Divora il tuo cuore, Milano

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Mauro Novelli

Divora il tuo cuore, Milano Carlo Porta e l’eredità ambrosiana


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Divora il tuo cuore, Milano



Sommario

Principio (e conclusione) in forma d’ordigno A spasso tra le macerie Una statua in esilio Conclusione (e principio)

11 14 21

I. Il carattere ambrosiano. Avventure di un cliché 1. Stadtgeist, identità e letteratura 2. Il carattere ambrosiano “classico” 3. Brindisi, pacciade e turlurù

29 33 52

II. Strategie narrative. Generi, voci e percorsi 1. 2. 3. 4. 5.

«e mì sont el sur Carlo Milanes» Novelle, esempi, visioni Le maschere di Meneghin Giovannin, Ninetta e Marchionn Per le vie del trauma

69 78 95 107 125

III. Inammissibile Porta 1. 2. 3. 4.

A voce e per iscritto La corteccia dell’osceno «Catolegh, Apostolegh e Roman» Città e patria

Epilogo. Un farmaco pericoloso

135 158 173 183 199


Note

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Crediti fotografici

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Indice dei nomi

285


Quando si guarda la poesia vernacola come monumento di civiltà; come campo in cui più liberamente si svolge lo spirito fugace del tempo e l’indole degli uomini; come strumento che giunge ad operare entro le latebre più intime della società; e urta e rompe i fili delle pertinaci tradizioni domestiche, e quindi affretta e sprona il corpo del pensiero e il progresso delle generazioni: allora io oso dire che le più terse ed elaborate squisitezze della poesia accademica perdono gran parte dell’infecondo lor pregio. Adunque se la poesia vernacola giova non solo a rappresentare l’intimo spirito degli uomini e dei tempi ma benanco a dargli spinta e direzione: riguarderemo noi questo studio come una oziosità, la quale soltanto per gradi sia meno ignobile di quella del cigaro e della bottiglia? Carlo Cattaneo



Principio (e conclusione) in forma d’ordigno

A spasso tra le macerie Il primo giorno vidi Milano “insudiciata” dalla morte. Poi la notte calò e uno spettrale silenzio. L’indomani, già Milano s’illimpidiva. Alberto Savinio

Intorno ai Giardini pubblici, le scimmie si rincorrono urlanti sui davanzali dei palazzi in fiamme. Qualcuno sostiene che dalle sbarre divelte dello zoo siano fuggiti anche i leoni. Chissà. Intanto boati e sirene stordiscono le ombre in cerca di un rifugio, tra il fumo, i detriti e i binari contorti del tram.1 No, non è l’inizio di quel film slavo. La notte tra il 7 e l’8 agosto del 1943 uno sciame di Lancaster inglesi rovesciò su Milano tonnellate di bombe e spezzoni incendiari. Tornarono nei giorni successivi, venerdì 13, e poi ancora a Ferragosto, seminando morte e devastazione, secondo i principi dell’area bombing. Martellare le superfici urbane, senza troppi scrupoli di esattezza: ciò che conta è la capacità di terrorizzare la popolazione civile, abbattere l’opinione pubblica, indurre alla resa. Solo l’assenza di vento e il limitato ricorso al legno nella struttura delle case impedirono il ripetersi del Feuersturm apocalittico che qualche giorno prima aveva incenerito Amburgo, nel corso dell’operazione Gomorrah. Ma centinaia furono i morti, migliaia gli sfollati e i senzatetto in una città per fortuna semivuota, complice la stagione estiva. A questa tragedia Salvatore Quasimodo legò versi celeberrimi:


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Invano cerchi tra la polvere, povera mano, la città è morta. È morta: s’è udito l’ultimo rombo sul cuore del Naviglio. E l’usignolo è caduto dall’antenna, alta sul convento, dove cantava prima del tramonto. Non scavate pozzi nei cortili: i vivi non hanno più sete. Non toccate i morti, così rossi, così gonfi: lasciateli nella terra delle loro case: la città è morta, è morta.2

Le baracche e i bivacchi, la Scala e la Galleria sventrate, cumuli di macerie e rottami, negozi sprangati, ogni sera l’esodo verso le campagne con mezzi di fortuna. Eppure la più grande emergenza vissuta dalla città nella sua storia moderna lasciò tracce minime in narrativa: qualche pagina vibrante di Elio Vittorini, un romanzo di Riccardo Bacchelli presto scordato, L’incendio di Milano, e poco altro.3 Per decenni a prevalere fu il silenzio. Gli scrittori del resto non fecero che adeguarsi alla memoria collettiva. Come in Germania, le distruzioni belliche erano divenute una sorta di tabù, su cui ha ragionato lucidamente W.G. Sebald, sostenendo che a innescare il meccanismo di rimozione furono da un lato l’immane senso di colpa, dall’altro il timore di malintesi e strumentalizzazioni da parte dei nostalgici.4 Mentre Milano cambiava volto per sempre, sfregiata dalle bombe degli alleati, occupata dai nazisti, percorsa dalle azioni dei Gap, i suoi più riconosciuti campioni letterari saltavano a piè pari guerra e fascismo per rievocare la città conosciuta in gioventù, salutandone ognuno a proprio modo il tramonto. A Venezia Filippo Tommaso Marinetti celebrava le battaglie del suo movimento nelle pagine di La grande Milano tradizionale e futurista. A Firenze Carlo Emilio Gadda lustrava i «disegni milanesi» dell’Adalgisa, storicizzando nelle note – scrupolosamente datate 19435 − riti manie costumi di una borghesia che sentiva anni luce distante. A Como, anzi a Rebbio, Carlo Linati radunava prose, elzeviri, «memorie e vignette principio di secolo», calate nella Milano d’allora.6 Proprio in quelle vie Alberto Savinio trovò i caffè, i salotti, gli amici artisti della sua belle époque, restituita nei mille excursus di Ascolto il tuo cuore, città.


