Paolo Farinella
Cristo non abita più qui Il grido d’amore di un prete laico Per Gesù, contro il Vaticano
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Cristo non abita pi첫 qui
Sommario
Credenziali
9
Il papa si è dimesso, ovvero il principio della fine (Quasi una pre-postfazione)
25
Dio esiliato
43
Se Cristo vedesse 43; Un abisso di fango 52; Dai Borgia in poi 58
L’idolatria del papa re
66
Infallibilità papale 66; Non più popolo di Dio 72; Il gusto del potere e il passato 81
Morte ai profeti, vita ai banditi
93
Credenti e imperatori 93; Lefebvre e gli altri. Corpi estranei a Dio 102; Il non martire Romero, agnello condotto al macello 109; «Un’efficace guida per i giovani» 114; Nato per essere prete 118
Gruppi privilegiati
121
Neocatecumenali, Comunione e Liberazione 121; Ior, un lupanare 126; Si non caste, saltem caute! 128
Roma, Lazio, Italia. Protesi del Vaticano Atei devoti 133; Sul denaro 138; Italia provincia vaticana 139; Esercizio di stile a scopo di chiarezza 143; Toccare il Verbo 144; Vaticano recidivo 151
133
Dio alla guerra
153
Comandi, don Mariano! 153; Cappellani militari e ministri religiosi 159; xxi secolo. Cavour e balalaika 165; In nome del comandamento dell’amore 168; Incidenti di percorso? 173; Del ripudio 174
Clericalismo batte laicità
180
Per il bene del popolo, per il bene di sé 180; L’epoca dei miscredenti 188; Eluana 197; «Venite, mangiate il mio pane» 199; Dentro di sé 206; Come i porci di Epicuro 208; Tricolore 150 218
Gerarchia senza popolo
226
Lo scisma sommerso 226; La guerra della restaurazione anticonciliare 232; Eclissi della legalità. Un documento nascosto 238; Un Dio extracomunitario 242
Chierici non credenti in carriera
248
Chi pensa muore 248; La strumentalizzazione di Dio 254; Amatevi come fratelli, perché io sono figlio unico 257
Dio è presente nella storia?
262
Fascia di nastro di seta ondulata rossa 262; Contro Eva 265; Dio è maschio? 279; «Dio, nessuno lo ha mai visto» 284; Riformare la Chiesa? 287; Tempo di profeti 290
Bibliografia
297
Abbreviazioni 297; Bibliografia 298
Indice dei nomi
307
Dio esiliato
Se Cristo vedesse S.C.V. è la sigla dello Stato della Città del Vaticano, nato nel 1929 con il Trattato del Laterano, che è parte dei Patti lateranensi fra l’Italia e la Santa Sede, stipulati da Pio xi, papa Achille Ratti, e Benito Mussolini, fascista e guerrafondaio, già socialista. S.C.V. è anche un acronimo, coniato dal mondo ecclesiastico, perfido nella sua lucidità: «Se Cristo Vedesse!». Nel 1969 un gruppo di cattolici francesi, preti compresi, scrisse una lettera privata, successivamente resa pubblica anche in italiano da uno storico e benemerito editore di avanguardia (La Locusta) in cui gli estensori scrivevano: «Se Cristo Vedesse.» Voi avete sentito nelle strade di Roma gli italiani decifrare così la sigla SCV (Stato della Città del Vaticano) che contraddistingue le vostre lussuose automobili […] Sembra che voi ignoriate come oggi un certo aspetto della Chiesa è «lo» scandalo, la controtestimonianza che ostacola lo splendore della fede. Tanti uomini coi quali viviamo accoglierebbero il Cristo e il suo Vangelo, ma non possono aprirgli la porta del loro cuore per colpa di coloro che serrano «in faccia agli uomini il regno dei cieli (Mt 23,13)». (Locusta 1969, 7-8)
Non c’è male per essere un libretto del 1969. All’epoca il Concilio Vaticano ii si era concluso da appena quattro anni e le riforme che sarebbe-
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ro rimaste incompiute non erano ancora cominciate. È il segno che non solo in Italia, ma anche all’estero, uno Stato che s’identifica con la Chiesa, tanto da avere anche le targhe automobilistiche, è fonte di smarrimento e di scandalo. S.C.V. è segno che gli stessi inquilini dello Stato della Città del Vaticano hanno coscienza che il luogo è orfano di Cristo e prospera nell’assenza di Dio. Se Dio c’è, o dorme o è emigrato. Se Cristo Vedesse, distoglierebbe i suoi occhi da questo luogo: il Vaticano è l’emblema genuino dell’immagine letteraria della casta meretrix che sant’Ambrogio, con un ossimoro etico-teologico molto efficace, attribuisce alla Chiesa, con la differenza che, mentre il grande vescovo di Milano escludeva la concupiscenza, oggi si è costretti ad assistere a un mercimonio di lussuria, non solo sessuale, che in Vaticano raggiunge la somma dell’abiezione politico-finanziaria e affaristica corruttiva: [Chiesa] casta meretrice, perché molti amanti la frequentano per l’attrattiva dell’amore, ma senza la sconcezza del peccato [casta meretrix, quia a pluribus amatoribus frequentatur dilectionis inlecebra et sine conluvione delicti]. (CSL 14, 1957 a Lc 3,17-23)
Il libro inchiesta di Carmelo Abbate (2011) Sex and the Vatican, uscito in contemporanea in Italia e in Francia, basandosi su testimonianze dirette, in cambio dell’anonimato rigoroso, ha descritto la vita di molti ecclesiastici dimoranti in Roma come lo specchio imperfetto delle bibliche Sodoma e Gomorra: a leggerlo occorre stomaco forte per sopportare ciò che non si può nemmeno immaginare. Sebbene i particolari che affrescano intenzioni e azioni di preti in esercizio siano raccapriccianti, si ha la sensazione di stare ancora sulla punta dell’iceberg perché l’abisso è ancora da sperimentare. Eppure i protagonisti, tutti chierici, si muovono con disinvoltura e normalità diabolica. Personalmente sono a conoscenza di studentesse di teologia, suore comprese, ricattate da lestofanti in tonaca che, in cambio di sesso, offrono assistenza materiale. Non solo in Italia, ma anche altrove, soprattutto là dove la protesta delle donne è inesistente per condizioni ambientali e culturali, come in Africa, dove i vescovi stessi per sopperire alle loro esigenze sessuali, coerenti con la cultura africana per la quale un uomo, specialmente se capo,
