Bussando alle porte del cielo

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Lisa Randall

Bussando alle porte del cielo L’Universo come non l’abbiamo mai conosciuto Traduzione di Claudio Piga


www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore © Lisa Randall, 2011, 2012 © il Saggiatore S.p.A., Milano 2012 Titolo originale: Knocking on Heaven’s Door­­


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Sommario

Prefazione. La scoperta di Higgs

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Introduzione 1

PARTE PRIMA. Scale della realtà fisica 1. Per te piccolo, per me grande 2. Svelare l’arcano 3. Living in a Material World 4. Cercare risposte

13 15 39 53 71

PARTE SECONDA. Scale della materia 5. The Magical Mistery Tour 6. Se non vedo non ci credo 7. Ai confini dell’Universo

81 83 107 125

PARTE TERZA. Strumenti, misure e probabilità 8. Un anello per domarli 9. Il ritorno dell’anello 10. Buchi neri che inghiottiranno il mondo 11. Risky Business 12. Misura e incertezza 13. La strumentazione dei rivelatori cms e Atlas 14. Identificazione delle particelle

137 139 155 177 188 212 226 253


PARTE QUARTA. Modellizzazione, previsione dei fenomeni e anticipazione dei risultati 15. Verità, bellezza e altri travisamenti scientifici 16. Il bosone di Higgs 17. Il prossimo supermodello mondiale 18. Dal basso in alto – Dall’alto in basso

269 271 288 312 345

PARTE QUINTA. Scale dell’Universo 19. Dall’interno all’esterno 20. Per te grande, per me piccolo 21. Visite dal lato oscuro

357 359 374 391

PARTE SESTA. Consuntivo 22. Pensa globale, agisci locale

409 411

Conclusione 427 Ringraziamenti 435 Note 439 Indice analitico 449


Prefazione La scoperta di Higgs

4 luglio 2012: insieme a molte altre persone sparse sulla superficie della Terra, incollate allo schermo dei computer, appresi che nel grande collisore Lhc (Large Hadron Collider) del Cern, in prossimità di Ginevra, era stata scoperta una nuova particella. Fu un risultato improvviso, del quale si fa ormai un gran parlare, ma che non per questo perde il suo carattere meraviglioso: i portavoce dei due esperimenti Cms e Atlas (i due principali esperimenti in corso presso l’Lhc) annunciarono quel giorno la scoperta di una particella che aveva a che fare con il meccanismo di Higgs, quello per cui le particelle elementari acquisiscono massa. Ero estasiata. Questa era una scoperta nel senso vero della parola, non un semplice indizio o un’evidenza parziale. Era stato raccolto un numero di dati sufficiente, rispondenti agli standard rigorosi previsti per esperimenti nell’ambito della fisica delle particelle: si poteva dunque proclamare l’esistenza di una nuova particella. La raccolta di una mole ingente di dati e la successiva analisi che indicava il conseguimento di un’evidenza sufficiente erano tanto più sorprendenti, in quanto la data dell’annuncio era stata anticipata, così da coincidere con lo svolgimento di una conferenza internazionale di fisica che si teneva in Australia nella stessa settimana. Ma ciò che rendeva la scoperta più entusiasmante era il fatto che quella particella sembrava essere, in tutto e per tutto, la particella nota come bosone di Higgs. Il bosone di Higgs non è soltanto una nuova particella, ma un nuovo tipo di particella. L’aspetto emozionante della scoperta, in particolare, è che non si è trattato di una semplice conferma di certe aspettative. Nella mia carriera di ricercatrice era successo più d’una volta che si scoprissero particelle delle quali si sapeva molto bene, in anticipo, che dovevano esistere e come dovevano essere. In questo caso, invece, nessun fisico poteva garantire che un bosone di Higgs sa-


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rebbe stato effettivamente individuato mettendo in gioco le energie conseguibili ordinariamente nel corso degli esperimenti; la sua scoperta non era per niente scontata. La maggior parte dei fisici riteneva che in natura dovesse trovarsi qualcosa come un bosone di Higgs: ma non si poteva affermare con certezza che le sue proprietà fossero tali da consentirne l’individuazione sperimentale, quest’anno. Infatti alcuni fisici – tra questi Stephen Hawking – in occasione della scoperta hanno perso le loro scommesse. La scoperta conferma la validità del Modello standard della fisica delle particelle. Il Modello standard descrive i componenti della materia finora conosciuti al livello più fondamentale: per esempio i quark, i leptoni (ne è un esempio l’elettrone) e le tre forze non gravitazionali per mezzo delle quali tali componenti interagiscono: la forza elettromagnetica, l’interazione nucleare debole e l’interazione nucleare forte. La maggior parte delle particelle del Modello standard presenta una massa diversa da zero, determinata nel corso di numerose misure. Il Modello standard, che specifica il valore di quelle masse, ci consente di formulare previsioni che hanno riscontro nella realtà, per esempio sul comportamento delle particelle conosciute, con un livello di precisione pari a una frazione di per cento. Tuttavia non è ancora conosciuta l’origine della massa delle particelle previste dal Modello standard. Se le particelle avessero massa fin dall’inizio, la teoria che presuppone il Modello standard sarebbe contraddittoria: comporterebbe previsioni che vanno contro ogni logica, per esempio ne deriverebbe una probabilità d’interazione tra particelle energetiche maggiore dell’unità. Era necessario un qualche nuovo ingrediente che giustificasse quelle masse. Tale ingrediente è, precisamente, il meccanismo di Higgs: la particella che è stata trovata nel corso degli esperimenti all’Lhc è molto probabilmente il bosone di Higgs, il quale ci segnala l’esistenza del meccanismo e ci dice come esso abbia agito. In un quadro statistico più ampio, cioè disponendo di più informazione, dopo che si sarà andati avanti con la sperimentazione, sapremo meglio che cosa ci sia dietro il meccanismo di Higgs, pertanto conosceremo meglio il Modello standard. L’annuncio della scoperta, per quanto ufficiale, tiene conto delle cautele che è logico aspettarsi in un comunicato proveniente dall’ambiente della fisica delle particelle. Infatti, le misure hanno identificato un numero di eventi correlati al bosone di Higgs sufficiente per proclamare la scoperta: tuttavia non si disponeva ancora, al momento dell’annuncio, di dati sufficienti per determinare tutte le proprietà e tutte le interazioni della particella appena scoperta. Né l’accuratezza delle misure era tale da assicurarci che si trattasse di un unico bosone di Higgs, caratterizzato precisamente dalle proprietà che ci si aspetterebbe di riscontrare in una tale particella. Uno scostamento delle misure dai valori aspettati potrebbe rivelarsi perfino più interessante di un risultato in accordo perfetto con le previsioni. Fornirebbe l’evidenza definitiva a favore di una nuo-


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va teoria fisica, di livello più profondo, che costituisse un superamento del modello semplificato secondo cui si compirebbe il meccanismo di Higgs, quello sul quale si basano le ricerche in corso. Questo è il genere di cose che fa sì che i fisici teorici come me siano in allerta, dal momento che siamo impegnati nella ricerca di elementi ancora più fondamentali della materia, insieme con le loro interazioni. In ultima analisi, saranno le misure precise che ci diranno come orientare e perfezionare le nostre ipotesi. La verità è che il bosone di Higgs è una particella molto speciale e quel che in definitiva ci interessa è sapere al riguardo quanto più possibile. Qualunque cosa sia stata trovata – sia essa il bosone di Higgs, nel quale si tradurrebbe il meccanismo di Higgs nella più semplice delle ipotesi, o anche qualcosa di più elaborato del bosone – quasi certamente si tratta di qualcosa di assolutamente nuovo. L’interesse da parte del pubblico e della stampa è un dato che non può non far piacere, perché indica una sete di conoscenza e un’aspettativa positiva, a riguardo del progresso scientifico, condivise in larga parte da tutti gli uomini. Dopo tutto, questa scoperta fa luce sulla storia dell’evoluzione dell’Universo, allorché vi fu rottura della simmetria iniziale, le particelle acquisirono massa, gli atomi assunsero una forma e una struttura; dopo di che venne l’uomo. I resoconti sulla stampa presentavano un’opinione pubblica affascinata dalla scoperta ma non necessariamente consapevole della molla che faceva scattare il loro interesse. Forse la testimonianza definitiva dell’interesse per il bosone di Higgs ci viene dalla proliferazione nella stampa di aneddoti e resoconti caricaturali: indicavano insieme l’interesse per la scoperta ma anche lo sconcerto. Scrivo queste righe per rispondere a molte delle domande che mi sono state poste, per far circolare il significato di questa scoperta e per spiegare in breve quale possa essere il punto di approdo. Un po’ di quel che mi accingo a scrivere si trova già in un capitolo del mio libro precedente, Passaggi curvi, e in uno del libro che avete in mano, dove potete trovare le informazioni sulla scoperta. Questi due libri non prendono in considerazione il bosone di Higgs in sé e per sé, facendone oggetto di una disamina particolare. Trattano, invece, di numerosi argomenti, tra cui una presentazione del collisore Lhc, un inquadramento della storia della fisica della quale il bosone di Higgs costituisce il coronamento e una discussione sulla stessa natura della scienza. Cioè questi due libri forniscono il contesto per inquadrare la scoperta in una prospettiva allargata, essendo essa soltanto una parte del quadro, anche se molto importante. Ma, almeno per il momento, il bosone di Higgs merita, per la sua importanza, di essere al centro dell’attenzione. Questa breve prefazione fornisce al riguardo qualche nuova riflessione (qualcuna anche vecchia). Questo è per la fisica un momento entusiasmante, di portata incredibile: mi piacerebbe farne partecipe il lettore spiegando che cosa sia avvenuto e quale ne sia il significato.


