Ferruccio Parazzoli
Eclisse del Dio Unico Prefazione di Vito Mancuso
Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano Š il Saggiatore S.p.A., Milano 2012
Eclisse del Dio Unico
Dietro i nostri pensieri, veri e falsi, v’è sempre uno sfondo oscuro, che solo più tardi noi possiamo mettere in luce e formulare in pensiero. Le convenzioni del nostro linguaggio sono straordinariamente complicate. A ogni proposizione aggiungiamo mentalmente moltissime cose che non diciamo. Ludwig Wittgenstein, Quaderni 8.12.1914 – 22.6.1915
Sommario
Prefazione di Vito Mancuso
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Contro l’introduzione d’autore
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1. A proposito dello scongelamento dell’Antartide
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L’Asse di Wilkins 31 – Il coraggio di disperare 32 – La voce della tempesta 34 – Il bambino con la manina 38
2. Eclisse del monoteismo
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Inattualità del monoteismo 41 – Un’occasione sconveniente 44 – Dal Dio Creato al Dio Creatore 49 – Il Dio Personaggio 57 – Di quale dio stiamo parlando? 60 – Il Dio perduto 66
3. Eclisse del linguaggio Il mito è linguaggio 75 – Gli sciamani non volano più 78 – Dall’utopia al silenzio 81 – Afasia della cultura cattolica 84 – «Perché non parli?» 89 – Le mani sulla bocca 94 – Se finisse il mondo 97 – La mela e la morte 99
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4. Iceberg alla deriva
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L’eclisse del rischio 103 – Il mito del rischio 107 – Al di qua dell’ombra 111
5. Il tramonto dei miti
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Tabernacoli vuoti 115 – Apologia del rischio 116 – Lo scrittore «altrimenti abile» 118 – La pappa del niente 120
Fiammiferi
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Lessico
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Testi di riferimento
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Prefazione di Vito Mancuso
Questo libro si intitola Eclisse del Dio Unico ma forse sarebbe stato più opportuno intitolarlo Tramonto del Dio Unico, perché l’eclisse designa un oscuramento repentino e temporaneo di un corpo luminoso, mentre il tramonto designa un fenomeno dalla durata maggiore e destinato a concludersi con l’oscuramento definitivo, tant’è che il senso traslato del termine rimanda a una parabola discendente tesa all’estinzione, come per esempio quando si dice «tramonto dell’Impero romano». Per Ferruccio Parazzoli il progressivo oscuramento del Dio unico (personale, provvidente, creatore e signore del mondo) è simile non tanto a un’eclisse passeggera, quanto piuttosto a un inesorabile tramonto; per lui, il Dio della tradizione non tornerà mai più a splendere come prima. Il tema non è nuovo ed è impossibile parlarne senza che la mente corra ad almeno due celebri testi che, riferendosi alla questione di Dio, hanno fatto uso dell’immagine dell’eclis-
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se e del tramonto nella sua fase finale: L’eclissi di Dio di Martin Buber del 1953 e Crepuscolo degli idoli di Friedrich Nietzsche la cui prefazione è datata «Torino, 30 settembre 1888, giorno in cui fu terminato il primo libro della Trasvalutazione di tutti i valori». Anche Benedetto xvi parla spesso di eclissi di Dio, e proprio facendo uso di tale espressione («eclissi del senso di Dio») nell’omelia del 28 giugno 2010 è giunto a motivare la necessità di un nuovo ministero vaticano, istituendo di lì a breve il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Anche il papa inoltre è convinto, come Nietzsche, che l’eclissi o il tramonto di Dio porti con sé un radicale cambiamento di valori, come appare dalla connessione da lui istituita tra eclissi di Dio e crisi del modello tradizionale di famiglia e di etica sessuale: «Nel nostro tempo, come già in epoche passate, l’eclissi di Dio, la diffusione di ideologie contrarie alla famiglia e il degrado dell’etica sessuale appaiono collegati tra loro. E come sono in relazione l’eclissi di Dio e la crisi della famiglia, così la nuova evangelizzazione è inseparabile dalla famiglia cristiana» (dal discorso di Benedetto xvi del 1° dicembre 2011 all’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Famiglia). Insomma da Nietzsche a Benedetto xvi ogni osservatore non distratto del nostro tempo percepisce che il fondamento del nostro vivere e del nostro agire morale (perché questa è la posta in gioco dietro il termine e il concetto di Dio: il fondamento del