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Questo singolarissimo omaggio, dove l’ironia deve continuamente accorrere per impedire alla commozione e alla tristezza di traboccare, uscì da Bompiani al principio del 1944, ma «era per essere licenziato alle stampe» giusto nel fatidico agosto del 1943. Divenne così il ritratto di una Milano doppiamente perduta, al quale Savinio volle allegare l’elzeviro pubblicato sul Corriere della Sera alla vigilia dell’armistizio, ampliandolo per dire «tutto l’amore “carnale” che uomo può avere a una città». Nelle Note di taccuino conclusive ne vagheggia una pronta e brillante rinascita. Passeggiando tra le macerie, a meravigliarlo è innanzitutto la sorte benigna toccata ai «monumenti uomini»: In piedi è Cavour in mezzo alla piazza che porta il suo nome. In piedi è Vittorio Emanuele in mezzo a Piazza del Duomo, ancorché questo re gittato nel bronzo e assieme il cavallo che gli sta tra le gambe, siano in procinto di cadere fin dal momento della loro erezione. In piedi è Bertani di fronte alla Montecatini, e con affettuosa mano si stringe il suo caro rotolo di carte al petto. In piedi è Leonardo inquadrato dai suoi discepoli in mezzo a Piazza della Scala. In piedi è Cesare Beccaria, volto le spalle al vecchio palazzo di giustizia che ha tradito le sue leggi. […] Parini continua a camminare immobile davanti ai tram di Piazza Cordusio, e Garibaldi in mezzo al Largo Cairoli non è sceso da cavallo.7

E intatto è il Napoleone di Canova a Brera, intatto il san Francesco che si china sulla fontana di piazza Sant’Angelo, intatto Alessandro Manzoni, desolato sul piedestallo in mezzo alla sconvolta piazza San Fedele: «Che significa questo rispetto che la morte ha avuto per le statue? E che pensano le statue di questo ardore distruttivo dei loro fratelli di carne, di questa loro inestinguibile sete di morte?».8 Non è dato saperlo. C’è però un’eccezione, tanto casuale quanto emblematica. I milanesi che si avventurarono ai Giardini pubblici di Porta Venezia, la mattina dell’8 agosto 1943, trovarono le gabbie degli animali devastate, gli alberi ridotti a moncherini dal magnesio, il Museo di storia naturale diroccato. Nessuno, al momento, si accorse che una statua era scomparsa dalla sua sede, una lingua di terra in mezzo al laghetto artificiale. Nemmeno un frammento. Polverizzata. Qualche giorno dopo, nel fango, si vide affiorare la lapide:9 a carlo porta poeta milanese


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Una statua in esilio E dopo subet subet ghe farev on monument magnifegh tutt de preja e minga de palpee, che ghe sommeja Porta, framm. 261

Come era capitato il monumento a Porta in un cantuccio del parco, a due passi da lama, tigri, giraffe e gazzelle? Perché si era scelto di relegarlo – lui poeta urbano quant’altri mai – in mezzo a uno stagno, lontano dal cuore pulsante della città, dalle strade, i teatri, le osterie, i negozi, le chiese che animano i suoi versi? Vale la pena di rievocare una vicenda istruttiva, che esemplifica come meglio non si potrebbe l’ostracismo e finanche l’astio maturato da una robusta fetta della classe dirigente ambrosiana nei confronti del “suo” poeta. Tanto suo che già all’indomani della morte l’epigrafe dettata per la lapide tombale subì spiacevoli vicissitudini.10 In compenso una società di amici e ammiratori, capitanata da Tommaso Grossi, mise insieme la somma che consentì a Pompeo Marchesi di scolpire il busto tuttora visibile nel loggiato dell’Accademia di Brera. Il proposito di onorare in modo più consono il poeta si scontrò nei decenni successivi con insuperabili resistenze. Non si trattava soltanto di invidie e piccinerie, quelle che Porta stesso aveva deprecato alla morte di Giuseppe Bossi: «I malign, che hin pu spess che i galantomm, |