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La sfida della scoperta Direi che il 4 luglio 2012 me la passavo meglio, rispetto al dicembre 2011, al tempo dell’ultimo bollettino su Higgs. Allora, per rispondere alle domande di un’intervista e seguire la discussione che si svolgeva al Cern, avevo dovuto puntare la sveglia prima delle cinque del mattino, visto che mi trovavo in California e che il fuso orario non era propizio. Invece, al momento di quest’altro comunicato, mi trovavo in un’isola greca, dove mi concedevo una vacanza come purtroppo mi capita di rado. Per quanto la connessione Internet fosse scadente e fossi isolata dai miei colleghi, almeno mi trovavo a un solo fuso orario di distanza da Ginevra, allorché Joe Incandela, il portavoce dell’esperimento Cms che si svolgeva presso l’Lhc, salì per primo sul podio. Poiché nel mio appartamento nell’isola greca, un po’ alla buona, non c’era Internet, venni a sapere della scoperta di Higgs seduta sulla terrazza di un caffè, che fortunatamente per me apriva i battenti alle dieci del mattino, in concomitanza con la presentazione della scoperta. Quando avevo programmato la mia vacanza non mi immaginavo certo quel che poi sarebbe successo. Sapevo che a favore della scoperta della particella di Higgs si registrava un’evidenza via via crescente, ma non potevo pensare che i tecnici si sarebbero sottoposti a un tale lavoro titanico, intensificando il ritmo delle collisioni nell’Lhc. Non potevo sapere che gli sperimentatori avrebbero compiuto anch’essi uno sforzo impressionante nel migliorare i metodi di analisi. Il risultato è che tecnici e sperimentatori avrebbero messo in grado i portavoce ufficiali di affermare con certezza (secondo gli standard dei fisici), il 4 luglio, che era stata trovata una nuova particella. Un altro fattore che contribuì alla scoperta del bosone di Higgs fu la decisione di svolgere la sperimentazione a un’energia leggermente superiore – 8 TeV (teraelettronvolt) piuttosto che i 7 TeV dell’anno precedente – il che di per sé incrementò la produzione della particella di Higgs di circa il 30%. Sono molto felice che Internet ci abbia consentito di tenerci tutti in contatto, e che Twitter abbia poi dato sfogo al mio entusiasmo (così riuscii a tenermi informata, anche quando il grande pubblico s’innestò sull’evento e, in concomitanza, si ebbe un calo di qualità nella connessione Internet). Forse per compensare quella caduta di connessione, alcuni giorni dopo partecipai a un programma radio diffuso dalla stazione wnyc. Nella discussione fuori onda, prima della trasmissione, come avviene di solito con questo programma, abbiamo passato in rassegna gli argomenti che avrebbero potuto essere toccati. Ero preparata a rispondere alla maggior parte delle domande, ma mi trovai un po’ in imbarazzo, quando mi dissero che mi sarebbe stato chiesto di esprimermi sulla gradevole descrizione della scoperta del bosone di Higgs formulata dal


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giornalista scientifico Dennis Overbye in questi termini: «Un po’ come Omar Sharif, che in Lawrence d’Arabia si materializza nella luce tremolante del deserto, assumendo il sembiante di un uomo a dorso di cammello, il bosone che sfuggiva alla vista ha fatto lentamente la sua apparizione fin dallo scorso inverno…» (New York Times, 4 luglio 2012). Una cosa è certa: nella mezz’ora che avevo davanti prima dell’intervista, non sarei arrivata a pensare qualcosa di così magico, a maggior ragione, perché quello era un film che amavo. Giusto per peggiorare la situazione, mi preparavo proprio allora a un’arrampicata su una parete rocciosa dell’isola di Càlimno, che avrei scalato in cordata con il mio compagno: una cosa che avevamo stabilito da tempo. (Però non lo dissi ai responsabili del programma radiofonico, perché giustamente avrebbero potuto preoccuparsi del collegamento.) Pensai alla risposta da dare nell’intervista. Il mio compagno mi suggeriva di dire che il bosone di Higgs era il Messia che i fisici aspettavano da cinquant’anni. Mi sembrò divertente, ma non era di grande aiuto. Volevo creare un’analogia che desse un’idea della fisica, più che un attore o il rappresentante di una divinità. Arrivai a escogitare qualcosa che non è perfetto, ma potrebbe costituire un’introduzione efficace alla scoperta vera e propria. Dissi che tutto è avvenuto un po’ come quando andiamo alla ricerca di un amico in uno stadio affollato, dove tutti gridano, dove tutti – compreso l’amico che cerchiamo – sono sorgente di rumore: ma il nostro amico, anche se ha una voce riconoscibile, è soltanto un’apparizione nella folla tumultuante. È una bella impresa, trovarlo a prima vista in mezzo al frastuono di fondo. Di tanto in tanto ci sembra di udire la sua voce, che però subito dopo viene sommersa, difficile da distinguere dalle altre voci dell’orda. Adesso ammettiamo, però, di sapere, più o meno, da che parte guardare. Sappiamo in quale settore dello stadio si trova il nostro amico, sappiamo anche a chi si accompagna. Perciò focalizziamo la nostra attenzione in una particolare direzione: quando avvertiamo la sua voce, cominciamo a nutrire la fiducia di averlo localizzato correttamente. Non c’è nessuna certezza, nell’immediato, ma possiamo indirizzare la nostra ricerca su un settore ancora più ristretto dello stadio. Infine, arriviamo al punto esatto dove la voce è inconfondibile: sappiamo a questo punto di aver trovato l’amico. La scoperta di Higgs è avvenuta veramente così. Gli eventi correlati alla particella di Higgs sono rari, a fronte di quelli prodotti dalle altre particelle ordinarie, molto più numerose. Il bosone di Higgs si relaziona con le masse delle particelle elementari, il che significa che i fisici possono prevedere le modalità della sua interazione (sempre, naturalmente, che esista): cioè, ne conosciamo la «voce». Ahimè, le sue interazioni con gli ingredienti dei protoni, però, sono debolucce. I quark e i gluoni sono soggetti all’interazione nucleare forte, molto più intensa


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della loro interazione con il bosone di Higgs: dunque, i bosoni di Higgs saranno prodotti soltanto in qualche frazione di tempo, per poi disperdersi nella «folla». Tra i miliardi di collisioni di particelle che si producono ogni secondo nell’Lhc, la produzione del bosone di Higgs è un evento raro. Molto più frequentemente, le collisioni presentano i soliti risultati, prevedibili alla luce della conoscenza ordinaria del Modello standard. Da queste collisioni ricaviamo informazioni di dettaglio sui quark (e l’interazione nucleare forte), i quali, purtroppo, intorbidano le acque nella prospettiva degli sperimentatori che vanno alla ricerca di un segnale che manifesti chiaramente la presenza del bosone di Higgs. L’unico modo di trovare la particella è avere un’idea abbastanza precisa su dove andarla a cercare: così gli sperimentatori possono distinguere il segnale utile dal «frastuono» di fondo. Il dove non si riferisce a una localizzazione fisica, come nel caso del settore dello stadio dove potremmo aspettarci di trovare il nostro amico. Si riferisce invece al dove, nel mare dei dati, ci si aspetta di trovare evidenza della particella di Higgs: con questo intendo dire il genere di eventi di collisione che è ragionevole aspettarsi, sempre che effettivamente il bosone di Higgs esista. Proprio come nel caso del nostro amico nello stadio, il bosone di Higgs risulta all’inizio sommerso dai dati del fondo. Conseguentemente gli sperimentatori sono andati a scavare attraverso milioni di milioni di eventi nella speranza di cominciare a trovare evidenza in un qualche scarto del segnale che potesse essere indizio di qualcosa di speciale. Più o meno questo è quel che si annunciava nel dicembre 2011, allorché si comunicò l’evidenza di una nuova particella, ma a un livello di appena «tre sigma», cioè con deviazione standard pari a 3. In statistica con questa espressione s’intende che la probabilità che il risultato non sia quello atteso è inferiore a qualche centesimo dell’unità. Per coloro che sono interessati ai criteri con cui precisamente un certo risultato è considerato accettabile, ricorderò che il livello tre sigma è considerato troppo basso perché si possa proclamare una scoperta: il criterio è prevalentemente empirico. Avviene talvolta che gli sperimentatori non siano ancora in grado di comprendere tutti i dettagli del loro sistema, oppure che si manifestino fluttuazioni nel segnale previsto: tutti sanno che, aspettando, la risposta verrà fuori da sola. Questa è la ragione per cui gli esperimenti richiedono un segnale con livello di confidenza superiore a cinque sigma, il che significa che le probabilità che il segnale sia attribuibile semplicemente al rumore di fondo derivante dalle particelle già conosciute sono inferiori a 1 diviso 1,7 milioni. Ma con il passare del tempo e via via che si raccoglievano nuovi dati, i fisici ebbero la possibilità di osservare sempre più da vicino i settori che mostravano qualche differenza, arrivando a selezionare una quantità di dati significativi – ai fini dell’identificazione della particella di Higgs – almeno due volte maggiore. Di-


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sponendo di dati sufficienti e con una buona comprensione delle proprietà che ci si poteva aspettare da un bosone di Higgs, emerse un segnale inequivocabile. È precisamente il segnale annunciato il 4 luglio 2012, quello che quasi certamente è in relazione con il meccanismo di Higgs, in virtù del quale le particelle acquisiscono massa.

Il meccanismo di Higgs, il campo di Higgs e il bosone di Higgs Per comprendere pienamente la portata di questa scoperta e che cosa rimanga ancora da scoprire, sarà utile far conoscenza con un po’ di fisica delle particelle, compresi alcuni concetti profondi e sottili. Per esempio, è d’importanza critica comprendere la differenza che corre tra meccanismo di Higgs, campo di Higgs presupposto da tale meccanismo e particella – o bosone – di Higgs, che è ciò che, di fatto, si può pensare d’identificare sperimentalmente. Pur in assenza di una dimostrazione sperimentale, i fisici erano abbastanza sicuri del ruolo svolto dal meccanismo di Higgs, considerato che costituiva l’unica ipotesi ragionevole con cui si potesse spiegare l’assegnazione della massa alle particelle elementari. Ma nonostante il solido fondamento teorico di quest’idea e il fallimento di tutte le altre ipotesi prodotte per spiegare la massa delle particelle, i fisici avevano bisogno – tutti – di una prova sperimentale. I risultati della sperimentazione svolta nel collisore Lhc hanno ormai assodato, abbastanza incontrovertibilmente, l’importanza del meccanismo di Higgs e del campo di Higgs sul quale il meccanismo si basa. Hanno anche accertato l’esistenza di una nuova particella in relazione al meccanismo: ma il bosone di Higgs è parte di un processo molto particolare che potrà essere confermato o scartato soltanto dopo l’acquisizione di ulteriori dati. Ecco perché il mio titolo, La scoperta di Higgs, è deliberatamente ambiguo. Il meccanismo di Higgs è responsabile dell’assegnazione della massa alle particelle elementari, per esempio è responsabile della massa di un elettrone. La massa è ciò che determina la resistenza al movimento quando si applichi una forza: se le particelle sono prive di massa, viaggiano alla velocità della luce. La massa di una particella ci dice come essa risponde alle forze alle quali è assoggettata e come viaggia nello spazio.1 Se non avesse massa, l’elettrone non si legherebbe al nucleo dell’atomo; praticamente quasi tutto ciò che diamo per scontato riguardo a questo mondo senza massa non funzionerebbe. La massa di una particella elementare, quella di un elettrone nel nostro caso, presuppone l’esistenza di ciò che i fisici delle particelle chiamano un campo: una quantità che esiste dappertutto nello spazio ma che non necessariamente implica alcuna particella vera e propria. Bisogna ammettere che il concetto di campo è un po’ esoterico. Può perfino ingenerare confusione,


