Fare di più con meno

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Stefano Boeri con Ivan Berni

Fare di piÚ con meno Idee per riprogettare l’Italia

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www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Š il Saggiatore S.p.A., Milano 2012

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Sommario

Cambiamo paese, restiamo in Italia Un dialogo

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Idee per «fare di più con meno» e riprogettare l’Italia

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Postfazione

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Intervista a Eric Hobsbawm

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Sitografia

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Ringraziamenti

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Cambiamo paese, restiamo in Italia di Stefano Boeri

Arco Nel 1962, a diciassette anni dalla fine della guerra, in una Milano che vive un periodo di ricostruzione e di grande ripresa economica, i fratelli Pier Giacomo e Achille Castiglioni progettano Arco, una lampada che diventerà un simbolo del design made in Italy. Arco1 nasce dal montaggio di tre oggetti semplici: un pezzo di marmo, un tubo di acciaio inox e un piccolo lampione. Il risultato è un poderoso balzo in avanti nel modo di illuminare gli interni. Grazie alla curvatura del tubolare infisso nel blocco di marmo, Arco sospende la fonte di luce sopra la nostra testa e illumina lo spazio dall’alto, con un cono di luce sotto il quale ci si può muovere liberamente. Inoltre, non dovendo essere ancorata al soffitto, la lampada può essere facilmente spostata, grazie a un foro nel blocco di marmo e a una piccola leva. Arco, che diventerà un grande successo commerciale, è una sintesi di eleganza, genio e semplicità. Un oggetto che non addiziona, ma moltiplica il valore iniziale – economico, estetico e simbolico – dei tre oggetti che assembla, creando qualcosa di inedito.

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E così, dall’uso creativo di poche risorse – senza grandi investimenti, senza macchinari potenti, senza nuovi materiali – nel 1962 nasce a Milano non solo una nuova lampada, ma un nuovo concetto di luce. Il gesto creativo dei fratelli Castiglioni è l’emblema di cosa significhi «fare di più con meno» nei processi produttivi. Del resto, se pensiamo alla storia recente delle nostre imprese, nei campi più eterogenei come quelli dell’enogastronomia, della moda, del tessile, della meccanica fine, della cultura – alcuni dei settori che hanno saputo meglio affrontare la crisi e che oggi sostengono, oltre a una quota importante del PIL, le nostre esportazioni – troveremo decine di esempi di utilizzo geniale di risorse limitate, insufficienti o sprecate. Storie di donne e uomini imprenditori, artigiani, operatori del commercio e dei servizi, artisti, designer, che usando risorse scarse, o non utilizzate al meglio, hanno realizzato prodotti dotati di un valore culturale e di mercato incomparabilmente maggiore di quello della somma delle loro componenti; donne e uomini che hanno saputo utilizzare le opportunità tecnologiche e il loro talento creativo per sfruttare al meglio una condizione di partenza difficile e piena di vincoli. Lo stesso ottimismo realista, lo stesso entusiasmo pragmatico, deve investire la politica in Italia. Una politica che oggi è chiamata a progettare il futuro prossimo di un presente caratterizzato da una crisi senza ritorno eppure piena di opportunità; un presente che abbiamo scoperto essere diverso da quello che ci eravamo immaginati. Una politica che dovrebbe imparare a fare con il territorio, l’economia e la società italiana, quello che i fratelli Castiglioni hanno saputo fare con un blocco di marmo, un tubo di acciaio inox e un lampione: mettere insieme, comporre ri-

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sorse, realizzare uno scatto per produrre qualcosa di nuovo, originale e potente, capace di generare ricchezza. Questo libro, che propone un approccio nuovo alla crisi che ha cambiato la nostra vita, è ispirato alla storia dei fratelli Castiglioni e al loro metodo creativo.