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vivere e dell’agire morale) non è più il medesimo dei secoli passati. Naturalmente ci si divide immediatamente nella valutazione di tale fenomeno, che per alcuni è positivo e va incoraggiato, per altri è negativo e va combattuto, ma il primo livello del discorso, quello fenomenologico, è condiviso da tutti: la presenza del Dio della tradizione nell’esistenza occidentale non è più quella di prima. Di quella luce che un tempo illuminava ogni cosa (arte, letteratura, diritto, politica, scienza, costume) oggi è doveroso constatare, nella migliore delle ipotesi, l’eclisse. In questo suo libro però Parazzoli sostiene l’ipotesi peggiore, e parla a più riprese di «dissoluzione del monoteismo», «dissolvenza del Polo monoteista», «dissolvimento del Dio Unico». L’insistenza sul monoteismo sembrerebbe precludere a una discussione sullo statuto dell’essenza divina in se stessa, se debba essere pensata come singolare o plurale, o l’una e l’altra insieme come nel caso della dottrina trinitaria. Ma a Parazzoli non interessa Dio in sé, interessa Dio in rapporto al mondo, e ciò di cui egli dichiara la fine parlando di monoteismo è in realtà quello specifico rapporto Dio-mondo che di solito va sotto il nome di teismo. Con tale termine si intende quella specifica immagine di Dio nel suo rapporto col mondo che è la fondamentale impalcatura filosofica della dottrina cattolica, più precisamente la concettualizzazione di Dio come di un ente personale al di fuori e al di sopra del mondo, realmente ed essenzialmente distinto dal mondo (re et essentia a mundo distinctus, stabilisce il Vaticano i,
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cfr. DH 3001), da cui il mondo però dipende totalmente perché creato dal nulla (de nihilo, stabilisce il Vaticano i, cfr. DH 3002) e perché oggetto di un giusto governo divino («Dio con la sua provvidenza protegge e governa tutto ciò che ha creato», stabilisce il Vaticano i – universa vero, quae condidit, Deus providentia sua tuetur atque gubernat, DH 3003). È di questo modo di pensare Dio nel suo rapportarsi al mondo che Parazzoli annuncia la fine. Questo libro è un documento significativo. L’autore infatti è stato per molti anni (ed è ancora considerato tale ora che scrivo) un intellettuale organico alla gerarchia della Chiesa cattolica, con una collaborazione fissa con Famiglia Cristiana, una rubrica sul mensile Jesus, svariati articoli su Avvenire dove gli è stata affidata anche la striscia di spiritualità quotidiana detta «Mattutino», e i puntuali inviti della Presidenza della Conferenza Episcopale a prendere la parola nei congressi e nei simposi ufficiali, per i quali, si sa, la minuziosa e diplomatica selezione degli invitati è già parte integrante del messaggio finale. Questo ha contribuito a creare nella mente di molti, gerarchie cattoliche comprese, l’immagine di Ferruccio Parazzoli come di uno «scrittore cattolico», espressione da lui peraltro detestata (per lo meno da quando io lo conosco personalmente, cioè dal 1997, anno a partire dal quale è nata una frequentazione e un comune sentire per la cui designazione uso la preziosa parola di amicizia). Per un cattolico graduato come lui non deve essere stato facile scrivere pagi-
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ne come queste, e più ancora decidere di pubblicarle. Forse per questo, qui giocano un ruolo importante le categorie di rischio e di rivolta: «Solo affrontando il rischio sfuggiremo alla paura»; e altrove: «La prima rivolta, per l’uomo d’Occidente, è quella di liberarsi da chi lo rassicura». Più forte dei rassicuranti legami del passato è stata infatti in Parazzoli l’esigenza di onestà, testimoniata dall’uso della prima persona singolare, lo stile per eccellenza della confessione: «Le affermazioni di quel Credo che recito e proclamo in piedi ogni domenica, sono davvero e fino in fondo le risposte alla mia fede? È questa domanda che io chiamo onestà verso Dio». Così scrive l’autore, di sicuro senza ignorare che l’espressione Honest to God è il titolo di uno dei libri più importanti della teologia contemporanea, pubblicato dal vescovo anglicano John A.T. Robinson nel 1963, con molto scandalo dei custodi dell’ortodossia ed enorme successo di pubblico. Come muore il teismo? Muore di morte naturale, non c’è nessuno che l’uccida, si va spegnendo a poco a poco nelle coscienze mediante lenta e progressiva agonia, per arrestare la quale servono a poco gli eventi di massa su cui fa tanto affidamento la Gerarchia cattolica, dalle innumerevoli beatificazioni volute da Giovanni Paolo ii, ai viaggi «apostolici», alle Giornate Mondiali della Gioventù, eventi che riempiono per un giorno le piazze e gli stadi ma non hanno il potere di riempire le chiese, vuote soprattutto di quei giovani di cui si celebrano enfaticamente le «Giornate».
