e parziale dell’America, di farsi diretto e acritico portavoce della protesta studentesca dell’estrema sinistra, sia made in Usa, sia europea. Lo si accusò di aver creato un’utopia negativa in cui veniva magnificato l’uso della violenza. Il regista si difese. Sostenne che il suo film, un flop al botteghino che tutto sommato deluse anche buona parte della critica, non intendeva denunciare la «vera faccia» dell’America e che, di fondo, la sua non era affatto «un’opera rivoluzionaria» nel senso contingente, e immediatamente politico, che le si voleva attribuire. La metafora, riuscita o meno, è molto più radicale. Più pessimista. Antropologica. Metafisica.


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All’epoca Hannah Arendt in On violence, pubblicato all’inizio degli anni settanta, riflettendo sulla contestazione nelle università in America e in Europa, a proposito della «generazione degli studenti» scriveva: Se a un membro di questa generazione si pongono due semplici domande: «Come vorresti che fosse il mondo da qui a cinquant’anni?» e «Come vorresti che fosse la tua vita da qui a cinquant’anni?», le risposte vengono molto spesso precedute da considerazioni come: «Ammesso che ci sia ancora un mondo», e: «Ammesso che io sia ancora vivo».1

Posizioni poco comprensibili da parte di chi invece aveva alacremente lavorato – e ancora lavorava o credeva di farlo – al realizzarsi del miracolo economico. Attenzione, queste nuove generazioni, ammonisce ancora la Arendt, recano iscritta per così dire nel loro codice genetico la convinzione che «il “progresso” tecnologico porta in molti casi direttamente al disastro». Un oggetto di studio interessante e, tutto sommato nuovo, visto che la generazione nata all’ombra della bomba atomica, insieme alla conoscenza dello sviluppo «suicidale delle armi moderne» ha direttamente ereditato anche, attraverso la generazione dei padri, l’esperienza di «una massiccia ingerenza della violenza criminale nella politica; […] l’esistenza dei campi di concentramento e di sterminio, del genocidio e della tortura, dell’uccisione in massa dei civili in guerra».2 Torniamo al cinema. Da un film d’autore a una «storia vera», come si dice nei talk shows. In Zabriskie Point ai suoi protagonisti Antonioni dà i nomi anagrafici degli attori: Daria e Mark. Dalla realtà alla finzione e ritorno. Come se fosse facile e naturale, quasi necessario in alcuni casi, passare il confine. Daria, la ragazza su cui si chiude il film, l’attrice e performer hippy Daria Halprin, dopo una parentesi di vita in una comune in California, sposerà nel 1972 Dennis Hopper. Smetterà poi di recitare, scegliendo la carriera di terapeuta, tra arti visive, danza e tecniche del movimento. A Mark, il protagonista maschile, l’ex studente canadese Mark Frechette, attore non professionista e scrittore underground, così come nel film, spetta invece un tragico destino. Non ruba, come accade nella sceneggiatura di Antonioni, un aereo per poi restituirlo, cosa che alla fine fanno tutti i veri «bravi ragazzi», né viene ucciso da agenti dell’ordine


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troppo nervosi. Nel 1973, a venticinque anni, Mark Frechette partecipa alla rapina a una banca di Boston. Armato di una Smith&Wesson scarica. Durante l’assalto, prontamente stroncato dalla polizia, perde la vita Christopher «Hercules» Thien, uno dei banditi, amico dell’attore e membro devoto, al pari di Frechette, della comune bostoniana di Fort Hill. Arrestato, Mark Frechette avrebbe dovuto passare quindici anni in carcere. Nel 1975, a ventisette anni, muore invece nel Correctional Institute a Norfolk, Virginia, in cui è detenuto. Causa del decesso, un incidente probabilmente accaduto mentre faceva degli esercizi di sollevamento pesi. La mattina del 27 settembre, un compagno di Frechette scopre il corpo senza vita del giovane, schiacciato sotto un peso di 68 chili che gli sarebbe sfuggito dalle mani, sfondandogli il torace. Nonostante qualche lacuna riguardo alla ricostruzione dell’accaduto, il legale di Frechette ritiene improbabile l’ipotesi di un assassinio maturato all’interno del carcere. La versione ufficiale e la meccanica della morte non destano sospetti. È vero piuttosto che negli ultimi tempi il giovane aveva dato segni di forte depressione e da alcune settimane aveva praticamente smesso di mangiare, dimagrendo terribilmente. L’anniversario dell’assalto alla banca di Boston e della morte dell’amico Christopher «Hercules» Thien, sembravano turbarlo alquanto. Allora, all’epoca dei fatti, commentando il suo gesto criminale avrebbe detto: «Faccio quel che devo fare». «Perché se ti addormenti, come la maggior parte della gente in questa società, sei un uomo morto del cazzo.»3 Per non morire. Sui cartelloni di Zabriskie Point resta la figura snella, lo sguardo chiaro, malinconico e irriverente di Frechette, i tratti delicati. Un’icona minore, se pensiamo a James Dean. Eravamo occupati da immagini di film, poiché percepivamo la realtà stessa come apparato scenografico, come falsa recita e la politica come messa in scena mediale e manipolazione, che toccava a noi spezzare, con atti provocatori – della cui efficacia leggevamo poi di nuovo nelle reazioni dei media. Uno dei primi gruppi di rivoluzione culturale, a cui appartenne anche Rudi Dutschke, nel 1965 si diede il nome – solo apparentemente ironico – di Viva Maria! (dal film del regista Louis Malle con Brigitte Bardot e Jeanne Moreau). Molti di coloro che poi scivolarono nel terrorismo hanno raccontato che tutto all’inizio era apparso loro «come un film», un giallo,


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un thriller politico o un western all’italiana, dipende dal carattere. […] Quel contatto immaginario con la «storia vera», che noi febbrilmente cercavamo, rappresentava una fuga dalla insopportabile leggerezza di quello che era il nostro mondo, di cui non ci fidavamo. Andavamo all’indietro verso l’epoca delle guerre mondiali e delle guerre civili che ci sembravano molto più reali e presenti. E andavamo fuori, nell’arena del mondo, in cui da tempo era in atto una rivoluzione radicale – la domanda era solo se c’eravamo anche noi oppure no.4

Così scrive Gerd Koenen, storico e testimone dell’epoca, nell’introduzione al suo testo Das rote Jahrzehnt, sui dieci anni (1967-1977) di rivoluzione culturale in Germania. Una delle prospettive possibili.

In principio era l’azione Il 4 aprile 1968 Andreas Baader insieme alla sua compagna Gudrun Ensslin vengono arrestati alle dieci di sera in un piccolo appartamento di Francoforte sul Meno. Con loro, due complici. L’accusa è di aver organizzato un attentato dinamitardo avvenuto la notte tra il 2 e il 3 aprile. In due grandi magazzini della città – Schneider e Kaufhof – sono scoppiate bombe incendiarie a orologeria. I danni agli edifici appaiono di una certa entità. Il fatto ha una grande risonanza. A ben guardare, l’azione dimostrativa contro «la tirannia delle merci» e la «coazione a ripetere che rende schiavi i consumatori» non sembra preparata e portata a termine con particolare cura. I contestatori incendiari hanno agito in modo poco professionale. Baader, per esempio, raccontava a tutti di lavori preparatori e sopralluoghi, come se il gruppo volesse girare un film, cercasse locations, ricorda l’amico e poi testimone al processo Jochen Drews. Monaco. Qualche giorno prima dell’attentato: mi vengono a trovare Gudrun Ensslin, Andreas Baader e Thorwald Proll. Non avevano un’aria particolarmente simpatica. Soprattutto Gudrun Ensslin mi fece una strana impressione – con lei era ormai diventato impossibile discutere usando argomenti razionali – era assolutamente decisa a seguire la linea dura, insieme a Baader. Citavano il film di Godard con


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Belmondo – con tutto il suo coté romantico – Pierrot le fou. L’eroe solitario rompe con la società borghese. Una strada senza ritorno. Totalmente ingenui. La sera, prima che ripartissero da Monaco per Francoforte, Baader mi ha detto: «Adesso Pierrot le fou lo facciamo noi!» Più o meno: «Glielo facciamo vedere noi, adesso!».5

Così Margita Haberland, che si trovava a Monaco, impegnata nella messa in scena di un pezzo di teatro musicale, ricorda una visita del gruppo in viaggio verso Francoforte a fine marzo. Amica di Gudrun Ensslin, Frau Haberland ebbe l’impressione che la si volesse conquistare alla causa. Senza successo. A Francoforte, la sera del 2 aprile, per festeggiare l’evento e seguirne l’effetto, il quartetto si riunisce al Café Voltaire: tutti appaiono di ottimo umore. E chiacchierano incuranti di chi li ascolta. Si sono tagliati e tinti i capelli, impossibile non accorgersene. Poco dopo lo scoppio degli incendi una voce femminile, probabilmente si tratta di Gudrun Ensslin, comunica per telefono alla Deutsche Presseagentur: «Kaufhof e Schneider bruciano. Se la cosa vi interessa, posso dirvi che si tratta di un’azione di vendetta politica».6 Per la novella coppia Ensslin/Baader – Gudrun Ensslin si è lasciata alle spalle l’ex fidanzato e marito mancato Bernward Vesper e il figlio Felix di pochi mesi – la spedizione francofortese doveva essere una specie di viaggio di nozze. Avevano pensato di proseguire il viaggio, dopo la fermata a Francoforte, alla volta della Francia o forse del Nord Africa. Erano partiti da Berlino su una Ford Fairlaine bianca, grande come un transatlantico. L’automobile li lascerà per strada più o meno all’altezza di Salisburgo. Una panne improvvisa. A mettere fine all’avventura rivoluzionaria a Francoforte è una telefonata anonima alla polizia, in cui viene fornito l’indirizzo esatto del rifugio dei membri del gruppo. A tradirli il diciannovenne Gerhard Neubieser compagno dell’amica che li ha ospitati, insospettito e infastidito da alcune allusioni e dall’euforia del quartetto.7 Forse spera di incassare la somma di 50 000 marchi,8 la ricompensa prontamente promessa dalla polizia a chi fosse stato in grado di fornire indizi sul caso. Insieme a Baader e alla Ensslin vengono arrestati Thorwald Proll e Kurt Söhnlein, reclutato poco prima a Monaco. I quattro stavano per lasciare il quartiere clandestino.


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Per le commesse di Schneider l’identificazione degli attentatori non presenta grandi difficoltà. All’imbrunire di quel 2 aprile, raccontano le testimoni, Andreas Baader e Gudrun Ensslin erano stati ampiamente notati dal personale. Indossavano la tipica uniforme da studenti di sinistra. Giacche dall’aria vagamente consunta e jeans di velluto? A imprimersi nella memoria delle commesse è soprattutto il fatto che la donna, Gudrun Ensslin, indossasse i pantaloni. E a chi mai viene in mente di entrare in un serio ed elegante grande magazzino poco prima della chiusura, di corsa, ridendo, precipitandosi verso la scala mobile, ormai non più in funzione, data l’ora? Per di più con in mano una borsa, che a quel punto non può non acquisire immediatamente un’aria sospetta. Saranno ladri, pensano le commesse. In Germania le incursioni dei contestatori nei templi sacri del consumismo segnano con piccoli momenti di gloria la storia recente. Nel periodo natalizio del 1966, per esempio, alcuni membri della Kommune i di Berlino,9 «travestiti» da normali passanti, davanti a un grande magazzino avevano dato fuoco a un albero di natale «americano» e alle teste di gesso dei presidenti Johnson e Ulbricht. Un happening da strada o azione di disturbo. In quell’occasione, la polizia aveva poi finito per arrestare un certo numero di comuni cittadini, intenti a far acquisti per le feste. Con l’accusa, nel caso, di reato d’acquisto? «Mostriamo, divertendoci, quanto siano folli le immagini dominanti e i modelli che reggono questa società.»10 Così proclama la Kommune i. Rudi Dutschke, Rudi il Rosso, invece, più politico, sceglie all’epoca un’altra strada. Cerca di far nascere «nei grandi magazzini gruppi di base antiautoritari in grado di sostenere, al di là dei sindacati ufficiali, una lotta per ottenere migliori condizioni di lavoro».11 Di costruire un fronte interno dei lavoratori. Il progetto fallisce. Costretto a riconoscere che anche di fronte alla richiesta del Senat di Berlino di prolungare gli orari dei grandi magazzini nel centro della città nel fine settimana, le maestranze non protestano affatto, perlomeno pubblicamente. Dutschke autocritico commenta: Per la prassi politica dell’opposizione extraparlamentare la situazione appariva ambivalente. Nelle persone coinvolte erano presenti da un lato un forte malessere e proteste individuali rivolte contro l’azione del Senat