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se si pensa che fuori della fisica la parola «campo» evoca l’immagine di mucche al pascolo: me ne resi conto quando per la prima volta mi imbattei nella parola champs in un testo di fisica francese. Rimane il fatto che in molti contesti effettivamente si ha a che fare con i campi (nel senso fisico della parola). Forse il campo più conosciuto è quello magnetico: accostando un magnetino al frigorifero, avvertiamo una forza di attrazione. Non c’è «niente» tra il magnetino e il frigorifero, il che è come dire che lì, in mezzo, di fatto, non c’è materia agente. Ma c’è un campo: precisamente, il campo è responsabile della forza di attrazione tra il magnetino e la superficie lucida del frigorifero. Quel campo è, naturalmente, di natura locale. Basta allontanarsi di poco dall’elettrodomestico ed ecco che l’influenza del magnetino diventa talmente trascurabile da non essere più avvertita. Il campo di Higgs, d’altra parte, è presente dappertutto, è diffuso in tutto l’Universo. Il campo non è costituito da particelle vere e proprie, in un certo senso implica che ci sia qualcosa come una carica diffusa dappertutto nello spazio vuoto. Precisamente con questa «carica di Higgs» interagiscono le particelle soggette all’interazione nucleare debole (cioè i leptoni come l’elettrone, i quark, i bosoni di gauge deboli che comunicano l’interazione nucleare debole e lo stesso bosone di Higgs, come vedremo tra poco): è così che le particelle acquisiscono massa. Le particelle assumono una massa in presenza del campo di Higgs: in particolare, le particelle più pesanti interagiscono con questo campo più intensamente; quelle meno pesanti meno intensamente. Il bosone di Higgs, d’altra parte, è una particella vera e propria: un elemento fondamentale caratterizzato da una massa e da interazioni ben definite. Anche se di per sé non è un campo, la particella è di fatto associata con il campo di Higgs. In sostanza avviene che quando sollecitiamo il campo di Higgs – aggiungendo un briciolo di energia – creiamo una particella vera e propria. Dunque c’è un campo che da un lato permea il vuoto – lo spazio vuoto – e che assume dappertutto un valore costante diverso da zero, ma quello stesso campo è anche responsabile della creazione della particella. Se consideriamo la cosa nella prospettiva della massa che le particelle acquisiscono attraverso il meccanismo di Higgs, possiamo dire che il bosone di Higgs è un’appendice che fa capolino in corso d’opera. Il bosone di Higgs di per sé non è essenziale, perché le altre particelle acquisiscano massa. Così come, chiaramente, le masse non si sono affacciate all’esistenza il 4 luglio 2012 con l’annuncio della scoperta del bosone di Higgs. Ciò che conferisce massa alle particelle è il campo di Higgs, non il bosone di Higgs. Eppure il bosone di Higgs è il segnale di riconoscimento che ci fa dire che la teoria del meccanismo di Higgs ha un suo riscontro effettivo in natura. Con


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un’energia sufficiente, un campo di Higgs può creare queste particelle, con proprietà che rispondono specificamente al ruolo svolto dal campo di Higgs nel consentire loro di acquisire massa. Quel fatidico 4 luglio 2012 abbiamo appreso che presso l’Lhc, il grande collisore di adroni del Cern, si erano finalmente prodotti abbastanza bosoni di Higgs perché i fisici potessero leggere un segnale inequivocabile, non sovrapponibile al segnale proveniente dalle altre particelle del Modello standard, della cui esistenza siamo perfettamente al corrente. In altre parole, il segnale aveva senso soltanto se s’ipotizza la presenza di una nuova particella. Il bosone di Higgs – o una varietà del bosone di Higgs, le cui proprietà si discostino da quelle che attribuiamo al bosone di Higgs nell’ipotesi più semplice d’interpretazione del meccanismo di Higgs – è inoltre essenziale per sapere come, di fatto, il meccanismo di Higgs sia venuto alla ribalta. Non c’è dubbio che i dati che si raccoglieranno in futuro possano fornire nuovi dettagli riguardo alle proprietà della particella: stabiliremo così in via definitiva se la particella trovata al Cern è parte, semplicemente, di un settore di particelle che sono conseguenza del meccanismo di Higgs, o se sia invece qualcosa di più complesso, che implica più particelle di tipo Higgs, o addirittura una struttura ulteriore che a sua volta comporta nuove forze e interazioni. È interessante riflettere sulle implicazioni di questa scoperta per la nostra comprensione del concetto di spazio «vuoto». Quando descriviamo lo spazio come vuoto, intendiamo in generale che, di fatto, nessuna materia sia presente, intendendo per materia un insieme informe che si aggrega per azione della forza di gravità, formando delle strutture. Il campo di Higgs non è assimilabile allo spazio vuoto: assume un valore diverso da zero ma rimane uniformemente distribuito dappertutto. Insomma, il campo di Higgs non nasce propriamente dalla materia. In un certo senso, si può dire che il campo di Higgs trasporta una sorta di carica, inoltre fa sì che quella carica possa, nell’ambito del campo stesso, apparire e scomparire. Noi non avvertiamo direttamente quella carica (che è associata con l’interazione nucleare debole), perché la forza a essa associata è a brevissimo raggio. Consente tuttavia, per esempio, il decadimento nucleare beta, quello per cui un neutrone decade in un protone, un elettrone e una particella neutra che prende il nome di neutrino.2 Le particelle interagiscono direttamente con il campo di Higgs, ma la loro interazione non chiama in causa le forze del Modello standard, proprio per niente. Possiamo anche dire che il bosone di Higgs di per sé comunica un certo tipo di forza, ma molto diversa da quelle di cui sappiamo qualcosa, perché quelle si limitano a presupporre una unità di carica, di valore fisso. Le interazioni delle particelle con il campo di Higgs danno adito a un ampio ventaglio di masse, in


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quanto ogni singola particella ha un’interazione con il campo caratterizzata individualmente, tutta sua. Ci si può domandare se il campo di Higgs trasporti anche energia. Non conosciamo la risposta, dal momento che tutto ciò che si riesce a misurare è l’influenza gravitazionale dell’energia netta di tutti i campi nell’Universo. L’energia dell’Universo assume un valore diverso da zero che prende il nome di energia oscura, che di per sé, e a pieno diritto, costituisce un argomento complesso e intrigante. L’energia oscura è inoltre associata con lo spazio vuoto: è l’energia posseduta dallo spazio vuoto. Einstein ci ha insegnato che ogni sorgente di energia ha un corrispettivo gravitazionale, compresa l’energia assoluta di un Universo vuoto. L’energia associata allo spazio vuoto ha conseguenze misurabili, come l’accelerazione dell’espansione dell’Universo. Il punto è che lo spazio vuoto non è veramente vuoto. Può avere energia e carica: non basta dire che non ha materia. Anche se non conosciamo l’energia trasportata dal campo di Higgs, sappiamo però che l’energia dipende dal valore assunto dal campo di Higgs. L’energia assume il suo livello più basso quando il campo di Higgs è diverso da zero. Possiamo stabilire un’analogia tra il campo di Higgs e una matita posta in bilico su un tavolo, poggiata su un’estremità: il valore zero del campo di Higgs corrisponde alla posizione in piedi della matita, mentre il campo di Higgs diverso da zero, corrispondente all’energia più bassa, è analogo alla matita caduta, disposta orizzontalmente sul tavolo. Il campo di Higgs tendenzialmente non assume la configurazione simmetrica, quella corrispondente a un valore zero del campo medesimo, ma preferisce «cadere» in una qualche direzione, rompendo la simmetria. Quando ciò avviene, l’energia assume un valore diverso da zero che è, in ultima analisi, responsabile della massa attribuita alle particelle elementari. Bisogna ammettere che tutto questo si presenta intrinsecamente come alquanto astruso, qui non c’è materia che noi si possa spargere e toccare. Ma un aspetto affascinante del meccanismo di Higgs è che ci fa intuire la ricchezza dello spazio vuoto. Prima di concludere questo argomento, risponderò ancora a una domanda interessante che mi è stata posta al riguardo: qual è l’origine della massa dello stesso bosone di Higgs? La risposta è che il bosone di Higgs interagisce con il campo di Higgs. Perciò, proprio come avviene con le altre particelle elementari, la massa del bosone di Higgs si deve ancora al campo di Higgs. Si può pensare a un’interazione fisica come a una collisione tra due particelle, dalla quale esse emergeranno, molto probabilmente, in altre direzioni. È quel che avviene quando un elettrone rimbalza su un altro elettrone, per esempio. Nel caso del bosone di Higgs, la stessa interazione che permette a due bosoni di Higgs di entrare in collisione e unirsi, consente anche a un singolo bosone di Higgs


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d’interagire con il campo di fondo: il campo esistente nello spazio vuoto. Questa è la chiave per capire una delle domande che i fisici ci pongono riguardo agli sviluppi futuri: la massa del bosone di Higgs che cosa ci dice sull’«interazione di Higgs» con se stesso? Tale auto-interazione (così viene definita) potrebbe trovare una spiegazione con gli sviluppi della fisica oltre il Modello standard. La sua spiegazione costituisce uno degli indizi più importanti – oltre alle diverse velocità di decadimento del bosone di Higgs – per comprendere la natura della particella, per andare oltre la particella stessa.

Decadimenti del bosone di Higgs Una proprietà caratteristica del bosone di Higgs – essenziale per capire come sia stato trovato – è la sua estrema instabilità. Dura soltanto una frazione di secondo, quindi si converte nelle particelle del Modello standard, come i quark e i leptoni. «Decadimento» significa che il bosone di Higgs di per sé cessa di esistere e che si formano al suo posto prodotti di decadimento (le solite particelle del Modello standard), le quali portano via la sua energia e la quantità di moto iniziali. Questo significa che quando gli sperimentatori vanno alla ricerca del bosone di Higgs, non ricercano la particella stessa, ma le particelle nelle quali esso decade. Mettendo insieme carica elettrica, energia e quantità di moto delle particelle ottenute a seguito del decadimento, è possibile stabilire se la particella d’origine fosse una particella di carica definita (carica elettrica zero, in questo caso) e di massa particolare. Nel decadimento di una particella reale, si ha a che fare con una massa reale. Così quando si traccia il grafico di tutti gli eventi registrati in funzione della massa presunta, si dovrebbe riscontrare nel grafico come una gobba: un accumulo di eventi centrati su quella massa della particella fisica. Questo è precisamente quel che è avvenuto nel corso della scoperta della particella di Higgs, ed è questa la ragione per cui è possibile che abbiate sentito gli sperimentatori che, nel presentare la loro scoperta, ricorrevano all’espressione di «gobba», o «protuberanza» (in inglese: bump). Si ha dunque una gobba e non una bella linea verticale, come accadrebbe in un mondo dove tutte le misure fossero perfette. Proprio perché non sono perfette, risultano centrate sul valore della realtà fisica; ma l’insieme dei punti rappresentativi delle misure ha un andamento decrescente, sempre più accentuato via via che ci si allontana dal valore esatto della massa del bosone di Higgs: un andamento attribuibile caratteristicamente ai piccoli errori di misura. Con l’aumentare del numero dei dati di misura, la misurazione nel complesso migliora e il segnale riportato sul grafico assume la forma di un picco sempre più stretto.