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o de riff o de raff, o indrizz o stort, | cerchen, se ponn, de spiscinigh el nomm».11 Come si vedrà nel terzo capitolo, non uno ma almeno tre – perbenismo, religione e politica – furono gli scogli contro i quali si arenò la fama di Porta. Per essi dovette subire fior di censure, che alimentarono stampe alla macchia, circolazione per vie traverse e persino tensioni diplomatiche tra la Confederazione elvetica e l’Impero asburgico. Irrimediabilmente osceno, irreligioso, derisore indefesso delle bassezze ecclesiastiche, sprovvisto di nazionalismo italiano e per giunta allergico a ogni forma di populismo. È impossibile sopravvalutare il peso dell’estraneità portiana alla celebrazione della serie Dio-patria-popolo-famiglia, che imperversò ben oltre l’Ottocento romantico e ben al di là dei confini cittadini. Tra gli avversari più tenaci, naturalmente, spiccava l’ala conservatrice del clero. D’altra parte – a prestar fede a un vulgato aneddoto – niente meno che l’arcivescovo di Milano Carlo Gaetano di Gaisruck, rivolgendosi al Grossi, avrebbe esclamato: «Innalzerei un monumento a Carlo Porta»,12 grato per i benefici effetti sui sottoposti della sferza agitata dal poeta. L’auspicio si realizzò soltanto dopo l’Unità d’Italia, in corrispondenza della risistemazione dei Giardini pubblici. A dire il vero, già nell’aprile del 1858 era stata promossa una sottoscrizione, alla quale il governo austriaco parve acconsentire («pur non obbliando la qualche licenza, cui per avventura è trascorsa la satirica e scherzevole sua musa»).13 La pratica venne però ostacolata e solo dopo l’avvento dei Savoia poté andare a buon fine. Nell’autunno del 1862, senza cerimonie, venne finalmente posta in loco l’opera in finto marmo di Alessandro Puttinati: come nel Miserere, un bell’arnese «de rivi e de bojacca | rappresentant la motta di virtù | ch’el mort el gh’eva, o el ghe doveva avè».14 Lo si poté appunto apprezzare nel ’43, in occasione dei bombardamenti. Né l’erezione, ancorché tardiva, spense le polemiche. Lo testimonia il pio dispetto di Cesare Cantù: «se una fanciulla o un giovinetto domandino alla mamma di chi sia quella statua, e chieda di leggere la Tetton o la Nina del Verzee, sarà bene spudorata s’ella non arrossisce, e se riconduce a quel pericolo l’innocenza».15 Ancora più aspra la reazione dello scapigliato Igino Ugo Tarchetti, quale si evince da un acidissimo dialogo. È il caso di riportarlo per intero, poiché la veemenza lascia emergere le accuse più spesso rivolte a Porta in età risorgimentale, su cui sarà necessario tornare:


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Mi rivolsi e vidi che stavano discorrendo del monumento a Carlo Porta – Erano un vecchio ed un giovine; e il primo aveva sul volto tutto ciò che la vecchiaia ha di nobile, e le traccie delicate del pensiero, e i solchi che v’imprime il dolore lungamente protratto; e aveva pronunciato quelle parole come un’esclamazione che gli venisse suggerita da un disprezzo amarissimo. − Che intendete di dire? – esclamò il giovine. − Nulla – disse l’altro – se non che questo è il primo monumento veramente pubblico che Milano intendesse di innalzare ad uno de’ suoi grandi autori: ma guai a quegli uomini che porsero una tale lezione d’immoralità al loro paese! Questo monumento li accusa in faccia alla coscienza della nazione. − Egli ha educato il popolo e ne ha dissipato i pregiudizi… − Sì, il suo volume è divenuto popolare, non vi ha casa di tolleranza dove non faccia pompa di sé; voi lo rinvenite al capezzale di tutti i giovani, ove egli prepara quella scelta moltitudine di lettori ai romanzi della Biblioteca Galante, che svela lo spirito corrotto della popolazione: egli ha reso popolare in Italia il carattere milanese, come carattere timido, talora codardo, chiassone, goffamente millantatore; il tipo francese magnificò sul lombardo, e la sua città, trascinata da non so quale acciecamento, gliene seppe grado, e ambì, e s’informò quasi a quel carattere. – Foscolo vivente lo avrebbe definito come definiva l’Aretino: uomo d’ingegno mediocre e d’animo sozzo. Invece il paese gl’innal-


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za, a preferenza di tutti i suoi grandi scrittori, un monumento, e lo colloca in una posa degna di Klopstock e di Dante… Ah! Quella statua è l’apoteosi dell’immoralità.16

L’effigie di Carlo Porta si specchiava nelle acque del laghetto in atteggiamento pensieroso, signorilmente distanziata dall’osservatore: la statua venne infatti esiliata su una sponda irraggiungibile, nel timore fosse eletta a novello Pasquino. Lo spirito popolare si rifece battezzandola «el guardian di occh», che insieme alle anatre e ai rospi pullulavano nei dintorni. L’infelice collocazione non mancò di suscitare l’amarezza dei partigiani del poeta, che inutilmente ne invocarono il trasloco. Paradigmatici i versi in cui Ferdinando Fontana, ardente poligrafo socialista, sfruttava la questione per inveire contro il falso progresso ambrosiano: Milano, la grassa – l’allegra Milano, coi tempi moderni − solerte s’avvia e, sotto la cupola – de la Galleria c’è un mondo diverso – da quello d’jer. Ma ancor, nei vicini – suoi campi, s’ammala e muor di pellagra – l’esausto villano; ma ancor c’è chi crede – che andare alla Scala sia l’alta missione – dell’uomo quaggiù; ma ancora una piazza – non vanta di Porta l’effigie, che dica – col volto mordente: «È vana speranza – domar questa gente col grullo sussiego – d’un tempo che fu!»�17