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cittadino, d’altro canto però nei grandi magazzini non esistevano veri gruppi di base antiautoritari, avanguardie autodefinite, che ci avrebbero potuto coinvolgere per costruire un sostegno di massa. Il risultato fu perciò «un’azione di rappresentanza» all’interno della quale erano presenti elementi autoritari. Noi abbiamo fatto irruzione in massa nei grandi magazzini, distribuendo volantini. E con questa azione siamo più o meno riusciti a bloccare il normale ritmo delle vendite, incontrando molta simpatia da parte delle forze vendita.12

«In questo modo» conclude Dutschke, «si è perlomeno temporaneamente attentato alla normale accumulazione del profitto.» Né più né meno. La logica del profitto: in un noto fumetto art-pop, il grafico autodidatta Alfred Meysenbug (all’anagrafe Karl Albert Baron von Meysenbug) in quegli anni si divertiva a descrivere la trasformazione e l’irresistibile ascesa della commessa dei grandi magazzini Jolly Boom. Applicando nella vita privata le tecniche manipolatorie imparate svolgendo il suo mestiere, la donna arriva al successo: «Sì! Era proprio una brava commessa, alla fine è riuscita a vendersi bene!».13 Ritorniamo agli incendiari. Ben lontane dalla satira, le tetragone commesse del grande magazzino Schneider di Francoforte testimoniano alla polizia, come da verbale, di non essere abituate a vedere «figure del genere» in un grande magazzino: «È stata soprattutto Gudrun Ensslin a colpirle, i lunghi capelli biondi con le mèche, lo sguardo simile a quello di una maschera, gli occhi infossati – kajal? – e il busto relativamente piatto».14 Descrizione in cui oggi lo sguardo sociologico di Sarah Hakemi e Thomas Hecken crede di riconoscere la mentalità decisamente piccolo borghese di quelle commesse del Sessantotto che consideravano segno di sospetta «decadenza» e intenti delinquenziali «il look controculturale di Gudrun Ensslin che oggi è da tempo la norma per la maggior parte delle manneques e delle loro seguaci, non importa di che strato sociale».15 Sia come sia, le commesse avevano visto giusto. Nell’auto degli arrestati, la polizia rinverrà una busta con materiale identico a quello utilizzato per costruire le bombe incendiarie scoppiate da Schneider e al Kaufhof. Tra gli effetti personali della Ensslin e Söhnlein


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(fondatore dell’Action Theater, che a quei tempi contendeva al gruppo di Fassbinder lo scettro del teatro off di Monaco), ci sono appunti riguardanti le componenti chimiche necessarie alla fabbricazione di bombe incendiarie, nonché il modo di mescolarle. Come se non bastasse, arriva il «coming-out politico/letterario», con parole d’ordine che finiranno prontamente sui giornali. In una borsa di pelle che apparteneva a Thorwald Proll venne ritrovato, insieme a una pallina di hashish, un quaderno di appunti. In esso sono contenuti versi che rivelano gli scopi «rivoluzionari e terroristici degli incriminati», sottolinea il resoconto della polizia. Il componimento poetico, redatto nel più tipico stile maoistico dadaista dell’epoca, così suona, secondo la trascrizione ufficiale: Distruggete il capitalismo Distruggete il sistema capitalistico Viva la rivoluzione mondiale socialista Quando brucia la Porta di Brandeburgo Quando bruciano i grandi magazzini di Berlino Quando bruciano gli Hamburger Speicher Quando cade il Cavaliere di Bamberga Quando stinge la pelle lavorata a Offenbach Quando non ce la fanno più gli Usignoli di Ulm Quando rigurgita l’imbuto di Norimberga Quando crolla il duomo di Colonia Quando ammutoliscono i Bremer Stadtmusikanten Quando crollano le banche…16

Va da sé che il catalogo di varia germanità che Proll si augura veder crollare ha ampiamente superato la prova del secondo millennio. Anche i vari monumenti cittadini, come i magazzini del porto ad Amburgo, divenuti oggi spazi ambiti nel nuovo progetto di ristrutturazione architettonica del quartiere, o il severo cavaliere del Duomo di Bamberga, in cui il nazismo aveva voluto riconoscere una personificazione dello spirito ariano, non sono crollati o andati a fuoco. Gli Usignoli di Ulm, un noto coro di bambini, godono tuttora di ottima salute, mentre il rinascimentale imbuto di Norimberga continua a fare riflettere, chi lo voglia, su insidie e possibilità offerte dai metodi della pedagogia applicata e i Bremer


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Stadtmusikanten usciti dalla penna dei fratelli Grimm ripetono imperterriti, come sottolinea Zuckmeyer nel suo Hauptmann von Köpenick, che «qualcosa di meglio della morte la trovi dappertutto». Anche le famose concerie e fabbriche di scarpe dell’orgogliosa cittadina di Offenbach non hanno smesso di produrre. Nell’appartamento di Francoforte in cui vengono arrestati i membri del gruppo, il cestino della carta straccia riserva un’ulteriore sorpresa, un foglietto sempre di Proll, nelle foto d’epoca riconoscibile per i grandi occhiali con le spesse lenti, su cui si trovano degli appunti ancora più espliciti e «probanti»: Noi daremo fuoco ai grandi magazzini fino a quando voi non la smetterete finalmente di comprare. […] Contro il terrore del consumo, noi esercitiamo il terrore sulla merce. […] Voi avete cominciato – Noi non cominciamo, mettiamo la parola fine.17

Gli incendi a Francoforte seguiti nella notte da una folla di curiosi, hanno provocato più danni di quello che forse immaginavano gli stessi autori dell’attentato. Non solo: il «non coinvolgimento di persone», la clausola implicita da rispettare secondo la strategia tipica della maggioranza dei gruppi della contestazione, ha quasi rischiato di saltare. Gli attentatori non lo sapevano, ma nonostante l’ora tarda per cui era programmata l’esplosione, nel Kaufhof era al lavoro una squadra di operai. Sul tema di una soglia nell’uso «legittimo» della violenza riconducibile allo spartiacque esistente tra l’accettazione di una possibile distruzione di beni e oggetti materiali e l’inaccettabile danneggiamento eventuale di individui, il movimento studentesco (americano ed europeo) da tempo discute e si divide. L’incendio di Francoforte mostra, senza conseguenze tragiche, come sia difficile circoscrivere la violenza, prevederne e neutralizzare i reali effetti possibili. Il pronto intervento dei pompieri salva la squadra di operai, presente nel grande magazzino, che all’improvviso si era trovata di fronte una parete di fuoco. Alla fine i danni risultano solo materiali. Le assicurazioni pagheranno 282 339 marchi nel caso di Schneider e 390 865 marchi per i danni al Kaufhof. Gli arresti catapultano i nomi e le immagini dei quattro contestatori incendiari su tutti i giornali. La sinistra tedesca studentesca


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ed extraparlamentare prende immediatamente posizione. L’Sds, il Sozialistischer Deutscher Studentenbund (Lega tedesca degli studenti socialisti) – che proprio il giorno dell’attentato organizzava a Francoforte un congresso a cui i quattro attentatori hanno tra l’altro partecipato – prende subito le distanze dall’azione, definendola «atto non politico». Con i contestatori incendiari, il movimento studentesco ufficiale non vuole essere confuso. Direttamente da Berlino, la città da cui è partito il piccolo commando, arriva invece un segnale di natura diversa con cui si rivendica quantomeno il diritto di esistenza per un’altra definizione implicita della sfera del «politico». Il gruppo della Kommune i, con una buona dose di calcolata ambiguità, dichiara di provare comprensione per la «situazione psichica» che spinge singoli individui ad arrivare all’utilizzo di un mezzo come quello dell’incendio doloso. Non va dimenticata la prospettiva internazionale: gli attentati incendiari sono un mezzo di espressione e protesta politica ampiamente usato, per esempio, dai neri americani.18 Curiosità letteraria: che un grande magazzino tedesco vada in fiamme viene immaginato in un romanzo del 1909, Warenhaus Berlin, di Erich Köhrer. In questo caso l’azione matura però in terreno culturale conservatore e si configura come una presa di posizione morale contro il progresso, distruttore degli autentici valori umani. Nel romanzo è lo stesso proprietario del grande magazzino a dar fuoco alla propria demoniaca creatura, una volta realizzato quale sia il vero potere di corruzione di quel «miscuglio spietato di pietra e pizzi e vetro e velluto e ferro e biancheria e vestiti e cappelli». Il moloch consumista con i suoi templi corrompe il mondo e a lui, al capitalista, ha rubato l’amore della moglie, che, vittima delle seduzioni del lusso, «fedifraga diviene».19 Internamente il gruppo della Kommune i giudica il dilettantismo dell’azione incendiaria francofortese con toni decisamente più negativi: «quella gente voleva andare in galera».20 A ben vedere la vicenda è ancora più complessa. Nella biografia che Klaus Stern e Jörg Herrmann dedicano ad Andreas Baader leggiamo come Dieter Kunzelmann in persona, guru della Kommune i, avrebbe bloccato a Berlino i preparativi di Ensslin e Baader per un attentato dinamitardo al KaDeWe, il più famoso grande magazzino della città, nella Tauentzienstrasse. «Se fate una cosa simile, io vado alla polizia» avrebbe minacciato Kunzelmann durante una riunione con altri membri della Kommune i in cui Baader


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esponeva il suo piano.21 Anche l’allora compagna di Baader, la pittrice Ello Michel, insospettita dall’andirivieni di gente e dal lavorio con cavi, detonatori e polvere nel suo – spaziosissimo – appartamento, avrebbe minacciato di andare con i figli, quindi anche con Suse, la figlia di Baader, a fare shopping proprio nel luogo previsto per l’attentato. Non ricorda con precisione la data, probabilmente tra il gennaio e il febbraio 1968. «C’era nell’aria l’idea di organizzare un’azione al KadeWe. Allora io ho detto che se loro lo facevano, quel giorno io sarei andata lì con i due bambini (Suse e Robert) a fare compere.» 22 Bommi Baumann 23 aggiungerà in proposito: «È chiaro che nell’appiccare il fuoco di fondo a essere in gioco c’è anche una questione di concorrenza. Il fine è guadagnarsi la posizione di avanguardia. L’avanguardia si fa da sé (Che Guevara). Chi è in grado di portare a termine le azioni più forti, detta poi la linea».24

«Burn ware-house burn» Una strada in un quartiere un tempo borghese. Una casa che risale al Grunderzeit, un appartamento per dame e gentiluomini di sangue. Qui passiamo i giorni della comune. Può darsi che bussi nelle teste e con le teste si può bussare, entra, i comunardi si presentano. Mani in alto: lei sta guardando nel foro d’uscita di un’esistenza in collettivo!

Così Peter-Paul Zahl, in Die Glücklichen. Schelmenroman,25 avverte il lettore che sta per avventurarsi letterariamente insieme a lui nel mondo dei novelli comunardi berlinesi. Qui la strada dritta e larga, per ampi tratti orlata da case con giardinetti sul davanti. Qui eliminiamo il grigio, qui dipingiamo i muri di bianco e di ocra tenue. Verde scuro e oro. Qui diamo di nuovo ai lavoratori una casa, un quartiere, in cui vale la pena di vivere. Qui lavoremo con le sabbiatrici, riscopriremo le nobili proporzioni dei piani, l’armonia di porte e finestre, le decorazioni ricche e divertenti e piene di fantasie dei davanzali.


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E ancora, riguardo a quel che accade e verrà raccontato: Il capitolo vii dice quello che mangiamo, leggiamo, ci sussurriamo all’orecchio; i vicini si dimostrano tolleranti, i giornali di regime partoriscono un topolino; compare un proletario modello e lo si sottopone a critica; si traccia una carta dei quartieri generali delle sottoculture. Imbarazzi, i muscoli si annodano, una lettera va in fiamme. Erezioni e magia: una pillola viene eliminata dal gioco. […] Comunardi a spasso, un gi si trasforma in un africano, un pezzetto della diabolica droga chiamata cannabis cambia proprietario, il resoconto di un informatore precipita in preoccupazioni esistenziali i signori del grigio mattino. A furia di essere innocui si rischia di morire di fame. Dice Walter Benjamin: «Al racconto rimane attaccata la traccia di chi narra come sul vaso la traccia della mano del vasaio».