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senza donne non è uomo, ricorrono all’espediente di creare «istituti secolari» con la sede ufficiale nell’abitazione degli stessi vescovi. In questo modo hanno l’harem, nel rispetto della cultura locale, ma salvano la faccia ecclesiastica che li vuole celibi. È raccapricciante la cronaca pubblicata dal giornalista vaticanista Marco Politi nel 2001 e mai smentita: Preti che molestano suore, preti che abusano di suore, preti che costringono ad abortire le monache con cui hanno avuto rapporti sessuali. Emergono dagli archivi della Chiesa le denunce su un fenomeno che abbraccia i cinque continenti e che sino a ora è stato soffocato sotto la coltre del silenzio. Le denunce sono precise, firmate con nome e cognome e presentate [negli] anni novanta [alla] Congregazione vaticana per la vita consacrata, le riunioni dei Superiori degli ordini religiosi, varie Conferenze episcopali. Il 18 febbraio 1995 un rapporto viene consegnato al cardinale Martinez Somalo, prefetto della Congregazione vaticana per la vita consacrata. È un pugno nello stomaco. Si parla di suore sfruttate sessualmente, sedotte e spesso violentate da preti e missionari. Messo in allarme, il cardinale Martinez Somalo incarica un gruppo di lavoro della Congregazione di approfondire la questione con suor Maria O’Donohue, autrice del rapporto e coordinatrice per conto della Caritas internazionale e dell’agenzia Cafod (Fondo cattolico per lo sviluppo oltremare) dei programmi sull’Aids. Le sue denunce in Vaticano sono agghiaccianti. «Gli abusi sono diffusi», racconta, le segnalazioni molteplici. Aspiranti alla vita religiosa violentate dal prete cui portano i certificati necessari. Medici di ospedali cattolici avvicinati da preti che portano «ad abortire suore e altre giovani donne». Fedeli allarmati per gli abusi […] suor O’Donohue evoca la storia di un «prete che spinge una suora ad abortire, lei muore e lui celebra ufficialmente la messa da requiem» per la sventurata. Molti casi vengono riportati dall’Africa dove la cultura non favorisce il celibato e dove per tradizione «è impossibile per una donna o un’adolescente dire no a un uomo, specie a un anziano e particolarmente a un sacerdote» […] Nel 1994 [suor O’Donohue] ha trasmesso alle autorità ecclesiastiche un rapporto in cui informa che con l’espandersi dell’Aids le suore sono state identificate anche da preti come gruppo «sicuro» dal punto di vista sanitario e quindi oggetto di richieste sessuali. Certi preti le cercano
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proprio «per timore di contrarre l’Aids con prostitute». In una nazione la superiora di una comunità di suore è stata avvicinata nel 1991 da preti che le chiedevano di poter usufruire dei favori sessuali delle sue monache. Purtroppo è piuttosto diffuso il fenomeno di «preti ed esponenti della gerarchia ecclesiastica che (così viene riportato) abusano del loro potere e tradiscono la fiducia di suore coinvolte in relazioni sessuali di sfruttamento». Accade spesso che preti invitino le suore a prendere la pillola. Poi succede, invece, che in una comunità venti suore si trovino incinte contemporaneamente. Ma accade anche che le autorità ecclesiastiche locali siano sorde alle denunce. In un caso citato – 29 suore rese gravide dai preti di una diocesi – la superiora chiese invano l’intervento del vescovo. Fu, invece, «rimossa dal vescovo» e rimpiazzata da un’altra. L’appello alle istanze ecclesiastiche superiori non ebbe seguito. Testimonianze di abusi, ha dichiarato suor O’Donohue, vengono da 23 Paesi del mondo: dal Burundi al Brasile, dalla Colombia all’India, dall’Irlanda all’Italia, alla Nuova Guinea, alle Filippine, agli Stati Uniti. Le sue denunce, raccolte dal National Catholic Reporter in America e in Italia dall’agenzia Adista […], non nascono da posizioni femministe – che lei respinge – ma esigono dal Vaticano un intervento educativo a tutti i livelli. (Politi 2001)
L’insabbiamento del male è norma in Vaticano e da qui discende nelle curie sparse nel mondo. Vissi un caso simile dalle mie parti, con i mei occhi. Prima che il cardinale Siri a Genova fosse costretto a dare le dimissioni, lo aggiornai su quello che avveniva nella sua diocesi. Dal 1982, in quanto parroco a Calvari di Davagna, gestivo la «Casa di accoglienza» per ragazzi con difficoltà famigliari, anche di tossicodipendenza e di etilismo. Avevo sviluppato un’attività di consulenza con colloqui di natura psicoreligiosi, richiesti non solo da laici e laiche, ma anche da preti in grave difficoltà. Tra gli utenti c’erano anche alcune suore. Frequentai pure l’ambiente della prostituzione, perché la mamma di un ragazzo a me affidato dal tribunale dei minori era una prostituta. Quando veniva a trovare il figlio, mi raccontava situazioni e incontri con nomi e cognomi, e il mondo cominciò a crollarmi addosso. Avevo 37 anni, e una mattina all’improvviso scoprii di avere tutti i capelli bianchi. Di colpo. Le informazioni erano circostanziate, con particolari così puntuali che non potevano essere in-
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venzioni. Non lo erano, infatti. Senza fare nomi, informai il cardinale non solo del quadro generale, ma anche di quanto avveniva in una cappella (dissi anche il posto dove la cappella si trova tutt’ora) da parte di un prete con enorme responsabilità educativa che offriva suorine nude sull’altare «in sacrificio di soave odore» (Ef 5,2). Di tutto questo spaccato di vita ho materiale documentale, ma ho promesso al cardinale Dionigi Tettamanzi, che me lo chiese come favore personale, di non renderlo mai pubblico. Fino a oggi ho mantenuto la promessa. Chiesi che si facesse qualcosa e, come ho raccontato nelle «Credenziali», creai il centro specializzato di formazione permanente. Suggerii che lo psicologo salesiano padre Luciano Cian, direttore di un centro psicoattitudinale e con il quale collaboravo, ne diventasse responsabile. Organizzammo una serie di incontri riservati ai preti, che si svolgevano la domenica pomeriggio nei locali di una parrocchia di periferia. Le iscrizioni furono così numerose che si pensò di moltiplicare i corsi per dare a tutti la possibilità di intervenire (cf Andreoli 2010). Fui chiamato dal cardinale Siri, che mi diffidò dall’organizzare corsi per preti, perché la formazione era compito suo e i suoi preti non avevano bisogno di psicologia, ma di preghiera e confessione. Mi sospese dalla predicazione e dal confessare i miei parrocchiani per quindici giorni, con l’ordine che avrei potuto essere riammesso solo dopo aver sostenuto gli esami di Teologia morale con il prete Domenico Calcagno, allora parroco in un oratorio di Genova e oggi cardinale di santa romana Chiesa, noto collezionista di armi. Così è, se vi pare; così era allora e così è accaduto anche per lo scandalo della pedofilia. Se il male è male e i vescovi, a maggior ragione il papa, si vendono come custodi della morale e sono responsabili primi di quello che avviene nell’ambito dell’esercizio del loro ministero, perché il Vaticano è così restio a prendere atto che la sua «politica» religiosa e istituzionale è fallimentare? Se papa e vescovi credessero in Dio, non dovrebbero essere più umili e servire la Verità, cercando di arginare o quanto meno di limitare i danni, specialmente nei confronti di innocenti (bambini, suore, giovani donne ecc.)? Se non fosse così, ha ragione da vendere il filosofo Augusto Cavadi di Palermo che arriva a modificare il testo del Vangelo, ponendolo come emblematico titolo di un suo fortunato libro: «Non lasciate che i bambini vadano a loro» (Cavadi 2010). Se Cristo Vedesse, oggi come ieri, non saprebbe trovare parole più ade-
