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Enrico Merlin Veniero Rizzardi
Bitches Brew Genesi del capolavoro di Miles Davis
ilSaggiatore
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â—? In apertura, Miles al volante della sua Ferrari 275 GTB.
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Perché un libro su Bitches Brew
ostruire un intero libro che parla di un disco è di per sé un’operazione che richiede qualche giustificazione. Tra queste, il fatto che esistano già altri libri del genere è la più facile, ma forse non la migliore. È però vero che occuparsi di una specifica produzione musicale, circoscritta a un «oggetto» che la contiene, presenta, nel nostro caso, un significato speciale. Bitches Brew è stato riconosciuto fin dalla sua prima apparizione come un momento tra i più importanti della carriera di Miles Davis, ma anche un episodio singolare e alto della musica contemporanea, in generale; e nel tempo questa importanza sembra essersi accresciuta, anche per coloro che non lo avevano accolto con favore.1 Una cosa è certa: la musica contenuta in quei due dischi apparsi nella primavera del 1970 ebbe l’impatto che poteva avere soltanto qualcosa di semplicemente inaudito sulle abitudini di ascolto, di chiunque. E questa novità proveniva appunto da un disco, da un’opera musicale pensata e costruita in modo da non poter esistere al di fuori di quel formato, di quel contenitore, e delle modalità di ascolto che questo comportava. Miles Davis in person, con il suo straordinario quintetto, quasi gli stessi musicisti e quasi la stessa musica di Bitches Brew, negli stessi mesi, nei teatri e nei club di mezzo mondo, non era in grado di produrre il medesimo effetto del disco. Più tardi, il clamoroso e in parte inatteso successo dell’album avrebbe conferito una differente «aura» anche alle sue esibizioni dal vivo. Un luogo comune vuole che Bitches Brew sia una specie di opera esemplare del «jazz elettrico» e/o il capostipite di un quasi-genere che all’epoca venne chiamato «jazzrock» e che si sarebbe poi evoluto in una cosa chiamata «fusion». Queste semplificazioni sono nient’altro che apparenti ovvietà. Infatti non è tanto la presenza di strumenti elettrificati la caratteristica principale di quella musica – la sua «di-
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● La casa di Miles, 312 West 77th Street.
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stanza dal jazz» o la sua «vicinanza al rock» – bensì l’originalità del loro impiego orchestrale, una lezione che non venne subito compresa e forse non è mai stata veramente applicata; inoltre tutto ciò che caratterizzerà la «fusion» – il virtuosismo esibito, le sonorità saturate, la scrittura intricata dei temi – non si ritrova affatto in Bitches Brew. I primi a essere sorpresi, naturalmente, erano coloro che seguivano e conoscevano il jazz. Se si legge la stampa dell’epoca, appare evidente che c’era grande aspettativa verso una qualche evoluzione dei linguaggi musicali, l’attesa di un «nuovo» che sarebbe stato certamente proposto da figure «dominanti», come appunto appariva quella di Miles Davis. Dunque Bitches Brew rispondeva pienamente a questo genere di aspettative, se non che la novità giungeva da una direzione inattesa, e arrivava a mettere in questione gli elementi costitutivi – o che si supponevano tali – del jazz come koiné, molto più di quanto era successo con il free jazz sviluppatosi nel corso degli anni sessanta. Nel nuovo album si potevano ritrovare alcuni elementi noti, intatti e ancora saldamente connessi a una tradizione: la voce di Miles, eloquente come non mai in tutte le sue inflessioni, e poi gli sviluppi insolitamente complessi e fantasiosi di quello stile di improvvisazione modale che Davis stesso aveva inaugurato dieci anni prima, con magistrale innesto sulla tradizione del blues. Ma le novità più appariscenti erano elementi fino a quel momento sconosciuti al jazz. L’or10
