India mon amour

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Dominique Lapierre India mon amour Traduzione di Elina Klersy Imberciadori

ilSaggiatore


www.saggiatore.it © Dominique Lapierre, 2010 © il Saggiatore s.p.a., Milano 2010 Titolo originale: Inde ma bien-aimée


Sulle tracce del più grande Impero di tutti i tempi

La Storia negherà all’artefice dell’indipendenza delle Indie il diritto di assaporare la sua vittoria. Il 30 gennaio 1948, sei mesi dopo aver cacciato gli inglesi e salvato Calcutta da un bagno di sangue, cade sotto le pallottole di un assassino, nel cuore di Nuova Delhi. «La luce si è spenta sulle nostre vite, ora tutto è tenebre!» esclama Nehru, il primo ministro dell’India libera, con parole che ben interpretano il dolore della nazione. «Il Mahatma è stato assassinato dallo stesso popolo per la cui redenzione ha vissuto» titola sulla prima pagina il quotidiano Hindustan Standard. «Questa seconda crocifissione nella storia del 3


mondo ha avuto luogo un venerdì – lo stesso giorno in cui Gesù è stato messo a morte, 1915 anni fa. Padre, perdonaci.» L’assassino è un fanatico indù che rimproverava a Gandhi di predicare la concordia tra indù e musulmani dopo aver accettato la spartizione territoriale del paese tra le due comunità. Si chiama Nathuram Godse. Sarà impiccato con il suo complice principale per l’omicidio che verrà definito «il delitto del secolo». Gli altri quattro congiurati vengono condannati all’ergastolo. Un giorno di marzo del 1972, un breve comunicato sulla prima pagina del Times of India fa sussultare me e Larry. Dopo venticinque anni di carcere, ai quattro assassini sopravvissuti è stata concessa la grazia per buona condotta. Quel provvidenziale atto di clemenza ci permetterà di fare alcuni incontri eccezionali. Io scelgo di seguire le tracce di Gopal Godse, il fratello dell’assassino. Lo trovo nei sobborghi della città di Poona. È un cinquantenne piuttosto distinto, con i capelli grigi ben pettinati, che indossa con eleganza una lunga tunica bianca. Consapevole di essere un personaggio storico, è amabile, addirittura caloroso, disposto a rispondere senza 4


riserve alle mie domande. Mi accoglie in una veranda dominata da una carta gigantesca dell’India, che include il territorio del Pakistan. Una fila di lampadine elettriche, che raffigurano il corso dell’Indo, serpeggia nella parte superiore della carta, mentre al centro è affissa una grande fotografia dell’assassino inghirlandata di fiori. Non c’è nessun rimorso, nessun rammarico nelle risposte precise e dettagliate che mi dà Gopal Godse. Mi sorprende sentirlo pronunciare con reverenza il nome di Gandhi, aggiungendovi il suffisso ji che in hindi conferisce una connotazione affettuosa al patronimico. Gandhiji di qui, Gandhiji di là, non credo alle mie orecchie. L’ideale della nonviolenza di Gandhi? «My dear friend, ci fu un tempo in cui le donne indù si dovevano suicidare per sottrarsi all’infamia di essere stuprate dai musulmani. E Gandhiji che cosa diceva? Che la vittima è il vincitore!» Dopo venticinque anni di prigione, la collera di Gopal Godse resta intatta. «La nonviolenza di Gandhi ha fatto cadere gli indù nelle grinfie dei loro nemici. I profughi indù morivano di fame e Gandhiji ne esaltava il sacrificio prendendo la difesa degli oppressori. Fino a 5