La dinamite, «sostanza simbolica del tardo diciannovesimo secolo» ricorda Enzensberger,26 scoperta da Alfred Nobel nel suo laboratorio di Stoccolma, ha nella storia d’Europa ampiamente dimostrato la sua straordinaria capacità di ottimizzare gli sforzi comunicativi di eventuali contestatori. E terroristi. L’incendio ai grandi magazzini di Francoforte potrebbe essere visto come «un passo avanti» rispetto alle azioni con cui i comunardi berlinesi avevano fino a quel momento movimentato la vita della Repubblica federale tedesca. Proviamo invece a fare «un passo indietro». Al centro della discussione sulle modalità di manifestazione del dissenso giovanile, sullo spartiacque tra legalità e crimine, realtà e immaginazione, troviamo un evento mediatico che acquisterà ben presto la forma di una vera e propria performance giudiziario/teatrale. All’insegna dell’improvvisazione e del divertimento. L’evento si presenta all’inizio con il carattere drammatico degli incidenti pubblici. Nei grandi magazzini A l’Innovation di Bruxelles, un imponente edificio art nouveau, il 22 maggio 1967 scoppia un terribile incendio. Il bilancio delle vittime è di 251 morti e centinaia di feriti. Cordoglio nazionale, indagini sull’accaduto, attenzione della stampa a livello internazionale – quali sono state le cause dell’incidente? La polizia belga non identifica nulla che possa far pensare a una qualsivoglia origine dolosa. I giornali sono pieni di articoli sull’evento e i Kommunarden berlinesi decidono di impossessarsi a modo loro della notizia. Pochi


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giorni dopo la tragedia dei grandi magazzini A l’Innovation, alla Freie Universität di Berlino compare una serie di misteriosi volantini. Il primo titola: «Nuove forme di manifestazione sperimentate a Bruxelles». Nel testo, l’incendio scoppiato in Belgio, da incidente si trasforma in atto doloso con movente politico. Un sorta di big happening organizzato da «compagni» che hanno saputo davvero attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sullo scandalo della guerra nel Vietnam. Con la loro azione, questi attivisti sarebbero infatti riusciti a ricreare, nel cuore di una metropoli europea, almeno per una mezza giornata, una situazione paragonabile a quella in cui si trova una città in guerra. «Bruxelles è diventata come Hanoi.» Un grande magazzino in fiamme, pieno di uomini in fiamme, evoca per la prima volta in una grande città europea quella «particolare sensazione vietnamita» (essere lì e bruciare insieme a tutto il resto), che noi finora a Berlino non abbiamo ancora avuto possibilità di provare. […] Per quanto noi si condivida il dolore di chi si è salvato a Bruxelles: noi, che siamo aperti al nuovo, se non oltrepassa la giusta misura, davvero non possiamo nascondere la nostra ammirazione, nonostante tutta l’umana tragicità dell’evento, per il coraggio e lo spregio delle convenzioni, di chi sta dietro all’incendio di Bruxelles.

Pedagogia mediale noir. Il volantino viene redatto in puro stile pubblicitario. Come in quei trailers al cinema in cui un gruppo di ragazzi bianchi – forse però si intravede anche qualche ragazza di colore – prova la sensazione dei Caraibi o delle spiagge brasiliane, e della loro musica irresistibile, grazie a una semplice bottiglia di Batida gelata. Tra i 4000 visitatori del grande magazzino è scoppiato il panico, in centinaia sono stati schiacciati dalla folla, alcuni si sono gettati, ormai torce umane, dalle finestre dell’edificio, o sono morti soffocati dal fumo. La polizia non ha avuto il coraggio di ammettere la matrice politica del disastro, il suo essere una forma di protesta politica, dicono i Kommunarden. Il motivo? La comprensibile paura che una tale ammissione avesse come conseguenza un’ampia radicalizzazione della protesta contro la guerra del Vietnam. Nel terzo volantino dal titolo «Quando bruciano i grandi magazzini


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di Berlino?», i Kommunarden vanno poi oltre e passano dall’interpretazione controinfomativa dei fatti, al messaggio aperto. All’agitazione politica. Fin a ora a crepare in Vietnam per Berlino sono stati gli americani. A noi non sta bene che questi poveri diavoli siano costretti a schizzarre il loro sangue alla coca cola nella giungla vietnamita. Per questo motivo ce ne siamo andati a passeggio portando manifesti per le strade deserte, a volte ci è capitato anche di buttare qualche uovo contro l’Amerika Haus e alla fine avremmo volentieri visto morire affogato nel puddig H.H.H. (Hubert Horatio Humphrey).27 I nostri amici belgi sono riusciti finalmente a escogitare il modo di rendere la popolazione davvero partecipe del divertimento vietnamita: dando fuoco a un grande magazzino, trecento saturi cittadini terminano la loro emozionante esistenza e Bruxelles si trasforma in Hanoi. Nessuno di noi ha più bisogno di spendere lacrime sul povero popolo vietnamita durante la lettura dei giornali, la mattina, a colazione. Da oggi si va nel reparto confezioni del KaDeWe, di Hertie, Woolworth, Bilka o Nechermann e si accende con discrezione una sigaretta nella cabina prove. Se da qualche parte nei prossimi tempi una caserma salta in aria, se da qualche parte crolla la tribuna di uno stadio, vi prego, non lasciatevi prendere dallo stupore. Tanto poco come nel caso di un bombardamento sul centro di Hanoi. Bruxelles ci ha dato l’unica risposta possibile: burn, ware-house, burn!28

In seguito alla comparsa dei volantini la Procura di stato berlinese dà inizio alle indagini del caso. Si arriva al processo. «Ognuno di noi è pronto a finire sul patibolo e offrire la testa al boia per Moleschott e Darwin», sarebbe arrivato a formulare un ottocentesco studente russo nihilista, educato alla luce dell’ideologia tedesca di Feuerbach e Carl Büchner e nutrito dal materialismo delle scienze naturali, racconta, negli anni settanta, Enzensberger, in Politik und Verbrechen. Un proclama ridicolo. Ma il regime dello zar lo prese in parola. «Le condanne a morte testimoniano quanto seriamente.»29 Ai russi del passato la tragedia, a Berlino la commedia, o farsa, di costume. Agli studenti nihilisti il patibolo. Per i tedeschi l’accusa, da parte della Procura, di istigazione a delinquere. I volantini, questa la tesi dell’accusa, conterrebbero l’invito


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esplicito a dare fuoco a spazi in cui notoriamente soggiornano individui, anzi a farlo proprio durante orari in cui membri della popolazione cittadina sono usi frequentare in massa i suddetti spazi. La Procura dello stato è sì costretta ad ammettere che questo appello «finora non ha avuto seguito.» Nonostante ciò si tratta di un atto terroristico in pecto. E come tale da perseguire con rigore.

Realtà e comunicazione Il terrorismo è in primo luogo una strategia di comunicazione, ammoniscono sociologi e studiosi del fenomeno.30 Il valore oggettivo, militare, strategico, o politico in senso tradizionale, di un atto terroristico è relativo, se non inesistente. Naturalmente, il ragionamento sociologico astrae qui dal microcosmo, dall’esistenza, dalla prospettiva e dai sentimenti delle eventuali vittime dell’attentato. Ai cosiddetti «gruppi terroristici» mancano di regola «sia la forza militare sia il consenso nella popolazione necessari per occupare fisicamente un pezzo di territorio ed entrare in scontro diretto con la potenza gli apparati dello stato».31 Altrimenti ci troveremmo di fronte piuttosto, secondo la casistica applicata dagli studiosi del fenomeno, a una guerra civile o ad azioni legate a una qualche forma di resistenza. Che le forme di lotta a volte finiscano per mescolarsi è innegabile, tanto che, per citare una testimonianza collocata all’interno del contesto di discussione tedesco, nel 1985 lo stesso Generalbundesanwalt Rebmann32 riassumendo il lavoro della commissione sul «terrorismo» alla Berlin Conference on the Law of the World sostiene: A livello internazionale non si è potuto finora raggiungere un consenso univoco riguardo a come intendere il concetto di «terrorismo». Fino a oggi rimane materia di discussione quali siano i confini tra terrorismo e scontri a carattere di guerra, aggressioni, rivolte o giusta resistenza da parte di popoli e gruppi di popolazione.33

Tuttavia, se il termine terrorismo si configura come incerta questione di definizione, esiste comunque la possibilità di identificare un particolare


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carattere terroristico nel concepimento delle azioni. Attacchi terroristici seguono in genere un piano ben preciso e circoscritto e traggono origine dall’underground. Terrorismo è la strategia di lotta preferita da bande violente relativamente piccole e «deboli», rappresenta la forma estrema di quello che nella letteratura recente viene definito come «costellazione conflittuale asimmetrica».34 Se è possibile identificare un terrorismo di stato e di regime, tanto che il termine terrorismo nella sua origine andrebbe a rigore fatto risalire a la terreur instaurato dal governo nella Francia rivoluzionaria tra il maggio 1793 e il giugno 1794, va sottolineato come il terrorismo di stato intenda per lo più mantenere una situazione di dominio e potere. Questo terrore di stato «d’altro canto non può applicare nei confronti della propria popolazione vere e proprie strategie terroristiche».35 Perlomeno direttamente. Ha altri mezzi a disposizione. Il vero significato di un atto terroristico e il suo scopo vanno ricercati non sul piano strategico o militare o politico, ma sul piano comunicativo, connesso all’origine dell’atto stesso. A differenza del guerrigliero a cui interessa conquistare dello spazio fisico, il terrorista intende «conquistare il pensiero».36 L’atto terroristico vuole essere azione da interpretare, portatrice di un messaggio. Ha bisogno di interlocutori, e spettattori, ha bisogno di commento e amplificazione mediatica. Scalfire o addirittura mettere in crisi la sicurezza di sé del nemico, sottolineare pubblicamente, se pure su un piano locale – ma potenzialmente sempre più esposto, centrale, fino al «cuore dello stato» – la sua vulnerabilità di fatto. Evocare la sensazione di una presenza invisibile in grado di intervenire nel territorio nemico in modo imprevedibile e inaspettato. Azioni al di sopra della morale, guidate da una logica parallela e latente, gli attacchi terroristici non rispettano nessuna convenzione umanitaria; si collocano oltre ogni sanzione morale e giuridica. Anzi spesso a caratterizzarli è un particolare arbitrio.37 Come un giano bifronte l’atto terroristico si deve dimostrare capace anche di veicolare, al di là del potenziale di distruzione, un paradossale messaggio positivo, di rottura e di speranza. Capace all’occorrenza di risvegliare o catalizzare forze e insoddisfazioni silenti. Messaggio ellittico in cui anche la morte programmata, o il suicidio, si dovrebbero volgere a favore della vita. In nome del futuro.


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Esperimento mediale L’evento di Bruxelles nella falsificazione e messa in scena del gruppo berlinese soddisferebbe sulla carta tale canone. I tutori dell’ordine hanno allora ragione? Qual è il vero scopo del macabro esperimento mentale dei comunardi? Sono riscontrabili in esso i termini per una punizione legale? Una commissione di noti intellettuali e professori della Freie Universität di Berlino tra cui Peter Szondi, Taubes e Wapnewski, chiamati a giudicare l’azione, pur esprimendo in merito giudizi duri – che vanno dal mero cattivo gusto, al piacere per la provocazione di carattere prettamente adolescenziale – assolverà da un punto di vista giuridico i colpevoli, proponendo una lettura dell’azione in chiave letterario/satirico/dadaista. Coinvolti da Horst Mahler l’avvocato che difende nel processo i comunardi Fritz Teufel e Rainer Langhans, i professori della fu citano il sogno surrealista dell’«annientamento totale» come finzione poetica diretta contro la morale dei filistei. Günther Grass nota a margine che «non c’è ragione di considerare queste espressioni di giovani confusi, a ben guardare già abbastanza in là con gli anni, istigazioni serie “e da prendersi sul serio” ad appiccare il fuoco». I comunardi scherzano e di conseguenza non vanno puniti? Nell’immaginazione, nel pensiero, nella scrittura e nei sogni, possiamo uccidere chi vogliamo, senza per questo incorrere in sanzioni di sorta. Il regista Alexander Kluge, anche lui innocentista, intervenendo nel dibattito contestualizza l’happening mediatico, riconoscendo nella retorica dei volantini l’applicazione diretta di «uno dei metodi riconosciuti dalla letteratura moderna: i comunardi utilizzano paragoni vicini al mondo dei lettori allo scopo di radicalizzare qualcosa che essi ritengono ingiusto, ma a cui la fantasia dell’umanità sembra essersi abituata».38 Dietro l’azione una domanda: come si combatte contro l’indifferenza e l’assuefazione? E come si riattiva il sentimento morale? Come superare un senso opprimente di impotenza? Non certo moltiplicando le notizie, con un surplus di informazione. Senso comune, indifferenza, senso delle parole. Strategia di comunicazione. Il tribunale tedesco proporrà, seriamente, per gli indiziati perizie psichiatriche a cui i comunardi, tra i prevedibili applausi del pubblico presente in aula, rifiuteranno di sottoporsi. A meno che l’esimia corte giudicante non accetti di fare altrettanto. L’aula del tribunale berlinese di Moabit in cui si


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svolge il processo finisce presto per trasformarsi in palcoscenico. E stralci dagli atti del dibattimento processuale contro i comunardi circoleranno per il paese montati in una specie di pièce teatrale trash dal titolo Klaue mich!, «la soap opera di Moabit». Da questo sgangerato collage anarcolibertario, pubblicato in un libretto semiclandestino a cura di Rainer Langhans e dello stesso Fritz Teufel, attingerà poi ampiamente in un suo spettacolo Werner Fassbinder, allora regista, pressoché sconosciuto, di Monaco.39 Qualche esempio dal protocollo/pièce. Il giudice Schwerdtner domanda all’imputato Fritz Teufel riferendosi al testo dei volantini incriminati: Schwerdtner: Quindi è vostra intenzione dimostrare contro la guerra del Vietnam… Teufel: Non solo. Dimostriamo anche contro la stato di saturazione e di soddisfazione di sé. Schwerdtner: Ma chi è saturo? Teufel: Se vogliamo, la cosa può essere anche formulata altrimenti. I tedeschi sono un popolo a modo, democratico, amante della libertà e operoso. È pur vero che hanno ucciso una gran massa di ebrei, ma in compenso oggi gli arabi vengono uccisi con armi di marca tedesca. Una specie di risarcimento dei danni. E così più negri e gialli crepano nei loro paesi e meglio stiamo noi.