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Perché muore il teismo? Muore per l’incapacità di reggere all’intelligenza e alle sue interrogazioni, per l’incapacità di corrispondere onestamente al desiderio di verità e di giustizia che sale dal profondo dell’anima umana, la quale oggi non può più accontentarsi dei sofismi razionalistici della dogmatica tradizionale depositati nel Catechismo. Sono troppe le domande inevase, immenso il dolore del cuore, desolante lo sconforto dell’intelligenza. Le problematiche sollevate da Parazzoli con quel modo obliquo e intrigante della sua prosa e con l’ironia drammatica della sua narrativa sono le stesse che si agitano nella mente di tutti. Primo: l’eterna aporia del male, soprattutto del dolore che tocca i più piccoli, prefigurato nel duplice racconto di Dostoevskij del 1876, «Il bambino con la manina» e «Il bambino sull’albero di Natale da Gesù», in cui il grande scrittore russo, fervente cristiano, «mette tutta la sua disperazione», come annota Parazzoli. Secondo: un’immagine di Dio molto incoerente, in quanto il Padre del Nuovo Testamento, l’Abbà, il papà, di cui parlano Gesù e l’apostolo Paolo, non si è mai conciliato con l’immagine del Dio delle Sacre Scritture ebraiche, con il risultato che Dio «non è più l’imprevedibile Yahvè ma non è mai diventato semplicemente il Padre». Terzo: l’impossibilità di accettare la cosiddetta storia della salvezza nella versione tradizionale, quella secondo cui Gesù sarebbe stato destinato da Dio fin dall’inizio alla morte di croce, un’assurdità che Parazzoli esprime nel magistrale «discorso di Gesù
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nato» nel quale il piccolo Gesù proclama con voce da adulto la sua ribellione al destino che lo vorrebbe da sempre Agnello immolato: «Non ero la vittima designata da alcuno a redimere le colpe del mondo offrendosi al macello per lavare con il proprio corpo e il proprio sangue ogni altra colpa passata e futura»; al contrario «non c’erano colpe da redimere, c’era da rovesciare l’orrenda, la miserabile condizione in cui il Grande Personaggio aveva abbandonato il mondo scegliendo di lasciarsi eclissare dalla sua ombra». Quarto: una Bibbia che non è più possibile leggere come Sacra Scrittura, di cui per questo Parazzoli dice «in primo luogo cancelliamo, per poter procedere, l’aggettivo “sacra”», così che essa rimane solo scrittura, senza neppure maiuscola, semplice narrazione, narrativa teologica, e se nell’ipotesi di un rinnovato diluvio universale si dovesse scegliere quale libro tra tutti salvare, per Parazzoli non sarebbe certo la Bibbia a meritare l’onore. Quinto: le numerose intolleranze dei monoteismi contemporanei, nati tutti dall’unico «monoteismo tribale di seme nazionalista e populista». L’esito non può che risultare segnato: «Il Dio d’Occidente, il Dio Unico, ebraico-cristiano, è un sole oscuro, eclissato dall’ombra di un mondo che ne ha visto il tramonto». È un dissolvimento a partire dal basso, quello documentato da questo saggio, il più esiziale, perché così si scalzano le fondamenta. Non si tratta di un rovesciamento che parte dalla dimensione teoretica, come potrebbe essere quella di un intellettuale che
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ha scoperto la verità del politeismo nei suoi sofisticati ragionamenti e nelle sue aristocratiche letture. La forza delle argomentazioni di Parazzoli sono date dal fatto che qui si rispecchiano le inquietudini esistenziali, direi viscerali, del vivere quotidiano. L’uomo contemporaneo infatti non è interessato a teorie sul divino, è passato da un pezzo il tempo in cui nelle nostre città ci si infervorava per questioni trinitarie e cristologiche. Oggi, nel bene e nel male, si hanno occhi solo per questa vita concreta. Ed è in funzione di essa che Parazzoli sente di non potersi più accontentare di un’unica religione, di un unico altare, di un unico libro sacro. È venuto meno l’inquadramento della libertà e della spiritualità in un’unica forma religiosa, un fenomeno che si può applaudire chiamandolo pluralismo o combatterlo chiamandolo sincretismo, ma di cui, prima ancora, occorre prendere atto, perché riguarda un numero sempre crescente di cristiani. È la fine del monoteismo in senso esistenziale, la fine cioè dell’enoteismo: è, scrive Parazzoli, «il dissolvimento […] del “Non avrai altro Dio” come asse della cultura occidentale». Se il teismo muore nella coscienza occidentale, non può che risultarne l’agonia anche dell’istituzione Chiesa cattolica, che si basa su di esso per pensare il rapporto Dio-Mondo. A questo riguardo le analisi di Parazzoli si fanno taglienti. La funzione del linguaggio è dare significato e per fare questo occorre che vi sia corrispondenza tra la struttura del linguaggio e la struttura del fatto, ricorda l’autore riprendendo la sempre valida concezione