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guate e taglienti di quelle che il profeta Isaia pronunciò nell’ viii secolo a.C. contro il tempio di Gerusalemme, cioè il Vaticano di allora, trasformato in covo di ladrocinio e luogo di malaffare da chi ne doveva custodire la santità: Ascoltate la parola del Signore, capi di Sòdoma; prestate orecchio all’insegnamento del nostro Dio, o popolo di Gomorra! «[…] Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, non posso sopportare delitto e solennità […] Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova […].» (Is 1,10-17)
Se Cristo Vedesse! Il Vaticano, che Pio xi l’11 febbraio 1929, lo stesso giorno della firma ufficiale dei Patti, parlando ai parroci e ai quaresimalisti di Roma definì «quel tanto di corpo che bastava per tenersi unita l’anima» (Clementi 2009, 10), a distanza di quasi un secolo ne ha fatta di strada, abbandonando Cristo al suo destino e Dio nel suo cielo, con la conseguenza di sostituire il Vangelo con il Protocollo e le Beatitudini con la Diplomazia e, infine, mutando la preghiera dovuta a Dio con il culto della personalità del papa. In Vaticano il papa è superiore a Dio, se è vero che la ciurma curiale lo chiama abitualmente «il Santissimo». A questo sacrilegio si è arrivati! È la stessa situazione che denunciava già nel secolo xiii sant’Antonio di Padova, il teologo di fiducia di san Francesco di Assisi, che nei suoi Sermones pubblicamente denunciava, senza mezzi termini, la preminenza del diritto sul Vangelo e ogni sorta di mondanità, sferzando cardinali e prelati: I prelati del nostro tempo, che non sono discepoli di Cristo ma dell’anticristo, disprezzata la legittima consorte, non si vergognano di unirsi a una concubina. Nelle curie dei vescovi i birboni fanno risuonare la legge di Giustiniano e non quella di Cristo: fanno grandi chiacchiere, ma non se-
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condo la tua legge, o Signore, che ormai è abbandonata e presa in odio. [Serm. Dom. ix Pent. 1,9] Se un vescovo o un prelato della Chiesa fa qualcosa contro una decretale di Alessandro, o di Innocenzo, o di qualche altro papa, viene subito accusato, l’accusato viene convocato, il convocato viene convinto del suo crimine, e dopo essere stato convinto viene deposto. Se invece commette qualcosa di grave contro il Vangelo di Gesù Cristo, che è tenuto ad osservare sopra tutte le cose, non c’è nessuno che lo accusi, nessuno che lo riprenda [Serm. ii Dom. ii Quar. 1,4]. (Sant’Antonio di Padova [20054], 558-559; Id., 113.114; raccolta testi in Maggi (2002), 145-151).
Il Sant’Uffizio, ancora nel 1948, proibiva la traduzione in lingua italiana dei Sermones Dominicales, perché i fedeli non erano pronti (dopo sette secoli!) a sostenerne l’impatto dirompente. Probabilmente il discorso era un altro: forse i fedeli non dovevano sapere quello che il santo degli impossibili pensava e diceva di cardinali e vescovi. Il metodo è sempre lo stesso; di fronte al male denunciato, il Vaticano elimina il denunciante, ma lascia intoccabile il delinquente, come dimostrano gli eventi anche recenti: il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto dell’ex Sant’Uffizio, durante la sua presidenza ha negato e anche protetto, fino ad avocare a sé i fatti orrendi di pedofilia che sarebbero scoppiati incontenibili all’inizio del suo pontificato, mettendolo in ginocchio e costringendolo a prendere cauti provvedimenti. Egli si rifiutò colpevolmente di agire contro padre Lawrence Murphy, che dal 1950 al 1974, per ventiquattro anni di seguito, aveva abusato sessualmente di duecento giovani sordi: non si trattava di un caso sporadico, ma di un «sistema» durato un quarto di secolo! Questa gente non può celebrare l’Eucaristia quotidiana. L’ostia potrebbe bruciargli nelle mani. Le sopraggiunte dimissioni di Benedetto xvi cambiano davvero poco le cose: i responsabili del degrado curiale, e non solo, sono rimasti ai loro posti, a partire dal cardinal Tarcisio Bertone, a cui è spettata ex lege l’organizzazione del conclave. Come poteva essere credibile Benedetto xvi, quando citava il Vangelo o parlava di «dittatura del relativismo»? Non è stato forse lui più relativista perché, per interesse dell’istituzione Chiesa, ha nascosto la verità e ha permesso che criminali ignobili continuassero a perpetrare delitti e misfatti sulla pelle di bambini e famiglie impotenti?
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Un’altra prova di questo assatanamento istituzionale per cui la facciata del perbenismo viene prima della verità e della giustizia riguarda un prete onesto, monsignor Carlo Maria Viganò, che svelò dentro il Vaticano stesso una satanica trama di inganni, di furti, di corruttela anche cardinalizia e fece quello che un giusto avrebbe fatto, senza guardare al suo interesse: disse tutto al papa perché provvedesse. Portò le cifre, fece nomi e cognomi, elargì le prove, dimostrando che solo economicamente, avendo abolito i furti, aveva fatto risparmiare al Vaticano, cioè al papa, molti milioni di dollari. Il papa, Benedetto xvi, il papa spirituale, il papa timido, lo smentì, schierandosi dalla parte dei delinquenti e dei corrotti che erano protetti ancora una volta dal primo dei suoi collaboratori, dal segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Monsignor Carlo Maria Viganò, nominato nel 2009 segretario del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, mise mano alla verifica dei conti per comprendere da dove derivasse la quantità di debiti del suo ufficio. Scoprì che i debiti non piovevano dal cielo, ma erano frutto consapevole e voluto «a causa di tante situazioni di corruzione e prevaricazione da tempo radicate nella gestione delle diverse direzioni del governatorato» (Nuzzi 2012, 56), come egli stesso scrisse a papa Benedetto xvi per mettersi al riparo dalle manovre del segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Ma Benedetto xvi, Joseph Ratzinger, era un papa che non governava. Al posto suo ci pensava il segretario, Georg Gänswein, che formava una «muraglia cinese» attorno al papa, in accordo con la segreteria di Stato e l’Opus Dei. Costoro esercitavano il vero potere al di là di ogni mandato, perché il cardinale Bertone «negli ultimi anni è riuscito a costruire una ragnatela di potere, nominando cardinali e monsignori di sua fiducia alla guida di numerosi enti chiave in Vaticano» (ivi, 53). Per chi era in grado di manipolare il papa, come il segretario personale e il segretario di Stato, era anche esigenza vitale che la funzione papale fosse indiscussa e monocratica, senza incrinature: infatti, solo in un sistema monarchico oscenamente deificato potevano prosperare, manovrare, commettere delitti e restare impuniti. Di fronte alla scoperta di monsignor Carlo Maria Viganò che la segreteria di Stato era coinvolta insieme ad altri «eminentissimi cardinali» e prelati prezzolati nel sistema di corruttela diffuso, il papa fu costretto dai suoi «collaboratori» stretti a esiliare il segretario del Governatorato, non a scacciare i ladri e i profittatori. Monsi-