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chestrazione pareva inventata dal nulla, basata sulla trama intessuta da due o tre strumenti elettroacustici Fender Rhodes più una chitarra, la voce inusuale di un clarinetto basso in continuo dialogo con tutti gli strumenti, la moltiplicazione degli addetti alla ritmica (due bassisti, quattro percussionisti). I ruoli tradizionali e le gerarchie strumentali ne risultavano completamente riformulati in funzione di una costante, intensa invenzione collettiva da cui si distaccava il canto del solista. La propulsione ritmica non si riferiva più allo swing e utilizzava invece la scansione binaria del rock, per farne qualcosa di più lieve ed elastico rispetto ai modelli correnti. Queste novità erano più che sufficienti per attrarre una nuova generazione di ascoltatori, un pubblico giovane che in quegli anni – a differenza di quanto si sarebbe osservato in seguito – se aveva bisogno di conferme identitarie, le cercava nell’ignoto e in ascolti avventurosi. Per chiunque, infine, le proporzioni e il respiro formale dei brani erano qualcosa di veramente alieno alle convenzioni che erano fino a quel momento circolate nelle musiche di matrice jazz o popular: Bitches Brew possedeva uno specifico «arcano», in grado di soddisfare allo stesso modo le esigenze di un ascolto esperto e anche l’abbandono a un consumo contemplativo, più o meno assistito dai prodotti chimici ricreativi molto diffusi all’epoca. Prima ancora di rendersi conto della musica, chi si avvicinava a 11
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Bitches Brew era avvertito della singolarità dell’oggetto da diversi elementi. Il titolo, intanto – voluto da Miles – che al pubblico anglofono suonava certamente provocatorio: un gioco di parole mai chiarito su «Witches’ Brew», il «calderone delle streghe», dove alle streghe si sostituivano le bitches, «cagne», una parola che Miles, secondo l’uso gergale afroamericano, usava abitualmente come sinonimo di «donna», con sfumatura – se così si può dire – di forte apprezzamento. Però, in questo caso, il senso è forse quello ulteriormente traslato di «cosa o persona fuori dal comune»: i suoi musicisti, cioè, responsabili di una prodigiosa miscela in fermentazione (brew) di ingredienti musicali.2 Ancora: la confezione doppia, allora rarissima per un album che si supponeva di jazz, un formato che solo da pochi anni il pubblico aveva cominciato ad associare ad album pop di particolare impegno. Sulla copertina la visione fantastica, gridata da colori accesi, di un’Africa magica. Mai un’immagine così decisa, programmatica, era stata associata a un disco di jazz; e anche questo suggeriva che non si trattava più, o soltanto, di jazz. Messa da parte la logora convenzione di mostrare il volto dell’artista, l’album preferiva dichiarare fin dalla confezione il suo concept e il suo valore di racconto, o di favola. La copertina era stata commissionata direttamente da Miles all’artista tedesco Mati Klarwein – già illustratore per Abraxas di Santana con un’«Annunciazione». A Klarwein era stato evidentemente richiesto un lavoro incentrato sulla dualità. La grafica dell’album raffigura una coppia abbracciata che guarda lontano verso il mare e che si fonde con le nubi, un fiore che è anche fuoco, due mani che si intrecciano e che si trasformano in un volto bifronte, nero e bianco, rivolto verso il cielo azzurro da un lato e la notte stellata dall’altro. Ambedue i volti sono imperlati di sudore (ma quello del volto bianco sembra stillare sangue). Sul retro di copertina vi sono altre due figure, un Wodaabe, in piedi, nell’estasi del Gerewol, e in basso a sinistra un’altra figura dal sesso indefinibile, assorta e avvolta nell’ombra. Dualità che rispecchia l’architettura musicale, anch’essa dominata dalla figura del doppio, o dello specchio in diversi aspetti. Nell’organizzazione dell’orchestra: due strumenti ad ancia, due tastiere, due bassi, due batterie, due percussionisti, la chitarra come «alter ego» della tromba quasi in uno sdoppiamento del modello hendrixiano voce-chitarra. Nel dialogo di Miles con i solisti: da McLaughlin a Holland, da Corea a DeJohnette, da Zawinul a Maupin a Shorter – al solista principale si contrappone sempre un altro solista, che nell’underground dello spettro sonoro, duetta, contrappunta, imita. Nella presentazione della musica fatta, composta e confezionata in due dischi, diversi per contenuto: uno contenente due brani estesi, intensamente elaborati e composti, l’altro che raccoglie quattro brani più 12