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tomista della verità come adaequatio rei et intellectus. Che cos’è avvenuto però? Che «con l’eclisse del monoteismo si spezza il legame, le due strutture non corrispondono più, il linguaggio si riavvolge su se stesso» e a causa di ciò si produce un persistente fenomeno che Parazzoli denomina in vari modi, tutti allo stesso modo impietosi: «afasia della cultura cattolica», «ingresso della cultura cattolica in un alone di buio», «attuale oscuramento», «cultura autoreferenziale», «un albero senza fronde né frutti». Il risultato di questa rovina, tanto più amara dopo oltre dieci anni di attività del cosiddetto Progetto Culturale voluto dal cardinal Ruini ai cui forum Parazzoli è stato attivo partecipante, è che «la Chiesa non ha più modelli da proporre». L’alternativa al teismo che muore però non è l’ateismo, come in prima battuta e un po’ superficialmente si è portati a pensare. L’ateismo è il contrario del teismo, ma proprio per questo vive ancora della sua luce, si muove ancora all’interno del medesimo paradigma, in quanto sua negazione è ancora una sua creatura. L’ateismo vive ancora all’interno della medesima rappresentazione del rapporto Dio-Mondo propria del teismo (Dio su, re et essentia a mundo distinctus, il mondo giù, re et essentia a Deo distinctus), di cui non propone nulla se non la negazione del polo superiore. Ma come pensare ciò che rimane? Come pensare la diade Uomo-Mondo, dopo che il primo motore della triade originaria è stato abolito? E che ne è dell’inten-
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zione fondamentale che aveva portato l’umanità di tutti i tempi e tutti i luoghi a porre il Divino (cioè un fondamento originario al desiderio di senso e di scopo della vita), una volta che il Divino è abolito? La vera alternativa al teismo che muore non può essere l’ateismo in quanto piatta negazione del teismo, ma deve piuttosto consistere in una nuova visione del problema filosofico fondamentale, cioè il rapporto Dio-Uomo-Mondo, oppure, se si abolisce Dio, del rapporto tra i due soli attori rimasti sulla scena, l’Uomo e il Mondo. Pensando in questa prospettiva, lo spirito umano ha prodotto da sempre, oltre al teismo, altri due modelli fondamentali, che costituiscono oggi come da sempre la vera alternativa al teismo: il panteismo e il nichilismo (soprattutto a partire dal Novecento si è venuto configurando un quarto modello fondamentale, il panenteismo, che è quello a cui io aderisco, ma di cui qui non parlerò perché non è in gioco il mio pensiero). Ora è decisivo sapere che, rifiutando il teismo, Parazzoli rifiuta altresì il nichilismo, per abbracciare invece, per quanto in modo un po’ ermetico, il panteismo. Nonostante il richiamo esercitato su di lui, Parazzoli non aderisce al nichilismo quale ultima opzione spirituale della vita, come appare dai brani nei quali considera le conseguenze morali dell’opzione nichilista, presentata mediante immagini incisive quali «la pappa del niente», una realtà dove nulla è solido ma tutto virtuale, «il nichilismo debole delle masse», «un amor-
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fo nichilismo di massa […] idoli e consumo di idoli», il fatto che nulla abbia più senso e che quindi il senso sia il nulla, come afferma citando don Gianni Baget Bozzo, amico comune a lui e a me, per quanto su posizioni diametralmente opposte. Parazzoli rifiuta il nichilismo perché per lui «la vita non è la pallina che, scagliata nel tumultuoso percorso di un flipper, accende quante più luci, per poi finire nel buio e nel silenzio». Parazzoli rifiuta il nichilismo perché non si rassegna al fatto che «nessuna idea ha più la forza di diventare speranza». Qual è però la sua idea forte che può diventare speranza? Rifiutando sia il teismo sia il nichilismo, in questo libro Parazzoli abbraccia il panteismo, nel senso che il suo Dio (il principio primo, il fondamento) diviene qui il mondo stesso, rappresentazione dietro la quale non c’è nulla e nessuno (negazione del teismo), senza però che il suo senso sia il nulla e vi sia l’impossibilità di stabilire una gerarchia di valori (negazione del nichilismo). Anche se privo della sua serenità, Parazzoli ripercorre il sentiero di Spinoza. Anche se privo della sua gioia dionisiaca, Parazzoli ripercorre il sentiero di Nietzsche. Senza serenità e senza gioia, il percorso di Parazzoli verso il panteismo è piuttosto simile al grido di Munch, e talora in alcune espressioni a una sorta di ghigno metafisico alla Hieronymus Bosch. Comunque sia, a prescindere dal percorso personale, questo libro è il documento di un nuovo credo, il credo di un uomo che passa dal Deus cristiano al Deum pagano, perché è esattamente