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gnor Viganò aveva portato al papa la prova regina della corruzione e della sua onestà: aveva trovato un disavanzo di quasi otto milioni di euro relativo all’anno 2009 e per l’anno successivo presentava un consuntivo con un avanzo di oltre 42 milioni. Monsignor Viganò, che in qualunque società di profitto sarebbe stato premiato e promosso, in Vaticano, lo Stato dove si professa l’ateismo pratico in nome di Dio evanescente, venne giubilato, secondo la consolidata prassi clericale: promoveatur ut amoveatur, si tolga di mezzo con la finta di una promozione. Capita spesso, nelle burocrazie, che l’esigenza di guardarsi le spalle spinga i funzionari a preferire i colleghi solidali con la corporazione e che non si facciano promotori di sfide radicali. Più chiusa in se stessa è la burocrazia, più sarà mediocre e convenzionale. (Fox 2012, ix)
Per togliere di mezzo il servo onesto e fedele, lo si promosse alla sede prestigiosa di nunzio del papa negli Stati Uniti. Obiettivo raggiunto: tra il giusto e gli ingiusti il papa mise l’oceano in mezzo, lasciando che la corruzione rimanesse solida a sostenere il suo assolutismo di facciata. I profittatori travestiti da donna che vivono in Vaticano tirarono un sospiro di liberazione e nel brindisi di vittoria annegarono la morale e la credibilità del papa, che così mostrò di avere resa la sua anima al potere. Come se niente fosse, lo stesso papa che esiliò l’onesto Viganò e premiò i disonesti protetti dal suo segretario di Stato, Bertone & Company, il 30 settembre 2012 nell’ultimo Angelus, prima di lasciare Castel Gandolfo, dichiarò che anche all’interno della Chiesa stessa, può capitare, a volte, che si faccia fatica a valorizzare e ad apprezzare, in uno spirito di profonda comunione, le cose buone compiute dalle varie realtà ecclesiali. Invece dobbiamo essere tutti e sempre capaci di apprezzarci e stimarci a vicenda, lodando il Signore per l’infinita «fantasia» con cui opera nella Chiesa e nel mondo.
Dov’è Dio? Possiamo da credenti confondere Dio con «questo» mondo per il quale Cristo stesso non ha pregato perché regno di tenebre e di peccato?
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Un abisso di fango Salvami, o Dio: l’acqua mi giunge alla gola. Affondo in un abisso di fango, non ho nessun sostegno; sono caduto in acque profonde e la corrente mi travolge. Sono sfinito dal gridare […] nell’attesa del mio Dio. Sono più numerosi dei capelli del mio capo quelli che mi odiano senza ragione. Sono potenti quelli che mi vogliono distruggere, i miei nemici bugiardi: quanto non ho rubato, dovrei forse restituirlo? (Sal 69 [68], 2-5)
Il Vaticano che Pio xi, modestamente, definiva «quel tanto di corpo» a garanzia dell’anima, si è trasformato via via in strumento di perdizione certa dell’anima e del corpo, campo di raccolta della delinquenza organizzata che ha dilapidato etica e coerenza per mettersi al servizio delle forze del male: il potere che nell’Istituto per le Opere di Religione, il famigerato e discusso Ior, creato nel 1942 da Pio xii per aiutare le missioni nel mondo, ha trovato il suo epicentro di malaffare e di criminosità, epicentro addirittura coinvolto in omicidi e traffici mafiosi. Il Signore è stato lapidario a questo riguardo: Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. (Mc 10,42-44)
Se il piccolo territorio che dovrebbe essere la garanzia dell’indipendenza del papa si comporta allo stesso modo delle nazioni del mondo che dominano e opprimono, dov’è la differenza? Il potere perseguito sempre e comunque, attraverso i due strumenti diabolici che affascinano l’umanità fin dalle origini del mondo – denaro e sesso –, inevitabilmente diventa il segno macroscopico che Dio non può non essere altrove perché il divino non può coesistere con il diabolico. Potere, denaro e sesso sono i «trascendentali» espressi dall’acrostico S.C.V., lo Stato della Città del Vaticano, ovvero i trascendentali del luogo in cui Dio è assente per necessità teologica, per scelta e per storia. Oserei dire, per necessità etica e religiosa. Guardando i comportamenti e le scelte degli ecclesiastici che vivono in Vaticano – non tutti per fortuna,
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perché dentro quella bolgia infernale sopravvivono anche uomini e donne incorrotti che credono, servendo il papa, di servire la Chiesa; a loro onore e rispetto sommi –, si ha l’impressione che essi abbiano sostituito il primo verso del «Padre nostro» con le parole di Jacques Prévert, blasfeme, sì, ma molto efficaci: «Notre Père qui êtes aux cieux. Restez-y», Padre nostro che sei nei cieli, restaci (Prévert 1989, 98-99). In Vaticano, Dio è la merce che si usa come facciata, ventiquattro ore su ventiquattro, ben sapendo che è solo merce da trafficare per il massimo utile. In fondo, Dio stesso non fa la spia e tutti dormono sonni tranquilli. In Vaticano è di casa l’idolatria in ogni sua forma e misura: i vitelli d’oro, tutti di razza e con pedigree autentico, sono allevati a mandrie. Quando si è idolatri, tutto è giustificato. Le cronache a cavallo tra i due millenni, anche le più benevole, sono testimonianze quotidiane di aberrazioni e convenienze, di opportunismo e strumentalizzazione, come anche di omertà e connivenza. Il 4 maggio 1998 il Vaticano è macchiato da un triplice omicidio: il comandante delle Guardie svizzere, Alois Estermann, sua moglie Gladys Moza Romero e il vicecaporale Cédric Tornay vengono trovati uccisi a colpi di arma da fuoco in un appartamento in Vaticano (Augias 2011, 2425.40-45). Dopo poco più di tre ore, la versione ufficiale chiude ogni indagine con la laconica dichiarazione della sala stampa secondo la quale il «vicecaporale Cédric Tornay […], in un momento di follia, si sarebbe recato nell’appartamento dove avrebbe ucciso con la pistola d’ordinanza il colonnello e sua moglie e successivamente si sarebbe suicidato». Il portavoce, membro dell’Opus Dei, Joaquín Navarro-Valls, conclude perentorio: «È tutto molto chiaro, non c’è spazio per altre ipotesi». Tutto invece è falso. Tutto è possibile, anche la pazzia, anche in terra vaticana; ma la fretta di chiudere l’indagine «seria», che non c’è mai stata, inevitabilmente fa pensare a eventi loschi e trame inconfessabili. Lo stesso si può dire per la scomparsa improvvisa di papa Luciani, Giovanni Paolo i, morto a trentatré giorni dalla sua elezione. Il comunicato ufficiale della sala stampa vaticana recitava: Questa mattina, 29 settembre 1978, verso le 5:30, il segretario privato del Papa, non avendo trovato il Santo Padre nella cappella del suo appartamento privato, lo ha cercato nella sua camera e lo ha trovato morto nel