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concisi, in apparenza più semplici e immediati. Infine nella responsabilità a due, non esente da tensioni, del gioco di composizione e ricomposizione del prodotto musicale: Miles Davis e Teo Macero, entrambi ritratti all’interno dell’album. L’iconografia di Bitches Brew riproduceva e rilanciava – in una veste «psichedelica», attraente anche per un generico pubblico giovanile – il mito dell’Africa che da almeno un decennio rappresentava una potente suggestione per tanti intellettuali e artisti neri, e nutriva ormai un immaginario largamente diffuso. Negli Stati Uniti gli anni sessanta erano stati segnati dall’esplodere del problema razziale, con le rivolte del 1967, a seguito delle quali il governo aveva istituito la commissione d’inchiesta Kerman. Il rapporto conclusivo denunciava le cause del problema attribuendole alla segregazione e alla discriminazione. Una nuova ondata di rivolte era seguita all’assassinio di Martin Luther King nell’aprile del 1968. In un momento storico che molti, nel mondo occidentale, vivevano come condizione prerivoluzionaria, le rivendicazioni dei neri cominciavano a trovare riscontro in tesi politiche, come quelle del Black Panther Party, che sostenevano la lotta armata. Ma anche le opzioni pacifiste, quelle laiche o quelle confessionali, erano accomunate trasversalmente da un forte impulso all’affermazione dell’identità e dell’orgoglio afroamericano, cui il mito del panafricanesimo forniva un importante corredo culturale. Molti musicisti si erano costruiti, ognuno a modo suo, una propria Africa ideale: nel 1967 era sorto ad Harlem, fondato dal nigeriano Babatunde Olatunji, il Center of African Culture, cui avevano cominciato a fare riferimento il musulmano Yusef Lateef e il cristiano John Coltrane (una delle sue ultime esibizioni, presso Olatunji, era intitolata The Roots of Africa); nello stesso anno Phil Cohran aveva fondato a Chicago l’Affro-Arts Theater. Pharoah Sanders e Sun Ra si ispiravano ai miti dell’antico Egitto, i musicisti dell’Art Ensemble of Chicago prima di ogni esibizione si dipingevano i volti e i corpi come guerrieri. Anche Archie Shepp, marxista, vestito nel tradizionale dashiki, declinava l’internazionalismo rivoluzionario in chiave panafricana. Molti musicisti si attribuiranno nomi Swahili. Muhal Richard Abrams, tra i fondatori dell’AACM di Chicago, avrebbe commentato che non si trattava tanto di «ritornare alla sorgente» quanto di riconoscere l’importanza di un immaginario africano: «L’Africa è una mistura di tante cose […], specialmente dopo avere attraversato il periodo coloniale [...]. Ciò che è importante non è un ritorno fisico, ma mentale».3 In questo contesto la posizione di Miles Davis era senz’altro meno ideologica, ma tutt’altro che agnostica, e certamente militante. Miles, innanzitutto, si sentiva forte di un successo artistico consolidato e di un grande, indiscusso prestigio presso la comunità afroamericana, anzi 13
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nera, come sempre la definiva, evitando altri aggettivi e connotazioni più o meno culturalmente elaborate o politicamente «corrette». Miles poneva l’orgoglio razziale alla base di un programma tutto interno alla sua pratica di musicista, molto concreto, rivolto alla promozione degli artisti neri nello show business, e all’ipotesi di una possibile saldatura tra la produzione musicale popolare nera, il rhythm’n’blues soprattutto, e forme musicali più sofisticate. Cercheremo di argomentare questa prospettiva in particolare nel secondo e terzo capitolo di questo volume. Nel momento in cui si avanzavano pressioni da parte della casa discografica perché l’artista si rivolgesse a formule commercialmente più fruttuose dello stile, eccelso ma riservato, del suo quintetto jazz, Miles rivendicava un suo modo di intendere il concetto di pop music. In altre parole, se la Columbia voleva venderlo al pubblico di Bob Dylan o dei Blood Sweat & Tears, Miles pensava di poter sfruttare l’occasione per arrivare invece ai fan di James Brown. Questo atteggiamento diventerà più evidente quando, attorno agli anni ’72-’73, si farà esplicita la reinvenzione «d’autore» di una musica funky da cui i legami con la tradizione del jazz saranno quasi del tutto eliminati: la coralità poliritmica di On the Corner sarà quanto di più «africano» Miles avrà mai prodotto, nel momento in cui a New York la musica più ascoltata sarà un brano come «Soul Makossa» del camerunese Manu Dibango. Di questo percorso Bitches Brew è soltanto la prima, significativa tappa, ma allo stesso tempo il prodotto unico di un compromesso estetico che fa davvero genere a sé, poiché, nonostante il successo com-