Un inciso, stando alla biografia che Carini ha dedicato a Fritz Teufel, la frase finale riporterebbe la posizione sostenuta un giorno dal padre dello stesso imputato. Andrebbe aggiunto solo il colorito della parlata sveva. Schwerdtner: (turbato) Ma lei non sta parlando sul serio. (Risate in sala) Teufel: Ma certo, invece…

Un altro scambio di battute: S chwerdtner : E se a qualcuno fosse venuto in mente di mettere in atto quello che è scritto nei volantini? Se avesse davvero acceso una sigaretta nella cabina di prova di un qualche grande magazzino? Teufel: Devo dire che a nessuno è passata per la testa un’idea simile – se


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escludiamo il signor Pubblico Ministero. Però poi neanche lui l’ha fatto. Ha preferito stendere piuttosto un atto d’accusa.40

Il giudice Schwerdtner continua tetragono il suo interrogatorio, veleggiando verso l’assurdo. Dalla constatazione dell’innegabile fatto che i volantini si servano ampiamente del linguaggio tipico della pubblicità, egli deduce che per forza di cose – una prova indiziaria! – i comunardi volevano davvero istigare i lettori a delinquere, spingere ad appiccare il fuoco. La semplice e nota logica nel mondo dei consumi: «Se si fa della pubblicità, è evidente che si vuole ottenere qualcosa».41 Alla necessità pubblicitaria non si sfugge. Il pubblico ministero Kuntze cerca invece di entrare nel merito del dibattito e domanda: «Se da noi si riuscisse a raggiungere una più profonda comprensione della situazione in Vietnam, in Vietnam cambierebbe poi davvero qualcosa?». «In Vietnam no, ma qui da noi sì» è la risposta di Langhans.42

«Se serve alla scoperta della verità…» Nella compagnia amatoriale dei Kommunarden di Berlino con la farsa di Klaue mich! si può considerare emersa la figura di un clown politico: Fritz Teufel, ovvero Fritz Diavolo. E non si tratta di uno pseudonimo. La folta barba incolta, riccioli e occhialini tondi, quando non indulge a travestimenti da attore dilettante, Teufel rappresenta al meglio quello che i benpensanti di allora avrebbero potuto e dovuto definire un tipico «sottoprodotto» dell’università. Arrivato dalla Svevia a Berlino nella primavera del 1963, Teufel si è iscritto alla facoltà di Filosofia della Freie Universität, per seguire i corsi di Pubblicistica, Germanistica e Scienze del teatro. Dall’Università verrà estromesso, cosa che non gli impedisce di vivere a pieno il clima studentesco di quegli anni. Per l’engagement nei gruppi politicizzati in senso stretto e, diciamo, tradizionale – composti da quelli che lui definiva «i comunisti con la cravatta» – non mostra inclinazione alcuna. Anche dall’ala movimentista capeggiata dal teorico Rudi Dutschke, il picaresco Teufel prende ben presto le distanze. Al di là di solidarietà puntuale e singole azioni comuni, le loro strade si dividono. E tuttavia si incrociano. Alla


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luce della condivisa domanda su cosa e come fare (la rivoluzione, naturalmente). La Kommune i è per Teufel un luogo più adeguato, come i collettivi del movimento antiatomico. Teufel «da grande» voleva diventare giornalista umoristico. Comincerà con il passare numerosi anni in prigione. Innocente. Alla fine riconosciuto tale anche dalla giustizia «borghese». Dai banchi degli imputati Teufel è riuscito a guadagnarsi un posto nella storia della lingua tedesca, al paragrafo «elenco delle frasi idiomatiche». È cosa nota: quando la corte entra in aula, il detenuto è obbligato ad alzarsi in piedi, in segno di rispetto. Nel novembre del 1967 in un’aula di tribunale a Berlino all’ingresso della corte, l’imputato Teufel, facendo controvoglia quanto gli veniva intimato, rispose: «Se questo serve alla scoperta della verità…». La scena viene trasmessa durante il telegiornale della sera, le parole dello studente sono riportate anche da The Guardian, Le Monde e dal New York Times. In quell’occasione gran parte della Repubblica federale tedesca rise o sorrise, insieme a Teufel. Attraverso l’esperienza di tribunali e carceri, Fritz Teufel riesce a trasformare davanti a un vasto pubblico il luogo mentale dell’illegalità e della colpa, sancito dai processi, in un palcoscenico improvvisato dove fa capolino una curiosa istanza morale parallela, insieme a un feroce, ma divertito rasoio di Occam applicato alle parole e ai modi in uso nella società.43 Non si tratta solo di critica alla messa in scena dell’autorità. Con la sua ostentata mancanza di rispetto per corti e tribunali, e la sua passione per le battute, Teufel evoca ed esorcizza attraverso l’ironia cupi fantasmi del passato. Se Il giudice di Ernst Wiechert compare nel 1948, ancora nel 1979, secondo Thomas Bernhard, il giudice Hollerer, in Vor dem Ruhestand. Eine Komödie von deutscher Seele, indossata l’uniforme di un tempo, festeggia di nascosto e con alcuni vecchi compagni, il compleanno di Hitler. Mentre Heinrich Böll in un articolo del gennaio 1972 pubblicato da Der Spiegel aveva scritto: Quanti giovani impiegati delle forze dell’ordine e quanti giuristi ancora sanno che criminali di guerra, condannati secondo la legge, sono stati fatti uscire dalle prigioni su consiglio di Konrad Adenauer e non vi sono più tornati? Anche questo fa parte della storia del nostro diritto, e fa


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sembrare espressioni come giustizia di classe così giustificate quanto una teoria dell’esecuzione della pena dettata dall’opportunità politica.44

Il pericolo del totalitarismo sillabato nella cosiddetta normalità, quotidiana e condivisa, nel rispetto delle regole viene alla luce anche nel linguaggio e nelle sue metamorfosi. Come ha ossessivamente mostrato, tra gli altri, Victor Klemperer nei suoi diari (1933-1945)45 della nazificazione progressiva vissuta dal paese di Goethe, analizzata qui da un ebreo orgoglioso, in via di principio, di appartenere alla cultura tedesca. All’epoca Teufel disse che la sua famosa risposta all’intimazione ad alzarsi in piedi gli era venuta spontanea. L’imputato voleva dimostrare la sua posizione critica nei confronti della corte, ma al tempo stesso non se la sentiva di provocare qualcosa di simile a una rissa in aula. In che misura poi la reazione spontanea di Fritz Teufel all’entrata della corte vada al di là della battuta ben riuscita, lo dimostrerà, tempo dopo, un altro processo contro lo studente fuori corso. Settembre del 1975: nel pieno degli anni di piombo, Teufel, insieme alla sua compagna, viene arrestato mentre si trova a Berlino, in un appartamento di Kreuzberg tenuto sotto controllo dalla polizia, che è sulle tracce di terroristi appartenenti al «Bewegung 2. Juni», il Movimento 2 giugno.46 Da mesi Fritz Teufel risultava svanito nel nulla. La sua immagine rientra ormai tra le foto segnaletiche dei ricercati. I tempi sono cambiati. Ora l’accusa per Teufel è di aver preso parte, a vario livello, ad azioni decisamente più gravi dei divertiti happenings comunardi – ossia a due atti rivendicati direttamente da gruppi terroristici: il rapimento di Lorenz e il tentato rapimento del giudice Günther von Drenckmann concluso con l’omicidio di quest’ultimo.47 Oltre a ciò gli viene imputata la partecipazione ad alcune rapine in banca. Secondo polizia e inquirenti, nel giro di qualche anno, Teufel sarebbe quindi diventato un vero e proprio terrorista, vicino alla Raf e membro di spicco del Movimento 2 giugno.48

A-libi e B-libi Materiale per un dramma didattico. Il «povero diavolo», Fritz Teufel, si trova in prigione per una trama di accuse in realtà poco credibili. Il


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testimone principale a suo carico è un collaboratore di giustizia con seri problemi di alcol e memoria. Così mentre Die Welt e il Berliner Morgenpost nel 1976 annunciano che Teufel è un membro importante, se non addirittura il capo del Movimento 2 giugno, in un’intervista a Der Spiegel, il Generalbundesanwalt, procuratore generale federale, Siegfried Buback ammette che, con i risultati emersi dalle indagini forse non si potrà andare al processo. Un solo fatto è certo: al momento dell’arresto nell’appartamento sospetto, Teufel è un cittadino sparito dalla circolazione, in possesso di armi e di documenti falsi. E le sue impronte digitali sono state riscontrate anche in altri «appartamenti cospirativi». Dal carcere berlinese di Moabit in cui è rinchiuso, Teufel, insieme ai suoi avvocati, sottolinea inutilmente le palesi contraddizioni presenti nella ricostruzione dei fatti proposta dall’accusa, tanto quanto la poca credibilità dei testimoni a carico. Altrettanto inutilmente si richiedono regolarmente migliori condizioni di detenzione. Il processo continua mastodontico e faticoso. Poi il colpo di scena. Le coupe de théâtre. Il 27 maggio 1980, al 178o giorno di dibattimento nel processo Lorenz/ Drenckmann, gli avvocati di Teufel convocano la stampa annunciando una svolta sensazionale. Dopo cinque anni di carcere giudiziario, Fritz Teufel, che per l’occasione si è rasato barba e capelli, compare in aula imitando lo stile severo e compassato di giudici e pubblico ministero con tanto di campanella – di carta – nelle mani. Dichiara di essere pronto a mostrare finalmente la vera smorfia del terrore che finora aveva tenuto abilmente nascosta dietro la barba studentesca. Ora dirà come davvero stanno le cose. Contro le accuse che gli vengono mosse possiede un alibi, come si dice, di ferro. Alibi finora taciuto. Nei suoi mesi di «esistenza clandestina», tra l’aprile del 1974 e il maggio del 1975, Teufel non si era avvicinato, come sosteneva l’accusa, ai gruppi del terrorismo armato, entrandone a far parte in un ruolo addirittura di dirigenza. Al contrario, assunta la falsa, certo, ma pulita identità di Jörg Rasche, aspirante operaio non qualificato, Teufel aveva lavorato nella zona della Ruhr presso la fabbrica Presswerk AG. A dire il vero non era stato facile farsi assumere, ricorda Teufel. Data la sua preparazione vagamente accademica, difficile da dissimulare, il direttore del personale in fabbrica avrebbe preferito fargli occupare un posto più qualificato. Nel settore amministrativo, per esempio. Jörg Rasche però rifiuta. Dichiara di