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letto, con la luce accesa, come se fosse intento a leggere. Il medico, dott. Buzzonetti, accorso immediatamente, ne ha constatato il decesso, avvenuto presumibilmente verso le 11 di ieri sera, per infarto miocardico acuto. (AAS 70 [1978], n. 12, 798)
In seguito si disse che a trovare il papa non fu il segretario, ma la suora che a quell’ora gli portava il caffè ogni mattina. Non lo trovò sul letto con in mano un libro di preghiera (immagine edificante per un papa!), ma riverso nel bagno come se avesse vomitato. Non sapremo mai come è morto il «papa del sorriso». Sarebbe bastato che, nella logica del Vangelo («sì, sì; no, no»), si fosse semplicemente detta la verità e tutto sarebbe stato più semplice. Invece i cardinali diedero subito l’ordine di imbalsamare il corpo del papa, eliminando così ogni possibilità di indagare in altre direzioni. C’è chi pensò e scrisse che il papa fu ucciso (su questa ipotesi furono fatte fortune editoriali). Qualcuno prese in considerazione l’idea che la morte di papa Luciani fosse legata al Banco Ambrosiano che trafficava con lo Ior di Paul Marcinkus: è un’ipotesi che non mi sento di escludere. Marcinkus: colui che, mentre nel 1968 il papa Paolo vi pubblicava l’enciclica Humanae Vitae, con la quale, di fatto, vietava l’uso di mezzi artificiali (la pillola, profilattici ecc.) per controllare la natalità, investiva il denaro dello Ior nelle case farmaceutiche che fabbricavano profilattici. Negli stessi anni, Luciani era patriarca di Venezia e il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, in macchinazione con lo Ior di Marcinkus, decise di acquistare le piccole Casse Rurali venete per arraffare i risparmi dei contadini e dei pescatori che fino ad allora avevano ricevuto prestiti sulla parola. Il primo effetto di questa operazione speculativa fu la chiusura del credito a loro e alle loro famiglie, ai piccoli imprenditori che vivevano del loro lavoro e pagavano a raccolto o a risultato. Il rapporto con la Cassa Rurale era basato sulla fiducia e sulla conoscenza e quindi sulla parola, perché per i poveri, che la parola la danno come garanzia, essa vale più di un documento notarile. Il patriarca di Venezia – mi fu raccontato da un sacerdote, mio professore a Verona e divenuto confidente del papa – andò personalmente da Marcinkus a supplicarlo di non mettere sul lastrico un’intera economia locale. Pare che Marcinkus, stando seduto e senza nemmeno levare
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gli occhi dalla sua scrivania, ma sprezzantemente lasciando il patriarca in piedi, abbia risposto: «Eminenza, io non faccio beneficienza, faccio affari». Divenuto papa, si disse allora che Luciani volesse mettere il naso nello Ior e mandare in pensione Marcinkus, ma non fece in tempo perché morì prima. Certo, a nessuno è lecito trarre conclusioni, ma i dubbi affollano l’intelligenza e la fantasia galoppa sfrenata su ogni fronte, per fermarsi a considerare gli eventi nella loro concatenazione di causa ed effetto. Un dato è certo: il papa è morto in modo improvviso e il Vaticano ha cercato di nasconderne le circostanze. Quanto basta per dare adito a ogni illazione, soprattutto a quelle che non sembrano distanti dalla verità dei fatti. Nel 2012 il giornalista Gianluigi Nuzzi pubblicò il secondo scoop della sua vita, il libro Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto xvi, dove narrò, per filo e per segno, l’abiezione in cui papa Ratzinger fece sprofondare il suo Vaticano, documentando tutto con materiale autentico di primissima mano, trafugato dallo studio privato del papa. Fu il terremoto in cielo e in terra e in ogni luogo perché d’un colpo si scoprivano le fogne dove vivevano gli «uomini di Dio» di stanza in Vaticano, che ora apparivano per quello che erano: esseri spregevoli senza scrupoli che mettevano in atto strumenti illeciti come arma immorale pur di garantire le proprie mosse, e le proprie pedine, in vista della successione di Benedetto xvi. Venivano fuori alleanze, intrallazzi, intrighi, complotti, denaro per prepararsi un posto al sole non appena Benedetto xvi avesse tirato le cuoia. Al centro di tutto, spiccò subito la figura del cardinale Tarcisio Bertone, come burattinaio primario di ogni manovra. Costui, uomo senza fede, uomo del sistema e legato al carro di chi comanda, obbediente per convenienza, è diventato segretario di Stato per volontà personale del papa che lo aveva avuto nella congregazione dell’ex Sant’Uffizio come segretario modello, esecutore materiale. La sua carenza di fede e di discernimento ne faceva un corpo dagli occhi incavati, senza anima e senza vista: con lui il Nulla prese possesso della segreteria di Stato, dove fu inviso a tutti e contrastato da tutti. Invece di convincere con il suo esempio e le sue capacità, cominciò a tramare, a comportarsi da primadonna, a collocare i suoi vassalli in posti nevralgici, a pretendere di gestire i rapporti con i politici italiani, in mo-
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do particolare con il governo, a scapito della Cei, alla quale la revisione del concordato del 1984 (Casaroli-Craxi) dava l’esclusiva di questo rapporto. Avocò a sé con una lettera pubblica al cardinal Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ogni rapporto con il governo italiano, creando così le premesse per una «guerra di religione e di politica» che non avrebbe avuto mai fine, come gli eventi dimostrarono. Dal libro di Nuzzi emerge con vigore e drammaticità una visione della gerarchia e degli ecclesiastici che offende la dignità della Chiesa e distrugge ogni eventuale residuo di teologia e spiritualità. Come si sa, secondo la corrente tradizionalista della teologia romana, sostenuta dalla curia, nell’elezione del papa entra in scena lo Spirito Santo che illumina, quasi direttamente, le sacre teste degli eminentissimi cardinali, i quali così sono strumenti della volontà di Dio. Se così fosse, a ogni conclave, i cardinali dovrebbero stare nella Cappella Sistina in silenzio, pregando, supplicando e mortificandosi, trascorrendo il tempo a invocare lo Spirito perché li illumini nella scelta dell’uomo migliore «secondo il cuore il Dio» perché possa servire la Chiesa da vero «servo dei servi». Il conclave è però per sua natura un gioco strategico, di convenienze, di accordi e di garanzie di potere. Dunque, forse, non resta che una conclusione: nell’elezione del papa, lo Spirito Santo non ha alcuna rilevanza. Dov’è allora la differenza tra un conclave in queste condizioni e un’elezione in un parlamento mondano, dove i partiti giocano al ribasso per riuscire a portare più interessi dalla propria parte? No. Cristo non abita più qui.