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Ma anche se le misure fossero perfette, di fatto si avrebbe ancora una dispersione dei valori di misura, anche se di minore entità: ciò avviene per ragioni di meccanica quantistica. Partiamo dalla considerazione che il bosone di Higgs decade, cioè non dura per sempre; inoltre la relazione d’indeterminazione della meccanica quantistica fa sì che la massa del bosone di Higgs appaia sbagliata per un breve intervallo di tempo (inferiore alla vita media del bosone stesso). La registrazione di quei bosoni di Higgs con masse leggermente «sbagliate» genera quella che si chiama «ampiezza di Higgs». Tale ampiezza costituisce, di fatto, una misura della vita media del bosone di Higgs. Sfortunatamente negli esperimenti all’Lhc è troppo piccola per essere misurata, dal momento che le incertezze sperimentali – di maggiore entità – conferiscono ulteriore incertezza alla massa che s’intende determinare. Anche questo è un dato di fatto: come se gli sperimentatori non avessero il loro daffare nel cercare l’ago di Higgs nel pagliaio delle particelle, c’è un altro problema ancora più insidioso che rende le misure un’impresa ancora più difficile. Il problema prende il nome di «accumulazione». Ora, l’Lhc è una macchina notevolissima per almeno due ragioni:3 la prima è che si caratterizza per un’energia superiore a quella di qualsiasi acceleratore precedente; la seconda è che presenta un’intensità notevolissima. Con «intensità notevolissima» s’intende che il ritmo di produzione degli eventi è enorme: è talmente grande che nella collisione dei pacchetti di protoni appartenenti al fascio si ha la collisione di più di due protoni per volta. Quando il collisore funziona a piena intensità, il numero delle collisioni di protoni aumenta al punto che si hanno circa trenta collisioni virtualmente nello stesso istante. La maggior parte di queste non riveste particolare interesse e non c’è pericolo che possano confondere i dati più che tanto. Ma, svolgendo uno studio di precisione come quello di determinazione del decadimento del bosone di Higgs, occorre tenere tutto sotto controllo. Perciò gli sperimentatori hanno adottato un certo numero di tecniche sofisticate per identificare quali particelle abbiano un ruolo in una collisione di un qualche interesse. Questo implica la possibilità d’identificare i prodotti di decadimento «giusti», quelli cioè provenienti da un decadimento del bosone di Higgs. Nel capitoletto seguente, un po’ più succoso, vedremo quali possano essere i prodotti di decadimento.

Modalità di decadimento Il decadimento di un bosone di Higgs comporta la sua trasformazione in altre particelle che porteranno via con sé l’energia, la quantità di moto e la carica elettrica (che, come abbiamo visto, è nulla) che caratterizzavano inizialmente il boso-


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ne. I rivelatori del collisore Lhc – l’Atlas e il Cms – sono in grado di determinare tutte le caratteristiche dei prodotti di decadimento che sciamano via dalla regione dove si è verificata la collisione dei protoni. Compito degli sperimentatori è sommare l’energia e la quantità di moto di tutte le particelle emesse dalla regione di collisione, dove si è avuta produzione e decadimento del bosone di Higgs: sarà così possibile dedurre le proprietà della particella che in quella regione ebbe esistenza temporanea. Mettendo in relazione tra loro le interazioni delle particelle derivate dal bosone di Higgs con il campo del bosone di Higgs, i fisici sono in grado di risalire alle interazioni del bosone di Higgs, a partire dalla valutazione della massa delle particelle. Tali interazioni sono importanti per studiare il bosone di Higgs, perché proprio da quelle interazioni dipende il decadimento del bosone di Higgs. Le particelle nelle quali si compie il decadimento del bosone di Higgs devono avere con lo stesso bosone di Higgs un’interazione d’intensità abbastanza grande, tale da innescare il processo di decadimento. Se il bosone di Higgs non interagisse con una certa particella, non potrebbe decadere in quella stessa particella. Il bosone di Higgs è una particella molto speciale, le cui interazioni sono in relazione con la massa delle particelle: quelle più pesanti interagiscono maggiormente con il bosone di Higgs, quelle più leggere meno. Perciò il bosone di Higgs decade per lo più nella particella più pesante, non così pesante tuttavia da perdere la propria energia durante il decadimento. Quanto più la massa è grande, tanto maggiore è l’interazione. Se però la massa della particella è troppo grande, non ci sarà energia sufficiente per produrla. Le particelle nelle quali il bosone di Higgs decade devono essere abbastanza leggere da consentire nel corso del decadimento la conservazione dell’energia, della quantità di moto e della carica: tali quantità saranno tutte trasportate via dai prodotti di decadimento. Il quark bottom è la particella più pesante, tale che il doppio della sua massa risulta inferiore alla massa attribuita al bosone di Higgs (125 GeV): dunque un bosone di Higgs può produrre un quark bottom e la sua antiparticella, l’antiquark bottom. Poiché il quark bottom è la particella più pesante ottenibile dal decadimento del bosone di Higgs, la maggior parte dei bosoni di Higgs decadono come quark e antiquark bottom. Proviamo ad analizzare quanto si è detto sopra. GeV è una bizzarra unità di massa utilizzata dai fisici delle particelle, pur essendo a rigore una misura di energia: GeV vuol dire gigaelettronvolt, cioè 1 miliardo di elettronvolt. Talvolta si parla anche di TeV (teraelettronvolt): 1 TeV equivale a 1000 GeV. Attualmente il collisore di Ginevra funziona a un’energia di 8 TeV. Si esprime il valore della massa del bosone di Higgs in GeV in virtù del fatto che l’energia misura anche la massa, attraverso la famosa formula di Einstein E = mc2: l’energia (E) e


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la massa (m) possono essere usate l’una al posto dell’altra, essendo c, la velocità della luce, costante. Il quark bottom è una delle particelle elementari. Avrete sentito parlare dei quark di tipo up e down: sono quelli che costituiscono i protoni e i neutroni. Cioè i protoni e i neutroni che si trovano nel nucleo dell’atomo non sono oggetti semplici: sono a loro volta composti di particelle più fondamentali, che prendono il nome di quark. Tali quark sono tenuti insieme dall’interazione nucleare forte: sì, da quella stessa forza alla quale ho fatto riferimento precedentemente, spesso responsabile della produzione di particelle del Modello standard, quando due protoni collidono l’uno sull’altro. Ci sono sei tipi di quark: i quark up e down sono i più leggeri. Il quark up, ha carica elettrica positiva (+ 2/3), il quark down ha carica negativa (– 1/3). Due quark up uniti a un quark down formano il protone, la cui carica e + 1. I quark up e down non sono gli unici tipi di quark. Uno dei più grandi misteri della fisica delle particelle è che per ogni tipo di particella abituale (per «abituali» intendo le particelle che esistono sulla Terra, oggi), ci sono versioni più pesanti, caratterizzate da una massa superiore, suscettibili di essere create sulla Terra all’interno degli acceleratori; alcune di esse si trovano anche nei raggi cosmici. Il quark bottom è uno dei quark più pesanti. Presenta la stessa carica elettrica negativa del quark down (– 1/3) , insieme con il quark strange; ma dei tre quark con carica (– 1/3) il quark bottom è il più pesante. La ragione per cui il bosone di Higgs decade principalmente nel quark bottom è attribuibile al fatto che il quark bottom è relativamente pesante, pertanto interagisce meglio con il bosone di Higgs, le cui interazioni sono determinate dalla massa delle particelle. Però, a differenza del quark bottom, il bosone di Higgs presenta carica elettrica pari a zero. Se dev’essere rispettata la conservazione della carica, il bosone di Higgs può decadere soltanto secondo una modalità per cui la carica netta dei prodotti di decadimento – la somma delle cariche di tutte le particelle nelle quali il bosone decade – è zero. Ora, un antiquark trasporta precisamente una carica elettrica che è la stessa del quark corrispondente, ma di segno opposto. Dunque l’antiquark bottom si caratterizza precisamente per avere una carica elettrica di segno opposto rispetto a quella del quark bottom. Le cariche del quark bottom e del suo antiquark assommano a zero, che è la carica del bosone di Higgs che si è trasformato in queste due particelle. Lo stesso discorso vale per un altro tipo di carica posseduta dai quark: oltre alla carica elettrica esiste anche un altro tipo di carica che è in relazione con l’interazione nucleare forte (la «carica di colore»). Dunque un quark bottom non è neutro, né per la forza elettrica, né per l’interazione nucleare forte. Però, mettendo insieme un quark bottom e un antiquark bottom, la somma dei due è neutra, nel senso che un quark bottom e un antiquark bottom messi insieme non


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trasportano alcuna carica netta, né carica elettrica, né carica di colore. Questa è precisamente la proprietà di un bosone di Higgs: al netto, non è portatore di alcun tipo di carica. Riassumendo, un bosone di Higgs interagisce direttamente con i quark e con le altre particelle elementari, purché abbiano massa. Però le interazioni del bosone di Higgs non avvengono soltanto attraverso le tre forze conosciute del Modello standard (forza elettromagnetica, interazione nucleare debole e interazione nucleare forte; lascio da parte la gravità, considerato che è estremamente debole). Pertanto un bosone di Higgs può decadere in un quark bottom e in un antiquark bottom senza violare nessuna legge di conservazione conosciuta. Questo è proprio quel che accade. Naturalmente, il bosone di Higgs interagisce anche con particelle più pesanti: in particolare, con il bosone di gauge debole e con il quark top. Ma il bosone di Higgs, con la sua massa di 125 GeV, non è abbastanza pesante per decadere in nessuna di queste particelle. La somma della massa di un quark top e dell’antiquark corrispondente supera ampiamente il valore di 125 GeV. Analogamente, la somma delle masse di due bosoni di gauge deboli di cariche opposte (cioè particella e antiparticella) è circa 160 GeV, un valore troppo elevato, anche in questo caso, perché un bosone di Higgs possa decadere direttamente in queste particelle. Perciò il decadimento del bosone di Higgs è prevalentemente in quark di tipo bottom (particella e antiparticella). Ma ecco il nocciolo della questione. Nel collisore Lhc l’impresa d’identificare i quark bottom e distinguerli dal «frastuono» del Modello standard si presenta tutt’altro che facile (il «frastuono» sarebbe ciò che i fisici chiamano rumore di fondo). I quark bottom sono pur sempre quark: sono talmente tanti i quark prodotti nell’Lhc che per isolare il segnale di decadimento del bosone di Higgs decaduto in antiquark bottom bisogna pensare a una qualche modalità speciale di produzione. Mi rendo conto che sto mettendo molta carne al fuoco: se vi sentite disorientati, è giusto che sia così. Volevo dire che le interazioni del bosone di Higgs sono in risposta alla massa delle particelle elementari e che si ha una maggiore interazione con le particelle più pesanti. Il fotone, per esempio, si caratterizza per una massa pari a zero: sembrerebbe allora che il bosone di Higgs non dovrebbe interagire con i fotoni, proprio per niente. Oltre a ciò, ho appena detto che il bosone di Higgs è troppo leggero per decadere in bosoni di gauge deboli. Dunque dove voglio andare a parare? Bisognerà parlare degli effetti di meccanica quantistica. La maggior parte dei decadimenti del bosone di Higgs oggi osservabili sono quelli imputabili a processi consentiti soltanto mettendo in conto la meccanica quantistica. Il bosone di Higgs può infatti decadere in due fotoni, perché questa è una possibilità del-