Il dibattito intorno alla statua permette di verificare come il malanimo dei detrattori non andasse scemando col tempo. Cantù, ancora nel 1882, rispolverava le riserve di parte cattolica sulla volgarità di una «musa educata ne’ postriboli», che avrebbe gettato «il peggior vilipendio sul carattere del popolino milanese, vigliaccamente spavaldo, credulo, sguajato; e ciò non per medicare o emendare alcuna piaga, giacché non è rimedio il celiarne, bensì per farne tema, flagellando


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o carezzando quelli che l’opinione volgare flagellava o carezzava». 18 All’intemerata rispose Giovanni Pozza, direttore del Guerin meschino, immaginando una risposta dall’aldilà di Porta, disposto a cedere la statua al suo fustigatore: Là, in mezz a la sciattéra, el ghe starà benon! I sciattitt, invers sera, col cuu in la palta e col muson in l’ari, parirà che ghe disen el rosari, o che ghe leggen su i pagin de moral che l’ha scritt lù, sur don Ceser Cantù!19

Non stupisce che tra i difensori di Porta, a quest’altezza cronologica, si agitassero gli alfieri di un disimpegnato buonumore. A partire dal secondo Ottocento la più frequente alternativa al rifiuto nei suoi confronti consisteva nel travestirlo da innocuo mattacchione, magari un po’ balzano, ma quanto spiritoso! Un Porta frainteso e sminuito, evidentemente. Niente più d’un impiegato vigliacchetto e salace, al quale rivolgersi per tirare il fiato, nelle rare pause concesse dal turbine di occupazioni, affari, commerci che infervorava la capitale morale. In questo senso la collocazione della statua era in realtà perfetta. Lungi dal trambusto, finì con l’attirare irresistibilmente i nostalgici di un municipalismo familiare, attoniti dinanzi ai contrasti sociali della Milano fin-de-siècle. Un documento perfetto di questa dinamica si ritrova in una famosa prosa cadenzata di Emilio De Marchi: Semm italian, l’è vera; el mè l’è tò, el tò l’è minga mè; ma s’ciao, quel Milanin de Carlambroeus, grand o piscinin, el stava intorna al Domm, come ona famiglia che se scalda al camin. E se parlava milanes, quell car linguagg sincer e de bon pes, che adess el se vergogna de parlà, el tas, el se struscia in d’on canton come se Milan el fuss Turchia. El Porta, pover omm, l’è là, lu de per lu, su la sciattèra, e sul cors no se sent che gniff e gnaff… che nol par vera nanca el quarantott.20


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Di consolare la solitudine del poeta si incaricarono – oltre ai volatili e a Gabriele D’Annunzio (che in quei paraggi amava indirizzare le sue passeggiate milanesi)21 – battaglioni di devoti, che ne fecero la meta di pellegrinaggi, veri o versificati, sulle tracce di un Milanin perduto. Confuso tra loro troviamo pure il maggior poeta dialettale sorto a Milano nel Novecento, ovvero Delio Tessa, che in un’importante prova giovanile, Primavera, vagheggia di piantare in asso le soffocanti incombenze dell’avvocatura per rifugiarsi ai Giardini, a sfregujà i michett a qui pover ochett, a qui bej anedrin, a qui car pellican che stann lì a fà de scorta al Carlin, a quell Porta de sass… pover pattan!22

Con altro spirito Tessa si volgerà al suo nume in A Carlo Porta, il capolavoro in cui sfregia il sogno di una città-famiglia solidale, spezzato dal tralignare della borghesia ambrosiana, docile preda delle sirene fasciste. Di ciò, nell’Epilogo. I versi citati appartengono invece al 1912. Qualche anno prima si era affacciata l’ipotesi di uno spostamento della statua nei pressi del Verziere, rigettata a causa delle pessime condizioni in cui versava. Si decise dunque di lanciare il concorso per un nuovo monumento, vinto da Alberto Dressler, che progettò una fontana a esedra nella quale il poeta, seduto, contemplava dall’alto un crocchio di popolane intente a sciacquare gli ortaggi nella vasca. L’insieme avrebbe dovuto trovare posto in una nicchia del Palazzo Trivulzio. Ma le iniziative organizzate per raccogliere i fondi naufragarono miseramente, nel disinteresse generale, sicché non se ne fece nulla. Erano d’altronde tempi di montante nazionalismo, che nocque una volta ancora alla causa portiana, vanamente patrocinata in libelli, versi, recite denuncianti l’irriconoscenza della città e l’inerzia delle istituzioni.23 Neppure il centenario della scomparsa valse a smuovere le acque.24 Ancora negli anni trenta, nel proemio a un’edizione promossa dalla Famiglia Meneghina, il conte Pier Gaetano Venino lamentava l’assenza di un degno monumento:


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mentre il Belli – romano – dall’alto del suo monumento, posto in una delle più frequentate vie della capitale, sembra ancora vivere fra il popolo suo, il Porta – non certo a lui minore – continua a specchiare il proprio modesto simulacro di pietra nell’acque quete del minuscolo lago dei nostri pubblici giardini, e a nascondere la tristezza dell’abbandono nell’ombra verde delle piante che, almeno quelle!, gli fanno intorno come una tangibile corona.25

E là rimase, sino alla notte in cui venne annichilito da un ordigno. Seguirono anni di oblio. Nel 1950, in un’occasione celebrativa, il sindaco di Milano Antonio Greppi non esitò anzi a riesumare le avversioni risorgimentali, definendo il poeta «nient’altro che un funzionario “pignolo” e un mediocre cittadino». Promise comunque di ripristinare il monumento: non in centro, ma ai margini della città, tra gli eredi dei suoi personaggi, «anche perché ad essi più che al Porta sarà, come è giusto, dedicato».26 Sei mesi più tardi lasciava la carica. Dovettero trascorrere sedici anni e succedersi quattro amministrazioni comunali prima che si inaugurasse – a opera di Piero Bucalossi, contornato da fanfare, “stelline” e “martinitt” – la nuova statua a Carlo Porta, posta nello spazio in cui nel primo Ottocento si teneva il mercato del Verziere. Il lavoro fu affidato a Ivo Soli, che si basò sul manufatto del Puttinati, ma conferì al poeta tratti vagamente caricaturali. La riduzione al comico acquisiva così vesti bronzee e ufficiali, dopo avere imperversato nell’opinione comune. «Ah… ah… il Porta, che bel matto! Che ridere! Che ridere», si entusiasma il Consigliere Delegato, in un tagliente Dialogo tessiano.27 Troppo a lungo, troppo spesso Carlo Porta è stato mantenuto in questo equivoco da quanti hanno inteso sottrarlo alla «sciattéra» della memoria.


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Conclusione (e principio) Le bombe del 1943 segnarono un momento determinante non solo per la statua di Carlo Porta, ma anche per la fortuna della sua opera, che conobbe un destino paradossale: da un lato il definitivo tracollo, dall’altro un’insperata rinascita. Negli anni successivi andò infatti accelerando il declino, iniziato durante il ventennio fascista, della circolazione portiana in ambito locale. Spesso osteggiati dalla cultura ufficiale, non sempre compresi nella loro portata, per un secolo e più i versi di Porta avevano comunque costituito un cardine dell’«educazione sentimentale di ogni lombardo», per citare una formula cara a Dante Isella. Non si contano i personaggi passati in proverbio, le scene esemplari, i versi mandati a memoria e citati in situazioni propizie da oscuri «ragionatt» non meno che da celebri scrittori (per rendersene conto basterà scorrere l’epistolario di Alessandro Manzoni, o le Note azzurre dossiane). Non pare secondario constatare come l’auspicio romantico di una democratizzazione della letteratura, di una sua vivace circolazione nel corpo della società, trovi una realizzazione prodigiosa in ambito urbano, per mano di un poeta dialettale, che senza l’aiuto delle istituzioni seppe conquistarsi e mantenere a lungo i favori della moltitudine foscolianamente situata «tra l’idiota e il letterato», di regola poco sensibile al richiamo delle belle lettere. A quale prezzo, lo si è accennato. Ma intanto fraa Zenever, il Marchionn, le damazze entravano in pianta stabile nelle case milanesi e lombarde, in edizioni ora costose ora popolarissime, animate dalla voce affettuosa dei familiari, secondo una tradizione spentasi appunto solo nella prima metà del secolo scorso (§ iii.1). Nel frattempo si era risvegliata l’attenzione della critica, che in precedenza aveva sostanzialmente ignorato l’opera portiana. Non bastano infatti i sondaggi filologici condotti da Carlo Salvioni, e neppure la luminosa monografia di Attilio Momigliano28 a bilanciare il silenzio di Francesco De Sanctis, o il disinteresse di Benedetto Croce. In piena temperie neorealista la rappresentazione portiana degli umili e la satira dei ceti privilegiati suscitarono invece l’entusiasmo degli studiosi di impostazione progressista, decisi ad accantonare le patenti di viltà rifilate al poeta per riconoscere nella sua opera una ribellione coraggiosa e senza compromessi, aliena dal sentimentalismo che di lì a poco avrebbe preso piede in poesia. Se già Raf-