quando lo potevamo tollerare? Sì, fino a quando, dear friend?» Godse mi invita alla cerimonia che ogni 15 novembre commemora l’esecuzione del fratello. Su un piedistallo davanti alla grande carta dell’India ha messo una piccola urna argentata con le ceneri di Nathuram. Alla vigilia dell’esecuzione, questi ha infatti chiesto che le sue ceneri «vengano conservate fino al giorno in cui sia possibile disperderle nelle acque dell’Indo, tornato a scorrere attraverso un paese finalmente riunito sotto la dominazione indù». Tutti i membri della famiglia dell’assassino, donne e bambini inclusi, sono presenti. Scandita dal secco martellare di un tabla, risuona nella veranda la lancinante melopea di un sitar. All’invito del padrone di casa, i partecipanti alzano il pugno di fronte all’urna funeraria e alla fotografia dell’assassino, e giurano di riconquistare «la parte amputata della nostra madrepatria», vale a dire il Pakistan, e di riunificare l’India sotto il dominio indù. Con un senso ben calcolato della messa in scena, Godse apre poi un baule e ne tira fuori alcuni indumenti. «Ecco la camicia che indossava Nathuram il giorno in cui ha ucciso Gandhiji» dice esibendo una tunica cachi macchiata di 6


sangue, ricordo delle manganellate ricevute al momento dell’arresto. Poi mostra i pantaloni e i sandali del fratello. Tutti vanno a inchinarsi rispettosamente davanti alle reliquie. Godse legge quindi il testamento dell’assassino. Mentre sitar e tabla riprendono la melopea, i partecipanti si prostrano l’uno dopo l’altro davanti alle ceneri. Ognuno fa girare più volte intorno all’urna la candela che tiene in mano, poi la alza verso il serpente luminoso che simboleggia il fiume Indo. Tutti ripetono in coro la promessa di riconquistare la terra perduta. Un giorno propongo a Gopal Godse di tornare insieme sul luogo del delitto e di mimare davanti a una cinepresa le fasi dell’assassinio. Larry inviterà a quella ricostruzione altri membri del complotto. Mi rendo ben conto del pericolo. Durante l’istruzione del processo, persino la polizia indiana aveva dovuto rinunciare a qualunque tipo di ricostruzione nel timore di sanguinose vendette. Godse potrebbe considerarmi un provocatore e buttarmi fuori. Ma appena gli ho esposto il mio progetto, lo vedo dondolare il capo da sinistra a destra con l’aria piuttosto soddisfatta. 7


«It’a very good idea. È un’ottima idea.» Poi però aggrotta il viso. «But only if I can take my family along. Ma solo se posso portare la mia famiglia.» Compro dei biglietti per tutti e dopo ventotto ore di treno eccoci nel giardino di Nuova Delhi dove, il 30 gennaio 1948, alle cinque e sette minuti del pomeriggio, il fratello di Godse aveva sparato le tre pallottole fatali contro il padre della nazione. «Il giardino era nero di folla» racconta Godse davanti alla cinepresa. Era l’ora della preghiera quotidiana di Gandhiji, che poi si sarebbe rivolto alla folla dalla piccola pedana collocata sul prato. Vedemmo arrivare il corteo. Gandhiji camminava in testa, appoggiandosi alle pronipoti. Nathuram si era piazzato sul passaggio che portava alla pedana. Era una posizione ideale. Lo vidi tirar fuori la pistola.» Sono preoccupato. Le riprese hanno attirato una quantità di curiosi. Tra di loro ci sono numerosi sikh riconoscibili dal turbante. Quale sarà la loro reazione quando verranno a sapere chi è l’uomo che sto filmando? Imperturbabile, Godse continua a raccontare. «Mio fratello nascose alla meglio la pistola fra le mani congiunte e si inchinò rispettosamente da8


vanti a Gandhiji dicendo: “Namaste, bapu. Salve, padre”. Poi scostò una delle ragazze per non rischiare di ferirla e fece fuoco una volta, due volte, tre volte. Gandhi balbettò: “He Ram. Oh mio Dio!” e si accasciò sull’erba. Era finita.» A quelle parole vedo un sikh dal viso feroce che si fruga freneticamente tra le pieghe della cintura. Sudo freddo: sono convinto che stia cercando il pugnale che i membri della sua comunità portano sempre addosso. Vedo già la lama luccicare al sole. Sgozzerà Gopal Godse e forse anche me e l’operatore. Così avrà vendicato le centinaia di milioni di indiani che ancora piangono la perdita della Grande Anima. Mi sbaglio. Gandhi è morto da troppo tempo. Fra le pieghe, l’imponente sikh non sta cercando l’arma della vendetta. Tende a Godse un pezzo di carta e una biro. Vuole un autografo.