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merciale, la musica di Miles Davis, pochi mesi dopo la registrazione di quelle storiche sedute dell’estate del 1969, sarebbe già sensibilmente cambiata e si sarebbe rivolta a nuovi esperimenti, tanto in studio quanto, diversamente, dal vivo. Una caratteristica, tuttavia, sarebbe rimasta costante, ed è proprio il metodo produttivo maturato con l’operazione di Bitches Brew, tentato qualche mese prima, anche se con risultati assai meno spettacolari, con In A Silent Way, e ricercato, preparato negli studi Columbia da almeno un anno e mezzo. Questo metodo consiste nel rendere l’approccio sperimentale, aperto, al materiale musicale, essenzialmente basato sull’improvvisazione – e solo marginalmente sulla scrittura – funzionale a un concetto di vera e propria composizione che si realizza soltanto a posteriori, manipolando e riordinando il materiale registrato. Era dunque con grande ironia che Miles ricordava la prima parte di quel lavoro, e l’apparente naturalezza del risultato finale: Non si potrebbe mai scrivere per un’orchestra quello che facemmo in Britches Brew. Fu per questo che non misi tutto per iscritto, non perché non sapessi quello che volevo; sapevo che quello che desideravo non sarebbe mai venuto fuori dalla roba prearrangiata, ma da un processo creativo. Quelle registrazioni furono improvvisazioni, ed è questo che rende il jazz così favoloso. Ogni volta che cambia il tempo, cambia tutto il nostro umore con le cose, e quindi un musicista suonerà sempre in modo diverso, specialmente se non ha niente da leggere davanti. L’umore di un musicista è la musica che suona.4 Il nuovo approccio produttivo distanzia l’esperienza di Miles Davis, almeno a partire dal 1968, da tutto il jazz contemporaneo ed è la principale ragione strutturale di gran parte dei mutamenti cui la sua musica va incontro a partire da quel momento. Nello stesso tempo questo nuovo metodo rappresenta il vero e proprio legame con lo stile delle produzioni più sofisticate della popular music dell’epoca, nonché, in ultima analisi, una delle ragioni fondamentali del disorientamento di chi ascoltava per la prima volta quella musica. Precisamente su questi aspetti si è incentrato il nostro interesse. Questo studio nasce essenzialmente dall’esigenza di mettere alla prova un metodo di indagine attorno alla musica, in quanto «musica su supporto», che mira a rispettarne e illustrarne la specificità: sia in quanto materia musicale, sia in quanto esito di un sistema produttivo, di un complesso di intenzioni artistiche ed extra-artistiche che coinvolge soggetti e 16
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competenze diverse. Il caso di Bitches Brew ha in questo senso una posizione storica privilegiata ed è particolarmente stimolante. Con ciò, era inevitabile partire dal feticcio-disco e dal coinvolgimento di chi scrive nella suggestione da esso emanata: quello che ha provveduto ad alimentare lo studio e la pazienza con cui si è cercato di smontarlo pezzo a pezzo... Nel fare questo abbiamo cercato soprattutto di mettere in ordine e mostrare al lettore un certo numero di documenti che, posti nel giusto ordine, possono ben parlare da soli e fare giustizia di molti luoghi comuni. La nostra ricerca si è svolta in massima parte tra il 2007 e il 2008, ma è in realtà in corso da diversi anni, e il suo inizio si potrebbe datare forse al 1997, in occasione della preparazione del convegno «Miles Davis. Il disco come opera d’arte» presso l’Università di Padova, cui parteciparono, tra gli altri, Laurent Cugny, Franco D’Andrea, Franco Fabbri e Gianfranco Salvatore. Fu in quell’occasione che cominciammo a riflettere sullo «specifico fonografico» come oggetto di studio, e presentammo qualche ipotesi analitica proprio su Bitches Brew, servendoci esclusivamente del materiale fino ad allora pubblicato, e di qualche notizia di prima mano raccolta soprattutto presso Teo Macero. L’edizione «completa» di Bitches Brew non era ancora uscita, e con essa le notizie poi fornite da Bob Belden circa la genesi del lavoro e in particolare il processo di postproduzione. Ciò premesso, possiamo dire che le nostre conclusioni di allora non si discostano molto dal nucleo di quanto abbiamo cercato di illustrare in questo volume, che siamo riusciti a comporre a partire dall’esame di fonti ben più ricche. Decisivo, naturalmente, è stato poter disporre del materiale sonoro depositato presso gli archivi della Sony Music, oggi proprietaria della Columbia Records, nastri che abbiamo potuto ascoltare grazie all’interessamento e all’assistenza di diverse persone, doverosamente ringraziate in altra parte del volume. Negli studi Trutone di Manhattan, che occupano oggi i locali del