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faello Barbiera aveva visto nel Porta più audace un «antecessore d’Emilio Zola»,29 Natalino Sapegno guardò piuttosto al verismo: «il mondo volgare ch’egli mette in scena è da lui sentito con animo lirico, con quella simpatia e pietà, che è un dono del romanticismo, e insieme con un’arditezza e crudezza di visione, che non si ritroveranno uguali se non in Verga».30 Il Bongee, la Ninetta e il Marchionn, secondo Giorgio Bassani, sarebbero «i primi tre vinti della letteratura italiana moderna»; il sole che illumina la loro povera Milano è lo stesso che tornerà a splendere «sulle sciagure dei Malavoglia».31 A differenza del siciliano, però, Porta non è mai riuscito ad acquisire nel canone scolastico un’importanza primaria. Più lodato che letto, come tutti i grandi dialettali, ancora oggi figura nei manuali come aiutante di seconda fila dei maestri romantici, mentre le antologie – già per natura sfavorevoli ai poeti di passo medio e lungo – di norma si fermano alla satira antinobiliare della Preghiera, con l’eventuale guarnizione di qualche sonetto. Al secondo dopoguerra risale anche la ripresa dei lavori filologici intorno all’opera portiana, grazie all’impegno di Dante Isella, che presto poté mandare in soffitta le stampe scorrette allora circolanti, sostituite da un’edizione critica esemplare, comprendente abbozzi, frammenti e apocrifi.32 «Abbiamo dunque finalmente un Porta in tenuta accademica», ebbe a commentare Antonio Banfi,33 ammirato dinanzi a un’impresa che mobilitò tanto la critica specialistica quanto gli intellettuali più in vista, come Eugenio Montale.34 L’onda della riscossa portiana arrivò all’estero (a Parigi Henri Auréas diede fuori un’apprezzabile monografia)35 e si protrasse sino agli anni settanta, quando comparvero due volumi fondamentali, ovvero Le charmant Carline, di Guido Bezzola; e il Ritratto dal vero di Carlo Porta, dello stesso Isella; presto seguiti dal convegno su Carlo Porta e la tradizione milanese, organizzato dalla Regione Lombardia.36 Scorrendo i relativi atti si incontrano i nomi degli studiosi (Angelo Stella, Gennaro Barbarisi, Pietro Gibellini, Claudio Milanini) che meglio avrebbero tenuto viva la fiammella portiana nei decenni successivi, insieme a Bezzola e all’instancabile Isella. Non è questo il luogo per proporre una articolata ricostruzione dei meriti da attribuire allo studioso varesino, che al lavoro sulla biografia e sui testi ha aggiunto una serie di contributi37 in grado di sottrarre una volta per tutte Porta all’etichetta di scrittore naïf, popolano di genio, talento


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comico fiorito spontaneamente, tutte varianti di un’ipotesi serpeggiante sino alla metà del secolo scorso. A questo scopo hanno giocato un ruolo decisivo le indagini sulla maestria metrica e stilistica portiana: la varietà di schemi ritmici, lo sfruttamento delle risorse quantitative del milanese, gli accumuli vertiginosi, i geniali pastiche linguistici. Questi ultimi tratti hanno spinto Isella a postulare l’esistenza di una «funzione Porta», ravvivata dai maggiori Carli conterranei: vale a dire Dossi, Linati e Gadda. Il tutto nell’ambito di una linea espressionistica lombarda, in grado di scavalcare secoli, codici e generi letterari.38 Si tratta di una congettura suggestiva, che muove da premesse continiane, svolte in una direzione geograficamente connotata.39 Ha destato tuttavia qualche equivoco la tendenziale sovrapposizione tra plurilinguismo ed espressionismo: un concetto che smarrisce pregnanza se privato di un saldo legame con la rappresentazione dell’orrido, del macabro, della violenza deformante − in assenza insomma della dimensione del tragico.40 A tutto ciò l’opera di Carlo Porta risulta sostanzialmente estranea. Livide incisioni e “tedescherie” romantiche sotto la sua penna ricorrono soltanto in chiave umoristica (si pensi a On striozz). La complessa stratigrafia del dialetto, lungi dal contraddire l’assunto, come ha osservato Gibellini rende il poeta «più prossimo a Manzoni che agli espressionisti più tardi», in quanto i materiali linguistici convocati sulla pagina obbediscono «innanzitutto a necessità di caratterizzazione etica e mimetica». Non attentano mai, in altre parole, alla verosimiglianza del locutore: «la narrativa è il traguardo cui aspira la cultura lombarda da Parini a Manzoni, e che trova nei versi di Porta un ponte essenziale».41 Lo stesso Isella esplorò da par suo nell’opera di Manzoni i lasciti di Porta, «modello narrativo dei più felicemente fruibili» dall’autore dei Promessi sposi. E già Sapegno aveva visto nelle ottave dei grandi poemi popolari «la soluzione più ardita potente e drammatica di un’esigenza largamente diffusa di narrativa moderna».42 Esigenza non del tutto soddisfatta, in un paese che non ebbe né un Puskin né un Gogol’, al quale non sarebbero forse spiaciute le disavventure di Giovannin Bongee. Porta e Belli, nelle parole di Raboni, «non sono stati “soltanto” dei grandi poeti; sono stati anche − all’insaputa dei loro contemporanei e, forse, di loro stessi − i nostri Gogol’, i nostri Dickens, i nostri Balzac».43 Su queste basi non è difficile rendersi conto dell’importanza che assumerà un’attenta ricognizione delle tecniche narrative portiane, con par-