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Gli eroi sconosciuti della mia India

Città della gioia! Un appellativo del tutto surreale in un simile contesto di sventure, ma così forte da spingermi fatalmente verso l’inchiesta più sconvolgente della mia vita. Grazie, James, grazie Gaston, grazie mia amata India per questo regalo, il cui frutto sarà uno dei libri di cui sono più fiero. Ancor prima di averne scritto la prima parola so già quale ne sarà il titolo: La Città della gioia. Sarà indubbiamente una lunga, difficile e talvolta dolorosa inchiesta. Fin dall’inizio mi obbliga a adattarmi a situazioni che non ho mai conosciuto. Mi fa scoprire come si possano affrontare con il sorriso condizioni di vita disumane; come si possano compiere lavori da bestie avendo solo qualche 10


polpetta di riso nello stomaco; come si possa restare puliti con meno di un litro d’acqua al giorno; accendere il fuoco sotto il diluvio del monsone con un solo fiammifero; fare circolare un po’ d’aria fresca intorno al viso mentre si dorme nella canicola estiva. Prima di essere adottato dai flagellati della bidonville, devo familiarizzare con le loro abitudini, capirne le paure e le angosce, dividerne le lotte e le speranze, iniziarmi a poco a poco a tutte le ricchezze della loro cultura. Strada facendo scopro il vero senso delle parole coraggio, amore, dignità, compassione, fede, speranza. Imparo a ringraziare Dio per il minimo beneficio, ad ascoltare gli altri, a non avere paura della morte, a non disperare mai. È stata indubbiamente una delle esperienze più ricche che un uomo possa vivere. La mia vita ne sarà cambiata, come saranno trasformati la mia visione del mondo, il mio senso dei valori. Da allora in poi mi sforzerò di non dare più importanza a falsi problemi. Trovare un parcheggio non sarà più un assillo. Stare per mesi accanto a gente che non dispone neanche di dieci centesimi di euro al giorno per sopravvivere mi fa scoprire il valore di ogni minima cosa. Non esco più da una camera d’albergo senza spegnere la luce, consumo 11


fino in fondo un pezzo di sapone, evito di buttare quello che può ancora servire o essere riciclato. Questa esperienza unica mi fa anche scoprire la bellezza del condividere. Per due anni non incrocio mai un mendicante nelle stradine della Città della gioia. Di tutte le persone che incontro, nessuna mi tende la mano, né pretende il minimo aiuto. Anzi, non fanno altro che darmi. Vorrei appunto impedire che uomini e donne privi di tutto sacrifichino il poco che hanno per accogliere mia moglie e me secondo gli usi della generosa ospitalità indiana. Un giorno l’interprete mi segnala che una donna che sto per intervistare ha tolto la pietra preziosa dall’anellino d’oro che le pende da una narice. L’ha impegnata dall’usuraio per comprare un po’ di caffè, qualche dolciume e dei biscotti da offrirci. Per prevenire sacrifici del genere, mia moglie Dominique escogita una soluzione tipicamente indiana. Ogni volta che entriamo in un cortiletto, fa dire all’interprete che non posso accettare niente da bere e da mangiare perché quello è il mio giorno di digiuno. Temo che si preoccupino nel vedere che il fratello maggiore si priva così spesso di cibo. Mi sbaglio. Avrei dovuto pensare al Mahatma Gandhi e alla mistica del digiuno in India. Perfino gli affa12