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la meccanica quantistica, e solo per questo. Quando si progettarono gli esperimenti che avrebbero utilizzato i dati dei rivelatori Cms e Atlas, si prese in seria considerazione la possibilità di misurare l’energia e la direzione dei fotoni nel modo più accurato possibile, così da pervenire con precisione alla scoperta del bosone di Higgs. Il decadimento del bosone di Higgs in due fotoni è possibile, dunque, in quanto la meccanica quantistica prevede l’intervento di particelle virtuali: particelle che non hanno esistenza eterna e che di fatto non hanno nemmeno la massa appropriata per essere particelle vere con possibilità di sopravvivenza nel mondo vero. Le particelle virtuali sono una gran cosa, nonché una delle molte proprietà non intuitive consentite dalla meccanica quantistica. Sono particelle che si affacciano brevemente all’esistenza, che possono avere ulteriori interazioni, destinate però a scomparire. Ora, anche se un bosone di Higgs non dovrebbe interagire con i fotoni, stando alle leggi della fisica classica (quelle che non tengono in considerazione la meccanica quantistica), tuttavia interagirà in base alle leggi della meccanica quantistica. Avverrà allora che un bosone di Higgs si trasformi in particelle che sono troppo pesanti per essere prodotte in natura, come per esempio i bosoni di gauge deboli e i top quark: sono questi i quark più pesanti del Modello standard. Le particelle pesanti scompariranno, annichilandosi l’una con l’altra: ma nel far ciò emettono fotoni. Anche se le interazioni tra un bosone di Higgs e due fotoni sono interdette (come sono interdette tutte le interazioni permesse soltanto attraverso processi di meccanica quantistica), nel complesso la modalità di decadimento in fotoni è un processo raro ma non trascurabile. Il fatto è che il bosone di Higgs decade in fotoni per circa lo 0,2% del tempo. Questo ritmo di produzione dei fotoni è abbastanza frequente da generare un segnale preciso di avvenuta produzione di fotoni, purché siano stati prodotti bosoni di Higgs in numero sufficiente. Veniamo ora alla modalità di decadimento in bosoni di gauge deboli, anch’esso importante ai fini della scoperta. È un altro tipo di decadimento, abbastanza diverso. Mi piacerebbe che questo potesse essere espresso in maniera più immediata, ma ecco la storia. In sostanza, i bosoni di gauge deboli sono prodotti come particelle virtuali: sono quelle che hanno una massa «impropria» per essere particelle fisiche vere e proprie con possibilità di sopravvivenza nel mondo reale. Ma possono avere pressoché la massa giusta. Dopo tutto, la metà di 125 GeV – la quantità di energia di cui ciascun bosone di gauge debole virtuale si trova a disporre – non è poi così distante da quegli 80 GeV che caratterizzano la massa del bosone di gauge W dotato di carica elettrica, o da quei 91 GeV che caratterizzano la massa del bosone di gauge debole neutro Z. Quel valore (125/2 GeV) è abbastanza remoto da


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quello richiesto, perché il bosone di Higgs possa decadere in due bosoni di gauge reali. Ma è abbastanza vicino a quello richiesto per il decadimento del bosone di Higgs attraverso due bosoni di gauge deboli virtuali, destinati a loro volta a decadere. Ci troviamo in una situazione che prefigura un processo a metà strada tra la meccanica classica e la meccanica quantistica. Dunque, per via del particolare valore della massa del bosone di Higgs, il suo decadimento in bosoni di gauge deboli è un’evenienza ragionevolmente frequente anch’essa. Gli sperimentatori cercano conferma di tali decadimenti verificando quello, simultaneo, di due bosoni di gauge, che non sono comunque due bosoni di gauge qualsiasi. Sono bosoni di gauge emersi dal decadimento di una particella di Higgs. Questo significa che, mettendo insieme e sommando l’energia e la quantità di moto dei prodotti di decadimento, il risultato dovrà riprodurre la massa del bosone di Higgs. Questi eventi sono dunque distinguibili dagli altri perché contribuiscono a quella «gobba» del tracciato nel quale si riporta la massa risultante dalla sommatoria delle masse dei prodotti di decadimento.

Gli sviluppi Ora che ne sappiamo di più riguardo a ciò che gli sperimentatori vanno a cercare, torniamo a considerare le tappe della scoperta nel corso degli ultimi sette mesi, dal dicembre 2011 al luglio 2012. Il collisore Lhc macinava dati ormai da due anni e mezzo. Non c’è dubbio che in tutto questo tempo uno degli obiettivi di ricerca principali fosse il bosone di Higgs. La cosa interessante è che considerazioni teoriche intrecciate con i risultati sperimentali portavano ad aspettarsi un bosone di Higgs relativamente leggero, cioè con una massa che ricadesse nell’ambito delle possibilità cinematiche dell’Lhc, che funzionava a metà soltanto dell’energia di progetto. Non avevamo la certezza che questa nostra aspettativa avrebbe trovato riscontro nella realtà, ma la consideravamo fondata. Comunque, poiché le particelle che creano il bosone di Higgs sono leggere (e pertanto interagiscono con esso debolmente), e considerato anche che il bosone di Higgs può essere osservato al meglio in modalità di decadimento che si manifestano soltanto di rado, gli sperimentatori erano consapevoli della necessità di raccogliere i dati di parecchie collisioni per poter individuare un segnale che emergesse sufficientemente dal rumore di fondo. Perciò aspettavamo tutti che fosse disponibile una quantità di dati ragionevolmente alta. Naturalmente, valse la pena aspettare. Il primo indizio concreto che qualcosa bolliva in pentola (almeno per quelli di noi che non lavoravano direttamente sugli esperimenti) venne nel dicembre 2011. Nonostante il mio affaticamento a


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causa delle ore sottratte al sonno, trovandomi in California a parecchi fusi orari di distanza da Ginevra, mi fu chiaro che succedeva qualcosa di promettente. C’era l’evidenza di una particella che decadeva in due fotoni secondo modalità che andavano oltre quanto sarebbe ragionevole aspettarsi in base al Modello standard, senza l’intervento del bosone di Higgs. Soprattutto gli esperimenti alla stazione Atlas presentavano qualcosa che aveva l’aspetto del segnale aspettato; i dati provenienti dai rivelatori della stazione Cms non escludevano tale possibilità, ma per parte loro non avevano l’aria di essere così significativi. Nei pochi mesi successivi i dati provenienti dal Cms contribuirono a far sperare sempre meglio. Quindi, da un certo punto in poi, entrambe le stazioni sperimentali fornirono l’evidenza di un segnale contenente qualcosa di nuovo, anche se non abbastanza inequivocabile da far proclamare la scoperta. La ragione per cui i fisici hanno bisogno di un segnale significativo per proclamare l’effettiva scoperta di qualcosa è che la ricerca richiede l’acquisizione di un’evidenza a favore di eventi il cui segnale sovrasti il rumore di fondo: la «gobba» alla quale accennavo in precedenza. Non c’è nessuno che possa prevedere esattamente che cosa accadrà in una qualsiasi particolare collisione: le previsioni si applicano alla media. Disponendo di poche collisioni, i dati potrebbero racchiudere segnali spuri: potrebbero presentarsi come una fluttuazione che sovrasta il rumore di fondo, che del tutto casualmente abbia l’aspetto del segnale di un bosone di Higgs. Soltanto disponendo di un numero sufficiente di dati – provenienti da un numero sufficiente di collisioni – l’eventualità di aver osservato nient’altro che una fluttuazione diventerà sufficientemente improbabile. A questo punto potremmo con giusta ragione ritenere di aver scoperto una nuova particella. Personalmente, trovai molto confortante quel risultato annunciato nel dicembre 2011. Era il migliore che si potesse sperare, per il momento, a meno che le nostre previsioni non fossero grossolanamente sbagliate. D’altra parte, il numero delle collisioni non era stato sufficiente perché si parlasse di una scoperta vera e propria: ma quando si seppe che c’erano indizi di un segnale favorevole, ebbene, era proprio quello che mi aspettavo. È tutto registrato: ho detto proprio questo, rispondendo alle domande di Dennis Overbye per il New York Times. Esposi il mio punto di vista anche nel corso di un’intervista rilasciata immediatamente prima dell’annuncio: un po’ rischioso, forse, dal momento che, in qualità di fisico teorico e non facendo parte di nessuna squadra sperimentale, non disponevo di più informazione di chiunque altro, finché il risultato non fu di dominio pubblico. I mesi successivi furono molto stimolanti per i fisici. Nell’elaborare i propri modelli, i teorici come me dovevano tenere conto dei limiti imposti dall’Lhc e della possibilità di esistenza di un bosone di Higgs con una massa di 125 GeV:


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questa era la base sulla quale lavoravamo io e altri fisici. Nel gennaio successivo feci una visita al Cern, nel grande centro di ricerca presso Ginevra dove si trovano le installazioni dell’Lhc: ebbi così un proficuo scambio d’idee con i fisici che lavorano sul campo. Gli sperimentatori mi misero al corrente dello stato delle cose, mi esposero il loro punto di vista; a loro volta erano ansiosi di saperne di più su come venissero messi a punto i modelli ai quali lavoravo in quel torno di tempo. Entrai di nuovo in contatto con la comunità degli sperimentatori del Cern nel mese di marzo, in occasione di un importante convegno internazionale (uno degli «Incontri di Moriond») che molto piacevolmente si tenne in una località sciistica italiana (che purtroppo soffrì dell’inconveniente di un’improvvisa ondata di caldo, in anticipo sull’estate). I fisici discutevano ancora su quella storia dei neutrini più veloci della luce che sarebbero stati individuati dall’esperimento Opera: ipotesi che oggi è definitivamente fuori gioco. Ma riguardo al bosone di Higgs non sentii altro che congetture, più qualche notizia di qualche modesto miglioramento delle misure. Il fisico Greg Landsberg espresse il suo disappunto per il fatto di dover parlare dei risultati di ricerca del meccanismo di Higgs dopo aver bevuto una grappa significativamente battezzata «Fantasma dell’Opera». La verità è che non c’era alcuna scoperta da presentare e che nel mese di marzo le ultime notizie non erano tremendamente confortanti. Infatti, chiedendo in giro, mi resi conto che praticamente non c’era nessuno che pensasse a un annuncio della scoperta, almeno in tempi brevi. La scoperta sarebbe venuta, invece, più rapidamente di quanto ci si aspettasse perché la squadra d’ingegneri capitanata da Steve Myers riuscì a incrementare l’intensità della macchina, mentre per parte loro gli sperimentatori impressero uno progresso significativo alle loro tecniche di analisi. Riguardo alla questione se il risultato di dicembre fosse ritenuto attendibile, la maggior parte dei fisici si aspettava che sarebbe stato confermato. Vi meraviglierete, forse, nel sapere che molti teorici avevano sperato che il segnale si dimostrasse fasullo, nella speranza di profonde conseguenze che un tale risultato avrebbe avuto per una possibile sottostante impalcatura teorica. Se non ci fosse nessun bosone di Higgs, logica vorrebbe che esista allora qualcosa di ancora più sorprendente e interessante. Devo dire, per via dei miei buoni rapporti con il pubblico – e con gli sperimentatori – che mi riusciva difficile condividere questa speranza, per quanto ricca di prospettive interessanti. Gli sperimentatori meritavano di trovare qualcosa. Avevano lavorato sodo e a lungo, nutrivano grandi speranze. Circoscrivere un problema è importante, ma una scoperta è pur sempre una scoperta. Perché finalmente, gli sperimentatori hanno una particella da misurare e intorno alla quale ragionare.