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questa impersonalità neutra della Divina Energia ciò che Parazzoli chiama Rappresentazione (o anche Natura e Mondo) e che per lui è tutto. La frase centrale di questo strano saggio filosofico-teologico è infatti, a mio avviso, quella che riporta i pensieri del «brutto granchio grigio» che, nascosto dietro una scopa, sta per morire: «Capì» (il soggetto è appunto il brutto granchio grigio) «che anche quel suo starsene a morire dietro una scopa faceva parte di qualcosa che avviene, e che quel qualcosa è la vita stessa di dio… il mondo altro non è se non la vita di dio. Dio non è mai scomparso, la sua assenza è soltanto un abbaglio. Al contrario, dio è in continua, totale, dinamica apparizione, è tutto ciò che appare e che qualunque granchio può vedere, eternamente presente, senza passato né futuro. Dio è soltanto il presente, tutto il mondo è soltanto il presente, è la rappresentazione di ciò che avviene. Non c’è altro al di fuori di dio, nulla avviene al di fuori di dio. Dio è inevitabile». Ecco una delle più chiare e luminose confessioni di fede panteista. Non c’è alcuna eclisse o tramonto di Dio, ciò che muore è solo Deus per lasciare di nuovo il posto a Deum. Questo libro è il corrispettivo cristiano del testo con il quale il pagano Plutarco, ormai quasi venti secoli fa, aveva intuito la fine ormai prossima del paganesimo, testimoniandola nella celebre pagina del De defectu oraculorum (Il tramonto degli oracoli): «Appena si giunse presso Palode regnò una gran pace e di venti e di flutti; Tamo, da poppa, con lo sguardo volto al-
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la riva esclamò, come aveva udito: “Pan, il grande, è morto!”». L’antico testo prosegue annotando che «egli non aveva neppure chiuso bocca, che un immenso gemito, non di uno ma di molti, s’innalzò, misto a grida di stupore».1 Nel iv secolo, quando la vittoria del cristianesimo monoteista sul politeismo pagano era ormai conclamata, Eusebio di Cesarea interpretava questo brano di Plutarco come simbolo della fine del paganesimo, sconfitto con tutti i suoi Dei dall’avvento di Cristo (Preparatio evangelica, v, 17). Plutarco, che fu sacerdote del tempio di Apollo a Delfi, annunciò la morte di Pan e con ciò del paganesimo politeista; Parazzoli, che non è un sacerdote ma spesso in queste pagine paragona lo scrittore al sacerdos e la scrittura all’opera liturgica scrivendola al maiuscolo, Opera, annuncia la morte del Dio unico e con ciò del cristianesimo monoteista. Si può quindi trattare di una risurrezione di Pan? Questo libro è forse un segnale dell’incipiente rivincita del paganesimo panteista? Si tratta di una domanda a cui solo il tempo darà una risposta. Quello che è certo è che quanto aveva portato Plutarco ad annunciare la morte di Pan, cioè il venir meno degli oracoli e della voce degli Dei, è il medesimo elemento che oggi porta Parazzoli ad annunciare il venir meno del Dio della tradizione cristiana. Il defectus odierno concerne la mancanza di una quaPlutarco, De defectu oraculorum, 17, D; ed. it. a cura di Vincenzo Cilento, in Iside e Osiride e Dialoghi delfici, Bompiani, Milano 2002, p. 317. 1
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lunque voce divina che risponda oggi alle esigenze di verità e di giustizia che sorgono nel cuore dell’uomo, nel senso che il Dio unico (personale, onnipotente, provvidente, giudice, creatore e signore, senza il cui volere diretto o indiretto non si muove foglia, che vedendo il male lo può impedire ma lo permette per un bene maggiore), quel Dio lì, non sa più onorare con il suo silenzio la richiesta di verità e di giustizia dell’anima umana. Il paganesimo panteista di Parazzoli ha i suoi consigli esistenziali e spirituali da proporre. Per esempio come quando si avvicina all’epicureismo rifacendosi a Orazio: «Ho vissuto, dice Orazio, ed è semplicemente questo a rendere felici, ma per dire “ho vissuto” occorre avere la piena coscienza del vivere, una felicità sommessa ma costante, simile a se stessa come il respiro e, come il respiro, pronta a interrompersi. Un saluto, e via». Oppure come quando si avvicina allo stoicismo, con parole da cui emerge la medesima nobile filosofia di vita di Seneca, Epitteto, Marco Aurelio e, ai nostri giorni, di Pierre Hadot: «Se la vita ha un senso e la felicità sta nella coscienza di vivere, occorre una meta verso cui navigare, riconoscenti nella fortuna, fermi nelle avversità. Allora, l’imbarazzante e talvolta frivola “felicità” si muterà nella più umana e solida “fortezza”, stato di vita sottratto al capriccio del destino e affidato all’esercizio della volontà». Oppure come quando ripresenta la spiritualità del naufragio che è stata la proposta spirituale del grande Karl Jaspers: «Il vero navigante sa che puntando alle certezze
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di cui fu nutrito, si infrangerà miseramente. Per cui, abbandonandole, metterà la prua al largo cercando la salvezza proprio nella tempesta, rifuggendo le finte certezze offerte dalla terra, affrontando il rischio del mare aperto». Oppure come quando raggiunge la quiete del Buddha con parole peraltro attribuite a Gesù: «Fate silenzio una buona volta e ascoltate la pace. Tiratela fuori, l’avete nascosta dentro di voi la pace: avrete un mondo nuovo, senza più iperboliche parabole, a misura del vostro cuore». Qualcuno potrebbe vedervi un’incoerenza, persino un po’ di confusione. Ma a Parazzoli non interessa la coerenza del sistema, anzi sono sicuro che sottoscrive in pieno le seguenti parole di Nietzsche: «Diffido di tutti i sistematici e li evito. La