glorioso Record Plant, e sono dedicati al trattamento di dischi e nastri storici Columbia, abbiamo potuto ascoltare (e osservare) i nastri a otto tracce delle sedute di registrazione, i nastri di lavoro e i master finali di Bitches Brew. Si è così potuto prendere nota non soltanto del materiale musicale e verbale, inedito, depositato sui nastri relativi alle sedute vere e proprie, ma anche degli stadi intermedi dell’elaborazione del materiale, nonché verificare de visu i supporti, con i tagli e i montaggi praticati da Teo Macero insieme al tecnico Ray Moore. L’ascolto dei nastri a otto tracce è stato condotto, talora, anche su tracce separate per isolare e comprendere meglio alcune porzioni della musica registrata. A questo proposito è opportuno fornire qualche precisazione sulla natura di questi materiali e sul processo editoriale dell’album. 17
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● Pagina promozionale per l’uscita di Bitches Brew, apparsa su Down Beat, nel cui referendum annuale era risultato primo in tre categorie. «Questo successo non è insolito per Miles. È insolito che un pubblico interamente nuovo vi abbia avuto parte.»
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La registrazione della musica di Bitches Brew venne effettuata su magnetofoni Ampex a otto tracce, apparecchi che erano entrati in uso presso gli studi Columbia nel 1967. I nastri risultanti, della misura di due pollici, erano chiamati, nel gergo degli studi Columbia, job reels, nel senso di bobine (reels) relative a uno specifico progetto discografico (job): in questo volume saranno chiamati session reels oppure «nastri a otto tracce». Il materiale raccolto era quindi selezionato, tagliato e montato nel cosiddetto stereo work reel, anch’esso a otto tracce. Nel nostro caso gli stereo work reels consistono nel montaggio grezzo delle parti utili alla preparazione dei brani definitivi. I brani senz’altro ricomposti sono quelli che presentano l’interesse maggiore: gli stereo work reels di «Pharaoh’s Dance» o di «Bitches Brew», per intendersi, contengono tutta la musica dei rispettivi brani, ma priva delle parti ripetute, dei loop, e degli effetti di riverbero e delay. A partire da un materiale del genere venivano condotte tutte le operazioni successive (trattamenti, equalizzazione ecc.), finalizzate alla preparazione di una copia stereofonica, su nastro a due tracce, della misura di un quarto di pollice. Normalmente del session reel veniva archiviata una copia di riserva, procedura la cui importanza divenne cruciale nel momento in cui, nel corso del 1968, venne inaugurato il nuovo metodo di lavoro, così illustrato da Teo Macero: Non c’è più take uno... Le macchine non si fermano mai, tranne che per i riascolti. Appena lui arriva, noi facciamo partire le macchine. Tutto ciò che si fa in studio è registrato, dunque esiste una fantastica raccolta di tutto quello che viene fatto. Non c’è 18
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una sola cosa che vada perduta. Probabilmente si tratta dell’unico artista al mondo, almeno da quando me ne occupo io, di cui tutto è intatto. Prima normalmente facevamo dei master reels, ma con l’avvento delle tre e delle quattro tracce ecc. ho smesso. Non si fa più. Tiro fuori quello che voglio, copio quello che voglio, e poi l’originale torna in magazzino, intatto. E così se a qualcuno non piace quello che ho fatto, magari fra vent’anni può tornare indietro e rifare tutto.5 È certamente vero che, da un certo momento in avanti, tutto il processo di studio era fissato su nastro, comprese false partenze, prove, commenti eccetera. Ma quanto alla possibilità di disporre di copie intatte delle sedute, le cose non stanno proprio come sostiene Teo Macero. Chiunque volesse riprendere in mano la musica registrata nelle tre mattine di agosto per «rifare» a suo modo Bitches Brew non andrebbe molto lontano: dei session reels conservati negli archivi Columbia non esistono più copie integre, perché tutto il materiale utile è stato selezionato e montato insieme sugli stereo work reels mentre gli «avanzi» sono stati assemblati e archiviati su altre bobine. Non esistono più copie di riserva e comunque nessun documento sonoro che ci restituisca le sedute nella loro completezza. Se si tiene conto che quasi tutto quello che si ascolta in Bitches Brew è il frutto di un lavoro più o meno intensivo
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● Miles nello studio del suo appartamento, giugno 1969.