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Inoltre, lo confesso, per quanto spiegare perché la scoperta del bosone di Higgs sia interessante sia un compito impegnativo, spiegare perché sarebbe più interessante non trovarlo era un compito che ero felice di non assumere. Una delle cose divertenti dell’Incontro di Moriond, tuttavia, anche se l’attenzione era puntata principalmente sul bosone di Higgs, era che la maggior parte delle comunicazioni riportava espressioni come «particella scalare» o «bosone scalare», invece di «bosone di Higgs». Come venni a scoprire, questa cautela nasceva dal fatto che tra i presenti al convegno c’era François Englert, il quale faceva parte del gruppo di sei fisici che avevano originariamente studiato il cosiddetto meccanismo di Higgs: Peter Higgs, Robert Brout e François Englert, appunto, con la collaborazione di Gerald Guralnik, C.R. Hagen e Tom Kibble. Mi guarderò dall’entrare nell’argomento di rivendicazione di priorità, mi limito ad affermare che il meccanismo è stato il coronamento di un edificio in costruzione fin da quando Maria Curie scoprì la radioattività, mostrando che a livello subatomico succedono cose che nessuno prima di allora aveva immaginato. Tale lavoro è culminato, oggi come oggi, nella concezione del Modello standard e del meccanismo di Higgs. Englert tenne un magnifico discorso sulla particella e sul suo meccanismo: mi sorpresi nello scoprirmi così interessata, per quanto conoscessi bene la materia. Uno degli aspetti piacevoli dell’Incontro di Moriond fu, appunto, la possibilità di conoscere un po’ meglio François Englert. Anche Peter Higgs è un personaggio interessante, ma non lo conosco di persona. Quando visitai Bristol in occasione dell’Ideas Festival che si teneva lì, appresi che l’interesse di Peter Higgs era scoccato in parte a Bristol, dove frequentava la stessa scuola di Paul Dirac (il fisico che sviluppò l’idea di antimateria). Higgs in origine pensava di studiare ingegneria, come d’altra parte Dirac. Avendo poi deciso di studiare fisica delle particelle, ne fu inizialmente distolto studiò la fisica molecolare, per poi tornare felicemente al tipo di fisica che veramente suscitava il suo interesse e compiere quel suo grande exploit circa cinquant’anni fa, a Edimburgo. La storia del belga François Englert è forse ancora più sorprendente. Anche lui aveva cominciato studiando ingegneria, perciò era stato in Inghilterra «per lavorare sui cavi elettrici», come mi disse. Apparentemente la sua impresa più notevole fu quella di promuovere uno sciopero, cosa per cui fu remunerato, a condizione che lasciasse il posto subito dopo. Englert mi confessò che, tanto per cominciare, non nutriva grande interesse nei cavi elettrici, per cui quella era una proposta che non poteva rifiutare. Tornò a casa e cominciò a lavorare sui semiconduttori, un argomento più vicino alla fisica che avrebbe studiato nel seguito della sua carriera: ma il suo era un lavoro di laboratorio, non quel tipo di lavoro teorico che gli stava a cuore e al quale si sarebbe poi dedicato.


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Il passo successivo di Englert fu entrare nell’esercito belga. Per sua fortuna trovò lì una buona biblioteca, riuscì perfino a incontrare un consulente di fisica della materia condensata; conseguì la laurea mentre svolgeva le mansioni che l’esercito gli richiedeva. Quindi si spostò alla Cornell University dove ebbe un incarico di postdottorato: qui ebbe la fortuna d’incontrare Robert Brout, che sarebbe diventato il suo principale collaboratore. La collaborazione fu talmente felice che alla Cornell University offrirono un lavoro a Englert: ma lui rifiutò, preferendo tornare a Bruxelles, dove non aveva ancora un lavoro. Ancora più notevole è il fatto che Brout decidesse di raggiungerlo, per quanto a Bruxelles non avesse la prospettiva di un incarico stabile, che invece aveva alla Cornell University. In ogni caso la storia andò avanti in maniera decisamente soddisfacente. Entrambi trovarono da lavorare e proseguirono nella loro ricerca per cui Englert è in predicato di ricevere il premio Nobel (Brout purtroppo è passato recentemente a miglior vita). Entrambi ebbero un ruolo significativo – anche difficile – in Belgio, dove le nuove idee sulla fisica delle particelle elementari non avevano ancora fatto presa. Ebbi anche la soddisfazione di presentare François a un giovane professore francese, impegnato nella ricerca sul bosone di Higgs. Osservai l’interesse di Englert, e anche il suo entusiasmo, via via che si aggiornava sullo stato della più recente ricerca sperimentale: continuarono a discutere di fisica sino a tarda notte. Chiaramente il momento della verità si avvicinava per Higgs, per Englert e per gli altri potenziali laureati che avevano avuto una parte nello sviluppo della teoria di Higgs, come pure per tutti noi. Dunque, che cosa è successo tra marzo e luglio 2012? Evidentemente, un bel po’ di cose. Gli ingegneri e gli sperimentatori lavoravano sodo. Anche i fisici teorici, ma noi non eravamo al corrente degli aggiornamenti dell’ultima ora, considerato che gli sperimentatori non vedono di buon occhio la fuga di notizie, con il pericolo d’interpretazioni falsate. Perciò personalmente non ne sapevo molto più degli altri fisici, riguardo a ciò che sarebbe avvenuto. Sapevo però che i risultati della sperimentazione intesa a individuare la particella di Higgs andavano migliorando: qualcuno mi aveva riferito che un autorevole ricercatore era stato visto sorridere mentre prendeva visione dei dati (ebbene sì, questo è il tipo di lettura dei fondi di caffè alla quale talvolta ci riduciamo). Ma non sapevo dell’annuncio della scoperta del bosone di Higgs, che sarebbe venuta di lì a poco. E non ero l’unica. Ebbi l’opportunità di parlare con Rolf Heuer, direttore generale del Cern, e con Steve Myers, l’ingegnere capo, nel corso di un convegno europeo, al quale partecipai una settimana dopo l’annuncio ufficiale. Entrambi mi riferirono dell’incertezza – ma anche del colmo di eccitazione – dei giorni e delle settimane che precedevano l’annuncio. Ogni giorno si raccoglievano risultati diversi, ma convergenti. Alla data in cui erano stati fissati i seminari del


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Cern, soltanto due settimane prima di quel fatidico 4 luglio, nessuno era ancora certo dei risultati. Infatti, fino all’ultima settimana e agli ultimi giorni, i numeri presentavano un andamento fluttuante. Proclamare una scoperta è veramente un affare grosso, una responsabilità che ciascuna delle persone che aveva voce in capitolo prendeva molto sul serio. Soltanto negli ultimi giorni si fece strada la consapevolezza che si sarebbe potuto usare la parola «scoperta». A luglio, naturalmente, i ricercatori delle squadre che lavoravano alla sperimentazione in corso al Cern sapevano bene quel che succedeva. Al momento dell’annuncio, molti altri ancora, sempre nell’ambito del Cern, dovevano essere al corrente del fatto che qualcosa d’importante era sul punto di venire a galla. Gli studenti e altri ancora, che non occupavano un grado abbastanza elevato nella gerarchia del Cern, arrivarono ad accamparsi davanti alla sua palazzina, la notte prima dell’annuncio, per assicurarsi un posto nella sala delle conferenze: si dimostrò che ne valeva la pena quando, il mattino seguente, centinaia di persone furono allontanate per mancanza di posto. Joe Incandela, portavoce dell’esperimento Cms, prese la parola per primo. Cominciò discutendo le modalità di decadimento che avevano manifestato il segnale più forte, il decadimento in due fotoni e il decadimento con produzione di bosoni di gauge deboli neutri. Dopo aver illustrato con calma i risultati, presentò una schermata affermando che le due modalità di decadimento insieme davano un segnale caratterizzato da un livello di confidenza di cinque sigma, un valore che per i fisici ha il significato di un banco di prova, superato il quale si può annunciare ufficialmente la scoperta. Una cosa straordinaria. Nell’udire queste parole, la sala delle conferenze del Cern proruppe in un applauso. Sulla terrazza del mio caffè greco, non potei far di meglio che dar sfogo al mio entusiasmo con un breve messaggio via Twitter. Seguì la presentazione dei risultati ottenuti nella stazione sperimentale Atlas, non meno entusiasmante. Le scritte sulle schermate erano composte in caratteri Comic Sans, concepiti per i bambini: questa scelta ebbe un divertito riscontro in Internet e tra i miei amici sapientoni in materia di computer. Dopo la comunicazione di Joe Incandela, prese dunque la parola Fabiola Gianotti, portavoce dell’esperimento Atlas: illustrò il criterio dei cinque sigma, riscuotendo immediatamente un applauso. Per terminare la sua presentazione, dovette ricordare all’uditorio che non aveva ancora finito di parlare. Si poteva concludere, e non è cosa di poco conto, che sia nella stazione sperimentale Cms, sia nella stazione Atlas, era stata fatta una scoperta, la quale molto probabilmente era in relazione con il meccanismo di Higgs. Al termine delle due comunicazioni, Rolf Heuer riassunse i termini della questione in maniera brillante. Non sappiamo ancora per certo se quella particella è semplicemente una varietà del bosone di Higgs proposto da principio, o qualcosa di più complesso