volontà di sistema è una mancanza di onestà».2 A uno che teorizza la dissolvenza del Dio unico, la pluralità e anche una certa dissonanza dei sentieri proposti non può risultare sgradita, semmai è proprio ciò che va cercando. «Dietro i nostri pensieri, veri e falsi, v’è sempre uno sfondo oscuro»: è la frase tratta dai Quaderni di Wittgenstein citata da Parazzoli in esergo. Vi è uno sfondo oscuro dietro i nostri pensieri e dietro la nostra vita. Certo, il pensiero da sempre è stato percepito come portatore di luce, e anche dell’inizio della vita si dice «venire alla luce». Ma qualcosa può venire alla luce, sia esso pensiero o essere vivente, solo a partire dal buio, Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello [1888], tr. di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 19924, p. 28. 2
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dall’oscurità. Per essere vero e comunicare qualcosa, il pensiero deve sorgere dall’oscurità, nelle profondità irrazionali dell’energia oscura che è dentro di noi e che è la nostra più preziosa e insondabile sorgente vitale. Se non c’è questo contatto con il fondo oscuro, con il buio profondo su cui tutti noi ci basiamo, il pensiero è sterile, non è neppure pensiero, solo esercitazione scolastica, compitino istituzionale, talora purtroppo vuota chiacchiera. Ferruccio Parazzoli ha voluto indagare lo sfondo oscuro, «scoprire il punto oscuro del mondo in cui piantare la mia leva per rovesciarlo», come si legge nel «Discorso di Gesù morto». In queste pagine l’ha fatto in forma saggistica, anche se non prive di invenzioni narrative, dopo che nei suoi numerosi romanzi, tra cui desidero ricordare Nessuno muore (Mondadori 2001) e Il mondo è rappresentazione (Mondadori 2011), l’ha fatto in forma narrativa. Ma l’indagine è unica, come unica è la vita. E l’indagine alla fine l’ha condotto ad abbracciare il panteismo. Questo libro si presenta quindi come l’onesto documento di un uomo che è stato cattolico per tutta la vita, e quindi naturalmente teista, e che ora non è più teista, bensì panteista. Questo comporta per lui che debba cessare di essere o di ritenersi cattolico? Non è detto, potrebbe benissimo confluire nel numero ogni giorno crescente di coloro che inaugurano nuovi modi di stare al mondo come cattolici, di coloro che non possono né vogliono sbarazzarsi di una radicata formazione cattolica, ma
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dall’altro non possono né vogliono mettere più a tacere una coscienza critica che impedisce di proseguire a credere una serie di infondate affermazioni teologiche proposte ancora oggi dalla Gerarchia. In questo senso Parazzoli si colloca a suo modo all’interno di quel fenomeno sempre più consistente all’interno del cattolicesimo che il filosofo Pietro Prini, anche lui cattolico, denominò «scisma sommerso»,3 e che forse è solo la punta di un iceberg.
Pietro Prini, Lo scisma sommerso, Garzanti, Milano 1999. La prima edizione presso Studio g.due, Milano 1998. 3
Contro l’introduzione d’autore
A quanto segue non c’è introduzione o premessa d’autore. Il lettore troverà, se ci sono, le ragioni dello scritto in quanto sta scritto, né c’è altra ragione che l’autore preponga un ulteriore pensiero a quanto ha già pensato. È perciò tempo di rinunciare alla sia pur gloriosa tradizione di fare precedere a quanto scritto la giustificazione di quanto scritto.
1. A proposito dello scongelamento dell’Antartide
L’Asse di Wilkins C’è un punto di partenza obbligato, nonostante sia pietosamente taciuto: l’assoluta, irrinunciabile necessità di riconoscere la dissoluzione del monoteismo prima di tentare una descrizione dell’attuale condizione umana rifiutando i fallimentari trabocchetti dei sistemi filosofici e teologici. Il fenomeno del disgelo del monoteismo è paragonabile, per cause ed effetti già da tempo in atto e, soprattutto, in divenire, all’accelerato disgelo dell’Asse di Wilkins nella calotta polare antartica, con le relative conseguenze. È stato ipotizzato che nemmeno i più rigidi inverni riusciranno a fermare il collasso dell’Asse di Wilkins, la piattaforma glaciale antartica vasta oltre quattrocento chilometri quadrati, di cui una parte si sarebbe già distaccata frantumandosi e andando alla deriva con un
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impulso di disgelo capace di produrre una trasgressione massima di innalzamento globale del livello dei mari. Il disgelo del monoteismo, asse della civiltà occidentale, sta provocando mutamenti sempre più evidenti di valori e disvalori, mentre frammenti, di maggiore o di minore mole, di quello che fu l’asse monoteistico vanno alla deriva come i ghiacci vagabondi dell’Asse di Wilkins, urtando, divergendo, conflagrando tra loro, iceberg senza meta, destinati a disciogliersi nella massa anonima delle acque, ultimi lacerti di un’entità di un Polo scongelato, di un Asse in dissoluzione. La dissolvenza del polo monoteista è il dissolvimento del Dio Unico, del «Non avrai altro Dio» come asse della cultura occidentale. È necessario rendersene conto.