«Uscire» dalla crisi? La crisi è il nostro presente. Eppure pochi, tra i politici e gli studiosi di economia sembrano disposti oggi ad accettare la vera natura di questa crisi, che è quella di aver creato nella geopolitica del mondo e nelle economie dei paesi una condizione nuova ma non passeggera, difficile e insieme stabile. Prevale ancora oggi l’idea che da questa crisi si debba e si possa, prima o poi, «uscire». Un’idea diffusa, che è sostenuta da due immagini simboliche. La prima è l’immagine di un tunnel, evocata di recente anche dal nostro Presidente del Consiglio Mario Monti, quando di fronte alle domande sul futuro prossimo dell’economia italiana afferma che «siamo finalmente capaci di vedere la luce alla fine del tunnel». È un’immagine potente; ci dice che, in fondo, stiamo avvicinandoci all’uscita dal corridoio buio della crisi (che è lungo e contorto, fatto di una recessione crescente e di un debito pubblico che ha raggiunto proporzioni ingestibili) e che uno spiraglio di luce comincia a raggiungerci. E che questa luce verso cui ci avviciniamo, questa luce visibile alla fine del tunnel, non è poi così diversa da quella che ci illuminava al suo ingresso. Il «tunnel della crisi» è un’immagine antica, perfino abusata, ma ancora convincente e rassicurante, che interpreta questa crisi come una fase ciclica di passaggio, una situazio-

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ne di grande difficoltà per il paese, e per l’Europa, da cui sarà comunque possibile uscire, con politiche di rigore ed equilibrio che ci aiutino a ritornare alle condizioni precedenti. Si tratta di aver pazienza e di accettare sacrifici indispensabili, ma ne saremo tutti ripagati. La seconda immagine, che influenza soprattutto una parte del pensiero della sinistra europea, ci racconta che da questa crisi si uscirà solo se si accetteranno le nuove condizioni che la crisi stessa ha determinato: quelle di una permanente scarsità di risorse spaziali, ambientali, energetiche, finanziarie. Questa immagine ci dice che è bene adattarsi a un futuro nel quale non ci sarà più crescita quantitativa della ricchezza collettiva (in termini di infrastrutture pubbliche e servizi al cittadino), né crescita del benessere individuale, in termini di beni materiali posseduti. Bisogna piuttosto abituarsi a convivere con una condizione di decrescita – e capire che fermare e invertire i processi di crescita può anche portare dei vantaggi; che la scarsità delle risorse può essere compensata da un loro uso più sobrio e intelligente. Magari riprendendo stili di vita e costumi che l’umanità ha abbandonato di fronte a una crescita impetuosa dell’economia reale che si è tradotta nell’abbondanza di risorse e beni disponibili. L’idea di uno «sviluppo senza più l’ossessione della crescita» sembra dirci che non dobbiamo aspettarci di poter tornare a una condizione precedente la crisi, ma piuttosto dobbiamo fare un viaggio nel tempo e tornare a un passato preindustriale e precapitalistico in cui i valori del consumo solidale, della cooperazione tra i territori, di un artigianato che produce per serie limitate sapevano garantire localmente condizioni di equilibrio sociale e di benessere. È l’idea, insieme nobile e nostalgica, di una decrescita felice2 che ci invita a uscire dalla crisi riscoprendo valori, pratiche, mo-

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di di consumare e di fare comunità che appartengono al passato. Queste due immagini, pur diverse e conflittuali, hanno un denominatore comune: l’idea che dalla crisi si possa e si debba «uscire» tornando o alla situazione immediatamente precrisi, o a un’epoca precedente a quella che ha saputo coniugare sviluppo sociale qualitativo e crescita economica quantitativa. Eppure, molti segnali ci dicono oggi che l’immagine più convincente di questa crisi così profonda e pervasiva non ha nulla a che vedere con il concetto di un’«uscita» nello spazio o nel tempo. Il «presente che oggi scopriamo diverso», ci appare piuttosto come l’ingresso definitivo in un nuovo paesaggio: sociale, economico e culturale. È come se avessimo cambiato continente e fossimo entrati in un territorio sostanzialmente diverso da quello in cui eravamo abituati a muoverci; in un nuovo paesaggio di montagne e pianure e foreste e città che cominciamo solo oggi a decifrare, con dimensioni e altezze e colori diversi da quelli che avevamo imparato a riconoscere. Dalla crisi non si esce con un viaggio a ritroso nel tempo o nello spazio, ma piuttosto con la crisi si è entrati in un nuovo territorio economico e sociale. Questa crisi non è uno stato temporaneo di turbolenza lungo un percorso lineare; e neppure l’apice di una sequenza ciclica di crescite e decrescite. Quella che chiamiamo «crisi» è un cambio radicale nella vita di milioni di abitanti del nostro pianeta, che ci chiede di accettare definitivamente un equilibrio su basi e condizioni diverse. La verità è che siamo già in un mondo diverso; migliore o peggiore dipenderà soltanto da noi, da quanta energia sa-

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remo in grado di dedicare al cambiamento e all’innovazione, da quanto saremo disposti a fare per creare nuove modalità di crescita e di sviluppo. La crisi ci ha reso tutti un po’ più poveri. Cerchiamo di non dimenticarci che disporre di minori risorse non significa automaticamente minori opportunità, ricchezza, idee.