mati di una bidonville offrono agli dèi un giorno di astinenza alla settimana. In compenso è fuori questione tornare in Francia senza riempire i bagagli della montagna di regali accuratamente avvolti che abbiamo ricevuto dai nostri fratelli e sorelle della Città della gioia. Due grosse valigie in più bastano appena a contenere tutte le loro testimonianze di amore e di generosità. * Lasciando Calcutta con una ventina di taccuini pieni di appunti, la registrazione di centinaia di ore di interviste, duemila fotografie, so di portare con me la documentazione più straordinaria di tutta la mia carriera di scrittore. Mi ci vogliono diversi giorni per riabituarmi alla calma e alla dolcezza della nostra casa di Ramatuelle e del suo ambiente paradisiaco. Ogni mattina, prima di cominciare a scrivere, per rituffarmi più facilmente nel formicaio che ho appena lasciato, nei suoi rumori, nei suoi odori, nei suoi colori, mi proietto decine di diapositive, ascolto i nastri su cui avevo registrato la sua vita frenetica. 13


Faccio tintinnare il sonaglio che mi ha dato il mio amico che trascina il risciò Hasari Pal. La voce degli ultimi «uomini-cavallo» del pianeta ai miei occhi simboleggia l’eroismo del popolo di Calcutta. Quel sonaglio diventerà il mio talismano. Non dimenticherò mai di mettermelo in tasca al momento di partire. Il racconto dell’epopea di coraggio e di sopravvivenza degli uomini, delle donne e dei bambini delle bidonville di Calcutta mi richiederà più di un anno. Quando esce La Città della gioia, il mio editore Robert Laffont decide di festeggiare l’avvenimento con un pranzo indiano in un grande albergo parigino. Annuncio subito ai milleduecento librai e invitati che abbiamo deciso di offrire il ricavato della serata agli abitanti della Città della gioia, perché anche loro possano celebrare la pubblicazione del libro che racconta la loro vita. In India, anche nella bidonville più povera si festeggiano tutti gli avvenimenti felici, e questo ne fa parte. La nostra offerta permetterà di acquistare trentacinque tonnellate di riso, ossia mezzo chilo per abitante. La Città della gioia esce poi in Spagna, in Italia, in Olanda, in Inghilterra e negli Stati Uniti. In totale 14


viene tradotto in circa trentuno lingue, tre versioni sono in braille per i non vedenti. Negli Stati Uniti riceve il Christopher Award, un premio destinato alle opere che esaltano le virtù umane e spirituali, e che ha per motto: «È meglio accendere la fiamma di una candela che maledire le tenebre». Benché sia convinto di avere raccontato un’epopea avvincente, sono realmente sorpreso nel vedere che il racconto della vita dei naufraghi di una grande città indiana scala i vertici di ogni classifica. Saranno vendute nove milioni e mezzo di copie. Ancor più sorprendente è la valanga di lettere che mi arrivano da tutti i paesi. Ne riceverò circa duecentomila. A molti messaggi si associa un aiuto finanziario per la nostra azione umanitaria: assegni, bonifici bancari, vaglia postali e perfino diversi buoni del Tesoro. Un giorno arriva una lettera con due fedi nuziali fissate su un foglio con lo scotch. Il messaggio anonimo che le accompagna spiega: «Abbiamo portato questi anelli per trent’anni di felicità. Vendeteli. Saranno più utili agli abitanti della Città della gioia che alle nostre dita». Quel gesto fa venire a Dominique un’idea ingegnosa. Invece di venderli, li porta in India con altri piccoli gioielli d’oro che abbiamo ricevuto. Un gioielliere del 15


luogo trasforma il tutto in orecchini, braccialetti o ornamenti da naso secondo il gusto bengalese. Quegli umili gioielli ci permettono di offrire una modesta dote ad alcune ragazze poverissime che Gaston conosce. Senza quel viatico non si sarebbero mai potute sposare.

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