Frammento biblico spirituale A questo punto è importante alzare lo sguardo e contemplare il volto dello Spirito Santo come lo presenta il Vangelo e in relazione alla Chiesa. Lo Spirito Santo nel Vangelo di Giovanni è chiamato, in greco, paràklētos che sia nella tradizione biblica che giudaica, compresi Giuseppe Flavio e Filone di Alessandria, ha sempre il significato di intercessore, consigliere. In epoca patristica assunse anche il significato più specifico di consolatore. Il termine greco è un composto della preposizione parà, accanto, da, da parte di, e dal verbo kaléō, chiamo, invito, nomino in favore di o a nome di, da cui an-
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che prego, invito, esorto, consolo. Il termine greco trasportato in italiano è diventato «paràclito» assumendo anche il significato logico di «avvocato», che è colui che consola chi è accusato, sta dalla sua parte e in sua difesa. È interessante notare che questo termine è della stessa famiglia di ekklesìa, chiesa, che in greco deriva dallo stesso verbo, ek-kaléō, chiamo, invito da… [Dio], definendo così anche da un punto di vista semantico l’origine della Chiesa e l’affinità linguistica tra ekklesìa, chiesa, e parà-klito, paràclito, consolatore, difensore. Anche il secondo termine, infatti, deriva dallo stesso verbo, e cambia solo la preposizione. Sembra che la figura del paràclito fosse riconosciuta per la dirittura e autorevolezza che tutti gli attribuivano: un uomo il cui giudizio era inappellabile per la sua indiscussa autorevolezza morale; egli pertanto aveva una valenza giudiziaria particolare. Quando un uomo veniva accusato, se il paràclito si alzava e in silenzio si poneva accanto a lui, la sua testimonianza dirimeva il giudizio, che era di assoluzione. La sua muta presenza, in altri termini, era sufficiente a garantire la giustezza della giustizia. La Chiesa dovrebbe essere il luogo principe dove «giustizia e pace si baceranno» (Sal 85[84],11) per fare risplendere il volto dello Spirito, promesso da Gesù come garanzia dell’autenticità vera del suo insegnamento: «il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26); ma la logica del regno vaticano non è la logica del Regno di Dio: «Tutti i profeti che hanno insistito nel dire che bisogna preferire Dio si sono trovati nei guai, a volte seri» (Fox 2012, viii). Tutto ha un prezzo e tutto è in discussione: per i profeti e per i giusti, la credibilità di Dio non può essere né comprata né venduta, né tanto meno compromessa; per i curiali è sufficiente mantenere ferma e salda la barra dei princìpi non negoziabili, come paravento dietro cui nascondere le oscene nudità dell’interesse economico. Il Vaticano, in quanto tale, è un ostacolo alla missione della Chiesa, che consiste solo nella testimonianza di Gesù Cristo, morto e risorto come via privilegiata per l’incontro con Dio. Credere in Dio significa prendere Dio come persona seria.
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Dai Borgia in poi Già fin da adesso possiamo affermare che lo Stato della Città del Vaticano è antitetico alla fede in Dio: non può esserci fede dove c’è potere, e perlopiù potere potenzialmente corrotto, o dove la religione si lascia compromettere per fini che non sono religiosi. Cristo non ha mandato me, in quanto prete, a costruire scuole a servizio di chi se le può permettere, ma mi ha convocato con «i Dodici e diede loro forza e potere su tutti i demòni e di guarire le malattie. E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi. Disse loro: “Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche”» (Lc 9,1-3). Se guardiamo allo stile e all’abbigliamento degli ecclesiastici di oggi, scatta automatico il ricordo delle parole di sant’Antonio: I crapuloni e le meretrici si vestono di pelli perché fanno vanto dell’apparenza esteriore. Che cosa dirò degli effeminati prelati del nostro tempo, che si agghindano come donne destinate alle nozze, si rivestono di pelli varie, e le cui intemperanze si consumano in lettighe variopinte, in bardature e sproni di cavalli, che rosseggiano del sangue di Cristo? [Serm. Annunc. 3,14] (Sant’Antonio di Padova [20054], 1093)
Oppure di quelle del gesuita padre Bartolomeo Sorge, certamente non un rivoluzionario di professione e tanto meno d’occasione, che, in una intervista a Famiglia Cristiana, giunto a 84 anni sembra rompere il suo consueto fairplay diplomatico, dichiarando: Il Vangelo chiede profezia non diplomazia. La forza della Chiesa sta nella parola di Dio, nella santità dei fedeli, nella predilezione per i poveri, non nel favore dei ricchi e dei potenti di turno o nella protezione dei poteri forti. La Chiesa del Concilio è una Chiesa libera. Certo, ai fini dell’evangelizzazione, l’uso dei beni è necessario. Ma con quale credibilità la Chiesa porterà al mondo la «buona notizia» di Dio che, per salvarci, si fa povero e sceglie i poveri, se le istituzioni ecclesiastiche gestiscono banche e giocano in Borsa? Se chi annunzia il Vangelo vive in palazzi simili a regge? La Chiesa del Concilio è una Chiesa povera. Con quale coerenza la Chiesa esorta i fedeli a partecipare all’Eucaristia, memoriale della Pa-
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squa, se poi ne offusca la trasparenza con cerimonie pompose, abbigliamenti sfarzosi e ornamenti ricchi e preziosi? La Chiesa del Concilio è una Chiesa profetica. (Sorge 2012).