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voler lavorare a tutti costi alla pressa. Il desiderio suscita all’inizio qualche sospetto. Che si tratti di uno di quegli ex studenti che hanno intenzione di indottrinare alla luce del marxismo/leninismo le maestranze? Non sarebbe il primo caso. Di questi tempi. Alla fine del colloquio Teufel riesce tuttavia a ottenere l’assunzione che cerca. Per uno stipendio mensile di circa mille marchi, Rasche/Teufel lavorerà a turni settimanali alternati: dalle 6 del mattino alle 14, dalle 14 alle 22, oppure di notte dalle 22 alle 6 del mattino. Abita nella Helmstrasse 9 in un piccolo appartamento che dà su un cortile interno, a Frintrop, un quartiere di Essen. Ogni giorno si reca in fabbrica con la sua moto. E questo accade anche il giorno del rapimento Lorenz: il suo turno inizia quel giorno alle ore 14. Teufel nomina una dozzina di testimoni in grado di convalidare punto per punto il suo alibi. Si tratta di compagni di lavoro, superiori in fabbrica, dell’addetta alla mensa, di vicini di casa. Tutti «normali cittadini» che è difficile sospettare di connivenza con il terrorismo armato. Cosa ci faceva Teufel/Rasche nel bacino della Ruhr? Voleva capire, «dal basso», dice, come il «proletariato» interpretasse lo scontro politico di quegli anni. Da tempo la «sinistra rivoluzionaria» cercava di discutere criticamente le strategie di comunicazione scelte e di comprendere quale era e quale avrebbe potuto essere il rapporto con il proletariato. In qualità di lavoratore non qualificato, Teufel/Rasche si ritrova automaticamente a contatto diretto con greci, turchi e marocchini. Cosa che da ex studente gli sarebbe stata decisamente difficile. Alla fine il suo si rivela un esperimento istruttivo: Teufel deve ammettere di aver preso parte a discussioni in cui i suoi compagni di lavoro si auguravano di cuore una repressione di «terroristi e contestatori» che intendevano agire in nome loro, ancora più dura di quella già in atto. Ma tutto ciò è materia di dibattito e riflessione per la sinistra, non certo tema di un qualche interesse per giudici e pubblici ministeri. Teufel è «un’avanguardia integrata nel dibattito extraparlamentare». Il suo imspegno è militante, ma non costituisce reato. Le dichiarazioni dell’imputato sono un fulmine a ciel sereno. Come era stato possibile un tale errore nelle indagini? E come aveva potuto reggere la commedia? Dell’alibi di ferro erano a conoscenza solo gli avvocati di Teufel e alcuni, pochi, altri coimputati nel processo. E tutti si erano


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guardati bene dal trattare a voce la questione durante i colloqui in carcere. Dopo i fatti di Stammheim era più che legittimo pensare che i dialoghi tra gli avvocati e i loro clienti politici, in «casi delicati», venissero spiati e registrati. Teufel e i suoi legali – seduti di fronte, un vetro a dividerli – avevano trovato un modo sicuro di comunicare: per mezzo di piccole lavagne. Come quelle che usano gli scolari. Dalle lavagne era facile scrivere e cancellare subito ciò che veniva di volta in volta scritto. Così si poteva dialogare per ore. A grandi passi si arriva alla conclusione del processo. L’alibi risulta confermato punto per punto. L’accusa fa il tentativo estremo di sostenere che l’imputato avrebbe comunque potuto partecipare al rapimento Lorenz, avvenuto a Berlino, prendendo un jet prima dell’inizio del suo turno delle ore 14. L’ipotesi rischia di sfociare nel ridicolo. Ci si concentra su un altro capo d’accusa, ossia la partecipazione a una serie di rapine in banca. Teufel reagisce a modo suo, creando un nuovo «concetto giuridico». Se nel caso Lorenz aveva a disposizione un A-libi, per controbattere ora la nuova accusa, all’imputato non resta che ricorrere a un B-libi, un alibi di qualità più scadente. Il B-libi è una storia, che l’accusato non dimostra e che il tribunale non può contraddire. Sta alla corte (alla sua Bene-Volenza) accettare o meno il B-libi.49 Il suo B-libi in questo caso è che, all’epoca dei fatti imputatigli, si trovava a Colonia alle prese con problemi di dipendenza dalla droga. Teufel invita poi caldamente i giornali dell’editore Springer ad aiutarlo a trovare testimoni che possano confermare la sua versione. In proposito si dichiara ottimista. Per i giornalisti non sarà difficile farlo, dato che «la Procura di stato, con l’aiuto dei media» sostiene l’imputato «era riuscita a scovare ben due testimoni che ritenevano di averlo visto con i propri occhi partecipare al rapimento Lorenz a Berlino, mentre lui in quel momento, come era stato provato, a Berlino non poteva fisicamente trovarsi».50 Perché mai Teufel ha taciuto per cinque lunghi anni di carcere? La risposta dell’imputato è poco giullaresca. Corrisponde piuttosto a una valutazione obiettiva dei fatti. Gli indizi raccolti dalla polizia, spiega Teufel – detenzione illegale d’armi, impronte ritrovate in vari appartamenti sospetti ricollegabili a gruppi terroristici, e possesso di documenti


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falsi – gli avrebbero comunque fruttato una condanna di anni. A questo punto si è «condannato da solo». Ha scontato la pena che più o meno gli sarebbe in ogni caso spettata secondo le leggi vigenti per i reati realmente commessi. Per poi uscire allo scoperto. Dal giallo giudiziario si passa ancora una volta al dramma didattico. Con il proprio silenzio in carcere, Teufel afferma di aver voluto dimostrare pubblicamente come funzionasse «un tribunale tedesco». Novello Candide sostiene di aver realmente pensato, in un primo tempo, che le indagini della polizia, dati i grandi mezzi a disposizione degli inquirenti, avrebbero alla fine portato alla luce i fatti. Un’indagine approfondita avrebbe dovuto per forza far emergere la verità. Che altro? In dubio pro reo, dovrebbe essere la regola aurea. Ma non nella Repubblica federale tedesca, attacca Teufel. E non nel caso di un notorio irregolare irriverente come lui. Per concludere, Teufel cita un altro elemento, certo poco consono alla «mentalità borghese capitalista»: la solidarietà. Il comunardo, tacendo, ha anche inteso stare vicino ai compagni indiziati nel processo insieme a lui. Cosa ci può infatti difendere e aiutare di fronte all’apparato di una giustizia a dir poco non trasparente? Di nuovo libero, Teufel va ad abitare al terzo piano di una casa occupata a Wedding. Il suo appartamento porta il nome di «cucina del diavolo». Chi entra nella cucina ha la possibilità di scrivere sui muri quello che vuole. Collabora con vari giornali, pubblica un libro di fiabe, fonda insieme ad altri una cooperativa di corrieri espressi in bicicletta, orgoglioso di essere, se non il più veloce, almeno uno dei più resistenti del gruppo. Vive anche del sostegno sociale dello stato. Sull’uso della violenza e sulla lotta armata Teufel si è pubblicamente espresso in modo scettico. Da un lato ha sostenuto la scomoda tesi secondo cui la Raf avrebbe effettivamente portato a termine quello che era il suo compito storico: dimostrare come contro la violenza del capitalismo/imperialismo «ci fosse bisogno e fosse possibile una maggiore violenza dal basso». D’altro canto: «Solo una discussione onesta, coraggiosa e ampia riguardo al senso e all’insensatezza della violenza rivoluzionaria può aiutare a proseguire il cammino».51 Non da ultimo per evitare le conseguenze di una mentalità della disperazione. In un’intervista a Der Spiegel Teufel si è raccontato così:


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Esistono forme di protesta che si coniugano con il divertimento. Per esempio mettere in ridicolo le autorità e dimostrare la loro idiozia. Bisogna combattere contro le diverse forme di oppressione, in un modo che non è quello della guerra – che è il modo adottato da chi sta al potere, di chi non sa far altro che rendere più dura la repressione. Quello di cui parlo io è una specie di piccola guerra, in cui si cerca di portare il nemico in un campo dove è possibile vincerlo. Per me la lotta di classe è una guerriglia del divertimento.52

Vero falso, serietà e gioco. Teufel, beniamino dei giornalisti a cui offre ampio materiale ad alto valore di intrattenimento, segna il passo degli anni di piombo in modo carnascialesco e irriverente. Tra sussulti situazionisi e neoreichiani, farse e dinamiche di gruppo, battute su impotenza e sadismo, o masturbazione e liberazione, tra fotografie di deretani nudi e travestimenti in aula, appare in grado di condurci per mano attraverso le fasi più drammatiche degli anni della contestazione e poi del «terrorismo» tedesco. Con la sua voce arriva l’eco di molte altre voci diffuse, e spesso confuse tra loro, senza per questo cadere immediatamente nel teorema legale che vuole opporre fiancheggiatori del terrorismo/terroristi e «contestatori per bene». Nel suo Versuch über die Schwierigkeit nein zu sagen, pubblicato nel 1964, il filosofo Klaus Heinrich, patron dell’Institut für Religionswissenschaft della Freie Universität e figura centrale dell’intellighenzia berlinese, riflettendo sul significato metafisico ed esistenziale dell’opporsi, del «dire di no», mette in gioco la figura di Till Eulenspiegel, del Narr, come nietzschiana maschera e possibile forma di risposta, di resistenza, alla perdita di identità che minaccia gli individui nel maelström della condizione esistenziale contemporanea. Il fool e il terrorista come estremi, opposti. La tecnica di Eulenspiegel è quella antichissima dello straniamento, chiamata da Brecht con questo nome e resa tecnica di un conoscere «performativo» all’interno di una società straniata. […] I ruoli del folle medioevale e antico, così come le immagini del «mondo alla rovescia», offrono una miniera per nulla esaurita di conoscenza «performativa».53

Coinvolto profondamente dal «basso» nel mondo che denuncia, il giullare non possiede l’ironia che deriva dal distacco, dalla superiorità di uno


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sguardo dall’alto. Piuttosto fa venire alla luce il dato materiale. È compromesso con l’aspetto letterale del mondo. Nomina letteralmente – nel paradosso – lo stato delle cose. Nel 2001 a Teufel, cittadino di Wedding, l’ex quartiere operaio di Berlino, viene conferito un premio per il coraggio civile. Enzensberger e l’editore Wagenbach contribuirono alla raccolta della somma. Teufel in quell’occasione ringraziò, sardonico, i figli che non aveva avuto e che quindi gli permettevano, in quel momento, di vivere «nel lusso», ma non fa nessuna dichiarazione politica. Non ne faceva più da anni. E non aveva intenzione ricomparire in scena. Si era ammalato di Parkinson. Nel luglio 2010 i giornali riportano la notizia della sua morte.

Napalm sì. Pudding no. Le performance di Teufel, la «guerriglia del divertimento», in realtà non fanno vero lavoro politico. Questo il parere di Ulrike Meinhof. Alla fine degli anni sessanta era stata lei a mettere in riga i comunardi berlinesi, cercando di chiarire a loro e all’opinione pubblica – sia a quella di sinistra sia a quella conservatrice – come stavano davvero le cose. Una farsa non può cambiare il mondo, a meno che non muova davvero qualcosa nel profondo di chi partecipa o assiste all’evento. Su questo probabilmente Teufel e Meinhof erano d’accordo. Ma la «piccola guerra» di Fritz Teufel appare alla Meinhof, per l’appunto, un gioco da ragazzi. Torniamo indietro nel tempo. Qualche mese prima che scoppiassero le bombe incendiarie a Francoforte e qualche mese dopo che i volantini sul grande magazzino di Bruxelles in fiamme dividessero l’opinione pubblica. Aprile 1967. Teufel e i suoi compagni, accusati di incitazione ad appiccare il fuoco a merci e grandi magazzini, ma liberi, in attesa di processo, hanno deciso di accogliere il vicepresidente americano Humphrey in visita a Berlino con una serie di bombe. Nello specifico si tratta di ordigni fatti di yogurt, uova e farina. Il gruppo dei comunardi viene scoperto nella fase di preparazione dell’attentato «culinario» e messo agli arresti il 5 aprile 1967. L’happening, a questo punto solo immaginato, riesce tuttavia


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a ottenere una risonanza ben oltre le aspettative. A dare una mano decisiva agli attentatori ci pensa la B.Z., diffuso quotidiano popolare di marchio Springer, che riesce a trasformare in «qualcosa di tremendamente serio» il piano dei contestatori e titola a pieni caratteri: «A Berlino si progetta un attentato contro il vicepresidente americano». La notizia rimbalza fulminea oltreoceano, facendo la sua comparsa anche sul New York Times. In Germania la B.Z. fa appello diretto ai «sentimenti civili e politici della popolazione tutta», invita i cittadini a prendere pubblicamente posizione contro i folli terroristi, grazie al cielo prontamente arrestati dalla polizia, nonché a dimostrare la propria completa solidarietà con il popolo americano e il suo governo. Una volta dimostrato però che gli attentatori arrestati non maneggiavano affatto dinamite o suoi derivati, ma innocui generi alimentari, alle forze dell’ordine non resta che rilasciare i colpevoli. Gli undici comunardi possono quindi organizzare la loro prima conferenza stampa. Raggiungendo all’improvviso una fama da rockstar.