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ticolare attenzione al versante più originale, eppure sinora restato nella mezz’ombra. Alludo alla configurazione dell’io poetico, nella quale operano due coazioni sistematiche: da una parte al fregolismo, ovvero al travestimento in panni altrui; dall’altra al coinvolgimento dell’interlocutore. Sta qui il marchio tipico della maniera di Porta: il clic che attiva un patto di sorprendente efficacia, postulante un uditorio collettivo, e non un fruitore solitario, silenzioso, in un contesto privato, come è prassi nella civiltà del romanzo (§ ii.2). Non sono soltanto le scelte stilistiche a lasciare in chi legga o ascolti leggere la poesia di Porta il «marcato senso di ordine» rilevato da Isella.44 Al riguardo Tommaso Grossi aveva coniato l’immagine di «un fiume di latte che cammini in un canale lastricato di marmo», mentre Pier Paolo Pasolini si è spinto a evocare «schemi di gusto vagamente neoclassico».45 Supposizione, quest’ultima, piuttosto arrischiata. Sono altri gli “ismi” che contano davvero per Porta. Le modalità d’enunciazione indurranno ad abbandonare anche l’ipotesi di un Porta protoverista, teso a restituire le traversie dei ceti disagiati. Incommensurabili sarebbero del resto le distanze ove si volesse raffrontare, ad esempio, il trattamento riservato alla religione, o all’istituto familiare. Né Dossi né Verga, a dirla in breve, paiono usciti armati di penna dal leggendario tabarro color nocciola del poeta ambrosiano. Chi volesse individuare una qualche forma di “impersonalità” nei suoi poemetti dovrebbe intendere il termine nell’accezione prettamente teatrale che gli conferisce Federico De Roberto nell’introduzione ai Processi verbali: monologhi e dialoghi, quasi privi di didascalie. In questi paraggi, ben più che nel mero ricorso al dialetto, affonda le radici quell’impressione di vigore, naturalezza, verità comportamentale che da sempre seduce i lettori di Porta. Siamo con ciò a due passi dalla formula sotto la quale trova ricovero, scontato ma sicuro, il meglio della cultura letteraria lombarda. Realismo & moralità, dunque: tensione etica, impegno civile, attenzione alla concretezza del vivere, ostilità alle convenzioni, ai fumi della retorica. Con il che, però, il discorso di solito si chiude là dove dovrebbe cominciare. A voler andare oltre questi requisiti sommari, infatti, occorre disfare lo scatolone in cui abitualmente vengono stipati il pio Maggi insieme al Porta «porscell», Parini e Rebora, Gadda e Manzoni, Tessa e i laghisti radunati da Anceschi. L’idea che a legarli insieme provveda uno spago lombar-


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do, robusto e policromo, lascia tiepidi non soltanto per il grado scadente di generalizzazione cui costringe, ma anche perché presuppone, in modo più o meno esplicito, l’esistenza di un nucleo invariabile. Un carattere, o come oggi si preferisce dire un’identità, in grado di saltare agilmente dalla penna d’oca al programma di videoscrittura, pronta per essere riconosciuta dall’osservatore all’erta. È tempo, credo, di rimettere in discussione simili sottintesi e circoscriverne la portata. Il caso di Porta è utile e sintomatico anche da questo punto di vista. Perché non era affatto scontato − in questa stagione interminabile di localismi sciovinisti, di entusiasmi per le risorse dialettali, di aspre contese intorno all’ethos ambrosiano – che nessuno sentisse il bisogno di rispolverare ai propri fini un’opera che dovrebbe rappresentare la quintessenza del genius loci. Almeno se si crede, con Carlo Cattaneo, che L’istoria della intelligenza comunale non si depone negli atti delle Academie; e sarebbe forse più ragionevole l’arguirla dai registri delle dogane che da quelli della pubblica istruzione; […]. Il vero stato degli animi e delle anime, lo specchio delle abitudini, delle tradizioni, delle simpatie, delle antipatie, sfugge alle superbe frasi della letteratura nazionale. Ella vien tracciata dalla raccolta dei poeti vernacoli. 46

Eppure nessuno si è sognato di rivolgersi a Porta, fatto salvo qualche cenno en passant. Curioso. Non rivendica forse con orgoglio, a più riprese, la propria appartenenza cittadina? Non dipinge Milano in anni irripetibili, gli unici in età moderna in cui sia stata investita del ruolo di capitale politica? Ma al giorno d’oggi pullulano piuttosto i nostalgici della Restaurazione austriaca, che soffocò slanci e ambizioni di una città attrattiva, al centro del giovane Regno d’Italia napoleonico. Ora, questo orientamento elegiaco non trova appigli nei versi portiani, per di più scevri dai connotati tipici del dialettismo deteriore: mentalità filistea, idillismo ingenuo, avversione preconcetta alle novità e appunto rimpianto del passato, meglio se contadino. Figuriamoci! A questo proposito sarà bene trascrivere un altro capoverso di Cattaneo: Io spero che un giorno saremo capaci di accorgerci dell’immenso beneficio che quell’acerba flagellazione ci recava. Per ora confesso che la lividu-


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ra e il bruciore ci stanno troppo recenti sulla pelle. E, ciò che peggio si è, molti da quelle staffilate hanno imparato poco più che l’odio al flagellatore. Il più bel sogno delle loro notti sarebbe che le opere di Porta venissero sepolte con lui. Tanto è il bisogno che ne hanno ancora.47