Nella sua ultima intervista, prima di morire, forse pensava a questa realtà ecclesiale decaduta anche il cardinale, già arcivescovo di Milano, padre Carlo Maria Martini, quando, con l’ultimo fil di voce di profeta che sibila nel deserto ecclesiastico, ebbe a dire della Chiesa: Forte nei suoi ministri, debole nelle strutture. Poco capace di servire le esigenze del mondo d’oggi. La Chiesa pensa troppo in termini politici a come vincere, e così perde la capacità profetica. (Valli 2012)
La forza dei ministri, di cui si lamenta padre Martini, nasce dalla confusione istituzionale tra Stato della Città del Vaticano e Santa Sede, che deforma la figura del papa, il quale assomma in sé la duplice contraddittoria funzione di servo della Chiesa e capo di Stato. È indispensabile invece distinguere queste due realtà: non solo per molti non credenti ma anche, e più dolorosamente, per moltissimi credenti, «Vaticano» e «Santa Sede» sono sinonimi, mentre, al contrario, sono distinti, e in talune circostanze in opposizione irriducibile. Il Vaticano è uno Stato, riconosciuto da tutti gli Stati, di cui il papa in persona, nella sua qualità di capo di Stato, riceve gli ambasciatori con relative credenziali come tutti gli Stati di diritto. In quanto capo dello Stato della Città del Vaticano il papa esercita il suo potere di monarca assoluto e indiscusso. Nella sua persona, infatti, si assommano direttamente, unico caso al mondo, se si escludono le dittature (che però le conservano surrettiziamente), i tre poteri che in ogni Stato moderno, a garanzia della democrazia, sono indipendenti e sovrani, l’uno contrappeso e controllo dell’altro: potere legislativo, potere governativo e potere giudiziario. Nel 1748, quarantuno anni prima della Rivoluzione francese, CharlesLouis de Secondat, barone de La Brède et de Montesquieu, pubblicò l’opera giuridica che lo consacrò padre delle democrazie moderne: De l’esprit des lois (Lo spirito delle leggi). Partendo dall’assunto che il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente, Montesquieu trovò la soluzione giuridica, dividendo i poteri costitutivi tra soggetti in-
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dipendenti e interdipendenti: distinti, ma bilanciati affinché l’uno controllasse l’altro in un equilibrio sostanziale che mirasse all’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Il Vaticano non è una repubblica e forse non potrà mai esserlo, ma certo è una monarchia che fomenta e nutre l’ambizione personale che inevitabilmente diventa nepotismo, perché al suo interno non esiste «la Legge», ma il servilismo travestito da ossequio religioso che rende schiavi non solo nelle forme esterne, ma anche nell’anima. Il papa, che dovrebbe essere il faro della libertà perché rappresentativo del Dio che libera e salva da ogni forma di schiavitù da parte di qualsiasi faraone di turno, esprime invece il ripudio del Dio liberatore e si trasforma egli stesso in faraone opprimente: non è un caso che fino alla riforma di Paolo vi i papi venissero portati in sedia gestatoria e fossero circondati da flabelli di piume di struzzo come faraoni egizi. Il potere, specialmente quello papale, che presume di avere un carattere di sacralità, è un potere corruttivo per sua natura perché non si fonda sulla lealtà o sui valori, ma unicamente sul principio, molto capitalista, dell’utilità, che risponde non alla domanda «Che cosa è giusto?», ma a quella tragica ed effimera «Che cosa serve?». Nel 1985 il prefetto dell’ex Sant’Uffizio, cardinale Joseph Ratzinger, primo collaboratore del papa, condannò al silenzio Leonardo Boff, il teologo brasiliano caposcuola della Teologia della Liberazione, in contrasto con la «catechesi della Chiesa» (Fox 2012, 85-96), nonostante fosse difeso da due cardinali di peso, Paulo Evaristo Arns, arcivescovo di San Paolo del Brasile, e Aloísio Leo Arlindo Lorscheider, arcivescovo di Fortaleza e di Aparecida sempre in Brasile. Leonardo Boff commentando il giudizio che subì scrisse che il tribunale vaticano giudicava i teologi con «un processo dottrinale kafkiano, in cui l’accusatore, il difensore, il legislatore e il giudice sono […] la medesima persona» (Boff 1984, 19). Parola di perseguitato, giudicato e condannato senza appello fino all’espulsione e alla riduzione allo stato laicale. Se questa è Chiesa!
Frammento storico La storia dei papi potrebbe scriversi solo attraverso la filigrana della corruzione e del delirio di onnipotenza: al tempo di Leone x, papa Medici, quello che non si rese conto dell’uragano Martin Lutero,
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ma in compenso amava la caccia al cinghiale, si diceva che i cardinali, per manovrare i conclavi e fare eleggere i loro protetti, si riunivano segretamente ad latrinas. Alessandro vi Borgia, padre certo di almeno otto figli: è un luogo troppo comune per attardarci su di lui che, durante le udienze pubbliche, faceva presentare il figlio Cesare Borgia, degno di cotanto padre, come il nipote di un fratello del papa. Un papa può ammazzare, può torturare, può venire meno a ogni valore, ma è sommamente disdicevole che possa dire bugie in pubblico. La curia cortigiana, morale alla mano, aveva trovato la quadra dello «zio». «L’elezione del 1492 [di Alessandro vi] fu, con ogni probabilità, simoniaca, come risulta da numerosi rapporti dei diplomatici e dalla legge promulgata dal successore di Alessandro, Giulio ii, che invalidava ogni elezione simoniaca: la mancanza di assoluta certezza su questo punto non cambia il giudizio sulla venalità allora dominante in curia e nel collegio cardinalizio» (Martina 1988, 71). Un paio di secoli dopo, la Roma papalina fu dominata dalla famiglia dei Barberini che fece eleggere nel 1623 Maffeo Barberini col nome di Urbano viii; egli favorì il fratello Antonio, creò cardinali due suoi nipoti, un altro lo nominò principe di Palestrina e promosse le opere letterarie di suoi parenti per illustrare culturalmente il proprio casato. La corruzione dei Barberini fu così sconvolgente e drammatica che il popolo nella sua saggezza disarmata li accomunò ai «barbari» di dieci secoli prima: «Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini», quello che nemmeno i barbari riuscirono a fare, lo fecero i Barberini. Il Codice di diritto canonico (CJC) nella riforma del 1983 (cf can. 1404), che riporta alla lettera la norma del precedente codice del 1917 (can. 1556) sancisce: «Prima Sedes a nemine iudicatur», la prima Sede [cioè il papa? la curia?] non è giudicata da nessuno. Utilizzando l’espressione «prima Sedes» e non «Pontifex» il codice ingenera un equivoco di fondo perché non parla espressamente della persona o della funzione del papa, che, sebbene a vita, in attesa della morte, è comunque pro tempore. Il codice parla espressamente di sedes che, a rigore di logica, comprende il papa, gli uffici, la curia e, per chi voglia delinquere, tutto ciò che si vuole.