Del significato politico In occasione dell’attentato al pudding, Ulrike Meinhof dalle pagine di konkret pur sottolineando l’importanza dell’happening, in effetti riuscito a meraviglia, riprende i contestatori, a suo parere impreparati a gestire politicamente la grande e improvvisa attenzione suscitata nell’opinione pubblica. Un’occasione mancata. Evidentemente troppo coinvolti nel privato, piuttosto che avvezzi a ragionamenti politici, probabilmente occupati a cercare di superare i numerosi tabù sessuali ereditati da mamma e papà, i comunardi, pur dichiarandosi maoisti, Mao non lo hanno letto abbastanza. Sostiene. Toccherà quindi a lei chiarire il vero significato dell’azione, sviscerare a pieno la logica dello sberleffo, la morale dello scherzo. La verità di cui i divertiti spettatori dell’happening devono divenire coscienti è che l’antiamericanismo rappresenta una posizione etica, prima ancora che politica. A essere in gioco è l’idea di umanità, la dignità dell’uomo, prima ancora di una scelta di campo. L’argomentazione è semplice: il vicepresidente americano, ossia il vicepresidente di un paese che conduce un’ingiusta guerra di aggressione in Vietnam, arriva in visita


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ufficiale a Berlino e la città si mobilita per dimostrargli amicizia, vicinanza, solidarietà. Nel paese c’è perfino chi sostiene che l’America in Vietnam stia difendendo anche Berlino. Dai comunisti. E che la Germania, dato il suo passato, non ha il diritto di alzare la voce contro gli Stati Uniti d’America. Le forze dell’ordine di un giovane stato democratico europeo sono quindi chiamate a schermare e difendere da qualsiasi dimostrazione critica il politico in visita. Il risultato: si arresta chi vuole dimostrare la propria opinione mentre si protegge chi ha «opinioni, e non solo opinioni, sanguinarie». Brechtianamente Meinhof deduce dai fatti: Quindi non è criminale gettare bombe al Napalm su donne, bambini e vecchi, ma lo è protestare contro. Non è criminale distruggere raccolti indispensabili per vivere, gettando milioni di persone nella fame e nella morte per inedia, ma protestare contro. […] Non il terrore e la tortura utilizzate da squadre speciali sono atto criminale, ma il protestare contro. Non impedire la nascita di una volontà libera nel Vietnam del Sud, la proibizione dei giornali, la persecuzione dei buddhisti sono atti criminali, ma il protestare contro tutto ciò in un paese, libero. Si considera volgare gettare pudding e quark sui politici, ma non lo è ricevere politici che fanno radere al suolo villaggi e bombardare città. Si considera volgare discutere nelle stazioni e negli angoli delle strade sul popolo vietnamita oppresso, ma non lo è invece colonizzare un popolo nel segno dell’anticomunismo.54

In un articolo apparso sulla Frankfurter Rundschau a proposito dell’happening berlinese si argomenta che chi crede di farsi ascoltare utilizzando, anche in effige, materiali esplosivi, deve accettare di essere considerato alla stregua di chi si identifica con il linguaggio delle bombe. Altro esempio della perversione del ragionamento, continua Meinhof. Grazie a tali riflessioni apparentemente dotate di una logica stringente, gli attentatori pacifisti sono posti sullo stesso piano di chi davvero usa le armi della guerra, mentre chi decide e sostiene finanziariamente, politicamente e all’occorrenza da un punto di vista morale una guerra d’aggressione sembra non debba rispondere di nulla di fronte alla giustizia e all’opinione pubblica. Due pesi e due misure. «Paragonare ricavati del latte racchiusi in sacchetti di plastica con bombe e pallottole che sono ancora peggiori delle pallottole dum-dum


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vietate dalla convenzione di Ginevra, significa chiamare guerra quello che è un gioco da bambini.» Sembra un paradosso, ma invece è la realtà, conclude Meinhof. La Germania federale sul palcoscenico internazionale sta implicitamente sostenendo l’imbarazzante slogan: «Napalm sì. Pudding no».55 Che lo dicano chiaro, allora, la comunità politica e la popolazione tedesca, che sono a favore del napalm e contro il pudding!

L’angelo della storia Lo studente giace a terra. Una giovane donna, in abito da sera e ampio mantello scuro, è piegata su di lui. Rivolge il viso verso l’alto. Forse sta chiedendo aiuto. Il ragazzo ferito alla testa respira ancora. Intorno a questa Pietà metropolitana, colta da uno scatto, c’è uno strano vuoto. Persone in piedi. Pantaloni maschili. Soprattutto rappresentanti dell’ordine. La foto, fatta da Jürgen Henschel – che raccontò in seguito di non essersi reso conto sul momento di quello che aveva immortalato –, compare per la prima volta il 4 giugno 1967 su un giornale dal titolo Die Wahrheit, organo della Sozialistische Einheitspartei di Berlino Ovest. In seguito fu riprodotta e trasmessa da tutti gli organi di informazione. Nazionali e internazionali. Nella mostra sulla Raf organizzata a Berlino nel 2005, la fotografia inaugurava il percorso. Il benjaminiano angelo della storia, sostiene uno dei curatori della mostra, Klaus Biesenbach, rivolto all’indietro fermerà il suo sguardo su momenti come questi. Immagini dei media all’apparenza chiare e mille volte duplicate, immagini tassello di una memoria collettiva diffusa, collocate tra chi guarda e la storia nei suoi aspetti meno trasparenti. Il 2 giugno 1967 a Berlino durante la manifestazione di protesta contro la visita dello scià di Persia Reza Pahlavi e della sua consorte Farah Diba, viene ucciso dalla polizia lo studente Benno Ohnesorg. Per molti questo evento segnerà una cesura violenta, destinale. Ventisei anni, studente di romanistica, pacifista, membro attivo della comunità studentesca evangelica, futuro padre, Benno Ohnesorg partecipava per la prima volta, ironia della sorte, a una dimostrazione. Un ragazzo introverso, gentile. Forse «da


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grande» avrebbe voluto diventare scrittore, racconta anni dopo un altro scrittore, Uwe Timm nel suo libro Der Freund und der Fremde.56 Nel caso della visita dello scià a Berlino le forze dell’ordine sono decise a dimostrare tutta la loro efficenza.57 Questa sembra essere la rigida consegna. Leggendo il recente e dettagliatissimo testo di Uwe Soukup Wie starb Benno Ohnesorg?58 si è costretti invece a prendere atto di strategie contrapposte, intrighi di potere, scontri personali tra l’allora sindaco di Berlino e i vari responsabili delle forze dell’ordine, tra il questore e il capo della polizia. Si legge di comunicazioni d’ufficio che non giungono a destinazione e di dichiarazioni ufficiali quantomeno imprecise, se non smaccatamente false. Di una serie di menzogne. Resta il fatto che le misure di sicurezza prese in vista dell’arrivo del sovrano dell’Iran appaiono degne di un vero e proprio stato di polizia. Possibili oppositori iraniani del regime di Pahlavi residenti nella Repubblica federale vengono preventivamente arrestati o fermati. Atterrato in suolo tedesco, lo scià proverà il piacere raro di percorrere un’autostrada deserta, completamente sbarrata al traffico. Il 2 giugno lo scià, come da programma, vola a Berlino, il «punto caldo». Intorno alle 14:30 la coppia imperiale è attesa al Rathaus di Schöneberg dove è previsto un saluto alla popolazione della città. La sera, alle 19:30, si recherà alla Deutsche Oper per assistere a una rappresentazione del Flauto magico. Così descrive Stefan Aust la «situazione della piazza»:59 Sulla piazza antistante il municipio si erano raccolti per manifestare centinaia di studenti, tenuti a distanza da grate metalliche a strisce bianche e rosse. Dietro pattugliavano funzionari di polizia infiltrati da sostenitori dello scià, in prevalenza agenti del servizio segreto Savak, armati di lunghi bastoni di legno. Non appena dalla folla dei manifestanti si levano glogan di protesta («Scià, boia» «Mo-Mo-Mossadeq») in ricordo del capo del governo rovesciato dallo scià, e cominciarono a volare un paio di uova colorate (lanciate da una distanza eccessiva per poter raggiungere lo scià), gli Jubelperser «gli iraniani giubilanti» si misero all’opera bastonando alla cieca e senza pietà i dimostranti. Gli studenti stramazzavano a terra, coperti di sangue. La polizia tedesca assisteva indifferente, senza dar segno di voler mettere fine all’aggressione, anzi, qualche minuto dopo vi si unì


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addirittura, dalla parte dei persiani. Ai bastoni e alla spranghe di ferro iraniane si aggiunserò così manganelli di gomma tedeschi. I picchiatori persiani non vennero né arrestati né identificati. […] Con i loro bastoni di legno si misero a colpire a caso e senza nessun ritegno i dimostranti. Cominciò a scorerre il sangue, alcuni studenti si accasciarono al suolo. […] Nessuno dei picchiatori persiani venne arrestato e a nessuno di loro venne chiesto di mostrare i documenti.

La sera fu poi permesso a questi gruppi di raggiungere in due bus speciali il teatro d’opera dove la coppia imperiale avrebbe assistito alla rappresentazione del Flauto magico. Alle 19:56 tutto era pronto. I coniugi imperiali raggiunsero l’ingresso dell’opera su una Mercedes 600. Dall’altra parte della strada, a una trentina di metri, si levarono di nuovo slogan: «Sciò sciò scià», «Assassino, assassino». Dal lato opposto della strada, a una distanza di buoni trenta metri rispetto agli ospiti di stato, si fecero di nuovo sentire con forza i cori di protesta: «Scha… Scha…. Scharlatan» «Assassino, Assassino». Pomodori, uova colorate e sacchetti di farina volarono sulla strada, infrangendosi a una certa distanza dall’obiettivo regale. Qua e là piovvero anche pietre. Lo scià e la shahbanu varcarono incolumi la soglia dell’Opera. Anche il capo della polizia di Berlino Erich Duesing e il capo della pubblica sicurezza, poterono assistere tranquillamente alla rappresentazione. Avevano svolto il loro compito. A questo punto i dimostranti si ritirarono lentamente, con l’intenzione di aspettare nei locali lì vicino e riunirsi di nuovo alle 22, al termine dell’opera mozartiana, per prendere congedo dallo scià. All’improvviso spuntarono dei convogli, quattordici in tutto. Gli agenti di polizia, dopo aver formato un cordone davanti ai dimostranti, estrassero gli sfollagente. Alcuni curiosi cercarono di scavalcare la grata di sbarramento, ma furono respinti. Dopo di che la polizia cominciò a caricare. Senza aver dato l’avvertimento previsto dalla legge, gli agenti cominciarono a manganellare.60 […] Ed è il più feroce manganellaggio che Berlino avesse mai vissuto a partire dal dopo guerra. Molti studenti crollarono a terra pieni di sangue. […] Le ambulanze si riempirono in pochi minuti. Dimostranti presero a scappare in preda al panico, – nella misura in cui non interveniva la polizia a fermarli.61


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Ernst Duesing, l’allora Polizeipraesident della città di Berlino, Generalstaboffizier della Wehrmacht sotto il Terzo Reich e HansWerner Ulrich,62 comandante della Schutzpolizei (pubblica sicurezza), anch’egli in passato ufficiale dell’esercito, seduti a teatro, sapevano bene che cosa stava succedendo fuori. Era stato Duesing in persona a dare l’ordine riguardo a come intervenire sui dimostranti, citando la tattica strategica del Leberwurst: «Se consideriamo i dimostranti come un Leberwurst, allora dobbiamo infilzarlo nel mezzo, così da farlo scoppiare alle estremità». In un giornale popolare comparirà, dopo i fatti, la foto di una giovane donna con la tempia e il viso coperti di sangue. Secondo la didascalia è stata vittima del lancio di sassi da parte dei dimostranti, prova delle violenze della «piazza studentesca». La donna farà invece sapere di essere stata colpita dai manganelli della polizia. «Avevano le facce deformate, come bestie», dice la studentessa di filosofia Ulrike Krüger a un reporter di Die Zeit, che l’ha soccorsa, mentre si contorceva dal dolore, piena di sangue. Nell’ospedale di West End – in cui si sentono dire frasi come: «Quelle sporche studentesse. Basta solo guardare sotto le loro gonne…» – le viene diagnosticata una lesione ai reni. In seguito Ulrike Krüger da casa chiamerà dolorante il servizio di guardia medica del pronto soccorso. Il medico di turno si rifiuterà di andare da lei. «Se la cosa riguarda il pestaggio, io non posso venire da lei per ragioni giuridiche.»63 Quando Duesing lasciò il teatro dell’opera e tornò sul «campo di battaglia» ebbe inizio la seconda fase dell’azione, il cosiddetto Füchse jagen, Caccia alle volpi. Gruppi di poliziotti si misero all’inseguimento di singoli dimostranti. Agenti della polizia criminale in borghese si divisero in piccole unità al fine di fermare sospetti capi gruppo. Consegnavano poi gli arrestati, ai colleghi in uniforme che continuavano il trattamento. Anche in questo caso gli agenti persiani avevano mano libera. Nel buio notturno era difficile capire a chi ci si trovasse di fronte: agenti dell’ordine in uniforme, poliziotti in borghese o agenti del servizio segreto persiano. La falsa notizia, diffusa per megafono, che un poliziotto fosse stato accoltellato dagli studenti, fa aumentare ulteriormente la tensione. Anche Der