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che svolge il medesimo ruolo: ma siamo sicuri che è stata trovata una particella che è in relazione con il meccanismo di Higgs. Infatti, entrambi gli esperimenti devono essere considerati come riusciti (a meno che non ci sia qualcosa di molto importante ancora da comprendere), per il fatto che il segnale dei due fotoni sembra presentare un guizzo verso l’alto che si discosta da quanto ci si potrebbe aspettare in base alle sole conoscenze del Modello standard: in altre parole, si è verificata una «gobba» maggiore di quanto ci si aspettasse. Nell’esperimento Cms, il segnale del canale dei fotoni è di notevole intensità, mentre il segnale dei bosoni di gauge deboli è basso. La stessa situazione si presenta per i segnali di qualche altro tipo di decadimento nell’Atlas, ancora da verificare. Nell’esperimento Atlas, d’altra parte, non soltanto i dati del decadimento fotonico superano le aspettative, ma essi sono confortanti anche riguardo al decadimento del bosone di Higgs nei bosoni di gauge deboli. Nella sua comunicazione Gianotti fece presente che con la massa del bosone di Higgs siamo molto fortunati. Ci sono infatti da studiare cinque modalità diverse di decadimento, abbastanza frequenti. Se il bosone di Higgs fosse più pesante, il decadimento in bosoni di gauge deboli, o in quark top, avrebbe un ruolo decisamente predominante. Se la massa fosse appena inferiore, il decadimento attraverso bosoni di gauge deboli virtuali costituirebbe una frazione insignificante dell’insieme dei decadimenti. Ma per questa massa particolare, fondamentalmente tutte le modalità di decadimento misurabili sono rare: non ce n’è una che prevalga sulle altre. Ciò nonostante tutte queste modalità si presentano con un segnale abbastanza forte perché la futura sperimentazione con l’Lhc ne consenta un’indagine dettagliata. Questo è un aspetto critico per stabilire se si è scoperta una singola particella, che chiamiamo bosone di Higgs, o se invece si è avuto indizio di una storia più ampia nella quale le proprietà del bosone di Higgs non sono esattamente quelle previste con la più semplice delle modellazioni. Colgo l’occasione per fare una breve digressione sugli acceleratori di particelle. Prima che in Europa si costruisse l’Lhc, in America era stato realizzato il Tevatron, un acceleratore più piccolo, dove i protoni si scontravano con antiprotoni a un’energia pari a un quarto di quella che caratterizza il funzionamento attuale dell’Lhc (un settimo dell’energia di progetto dell’Lhc, a regime). L’energia e l’intensità di collisione presso il Tevatron non sarebbero state sufficienti per scoprire il bosone di Higgs nel rispetto degli standard rigorosi che noi fisici delle particelle richiediamo. Però certamente anche al Tevatron si sarebbe potuto individuare il decadimento del bosone di Higgs. Inoltre, questa macchina era un collisore del tipo protone-antiprotone, idonea a innescare una particolare modalità di produzione di particelle di Higgs, molto più importante. Qui, diversamente che nell’Lhc, gli indizi migliori della particella di Higgs sarebbero stati i quark bottom.


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Così anche se oggi celebriamo la scoperta presso l’Lhc, mi levo tanto di cappello al cospetto degli sperimentatori del Tevatron. Di fatto, avevano misurato un accumulo di eventi con produzione di quark bottom e segnale che sembrava centrato sulla massa che correttamente corrisponde a quella del bosone di Higgs: ma il numero di eventi era troppo modesto perché si potesse parlare di una scoperta. In ogni caso, Heuer mi fece presente che i dati dell’Lhc, in quanto convergenti con quelli ricavati dal Tevatron, ne costituiscono una conferma. Il Tevatron ha ormai cessato di essere operativo: sarà dunque l’Lhc a fornire indicazioni riguardo ad altre modalità di decadimento del bosone di Higgs: tra queste, il decadimento in quark bottom, fotoni, bosoni di gauge deboli e leptoni tau (sono una versione più pesante degli elettroni). Ulteriori misure su modalità di decadimento diverse dovrebbero stabilire se queste lievi deviazioni rispetto alle aspettative del Modello standard riflettono effettivamente la realtà fisica o se siano soltanto fluttuazioni statistiche dei dati, destinate a scomparire con il tempo. Per appurarlo si ha bisogno di molte altre collisioni. Al Cern avevano previsto di chiudere l’Lhc per un anno e mezzo, alla fine di quest’anno: in questo periodo di tempo la macchina sarebbe stata ristrutturata e aggiornata. Quando tornerà in esercizio, l’Lhc funzionerà a un’energia considerevolmente superiore. Conseguentemente la ricerca disporrà di un’enorme spinta nell’individuazione di nuove particelle e nella formulazione di nuove teorie fisiche. Una settimana dopo l’annuncio della scoperta del bosone di Higgs, Rolf Heuer ci ha comunicato la bella notizia che al Cern la sperimentazione con l’Lhc continuerà per alcuni mesi, oltre la data programmata per la chiusura. Disponendo di una dilazione del tempo di funzionamento, gli sperimentatori dovrebbero essere in grado di raccogliere dati sufficienti per fare le necessarie verifiche sulla natura di ciò che è stato trovato. Pochi mesi potrebbero sembrare poca cosa, ma l’aumento dell’intensità del collisore significa che i dati più recenti portano più informazione di quelli precedenti. Aumentando sufficientemente il numero di collisioni, le proprietà del bosone di Higgs saranno conosciute meglio: una buona notizia, dunque, per coloro che vogliono sapere in quale direzione orientare la propria ricerca in questi diciotto mesi in cui il collisore sarà in disarmo. Sia come sia: c’è oggi una vasta comunità di fisici, e non solo, che guardano con interesse al risultato di questo supplemento di sperimentazione. Nuovi dati potrebbero dunque essere disponibili a breve: sapremo così se la particella individuata è il bosone di Higgs o se è l’indizio di qualcosa che si trova oltre il Modello standard. Potremmo anche venire a sapere in maniera più diretta di altre nuove particelle e interazioni, anche se è ragionevole pensare che per arrivare a questo risultato occorra perlomeno quella energia più elevata (13-


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14 TeV) che l’Lhc raggiungerà quando sarà aggiornato, al termine del periodo di chiusura di diciotto mesi. Non importa che cosa si troverà, i fisici andranno avanti. Sapremo che, semplicemente, si è individuato il bosone di Higgs; oppure, in alternativa, avremo l’evidenza dell’esistenza di una fisica che va oltre il Modello standard, che ci indicherà una nuova direzione di ricerca. Questi studi di dettaglio si giustificano ampiamente alla luce del fatto che con tutta probabilità la scoperta del bosone di Higgs, più che la fine di una storia, ne rappresenta l’inizio.

Uno scalare fondamentale? Ora che è stata trovata la particella di Higgs, naturalmente si pone il problema, di non poco conto, della direzione da prendere a partire da questo risultato. Certo, possiamo concederci una pausa per celebrare l’evento con lo champagne, come gli sperimentatori dell’Lhc usano fare. Ma, in definitiva, i fisici vogliono mettere insieme un quadro più ampio. Abbiamo finora discusso l’esistenza del campo di Higgs, che è una quantità che permea il vuoto e presenta un valore diverso da zero: da questo campo si sviluppa la massa delle particelle elementari. Se un campo presenta dappertutto e sempre un valore diverso da zero, dobbiamo dire che è un campo veramente speciale. Se è portatore di carica, significa che la carica può svanire nel vuoto, dunque la carica potrebbe non essere conservata. Se il campo non è invariante per rotazione, come farebbe una freccia che punti in una certa particolare direzione, il vuoto non manterrebbe la simmetria rotazionale. E se la particella creata dal campo presenta uno spin diverso da zero, si avrebbe parimenti rottura della simmetria rotazionale (e della simmetria di Lorentz, l’estensione della simmetria rotazionale concepita da Einstein, che include il tempo). Questo significa che la particella creata dal campo dev’essere anch’essa speciale. Deve avere spin pari a zero, il che significa che dev’essere una particella scalare (essendo una particella definita «scalare» quando abbia spin pari a zero). Lo spin è una proprietà della particella che ci dice quale comportamento dobbiamo aspettarci qualora le s’imprima una rotazione. Ci sono particelle come il fotone che hanno spin pari a 1. Altre particelle come l’elettrone o il quark hanno spin pari a 1/2. Per i fisici delle particelle, spin 0 equivale a dire che la particella di Higgs (creata dal campo associato) non è soggetta a variazioni sotto simmetrie spaziotemporali come le rotazioni. Un campo elettrico si attiva soltanto in presenza effettiva di materia carica, altrimenti si avrebbe una rottura della simmetria rotazionale. Il campo di Higgs con spin pari a zero può attivarsi in assenza di qual-


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siasi particella, dal momento che nessuna simmetria (per esempio la simmetria rotazionale) è infranta in assenza di particelle. Il campo di Higgs è il medesimo in tutte le direzioni. La ragione per cui tutto ciò è in prospettiva così interessante è che finora nessuno ha mai scoperto una particella scalare fondamentale (o elementare, come anche si dice). Le particelle scalari esistono, ma le uniche finora osservate sono «stati confinati» di particelle, costituiti da più particelle fondamentali, come quark e antiquark. C’è dunque la possibilità che il bosone di Higgs sia la prima particella scalare fondamentale mai trovata. Questo significa che il bosone di Higgs in un certo senso è veramente una nuova forma di particella. Possiamo perfino pensare che le particelle che interagiscono con il bosone di Higgs siano assoggettate a un nuovo tipo di forza, diversa dalle quattro forze conosciute. C’è però un aspetto misterioso in uno scalare fondamentale. Secondo i calcoli basati sulla teoria quantistica dei campi, che combina la meccanica quantistica con la relatività speciale, gli scalari fondamentali dovrebbero essere estremamente pesanti: 16 ordini di grandezza più pesanti del bosone più pesante mai individuato. Questi calcoli indicano che il bosone di Higgs dovrebbe essere enormemente più pesante di quanto si sia riscontrato. Già prima delle misure eseguite nel corso degli esperimenti presso l’Lhc, i fisici sapevano che la massa del bosone di Higgs non avrebbe dovuto essere molto diversa dalla massa dei bosoni di gauge deboli: più o meno l’energia associata alla rottura di simmetria, che è di circa 250 GeV. Vorrei mettere in chiaro che questo è un criterio approssimato. Non abbiamo bisogno necessariamente di una massa precisa di 250 GeV; 125 GeV vanno egualmente bene. Non ci aspettiamo però una massa di 10 milioni di milioni di milioni di milioni di GeV. Detto questo, in assenza di una nuova fisica ancora da scoprire, uno scalare fondamentale leggero costituisce un enorme pastrocchio, ciò che i fisici delle particelle chiamano un compromesso ad hoc di «sintonizzazione fine». Questo è precisamente il problema della gerarchia nella fisica delle particelle (approfondito in questo libro). La risposta a questo enigma ci verrà probabilmente da una qualche forma di più profonda conoscenza della natura: da una nuova simmetria dello spazio e del tempo, come ipotizzata nella teoria che prende il nome di supersimmetria, o anche da un’estensione dello stesso spazio, nell’ipotesi di dimensioni extra incurvate. In ogni caso, anche se il bosone di Higgs esiste, grande è la probabilità che faccia parte di un settore più ampio di nuove particelle. Ci sarebbe allora, oltre Higgs, tutta una storia che nutriamo la speranza di poter apprendere dai futuri esperimenti nell’Lhc.