Il coraggio di disperare Rendersi conto. Espressione apparentemente irrilevante nella banalità del suo uso comune. «Ma ti rendi conto?» Di questo, di quello. «Ma ti rendi conto?»: quasi sempre con un sorriso di accompagnamento appena accennato. C’è stata una gaffe, un
1. A proposito dello scongelamento dell’Antartide 33
qui-pro-quo che, in genere, può passare per divertente. Ma se l’interrogazione si muta in ingiunzione, diventa minaccia: «Renditi conto». Sei chiamato alla consapevolezza, non ne uscirai se non dopo essertene fatta una ragione ben chiara. Di questo, di quello. Non farai più neppure un passo innanzi se prima non ti sarai «reso conto». In realtà, è quanto facciamo ogni giorno: non vado a dormire senza rendermi conto che ho sonno, non mangio senza rendermi conto che ho fame, non orino senza rendermi conto che ho la vescica colma, non pigio l’acceleratore senza rendermi conto di avere strada libera, non abbandono una compagnia senza rendermi conto che è noiosa, non divorzio senza rendermi conto che la convivenza è diventata impossibile, non abbandono Dio senza rendermi conto che non credo più in lui. Rendersi conto: una riflessione che può cambiare una vita. È proprio di questo, di cui rendo conto, di cui è necessario rendersi conto: perché sono qui, e qui dove, e che cosa c’è intorno a me, e dove posso da ora innanzi dirigere i miei passi e se è ancora il caso che li diriga da qualche parte o non, invece, che me ne resti immobile rifiutando ogni partecipazione, tentando di giungere a quella eliminazione del dolore indicata dal Buddha e consentire al fatto che non c’è alcuna risposta perché ogni domanda è priva di senso.
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«Ti rendi conto?» Domanda priva di senso: non ha risposta. Secoli di storia occidentale impediscono all’uomo d’Occidente l’estraneazione dal mondo che egli stesso, con dichiarata superbia, è andato creandosi: da Dio al grattaschiena telescopico. Destino dell’uomo d’Occidente è porsi delle domande e pervenire a delle risposte. Non gli è concesso bloccarsi a metà del tunnel, inevitabile continuare a percorrerlo anche nella certezza che non avrà fine e che l’uscita è solo ipotetica, un atto di fede come credere nell’Aldilà una volta percorso il tunnel della vita. Questo il nostro coraggio, questa la nostra estrema disperazione molto simile a un’estrema speranza.
La voce della tempesta Sembra assurdo parlare di felicità. Ma se è assurdo oggi, lo era certamente, e forse più, anche ieri. Il nostro tempo, infatti, ci appare come il peggiore in assoluto per cui sembra lecito lamentarsi, cosa che dà comunque una mesta soddisfazione. Quando si tratta di parlare di felicità, recalcitriamo, ci tiriamo indietro, non ci sentiamo preparati, tanto riteniamo estraneo l’argomento alla nostra comune esperienza.
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Certo, la felicità si suppone che esista. Chi è mai colui che possa negarne anche la semplice eventualità? Un giorno, una notte, un’ora, un minuto: chi non l’ha vista, anche una sola volta, attraversare, splendida e irridente, il grigiore della propria vita? La felicità ciascuno di noi l’ha assaggiata o ha creduto di assaggiarla. Quell’attimo fuggente che brilla nei Carmina di Orazio come qualcosa di unico e risplendente che nulla potrà mai più cancellare. Ma se la felicità fosse solo in quell’attimo indimenticabile, per il resto dei nostri giorni la felicità non sarebbe altro se non la nostalgia di quell’attimo. Ecco calare il silenzio, il rifiuto di parlarne, il mezzo sorriso che ci attraversa il volto quando qualcuno, indiscreto, ci domanda: «Sei felice?». Orazio non solo ci invita a essere riconoscenti alla vita che ci ha donato quell’ineguagliabile attimo, ma soprattutto a riconoscere un uomo felice in colui che, alla fine della giornata, possa dire: «Ho vissuto» e non importa se domani il cielo sarà oscuro oppure se risplenderà il sole. Ma Orazio non aveva alcun dio a cui rendere conto, nessun dio tramontava nel suo cielo e quanto al tramonto degli dèi è pur stato un bel tramonto, in bellezza, senza drammi e risentimenti, senza odio e rivalsa si spegnevano da soli per esaurimento di luce: avevano stile nel lasciare la scena. La felicità, ammaestrano i filosofi bancarottieri, una volta rico-
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nosciuta come possibile non va abbandonata all’attesa del caso, ma coltivata come una pianta tenace e gentile. Al di sopra delle tempeste il cielo è sempre sereno, ammonisce il saggio. Oltre il dolore, gli affanni, l’angoscia, scorre il potente fiume della vita così com’è: prendere o lasciare. Alla base della tanto lamentata infelicità ci sarebbe, dunque, un equivoco: scambiare la felicità per un eccesso di benessere, di fortuna, per un elemento esteriore al flusso quotidiano della vita, qualcosa di eccitante, di sublime, che trascende il quieto divenire nel tempo. Se la felicità è solo uno splendore di fiamma sarà destinata a una breve durata, risplenderà magnifica la luce, poi si spegnerà e subentrerà il buio. Luce e buio, ancora luce e ancora buio. Illusione, Maya. Ma la vita non è la pallina che, scagliata nel tumultuoso percorso di un flipper, accende quante più luci segnando vertiginosi punteggi, per poi finire nel buio e nel silenzio. Ho vissuto, dice Orazio, ed è semplicemente questo a rendere felici, ma per dire «ho vissuto» occorre avere la piena coscienza del vivere, una felicità sommessa ma costante, simile a se stessa come il respiro e, come il respiro, pronta a interrompersi. Un saluto, e via. Attitudine a vivere: strana espressione, scandalosa ai più. Per un errore avvenuto da qualche parte in noi, nella nostra anima, forse, ci sentiamo sempre meno adatti a vivere, ad accettare le