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Spiegel riporterà la testimonianza di molti dimostranti picchiati dalla polizia. Il reporter Walter Barthel racconta: «Vidi un poliziotto prendere a calci con i suoi stivali un uomo steso a terra, inerme. Alla mie rimostranze, l’agente dell’ordine rispose: “È l’unico castigo giusto per questo stronzo. I tribunali se ne fottono di collaborare”».64 Uno dei numerosi agenti in borghese in servizio quella sera è KarlHeinz Kurras, trentanove anni, del i Reparto della polizia politica. La Krumme Strasse è una strada stretta che dopo aver tagliato la Bismarckstrasse continua dietro l’edificio del Teatro dell’Opera. In quella strada, più o meno all’altezza del numero 66/67, Kurras staziona insieme ad alcuni colleghi. Circa le 20:30. Secondo molti testimoni, la dimostrazione si stava lentamente sciogliendo. Tuttavia, la polizia sembra ostacolare il ritiro degli studenti. Vuole chiuderne una parte, al di là delle transenne. Isolarla. Ai dimostranti non sfugge la nuova strategia adottata: Su un lato della strada c’era una catena di poliziotti, davanti a loro un’ultima manciata di dimostranti. I dimostranti gridarono «Assassini». Vennero lanciati dei sassi contro i poliziotti. Uno degli agenti ritenne di riconoscere un capogruppo: aveva la barba, indossava una camicia rossa, ai piedi dei sandali senza calze. L’agente della polizia criminale si precipitò verso di lui. Karl-Heinz Kurras seguì il collega. Fermarono il sospetto e lo buttarono a terra. In loro aiuto accorsero poi altri agenti in uniforme. Sopraggiunsero alcuni dimostranti che circondarono i poliziotti. Si arrivò allo scontro fisico. Lo studente a terra si liberò e cercò di scappare. Arrivarono altri poliziotti che bloccarono il ragazzo. Cominciarono a picchiarlo. Lo studente ormai incapace di muoversi pendeva nelle loro braccia. Lentamente si accasciò al suolo. […] Karl-Heinz Kurras. Aveva in mano la pistola 7,65 d’ordinanza a cui aveva tolto la sicura. La canna si trovava a nemmeno un mezzo metro di distanza dalla testa del dimostrante. Così, a ogni modo, parve ai testimoni oculari. All’improvviso partì un colpo. Il proiettile colpì l’orecchio destro del giovane e penetrò nel cervello fracassando la calotta cranica. Uno degli agenti sentito il colpo, si girò, vide Kurras con l’arma in mano: «Sei impazzito a metterti a sparare qui?» urlò. Kurras rispose: «Mi è scappato».65


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Benno Ohnesorg giace a terra agonizzante. Un medico, il quarantaseienne Alfred Alexander M. che si era recato al Teatro dell’Opera per andare a prendere la moglie, prima ballerina a teatro, ha sentito il colpo. Grazie alla sua esperienza di soldato, racconta, riconosce immediatamente che si era trattato di un’arma da fuoco. Si dirige verso la Krumme Strasse. Ha con sé la borsa da medico. «Garze, iniezioni, antidolorifici, preparati per il ripristino dell’attività respiratoria, anche la soluzione sanguigna ndc, che è il preparato sostitutivo di prima scelta in mancanza della trasfusione diretta di sangue. Avevo con me tutto»66 ricorda. Vuole prestare le prime cure al ferito che giace a terra in una pozza di sangue. Un agente gli chiede di qualificarsi. Alfred Alexander M. mostra un tesserino che lo identifica come assistente medico e medico navale norvegese. L’agente rifiuta l’offerta di aiuto con la motivazione che un assistente medico non è legittimato a intervenire su un ferito. Inoltre a un medico norvegese non è concessa la facoltà di esercitare la propria professione sul territorio di Berlino Ovest, Repubblica federale tedesca. Alla replica formale del medico che egli non «intende esercitare qui la sua professione», ma fornire un «primo soccorso» in qualità di sanitario – come gli è accaduto più volte in guerra –, e al suo chiarire che, anzi, nel suo caso è un dovere intervenire, dato che non «prestare soccorso» potrebbe costituire una ragione per il rifiuto formale di concedergli eventualmente, in futuro, la possibilità di esercitare la professione medica in Germania – se fosse ancora uno studente di medicina, per esempio, il non prestare aiuto gli sarebbe costato l’espulsione dalla facoltà –, l’agente dell’ordine reagisce con un sorriso. Il medico vuole coinvolgere a suo sostegno i passanti che si sono fermati accanto allo studente. Gli sorge il fondato dubbio che fossero anch’essi agenti. Il dialogo dura circa dieci minuti. Il poliziotto assicura che i soccorsi stanno arrivando. Dato che però nulla accade, il medico insiste di nuovo, apre la sua borsa e mostra il contenuto, chiedendo che gli fosse permesso almeno di fermare il flusso di sangue con una prima medicazione e usare una sacca di plasma. «Se si somministra subito questa soluzione si riesce ad aiutare notevolmente il paziente, perlomeno fino al suo arrivo in ospedale.»67 Poi l’atto finale: il poliziotto nota la medaglia della Fédération International Résistance sulla giacca del medico. Alfred Alexander M., tetragono, sottolinea come nella Ddr i suoi attestati siano sempre bastati a dimostrare la sua qualificazione professionale. E quindi


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si meraviglia che ciò non basti nella Repubblica federale tedesca. Tutto inutile: per l’agente dell’ordine il signore che gli sta davanti è a questo punto «un comunista!».68 Quando alla fine arriva l’ambulanza sono trascorsi altri preziosi minuti. Ma non si va subito in ospedale. La sera del 3 giugno, il giorno dopo l’accaduto, l’infermiere Gerhard G. – nelle foto lo si vede deporre insieme ad altri colleghi il ferito sulla barella – salito poi sul mezzo sanitario della polizia che porta Ohnesorg all’ospedale di Moabit, sentirà il bisogno di parlare con qualcuno dei famigliari del ragazzo. Si reca nell’appartamento del morto, dove incontra Peter Ohnesorg, il fratello. «A opprimere l’animo dell’infermiere è il fatto che il mezzo di trasporto avesse vagato per 45 minuti a zig zag per la città.»69 Perché recarsi così lontano? Gli ospedali vicini erano davvero impossibilitati ad accogliere quel ferito grave? Sull’ambulanza siede anche Jutta B. Arrivati in ospedale le viene rifiutato il soccorso perché la contestatrice non vuole mostrare i documenti, evidentemente per paura di venire identificata e incorrere in sanzioni penali. Gerhard G., durante il colloquio con il giornalista Uwe Soukup, ricorda di averle dato cinquanta marchi. Impietosito.

Versioni contrastanti All’ospedale di Moabit i chirurghi in sala operatoria interverranno sul cranio dello studente. Ricuciranno la ferita. La prima versione ufficiale riguardo la causa del decesso di Ohnesorg risulta essere trauma cranico. Del colpo di pistola sparato a distanza ravvicinata non si fa menzione alcuna. Dettaglio importante: secondo la versione ufficiale, riportata dai giornali, Ohnesorg sarebbe arrivato ancora in vita in ospedale. In sala operatoria gli sarebbe stato asportato un pezzo di cranio di sette centimetri per sei. Nel tentativo di salvarlo. L’arresto cardiaco sarebbe sopravvenuto nel corso dell’operazione. L’obduzione testimonierà invece che il pezzo di cranio asportato, e gettato via, fosse di quattro centimetri per sei: il foro d’entrata del proiettile. Inoltre al momento dell’arrivo del trasporto sanitario all’ospedale, un medico avrebbe reagito con violenza, domandando come mai si portasse un morto in ospedale! Anche


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Jutta B., presente nell’ambulanza sostiene che Ohnesorg fosse morto durante il trasporto. Perché mai i chirurghi operano un morto, non identificano la vera causa del decesso e fanno scomparire una «prova», un frammento di cranio? Durante il processo all’agente Kurras la versione ufficiale sarà che: la causa del decesso – colpo di pistola – non era stata identificata dal medico trattante. Solo il giorno dopo, il 3 giugno 1967, l’obduzione praticata dal perito medico Prof. Dr. Krauland porta alla luce «il foro d’entrata, la traiettoria del proiettile, il proiettile deformato e di conseguenza la causa certa di morte».70 Contro l’opinione espressa da parte degli studenti che la causa della morte fosse stata truccata, che fosse stata ricucita la ferita causata dall’arma da fuoco, contro questa opinione che in effetti suppone qualcosa di mostruoso, nel frattempo i medici dell’ospedale di Moabit hanno protestato, richiedendo le scuse dell’AstA [Allgemeine Studierendenausschuss, organo esecutivo delle organizzazioni studentesche]. Comunque sia – il buio intorno all’accaduto non è stato ancora dissipato. Se l’avvocato berlinese Horst Mahler non fosse stato sul posto, i fatti più importanti sarebbero rimasti nascosti all’opinione pubblica. Qui non c’è stato nessun parlamentare a protestare. Qui c’era solo il complotto del silenzio.

Così scrive Karl-Heinz Bohrer il 12 giugno 1967 sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung.71 Durante il processo, Kurras sosterrà di essersi trovato quel 2 giugno in stato di «necessità» e che il colpo mortale era partito involontariamente. Prima del processo, l’agente aveva fornito alla stampa quattro diverse ricostruzioni dell’accaduto. Si andava dall’ammissione di aver sparato un colpo di pistola in stato di necessità, a quella di aver sparato in aria un colpo di avvertimento – Warnschuss – che solo per caso aveva colpito lo studente. La terza versione ufficiale è invece diversa: Kurras si sarebbe trovato a terra, minacciato da un gruppo di studenti inferociti. In una simile situazione, egli avrebbe intenzionalmente fatto uso della pistola d’ordinanza. A questo punto, per sua stessa ammissione, i colpi sparati


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sarebbero stati due e non uno solo. La quarta versione offerta in un’intervista alla B.Z. parla poi di un corpo a corpo con gli studenti, nella confusione «la mano in cui tenevo la pistola venne strattonata, così è partito il colpo».72 Durante il fine settimana dopo il pestaggio, 15 testimoni dell’accaduto, studenti e non, contattano Horst Mahler,73 l’avvocato della vedova Ohnesorg che insieme a Otto Schily sostiene l’accusa contro Kurras. La loro versione contraddice completamente quella di Kurras. Al momento dello sparo, nessuno minacciava l’agente Kurras. Al contrario Ohnesorg si trovava già a terra circondato dagli agenti dell’ordine. Testimoni sostengono inoltre di aver sentito il grido «Vi prego non sparate» e le proteste di poliziotti rivolte contro Kurras: «Sei impazzito, avresti potuto colpire uno di noi». Lo studente di musica Frank Krüger racconta: Io ero sul posto quando è avvenuto lo sparo. Ho visto come un gruppo di sei o otto poliziotti circondavano lo studente, lo colpivano con i manganelli e come il ragazzo rimanesse passivo, inerme in mezzo al gruppo di poliziotti. Ho visto il foro d’uscita della canna della pistola, si trovava più o meno all’altezza della testa dello studente. Un attimo dopo lo studente giaceva a terra e non si muoveva più. 74

Anche dagli ambienti della polizia era trapelata la notizia che, a detta di altri agenti, Kurras aveva fatto fuoco in una situazione «relativamente tranquilla». L’allora sindaco di Berlino Albertz – che in seguito ai fatti del 2 giugno si dimetterà dalla sua carica, e insieme alla sua cadranno altre teste – ricorda lo sgomento e il dolore provati allora. Ricorda la sensazione, da parte sua, di aver fallito. Un fallimento personale di cui, dichiara, dovrà un giorno «rendere conto al sommo giudice». Il 3 giugno Albertz, accompagnandolo all’aeroporto, parla con sua maestà Reza Pahlavi di ciò che è accaduto a Berlino. Lo scià, ricorda Albertz, reagirà rassicurandolo. Non doveva lasciarsi impressionare troppo dall’incidente. Fatti del genere erano all’ordine del giorno in Iran. Alla fine del processo tenutosi il 21 novembre a Berlino l’agente di polizia verrà prosciolto dalle accuse. Il tribunale ritiene che Kurras abbia agito in stato di necessità presunta. Vero è che l’agente, al momento dei


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fatti, era nervoso e psichicamente sotto pressione. D’altro canto il tribunale giunge alla conclusione che non esistano elementi probanti per supporre una pregressa volontà omicida o anche solo l’intenzione esplicita da parte dell’agente di ferire l’inoffensivo dimostrante con un mirato colpo di pistola.