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Adesso che abbiamo trovato Higgs, che cosa facciamo? Ne sapremo di più via via che l’Lhc continuerà a funzionare. Disponendo di ulteriori dati, sapremo se veramente si è scoperto il bosone di Higgs. Con l’acquisizione di nuovi risultati sperimentali, se non si trova niente, imporremo ulteriori limiti alla formulazione di nuove teorie fisiche; ma se si trova qualcos’altro di nuovo, sapremo in quale direzione proseguire. In verità, anche se la maggior parte dei fisici esita a proclamare la scoperta del bosone di Higgs – di una particella cioè che in uno specifico modello realizza il meccanismo di Higgs responsabile per l’attribuzione di massa alle particelle elementari – rimane il fatto che la scoperta è stata possibile perché le proprietà della particella trovata sono tremendamente simili a quelle che ci si potrebbe aspettare precisamente dal bosone di Higgs, così com’è stato ipotizzato. Con il livello disponibile di precisione delle misure, i dati si dimostrano conformi alle aspettative sul bosone di Higgs, fornendo, allo stato attuale delle cose, alcuni indizi su ciò che si possa trovare oltre il Modello standard. Anche se il risultato ottenuto dovrà essere inscritto in un modello più complesso di quello che si limita a ipotizzare il bosone di Higgs e nient’altro, quel che si è trovato, qualunque cosa esso sia, è parte di una teoria associata con il meccanismo di Higgs che produce la massa delle particelle elementari. In ogni caso, finché non si avrà modo di misurare decadimenti diversi con precisione maggiore, non è ancora assolutamente chiaro se responsabile del meccanismo di Higgs sia un semplice bosone di Higgs del tipo che ci sembra di aver trovato, o se invece ci sia dietro qualcosa di più complesso. Ma ciò che conosciamo allo stato delle cose è sufficiente per dare un sicuro indirizzo alle ipotesi sulle quali lavorano i fisici (tra questi, io stessa). Oltre a ciò, il bosone di Higgs, sempre che quello trovato sia il bosone di Higgs, quasi certamente non è l’unica particella fra quelle che dovevano ancora essere scoperte. L’Lhc non è stato progettato per cercare una ben definita particella. Anzi, la ricerca prosegue alla caccia di elementi ulteriori per andare oltre il Modello standard. Sapere che il bosone di Higgs è parte di un settore di particelle associato al meccanismo di Higgs fa luce certamente su un mistero – come le particelle elementari acquisiscono massa – ma lascia aperto il problema del perché quelle masse sono quel che sono. Guardando oltre, ci sono parecchie cose da fare sia per gli sperimentatori, sia per i fisici teorici. I fisici sperimentali dovranno misurare le proprietà della particella di Higgs recentemente trovata con precisione molto maggiore. Questo ci consentirà di determinare con maggiore certezza che cosa di fatto sia stato trovato. Si tratta di trovare estensioni del Modello standard che vadano oltre la nuova particella. Ogni estensione quasi certamente comporterà un settore di molte nuove particelle: sperabilmente, con molti ulteriori segnali sperimentali.


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I fisici teorici d’altra parte non mollano la presa sul problema della gerarchia. Ci spremeremo le meningi sul valore particolare di massa della particella di Higgs che sembra essere stato stabilito. Parte della mia recente ricerca riguarda il tentativo di mettere insieme le misure dell’Lhc con le teorie che sono già state sottoposte all’attenzione della comunità scientifica. I nuovi dati acquisiti potrebbero in tempi rapidi levare di torno una qualsiasi di tali speculazioni: che però sono quelle che danno un sapore al tipo di lavoro che facciamo. Le quali, naturalmente, se la fortuna ci sorride, potrebbero dimostrarsi corrette. La mia ricerca è in parte orientata alla supersimmetria. Se il mondo è veramente supersimmetrico, a ogni particella conosciuta fa riscontro una particella compagna, che presenta le stesse cariche ma con spin diverso. Si ritiene che le superparticelle (o superpartner, come anche si dice) debbano essere più pesanti delle particelle conosciute del Modello standard. Sono tuttavia abbastanza leggere per essere prodotte nell’Lhc, con l’energia disponibile. Il problema è che certe indicazioni provenienti dalla sperimentazione attuale cominciano a far sì che i modelli supersimmetrici ordinari, poco elaborati, appaiano sempre più innaturali. Si aggiunga il fatto che il valore trovato per la massa della particella di Higgs comporta una forzatura, quasi al limite del consentito, di questa stessa supersimmetria banale. La teoria della supersimmetria si giustifica in parte allineandosi con l’ipotesi di un bosone di Higgs leggero: in qualche misura rifugge da un valore della massa del bosone di Higgs come quello trovato. I modelli più semplici prevedevano che dovesse essere molto più leggero. Quindi si pone la domanda: quel che si è trovato significa che i teorici impegnati nella supersimmetria sono stati completamente fuori strada, oppure i modelli proposti sono stati troppo semplicistici? Certamente, prima di sbarazzarsi di un’idea così bella, val la pena esplorarne tutte le possibilità. Del tutto casualmente, i miei collaboratori, Csaba Csaki e John Terning, e io siamo inciampati in una spiegazione possibile di entrambi i fenomeni. Nella nostra versione della supersimmetria, alcune superparticelle sono caratterizzate da masse notevoli, altre invece no. Questo comporta una differenza importante per la ricerca presso l’Lhc, dal momento che le particelle che dovrebbero essere leggere non sono state oggetto di studio approfondito (perlomeno finora). Oltre a ciò, ulteriori interazioni del bosone di Higgs ammettono automaticamente una massa maggiore per il bosone di Higgs. In effetti, quando avevamo cominciato a lavorare a questa ricerca, focalizzavamo la nostra attenzione sull’aspetto, teoricamente interessante, di due diverse scale per le masse delle nuove particelle. Al termine della ricerca, a dicembre, il fatto che il nostro modello si adattasse facilmente alla massa del bosone di Higgs, suggerita in quella comunicazione preliminare, poteva essere messo in luce quasi come una riflessione conclusiva. All’ultimo momento, ci ricordammo di modificare l’abstract della pubblicazione che riassu-


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meva la nostra ricerca. Essendo stato quel valore di massa del bosone di Higgs confermato, sono lieta che ci siamo ricordati di fare quella precisazione. In generale, la strategia di ricerca di versioni modificate del modello supersimmetrico – o l’estensione di sistemi di altre teorie anche acquisite – è verisimilmente diversa da caso a caso. Una delle ragioni principali per cui la modellizzazione nella fisica delle particelle è così importante è che assicura che siano messe in conto tutte le possibili testimonianze che rivestono un qualche interesse. Il numero di collisioni negli esperimenti presso l’Lhc è talmente elevato che, a meno che gli sperimentatori non abbiano in mente un ben definito obiettivo, i processi fisici di un qualche interesse rischiano di rimanere sepolti nel mare di dati. L’Lhc consentirà di percorrere anche altre strade. Nell’agenda delle cose da fare c’è la ricerca sulla materia oscura, alla pari della ricerca di nuove particelle più pesanti di vario genere. La scoperta del bosone di Higgs è frutto d’ispirazione, nel senso che la particella è stata prevista e trovata. Ma la maggior parte di noi è abbastanza umile da rendersi conto che la natura può riservarci nuove sorprese.

Religione, utilità e tutto il resto… Essendomi ripromessa di rispondere ad alcune delle domande che mi sono state poste fin dal momento della scoperta del bosone di Higgs, è venuto il momento di affrontarne tre che ho sentito risuonare parecchio: A che cosa serve questo risultato? Che cosa ci può dire riguardo alla religione? Che cosa pensa di questa denominazione, «particella di Dio»? Non è difficile capire che non sono una paladina della denominazione «particella di Dio». Un intervistatore obiettò che la particella è molto importante e che svolge un ruolo critico per la materia come noi la conosciamo. Forse per sfinimento (ma anche, forse, per il fatto che mi trovavo in Grecia), feci presente che molte particelle sono critiche per la materia come la conosciamo. In un Universo monoteista sarebbe un’esagerazione isolare il bosone di Higgs come una divinità. Ma in un Universo politeista potremmo avere parecchie particelle divine. La verità è però che queste sono solo particelle, che niente hanno da vedere con la religione. Noi abbiamo la possibilità di considerare la materia su scale diverse, come spiego all’inizio di questo libro: dunque il bosone di Higgs è importante, ma il suo ruolo è ben circoscritto. Passando a un argomento contiguo, osservo che la scoperta del bosone di Higgs non dice niente intorno alla religione. Sorprendentemente, parecchi intervistatori pensavano che ci fosse una relazione e che la scoperta avrebbe perfino portato la gente in chiesa. Direi piuttosto che la scoperta dovrebbe dar credito al metodo scientifico e accendere forse la curiosità riguardo alla comprensione


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del mondo in una prospettiva scientifica. Anche quelli di noi che nutrono una razionale fiducia nel metodo scientifico sono come galvanizzati, quando una previsione scientifica si dimostra corretta. Dopo tutto, ciò che il metodo scientifico ci consente è confutare oppure corroborare le teorie, verificandone le conseguenze sperimentali. La previsione del bosone di Higgs si dimostrò corretta. Era basata su considerazioni teoriche che tenevano conto delle misure esistenti. La formulazione e la verifica della previsione del bosone di Higgs sono un riconoscimento al merito della scienza e dell’ingegnosità dei fisici, sia teorici sia sperimentali. Si è trattato di una scoperta veramente «ispirata», ma in senso scientifico. La scoperta è utile? Che si sappia, per il momento, la scoperta del bosone di Higgs non ha alcuna implicazione pratica. Ma, che ci crediate o no, nessuno sapeva a che cosa sarebbe servito l’elettrone quando fu scoperto, a suo tempo. La stessa cosa si può dire della meccanica quantistica, che poi ha svolto un ruolo decisivo nella fisica dei semiconduttori e nell’attuale industria elettronica. Così non dovrebbe destare eccessiva sorpresa il fatto che non si sia in grado, oggi, di pensare ad applicazioni pratiche della scoperta del bosone di Higgs. Sappiamo che la scoperta scientifica ha valore in quanto suscita la curiosità, gratifica la nostra capacità di porre domande profonde e fondamentali, fornisce le risposte. Nella moderna società industriale il progresso scientifico va di pari passo con un livello elevato d’istruzione e con un’economia prospera, che dipende direttamente e indirettamente dal progresso della scienza. Dopo tutto, per costruire l’Lhc e per compiere la sperimentazione che ha portato ai risultati che sappiamo, sono stati necessari metodi potenti di calcolo, nuovi sviluppi della tecnica di costruzione di poderosi elettromagneti ed elettronica di precisione. La tecnologia degli elettromagneti superconduttori sviluppata per gli acceleratori dell’Lhc trova oggi applicazione in ambito medico e industriale. Non dimentichiamo che la rete Web (funzionante su Internet) è stata sviluppata al Cern per consentire il trasferimento efficace dell’informazione tra collaboratori in diverse parti del mondo. Il progresso tecnico, come pure il progresso delle matematiche e degli studi teorici che entusiasmano studenti e grande pubblico, contribuisce al progresso della società. Alla fine della fiera, conta il fatto che gli scienziati abbiano scoperto una nuova particella: una particella che ci avverte del potere dello spazio vuoto. La sua esistenza è stata prevista quasi cinquant’anni fa in base a considerazioni teoriche e alla necessità di corroborare il Modello standard. È stata verificata grazie a un lavoro eroico, ingegneristico e sperimentale. La scoperta della particella è stata entusiasmante. È stata anche frutto d’ispirazione. Per il momento non pensiamo ad altro: godiamocela. settembre 2012


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