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Anche lo Ior, pur essendo al centro di tutti gli scandali vaticani più gravi degli ultimi sessant’anni, è parte della prima Sedes. Il diritto, infatti, più è impreciso e più garantisce il delitto e la delinquenza. La norma del codice sottrae il papa [e la curia (?)] alla giurisdizione, anche nel caso che fosse responsabile di una ingiustizia grave verso qualcuno. Il Codice, al canone 333, §3, è lapidario e chiaro: «Contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice non si dà appello né ricorso», per cui, teoricamente parlando, un papa avvezzo ad attività delinquenziali potrebbe fare un decreto di condanna o di eresia che deve essere accettato per buono. Siamo alla divinizzazione dell’irrazionale. Siamo al capovolgimento della realtà: Gesù può essere giudicato e condannato da un tribunale misto, religioso-politico, il papa mai e per nessun motivo. Arriviamo al paradosso, purtroppo attuale: Benedetto xvi, proseguendo l’opera del suo predecessore, può distruggere il Vaticano ii e concedere che i lefebvriani lo interpretino a loro piacimento, senza doverne accettare previamente il magistero teologico, e nessuno può dirgli nulla, perché il papa non può essere portato in giudizio. Può ritenersi superiore al concilio ecumenico che, nella Chiesa cattolica, è il supremo e insuperabile atto magisteriale, normativo per la Chiesa intera, e nessuno può fermarlo. In altri termini, il papa si pone fuori della dottrina «tradizionale» della Chiesa e non può nemmeno essere rimbrottato. È intoccabile, è «santo» padre, anche a costo di eliminare Dio dalla scena del mondo: ciò che conta veramente è il potere e non il servizio; combattuta tra questi due poli, «la chiesa di Ratzinger ha cercato di trovare un’alternativa, rivendicando a se stessa ogni verità, perché la verità era il potere» (Fox 2012, 87). Una Chiesa centralizzata, un papa re, un assolutismo dogmatico, che prescinde dalla collegialità dei successori degli apostoli, trasformano inesorabilmente in potere-dominio quel potere-servizio che ci era stato donato. Quando in una istituzione c’è una persona che ha un enorme potere perché occupa una posizione più elevata e centrale rispetto agli altri, si crea il «sistema della corte» […] Il signore unico distribuisce benefici materiali e spirituali, onore o disonore […] In questo sistema la minima sfumatura di umore o di parere nel signore ha un’enorme importanza per gli uomini di corte, per la loro sopravvivenza. Nelle corti è inutile cercare libertà di pensare o di proporre. Si ha un servilismo più o meno interessato, più
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o meno onesto. L’obiettivo irrinunciabile è stare in sella col signore, dunque difenderlo anche nell’indifendibile. (Scalia 2012, 3)
Il Vaticano non è la Santa Sede; al contrario ne è l’offuscamento e la prevaricazione perché ha preso il sopravvento su di essa. La Santa Sede, infatti, indica in modo diretto ed esclusivo la funzione di Pietro e dei papi suoi successori, a motivo del fatto che lì, nelle grotte del colle vaticano, è sepolto il primo papa. La «Sede», tecnicamente, è la «sedia», cioè la «cattedra», che è il posto da dove il papa, in quanto successore di Pietro, secondo la teologia cattolica, esercita il suo magistero. Per questo motivo la chiesa fisica dove il papa o il vescovo svolgono la loro funzione autorevole di ministri si chiama «cattedrale», luogo cioè dove si custodisce la «cattedra» magisteriale papale o vescovile. La funzione di capo di Stato della Città del Vaticano è puramente pleonastica: che ci sia o non ci sia è indifferente perché il «papa capo di Stato» non è contemplato in alcun articolo di fede né corollario del credo. Per i cattolici, specialmente per gli italiani, per esempio, il papa come capo di Stato dovrebbe essere un estraneo, un capo di Stato straniero, esattamente come il capo di Stato della Francia, dello Zambia, del Sudafrica, del Cile ecc. Per educazione, a esso si deve solo quella forma di ossequio dovuta alle autorità straniere in visita al loro Paese, ma nulla di più. Quando il papa, infatti, varca la soglia del «suo» Stato, immediatamente viene preso in carico dalla polizia di Stato italiana e viene trattato con tutti gli onori che il protocollo internazionale riserva ai capi di Stato, compreso il saluto militare del plotone armato con armi di morte. Al contrario, i cattolici italiani, in quanto credenti, al papa come vescovo della «Sede» dell’apostolo Pietro, devono quel rispetto e obbedienza che nasce dal riconoscimento della sua autorità e del suo ministero, come segno e sacramento che testimonia il magistero dell’agàpē, proprio del primo apostolo e dell’autorità delegata da Gesù di Nàzaret che ci insegna, dal papa all’ultimo battezzato in ordine cronologico, a pensare secondo Dio e non secondo gli uomini (cf Is 55,8; Mc 8,33). Dante Alighieri aveva ben ragione, già a Medioevo avanzato, a lamentarsi sconsolato delle conseguenze amare di un’istituzione ecclesiale modellata sulla forma di quella pagana del primo imperatore cristiano che fu il «principio» dei mali e l’inizio del tradimento del Vangelo: «Ahi, Costantin, di quanto mal fu
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matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!» (Inferno, xix, 115-117). Capo di Stato: voi lo siete, e come tale venite trattato. Nei vostri viaggi, non siete ricevuto come un prete, ma come un sovrano al quale i soldati presentano le «armi»; i vostri nunzi sono dello stesso rango degli ambasciatori, sono dunque i rappresentanti di una «potenza straniera» e sono inviati per trattare con il ministro degli «affari esteri» […] Un vescovo al quale dicevamo questo ci rispose: «Io credo nella Chiesa, ma non credo nel Vaticano». La disgrazia è che agli occhi della moltitudine Vaticano e Chiesa sono un tutt’uno. (Locusta 1969, 31-32)
Durante l’esercizio del potere temporale, il papa avrebbe potuto dimostrare, se avesse voluto, come si governa il mondo, dando esempio di giustizia, privilegiando i poveri e creando strutture di comunione, educando le popolazioni al senso del bene comune e dell’interesse generale, mettendo in atto i dettami del Vangelo e offrendo al mondo uno spettacolo di paradiso. Invece abbiamo avuto papi e cardinali degeneri che hanno usato il potere per sé, per arricchirsi, per favorire le proprie famiglie, per corrompere, per fare guerre, per opprimere le popolazioni e spremerle con la tassazione, per concedere privilegi e generare scandali. Il papa non era diverso dagli altri sovrani e re, che avevano la scusante di non avere mai letto il Vangelo di Gesù Cristo. Da qualsiasi punto di vista lo si voglia considerare, il potere temporale del papa è stato un fallimento totale, un tradimento del messaggio cristiano. Oggi il papa e i vescovi potrebbero dire – ma non possono farlo senza spergiurare il falso – di essere impediti dal realizzare il Vangelo perché i governi sono nemici e ostili. Quando il papa aveva tutto il potere nelle sue mani, quello religioso, quello civile, quello politico, quello giuridico, quello esecutivo, quello legislativo, quello giudiziario e quello economico, fallì in tutto, fallì sempre, fallì in profondità e in superficie. Avveniva ieri, continua allo stesso modo, anche oggi. In Vaticano, uno Stato di mezzo chilometro quadrato, con una popolazione effettiva intorno a millecinquecento persone, i rapporti e le regole non sono improntati alle esigenze del Vangelo, ma alle strutture delle corti regali. Viene in mente la parabola dell’amministratore disonesto e approfittatore:
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Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. (Lc 16,10-13)
Alle donne impaurite che vanno al sepolcro per onorare il corpo del Signore, gli angeli biancovestiti dicono: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto» (Lc 24,5-6). Domanda non retorica, ma profetica e attuale, perché rivolta a ogni credente e persona di buona volontà: se cercate Dio, non cercatelo in Vaticano, terra di morti che genera morti, ma cercatelo tra i figli della vita, tra i poveri e gli afflitti, i poeti della pace e gli assetati della giustizia, tra gli umili che Dio innalza e i potenti che abbatte, i ricchi che manda a mani vuote o i superbi che disperde nei loro pensieri (Lc 1,51-53). Vaticano, Dio non è qui. Cristo non abita più qui. Cristo è risorto all’insaputa dei prelati e precede il mondo che egli ama nella Galilea delle Genti (Gv 3,16; Mt 28,7). Dio dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe. Dio delle matriarche Sara, Rebecca e Lia. Dio di Gesù Cristo, degli Apostoli e di Maria di Nàzaret. Dio delle donne e degli uomini di ogni tempo. Dio dei padri nostri e dei nostri figli.