Anni dopo Punti di vista. Interpretazione dei fatti. Testimonianze. Per gli studenti d’allora il colpo mortale sparato contro Ohnesorg non è da ricondurre alla perdita di controllo da parte di un rappresentante dell’ordine dal grilletto facile e dai nervi tesi, rivelatosi non all’altezza della situazione. Si tratta piuttosto del prevedibile risultato, di un rischio calcolato che polizia e senato cittadino avevano deciso quel giorno di correre. «Mi vergogno di vivere in uno stato in cui la polizia ha potuto uccidere un dimostrante»,75 commenta ufficialmente Rolf Viethen, portavoce degli studenti della tu, non certo un gruppo di estremisti. Si organizzano dimostrazioni in tutte le città universitarie della Repubblica federale. Aquisgrana, Bochum, Düsseldorf, Giessen, Bonn, Heidelberg, Monaco e Stoccarda. Non sono solo gli studenti a denunciare l’accaduto. Al fine di chiarire la dinamica dei fatti viene istituita una commissione parlamentare. Chi paga le conseguenze politiche dell’incidente, oltre al sindaco Albertz, è Wolfgang Büsch, formalmente responsabile diretto dell’intervento della polizia, chiamato a rispondere alle numerose critiche rivolte al comportamento delle forze dell’ordine. Il 19 settembre 1967 Büsch dà le dimissioni. La sera del picchiaggio a Charlottenburg, il deputato della Spd Gerd Löffler, testimone delle violenze, si precipitò nel foyer del Teatro dell’Opera rivolgendosi a un poliziotto in cerca di aiuto: «Chiami subito fuori il responsabile cittadino degli Affari interni. [Büsch per l’appunto] Deve vedere coi suoi occhi che cosa sta facendo qui la sua polizia». Ma Wolfgang Büsch era, a quanto pare, introvabile.76 Alla mezzanotte di quel 2 giugno la polizia aveva a disposizione un elenco delle perdite: un morto, 24 feriti, alcuni gravi, tra i dimostranti e 20 tra le forze dell’ordine. Il nudo elenco potrebbe far pensare a uno scontro «alla


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pari». Va detto però che tutti i poliziotti feriti, salvo uno, dopo aver ricevuto medicazioni in ospedale, vennero immediatamente rimandati a casa. La notte stessa il sindaco Albertz aveva preso posizione sull’accaduto: «La pazienza della città è ormai agli sgoccioli… Lo dico espressamente e lo sottolineo con forza, io approvo il comportamento della polizia».77 È stato male informato? Albertz in seguito rimpiangerà la presa di posizione. La sua formulazione e il suo giudizio si dimostreranno infatti decisamente lontani dalla realtà dell’accaduto.78 Nel maggio 2009 nell’ambito di ricerche condotte dagli storici Helmut Müller e Cornelia Jabs negli archivi del Bstu, vengono inaspettatamente alla luce documenti che provano l’appartenenza di Karl-Heinz Kurras alla Stasi. Kurras risulta inoltre essere stato, a partire dal 1962, membro fedele della Sed (Sozialistischen Einheitspartei Deutschlands, Partito socialista unificato tedesco). Ciò significa che l’agente che a Berlino uccise Benno Ohnesorg era un infiltrato nella polizia dell’Ovest, una spia della Stasi, che svolse per anni un lavoro non marginale da informatore, data la carriera fatta nei ranghi della polizia. Nonché un individuo noto per la sua estrema passione per le armi. Fin da bambino, risulta dai documenti Ddr. Così come dagli atti risulterebbe anche il suo odio per i traditori e la disponibilità a eliminarli. Sta di fatto che, notano gli storici, nei documenti segreti riguardanti Kurras, prima ricchi di notizie, a partire dal 2 giugno 1967 le annotazioni vanno via via scemando. Bisogna a questo punto riscrivere la storia di quel 2 giugno 1967? Premesso che una radicalizzazione dello scontro politico e sociale nella Repubblica federale tedesca potesse essere, a grandi linee, ben vista dai servizi segreti Ddr, interessati ad azioni di protesta che mettevano in crisi l’immagine democratica del paese confinante, non esistono, a oggi, prove concrete che Kurras, durante la manifestazione contro lo scià, abbia agito seguendo ordini o indicazioni precise dall’Est. La creazione di un eventuale martire politico tra le fila degli studenti non sembra rientrare in nessun piano concreto dei servizi segreti Ddr. L’azione sarebbe quindi da ascrivere alla «libera iniziativa dell’agente». Libera iniziativa. Oggi si sottolinea come all’epoca la sinistra accompagnasse spesso le critiche alla Repubblica federale con la ricostruzione di un’immagine piuttosto idealizzata della Ddr. La vicenda Kurras dimostrerebbe l’entità dell’abbaglio di allora. D’altro canto:


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Oggi si dimentica volentieri che il movimento studentesco si è espresso sempre anche contro la Stasi e il sistema terroristico della Ddr. C’era per esempio l’accusa costante che la Ddr fosse completamente guidata dal governo sovietico. Per questo i burocrati di partito di Berlino Est avevano paura del movimento degli studenti. Secondo la logica che dice: chi critica il sistema politico della Repubblica federale tedesca potrebbe benissimo anche essere contro il sistema della Repubblica democratica tedesca. Tuttavia non avrei mai ritenuto possibile che Kurras fosse un infiltrato della Stasi.

Così Oskar Negt79 professore di sociologia a Hannover e all’epoca portavoce del movimento studentesco. L’agente Kurras, oggi pensionato, a Berlino, tace. Non smentisce l’autenticità dei documenti venuti alla luce, ma nega di aver mai collaborato con la Stasi. Per quanto riguarda i fatti del 2 giugno 1967: un tribunale regolare della Repubblica federale tedesca lo ha assolto da ogni accusa, ricorda.

L’evidenza dei fatti In una lettera dal carcere inviata alla sorella, cercando di farle comprendere le ragioni della sua scelta di passare alla clandestinità, Gudrun Ensslin cita l’uccisione di Ohnesorg e il processo a Kurras. Le basta un accenno. Quel 2 giugno 1967 a tarda sera nel Republikanischer Club di Berlino durante una riunione della Sds al Kurfürstendamm, una giovane donna magra e bionda ripeteva gridando, in lacrime, «isterica»: «Ci uccideranno tutti – lo sapete bene con che razza di maiali abbiamo a che fare – è con la generazione che ha creato Auschwitz che abbiamo a che fare – con questa gente non si può discutere. Loro hanno le armi e noi non le abbiamo. Dobbiamo armarci anche noi».80 La giovane donna bionda pare fosse Gudrun Ensslin, futura anima del gruppo terroristico della Rote Armee Fraktion. Così riportano Gerd Koenen e Stefan Aust, che peraltro cita le frasi in modo leggermente diverso.81 «Sembrava l’angelo della morte», ricorda uno dei testimoni della scena, Tilman Fichter.82 Altri presenti alla riunione negano invece che si trattasse della Ensslin o non ricordano


1. Il potere dell’immaginazione?

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affatto l’episodio. Comunque sia, quest’immagine in seguito più volte citata, diviene una delle riconosciute «scene primarie» del terrorismo tedesco. La violenza come reazione necessaria alla violenza di stato, il senso di impotenza, la rabbia, la paura, il «compimento dei tempi» e il richiamo alla generazione di Hitler. Altra scena primaria. Questa volta privata. Gerd Koenen cita la fantasia amoroso letteraria in cui la Ensslin prega un lupo di insegnarle un modo d’amare così grande «che il piccolo cavallino non sia più piccolo e sia capace di tutto anche di uccidere».83 Il giorno dopo la morte di Ohnesorg, nonostante le autorità cittadine avessero vietato ogni tipo di dimostrazione e raduno pubblico, un gruppo di studenti capeggiati da Peter Homann riuscì a organizzare lungo il Kurfürstendamm una nuova forma di protesta. Il cosiddetto Balletto delle lettere. I dimostranti indossavano T-shirt bianche su cui avevano disegnato in nero, davanti e dietro, delle lettere. Mettendosi diligentemente in fila, i dimostranti riuscivano a far comparire il nome albertz. Girando su se stessi mostravano poi le altre lettere, dipinte sulla schiena, che andavano a comporre la parola abtreten (Dimettiti). Nelle immagini scattate al Balletto delle lettere, al margine della fila, compare Gudrun Ensslin, in minigonna e stivali bianchi. Va da sé che gli studenti vennero arrestati. All’epoca Gudrun Ensslin da poco diventata madre – il figlio Felix nasce il 13 maggio del 1967 – condivideva ancora con Bernward Vesper l’appartamento di Berlino nella Fritschestrasse a Charlottenburg. Durante quell’estate l’appartamento diviene un punto di ritrovo per molti aderenti al movimento studentesco e per un ampio spettro di simpatizzanti. È qui che Gudrun Ensslin incontra Andreas Baader, arrivato da poco a Berlino, dopo aver trascorso gli ultimi mesi in prigione, in Baviera, agli arresti per guida senza patente e furto di moto. Nella Fritschestrasse si discute di nuove azioni dimostrative e di futura strategia politica. Poco soddisfatto dalle proposte altrui, Baader si fa portavoce di una linea dura, che miri a fare sensazione, a catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica, caratterizzata da un significato non solo dimostrativo. È suo, per esempio, il progetto di far saltare in aria la torre della Gedächtniskirche, uno dei segni distintivi di Berlino Ovest. Della rinascita della città dopo i bombardamenti a tappeto della Seconda guerra


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Anatomia di una rivolta

mondiale. La proposta appare a molti tra i presenti del tutto insensata. Non così a Gudrun Ensslin, ricordano testimoni di allora, che invece sembra aderire entusiasta alle idee di Baader. Addivenendo a più miti consigli, il gruppo di attivisti berlinesi decide di trasformare l’esplosione immaginata da Baader in un atto simbolico. Ancora una volta il gioco tra realtà e immaginazione. Invece che materiale esplosivo, contro la Gedächtniskirche verranno utilizzate candele fumogene. Per i giovani contestatori procurarsele – e si apre così un capitolo a parte di questa storia recente – non è un problema, dato che un certo Peter Urbach ne ha una scorta a disposizione. E Urbach non è in grado di recuperare solo candele fumogene. Agent provocateur, da anni in contatto diretto con la polizia e informatore del Berliner Verfassungsschutz, Urbach riesce a procurare ai contestatori quasi di tutto.84 «Nessuno» ricorda lo scrittore Peter Härtling «allora immaginava che quel ragazzo di proverbiale indolenza, con un sogghigno di generale disgusto perennemente stampato in faccia, potesse diventare il futuro capo della guerriglia armata. Quindi nessuno prese sul serio il legame tra l’intelligente dottoranda (Gudrun Ensslin) e quel macho di scarsa eloquenza. All’epoca erano molti i rapporti che entravano in crisi, risucchiati nel maelström degli eventi…»85 Errore di valutazione. A Berlino nei mesi estivi del Sessantasette tra l’intellettuale Ensslin e il giovanotto bavarese sta nascendo un legame clandestino che durerà nel tempo. In quei mesi Gudrun Ensslin, anche lei, come Ulrike Meinhof, «figlia di un pastore», rompe inoltre un ennesimo tabù dell’epoca, interpretando un cortometraggio – artistico – di contenuto «leggermente pornografico». Si disse. A guardarle oggi quelle immagini estetizzanti sembrano piuttosto caste. Da nouvelle vague.


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