Parole scritte nel 1836, a sostegno di una lettura progressista dell’opera portiana – specchio, frusta e sprone − che rimase sostanzialmente lettera morta. A prevalere fu invece una forzatura in chiave consolatoria, resa vie più ardua dalle metamorfosi subite da Milano. È l’eterno ritornello della città che dispare sotto i colpi del piccone: «e quale la lasceremo non era, e qual era neppur più la ricordo: la forme d’une ville – change plus vite, hélas! Que le coeur d’un mortel».48 Come tanti, anche Gadda guardò al cygne baudelairiano per esprimere il suo sconcerto dinanzi al vortice della modernità urbana. Ma a cambiare non è, inevitabilmente, anche «le coeur d’une ville»? E quante volte Milano ha divorato il suo cuore? Si tratta di un interrogativo cruciale, tanto più ora che la fedeltà alla tradizione è assurta a valore pressoché incontestabile, bandiera agitata nei campi più disparati: dalla gastronomia alla politica. Quale tradizione? Viene spesso da chiederselo, studiando Porta. A neppure due secoli dalla sua scomparsa, molti degli aspetti che attribuisce allo spirito milanese appaiono svaniti nell’aria: ignoti ai cittadini, negletti da critici e sociologi. È parso perciò opportuno aprire il volume con un capitolo di taglio imagologico, incentrato sulla ricostruzione dello stereotipo “classico” dell’ambrosiano: ponendo l’accento sulla convivialità, sulla schiettezza e sulla generosa bonomia, al limite dell’ingenuità, così derisa per secoli, così importante nei versi di Porta, così deprecata da quanti nel xxi secolo incarnano dinanzi agli occhi del mondo il tipo del lombardo. A torto o a ragione (poiché non è questo il punto) diffidenza, malumore, freddezza, spocchia e premura sono i suoi tratti salienti oggi più riconosciuti, mentre il pragmatismo è trascolorato in zelo ottuso, la cordialità in un insulso spirito barzellettiero. Viene allora più facile capire le ragioni che determinano l’oblio del poeta, il quale su questo terreno ha poco da insegnare. Sono altri i cliché che le pagine portiane veicolano, discutono, attaccano. Ecco dunque che la sua opera si rivela attrezzo adattissimo a temperare uno dei miti più ossessionanti del nostro tempo, l’identità culturale, ritenuta una pietra inalterabile, da preserva-


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re e riverire, e non una finzione incessantemente rinegoziata, come nella prospettiva adottata in questa sede. D’altra parte l’operazione di Porta appare intrinsecamente moderna. A rappresentare e giudicare lo Stadtgeist primo ottocentesco, le mentalità e le condotte in esso operanti, vigila uno sguardo estraneo alle vecchie dinamiche sociali. È il suo liberalismo laico, fondato sui principi illuministi, a conferire ai versi il tono di una borghesia «nel fiore della sua forza espansiva»,49 ottimista e fiduciosa nel valore socialmente produttivo del lavoro. Beninteso, siamo ancora a monte del mito della capitale morale, dell’industrializzazione, delle speculazioni affaristiche. Ma in questo non ancora-non più dimora il fascino dei versi di Carlo Porta e ferve il succo che ne va ricavato. Per capirlo occorrerà preliminarmente retrocedere, così da mettere a fuoco il tratto sin dal Medioevo ritenuto centrale nella definizione del carattere ambrosiano: l’ingordigia (§ i.2). Lupi lombardi, che tutto – donne, onore, denari − pospongono alla soddisfazione del ventre. Tale sarebbe la peculiarità dell’Homo mediolanensis, arcinota nel resto della penisola e lampeggiante in Boccaccio, nell’Aretino, in Goldoni, Alfieri, in cento altri scrittori. Solo dopo l’unificazione iniziò il suo lento crepuscolo, concluso alla metà del Novecento. Al presente la ghiottoneria risulta cancellata persino dal ricordo, dove è al limite sostituita dalla cordialità, che per secoli le fece da semplice scudiero. Una rimozione paradossale, mentre Milano si candida a spiegare come «nutrire il pianeta», in occasione dell’Expo 2015. Nei versi di Porta «brindes» e «pacciade» hanno un ruolo decisivo: vi si concentrano l’inganno e l’ingiustizia sociale, al di là del lieto disimpegno (§ i.3). È un altro indizio della rilevanza e della complessità della «civiltà alimentare» milanese, come la definì Savinio, che nelle sue digressioni ambrosiane vi insiste spesso, persuaso che «la civiltà quando arriva al suo apice, diventa naturalmente conviviale e la tavola centro della vita, anche spirituale». Anche per questo, forse, Milano gli era parsa «uno dei pochi luoghi della terra, in cui la parola humanitas serba intatto il proprio significato».50 Un luogo dove ottimamente albergavano «Giustizia Illuminata, Mancanza di Odio, Ignoranza della Crudeltà». Potremmo oggi seriamente condividere questa impressione? Coltivare l’humanitas, restando saldi nel cuore della modernità. È il messaggio di Porta. È l’auspicio sotteso a questo libro.



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