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● Miles con Teo nel giardino di casa, giugno 1969.
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di editing, ci si rende conto che questa perdita è sensibile. È vero, ogni mattina i magnetofoni si fermavano solo per consentire i riascolti, e se si sommano le durate dei brani montati e finiti con quelle degli avanzi di nastro rimasti, per così dire, «sul tavolo», si arriva senza troppa fatica a coprire un numero di ore vicino alle nove assegnate alle tre sedute – tenuto conto dei tempi dedicati al riascolto. Insomma, il materiale registrato ci sarebbe più o meno tutto; ma la sequenza originale è andata perduta. Certo, in alcuni casi è relativamente semplice ricostruirla ma, in almeno uno, l’operazione è incerta e complessa: naturalmente riguarda il caso più intricato e interessante, ossia «Pharaoh’s Dance». Se ne vedranno le ragioni nei capitoli quattro e cinque, dedicati rispettivamente alla «cronaca» delle tre giornate in cui fu registrato l’album e all’esame delle operazioni di postproduzione. Quanto alle altre fonti d’archivio consultate, si tratta per lo più dei documenti cartacei conservati presso gli archivi Sony Music (già Columbia Records) di New York e di quelli presenti nel lascito di Teo Macero della New York Public Library, presso il Lincoln Center.6 La collezione Teo Macero contiene una quantità di materiale che si è rivelato indispensabile alla ricostruzione delle diverse fasi della preparazione dell’album: dai moduli di impegno per la realizzazione del progetto discografico, ai fogli di produzione con annotazioni in tempo reale del pro20
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cesso di registrazione, ai diversi documenti inviati ai reparti commerciali, oltre agli appunti informali. La grande quantità di lettere e documenti contenuta nel fondo ha permesso inoltre di precisare svariati dettagli e di chiarificare il contesto dei rapporti tra l’artista e la produzione. Parte di questo materiale è stato anche utilizzato per le illustrazioni di questo volume. Diversi colloqui sono stati intrattenuti, nel tempo, con alcuni dei musicisti coinvolti nelle sedute di registrazione; con Teo Macero, con cui gli autori, quasi sempre separatamente, hanno passato un certo numero di ore in incontri di persona e al telefono; successivamente con Bob Belden, che ha prodotto le più recenti riedizioni della musica di Bitches Brew ricostruendone il processo di montaggio e postproduzione. Tuttavia, per quanto riguarda i ricordi dei musicisti e delle persone diret21
● Miles nella sua casa dell’Upper West Side.
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● Miles nella bottega di Hernando’s Leather al 13 di Christopher Street, un’istituzione della moda underground alla fine degli anni sessanta.
tamente coinvolte, il lavoro più proficuo è stato quello di raccogliere e collazionare la maggior quantità possibile di interviste, colloqui, testimonianze che nel tempo si sono accumulati. A ulteriore riprova dello status «leggendario» di Bitches Brew, è vero che i racconti relativi all’album hanno cominciato a fiorire sulla stampa già fin dagli anni settanta, a ricordi ancora freschi, e si sono in seguito stratificate altre reminiscenze, non di rado contraddittorie su questo o quel dettaglio. Un esempio, per tutti, merita di essere riferito: si tratta del racconto di Teo Macero, spesso ripetuto, circa una furibonda lite scoppiata tra lui e Miles all’inizio della prima seduta di registrazione, il 19 agosto.7 Miles avrebbe aggredito verbalmente Teo per qualche ragione legata alla sua segretaria, Corinne Chertok; ne sarebbe nato uno scambio di insulti che stava facendo 22