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apparenti contraddizioni della vita. Fragili barche in attesa di naufragio, balliamo sulle onde, restiamo immobili nella calma piatta. Se la vita ha un senso e la felicità sta nella coscienza di vivere, occorre una mèta verso cui navigare, riconoscenti nella fortuna, fermi nelle avversità. Allora, l’imbarazzante e talvolta frivola «felicità» si muterà nella più umana e solida «fortezza», stato di vita sottratto al capriccio del destino e affidato all’esercizio di una volontà che si adopera a contrapporre la quiete interiore al tumulto esteriore, la sorridente accettazione del limite sapendo che ogni limite è il segno naturale e provvisorio di qualcosa che non si vede ancora, così come il navigante sa che c’è altro oltre l’orizzonte: forse la salvezza nel naufragio. Avvezzati ad aggrapparci alla terra e alle sue illusorie certezze, pessimi naviganti, se sorpresi dalla tempesta ci sforziamo di cercare la terraferma, sia pure irta di scogli, pur di ritrovare quel suolo familiare che i nostri piedi sono usi a calpestare e che scambiamo erroneamente per una sicura salvezza. Ma il vero navigante sa che puntando alle certezze di cui fu nutrito, si infrangerà miseramente. Per cui, abbandonandole, metterà la prua al largo cercando la salvezza proprio nella tempesta, rifuggendo le finte certezze offerte dalla terra, affrontando il rischio del mare aperto. Se ne ride della promessa felicità come di un mito irrimediabilmente perduto, rifugge l’illusorio richiamo del faro che ci promette di carpire il segreto del mondo, di
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dare una risposta al senso della vita, ormai abbandonato fin dagli ultimi guardiani e divenuto covo di filibustieri.
Il bambino con la manina C’è un raccontino di Dostoevskij intitolato «Il bambino con la manina» che inizia sorprendentemente così: «I bambini sono creature strane, vi appaiono in sogno e immaginate di vederli…». Poi inizia a raccontare di come un giorno, vigilia di Natale, abbia incontrato «nella via, al solito angolo», un bambinetto di sette anni, di quelli che gli adulti mandano in giro a chiedere l’elemosina «con la manina», anche nel gelo più terribile… e così via. Una storiella pietosa che si risolve al meglio, per così dire, con Gesù che si porta il bambinetto in cielo, sotto un grande albero di Natale intorno al quale volano finalmente felici tutti i bambinetti come lui, vittime innocenti. Come segnalibro ho messo tra le pagine il giornale che parla dei bambini nudi bruciati vivi a Beslan, la cronaca del piccolo palestinese ucciso mentre si recava a scuola a Turkarem, la storia di Iman Al-Najar, tredici anni, crivellata di proiettili perché scambiata per un kamikaze. E poi ci ho messo anche la foto di un manifesto di Halloween dove la Morte piscia insieme con altri mostri in una gara da latrina, così come le compete.
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Ma non è questo che conta: è «il bambino con la manina». Perché mai, mi chiedo, Dostoevskij scrive una cosa così? Così come? Abbiamo pudore a rispondere. Infatti scambiamo la lacrimosa pietà d’animo del grande scrittore per una inaspettata debolezza, una concessione alla pietà divina contro se stesso, Karamazov che accusa Dio e non altri di quel dolore innocente a cui assiste da millenni dimostrando una scandalosa divina sopportazione. In realtà, Dostoevskij mette nel raccontino della «manina» tutta la sua disperazione. Dio non c’è, è assente, forse riposa ancora dopo il settimo giorno. Ed ecco, allora, che Dostoevskij manda giù Gesù, o quello che ne rimane dopo l’incontro con il Grande Inquisitore, e gli assegna il compito di rimediare come può, offrendo alla piccola vittima un alberello lucente circondato da altrettanti orfanelli come lui. Che fare di più, povero Cristo? Poiché Dostoevskij sa bene che Gesù non è e non può essere il sostituto di Dio, né può prendere il suo posto anche se è un posto vacante. Quando Dostoevskij afferma che se messo di fronte alla scelta tra la Verità e Cristo, non esiterebbe a scegliere il Cristo, condanna a morte l’idea del Dio Unico e, in quanto tale, necessariamente Vero. La scelta di Dostoevskij non è, infatti, una scelta di verità, ma di amore, come colui che, seppure messo di fronte a una ipotetica documentata non storicità di Gesù, continuerebbe tuttavia a credere in Gesù piuttosto che all’autenticità
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dei documenti. Non credo, ma amo: trasferimento impossibile, da una pretesa certezza a un amore gratuito, sul Dio Unico ebraico-cristiano che ne resta escluso, per cui ogni elaborazione di una eventuale nuova aurora dell’uomo occidentale, cosciente del proprio «tramonto», si riversa su Gesù, ancora oggetto del linguaggio collettivo, e non sul Dio monoteista, impossibile oggetto di linguaggio, causa stessa del «tramonto» con il suo inevitabile eclisse.