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fallire sul nascere la seduta, se non che Miles, dopo aver fatto il gesto di andarsene, ci avrebbe ripensato e avrebbe dato il via alla registrazione. Tutto questo sarebbe avvenuto alla presenza dei musicisti: ma nessuno di loro ricorda alcunché del genere, mentre l’ascolto dei dialoghi di studio rivela un clima molto disteso tra i musicisti e soprattutto tra Miles e il suo produttore. Può darsi che il ricordo di Teo a distanza di qualche anno fosse semplicemente impreciso, o che prelevasse da un’altra circostanza un ricordo utile a costruire un po’ di mito attorno a uno dei momenti più alti della loro collaborazione. Un ausilio prezioso sono state inoltre le dettagliate testimonianze raccolte presso i musicisti di Bitches Brew da Bob Belden e Paul Tingen, anche di quelle non confluite nelle pubblicazioni, rispettivamente, delle estese note accompagnatorie alle edizioni The Complete In A Silent Way Sessions e The Complete Bitches Brew Sessions da una parte; e dall’altra del volume Miles Beyond, materiali che gli autori ci hanno gentilmente messo a disposizione. Oltre all’esplorazione della sterminata letteratura giornalistica – ben lungi dall’essere esaurita con la preparazione di questo libro – sono state naturalmente esaminate le non poche monografie esistenti su Miles Davis. Si tratta di una produzione di valore disuguale, tra cui spiccano, per la serietà della ricerca e la ricchezza di informazioni di prima mano, le corpose biografie di John Szwed, innanzitutto, poi quella di Ian Carr; inoltre, solo per gli anni successivi al 1968, il citato studio di Paul Tingen, Electrique Miles Davis 1968-1975 di Laurent Cugny e il sito internet TheLastMiles.com mantenuto da George Cole, autore di un volume sugli ultimi anni di Miles. Un modello che abbiamo tenuto presente nella fase iniziale del lavoro, ma da cui ci siamo poi spontaneamente allontanati, con ammirazione e gratitudine, sono i due studi di Ashley Kahn su altrettanti album storici, Kind of Blue e A Love Supreme. Al pari di questi ultimi, naturalmente, il nostro libro prende in esame un aspetto molto limitato nel tempo della carriera e della musica di Miles: metà delle pagine che seguono sono dedicate a poche giornate dell’estate e dell’autunno del 1969, e il resto a una vicenda che si distende in un periodo di circa due anni e mezzo: la si troverà schematizzata in una dettagliata cronologia posta in appendice al volume. In italiano esiste soltanto un utile racconto, bene informato, sul Miles post-1968, il volume di Gianfranco Salvatore Miles Davis. Lo sciamano elettrico. Chi desiderasse un’apertura di campo potrà rivolgersi a questo e ai testi menzionati poco sopra.
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Avvertenze Nel corso del volume tutte le indicazioni di tempo cronometrico relative ai brani musicali descritti si riferiscono alle più recenti edizioni Columbia/Legacy, segnalate in apparato. In particolare, per quanto riguarda Bitches Brew, ci si riferisce ai brani presenti nell’originario album Columbia GP26, ma nelle nuove versioni dell’edizione 1998, The Complete Bitches Brew Sessions (o successive ripubblicazioni). Si tratta di un’edizione il cui attributo di «completezza» è fuorviante poiché non si riferisce a materiale inedito proveniente dalle sedute dell’agosto 1969, ma a musica registrata nei mesi successivi e, per diverse ragioni, giudicata dal curatore affine a quella di Bitches Brew. Questa pubblicazione, curata da Bob Belden, presenta in realtà un rifacimento completo delle operazioni di montaggio e trattamento sonoro condotte in origine da Teo Macero sui brani di Bitches Brew e dunque, a rigore, non riproduce il prodotto musicale del 1969 alla stregua di una vera copia conforme all’originale. L’edizione curata da Belden presenta però due vantaggi pratici: è la più recente e la più reperibile, e la qualità del dettaglio sonoro è migliore di qualunque altra edizione precedente basata sui master preparati da Teo Macero. Questi, d’altronde, sono meglio realizzati dal punto di vista dei trattamenti di postproduzione: i montaggi sono più accurati, le suture meno avvertibili, inoltre i riverberi e i delay realizzati nel 1969 con dispositivi analogici sono necessariamente differenti da quelli realizzati trent’anni più tardi con i sistemi di elaborazione numerica del segnale. L’ascoltatore curioso non avrà difficoltà a confrontare le differenti versioni, che potrà reperire sulla base dell’apparato discografico che abbiamo compilato includendo, crediamo, tutte le versioni significative del materiale dell’album finora legalmente pubblicate. Si segnala tuttavia per completezza che in Giappone sono stati pubblicati alcuni anni orsono bootlegs contenenti i materiali delle sessioni di Bitches Brew, corrispondenti nel contenuto a quel che resta dei session reels. I capitoli quattro e cinque sono dedicati alle descrizioni più minuziose dei processi, rispettivamente, di registrazione e di postproduzione della musica di Bitches Brew. Per ragioni che risulteranno evidenti nel corso della lettura, la descrizione delle versioni pubblicate dei diversi brani dell’album è divisa tra i due capitoli: nel capitolo 5 si trovano descritti i brani più intensivamente ricostruiti al montaggio, ossia «Bitches Brew» e «Pharaoh’s Dance»; nel capitolo 4 i restanti quattro brani, evidenziati graficamente all’interno della cronaca delle sedute di registrazione. Due annotazioni di stile, ancora. Nello scrivere, per quanto riguarda 24
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la terminologia specialistica abbiamo cercato di conformarci agli usi più correnti tentando, nella misura del possibile, di rendere in italiano la maggior parte delle espressioni traducibili senza troppe forzature o perdite significative. In altre parole, abbiamo tenuto presente che nel vocabolario dei musicisti e dei musicologi italiani rivolti al jazz e alla popular music si usano normalmente molte espressioni gergali dell’inglese americano. Spesso, dunque, non ci è sembrato valesse la pena di imporre artificiosamente un termine italiano magari corretto ma di uso raro o inefficace. Ciò vale più per le parole del gergo «di studio» che non per la terminologia strettamente musicale, che invece è quasi sempre in italiano. Di un solo apparente tic di scrittura vorremmo fornire la ragione. Miles Davis e Teo Macero, lungo tutto il libro, sono quasi sempre chiamati «Miles» e «Teo». Abbiamo deciso di non alterare un uso acquisito fin dai primi abbozzi del testo, frutto dell’adesione spontanea a un’abitudine diffusissima negli Stati Uniti. Non esiste una regola, naturalmente, ma è certo che non si sentirà mai nessun musicista, e nemmeno critico o studioso, riferirsi a «Davis» come invece direbbe «Bach», «Schoenberg», «Gershwin», o magari «Scott Joplin». Presso i musicisti il rispetto, anche reverenziale, per certe grandi figure del passato si esprime tuttora così, in un rapporto ininterrotto di prossimità e quasi di confidenza con la loro opera, come se questa fosse tutt’uno con la persona.
Note 1 Nel 1990 Stanley Crouch giudicava Bitches Brew punto di svolta e inizio di una «svendita» (cfr. Crouch Stanley, «Sketches of Pain. The Rise and Fall of Miles Davis», in The New Republic, 12 febbraio 1990). Nel 2003, intervistato per un documentario, lo stesso si produceva in questa rievocazione: «Quando Bitches Brew è uscito l’ho ascoltato ripetutamente. L’ho ascoltato da sobrio... L’ho ascoltato con le percezioni leggermente alterate... L’ho ascoltato con le percezioni molto alterate... per cercare di farmelo piacere. Cercavo di farmelo piacere perché era lui e non potevo credere alle mie orecchie. Si trattava solo di lunghi pezzi senza una forma, che
non andavano da nessuna parte. Dopo un po’ inizio a sentirmi come se mi avessero bloccato le mani contro un tavolo e me le trafiggessero con dei chiodi, e io non avessi potuto fare altro che ascoltare il rumore del martello sui chiodi... Oh no... ancora... Bum!». Lerner Murray, Miles Electric. A Different Kind Of Blue (Dvd Eagle Vision EREDV 263). 2 Un ulteriore elemento di ambiguità è stato suggerito dall’osservazione di Paul Tingen circa l’assenza dell’apostrofo da «Bitches». Non si tratterebbe cioè di un genitivo, ma del soggetto del verbo «to brew». Tingen Paul, Miles Beyond. The Electric Explorations of Miles Davis, 19671991, Billboard Books, New York 2001, p. 62.
3 Cfr. George E. Lewis, A Power Stronger Than Itself. The AACM and American Experimental Music, University of Chicago Press, Chicago 2008, p. 301. 4 Davis Miles con Troupe Quincy, Miles. L’autobiografia, Minimum Fax, Roma 2001, pp. 390-391. 5 Carr Ian, Miles Davis. The Definitive Biography, Harper Collins, London 2001, pp. 243-244. 6 Teo Macero Collection, The New York Public Library for the Performing Arts, Music Division. Il materiale citato proviene in prevalenza dai fascicoli 13,14,15 (nel testo abbreviato in «Fondo Macero NYPL»). 7 Ivi, pp. 258-9.
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