«Fare di più con meno» L’ingresso in questo nuovo paesaggio ci chiede di cambiare strumenti di misurazione. E ci obbliga a ripensare al rapporto tra risorse, vincoli e opportunità. Senza l’illusione di poter ritornare a una condizione di abbondanza di beni e servizi, ma anche senza la nostalgia per un passato che non può tornare. Accettare un processo di decrescita, sostanzialmente impraticabile in un mondo ormai interrelato dai flussi planetari di merci, immagini, individui in cui molti paesi continuano a svilupparsi e a crescere, potrebbe essere un gigantesco autogol, una condanna all’isolamento da un mondo che ospita anche aree di crescita propulsiva e veloce. Il presente che questa crisi ci consegna è innanzitutto quello di risorse limitate; perché sprecate, esaurite o male utilizzate. In secondo luogo è un presente di nuovi vincoli, dovuti soprattutto alla dimensione planetaria della crisi e all’eterogeneità delle politiche che cercano di governarla. In terzo luogo è un presente colmo di nuove opportunità, che nascono proprio dal poter sfruttare risorse limitate in uno scenario incomparabilmente più ampio di scambi e confronti. In questo nuovo scenario, «fare di più con meno» significa trasformare in opportunità di sviluppo i vincoli creati dalla crisi, a partire da un uso innovativo delle risorse date.

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Significa rifiutare di abbandonarsi alla rassegnazione, sapendo che nella cultura produttiva di questo paese c’è sempre stato un anticorpo formidabile ai momenti di crisi; e che questo anticorpo – che è lo stesso dei fratelli Castiglioni, dei primi grandi imprenditori del tessile che scommisero sulle rotte intercontinentali, delle piccole imprese del Sud Italia che sperimentano un nuovo tipo di turismo enogastronomico – richiede insieme pragmatismo e visione. Realismo nel fare i conti con risorse iniziali limitate e visione nell’ampliare le modalità e gli orizzonti del loro utilizzo. Ma cosa vuol dire, concretamente, «fare di più con meno»? Vuol dire fare i conti con risorse che non sono più infinite; che si sono esaurite o sono sempre meno disponibili, come la terra, le materie prime, le risorse di investimento pubblico. Ma significa anche «fare di più» con risorse sociali e intellettuali che sono male utilizzate o addirittura disprezzate, come le culture cosmopolite che oggi abitano le nostre città mondo o le centinaia di giovani imprese creative che sostengono, senza essere riconosciute, l’economia delle nostre comunità. Significa «fare di più», riducendo quantitativamente – e limitando nell’uso – risorse che oggi vengono sprecate. Ma non basta: «fare di più con meno» è anche un invito a sfruttare al meglio sinergie e connessioni tra risorse diverse e apparentemente lontane. Unire entro un ciclo unico – come quello della nutrizione, o del sapere, o della rigenerazione urbana – processi ed energie che nascono da mondi diversi e coprono fasi diverse del percorso di produzione e consumo delle merci e dei servizi. «Fare di più con meno» significa che le politiche di chi governerà l’Italia devono imparare a fare con le diverse filiere della produzione e della distribuzione quello che i fratelli Castiglioni fecero componendo insieme tre oggetti diversissimi e, senza che nessuno dei tre perdes-

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se la sua identità distintiva, creando un utensile inedito, oltre che un concetto nuovo di illuminazione. Componendo politiche di settore (per esempio quelle sull’agricoltura, sull’alimentazione e sull’integrazione) entro una visione più ampia che faccia riferimento ad alcuni grandi cicli della vita sociale ed economica del nostro paese; come quelli dell’energia, della nutrizione, del sapere. E, ancora, «fare di più con meno» significa non sottovalutare mai l’effetto moltiplicatore che la bellezza, la coerenza estetica, l’eleganza dello stile, hanno sul valore economico e commerciale di un prodotto. La bellezza non è una condizione stabile, non si costruisce a tavolino; ma sappiamo che in Italia – nella storia del design, della moda, del cinema, dell’arte – è stata quasi sempre il frutto di una combinazione di semplicità e inventiva. Non ci sono garanzie per raggiungere la bellezza, ma tra le sue condizioni preliminari, c’è certamente quella di saper «fare di più con meno». La bellezza è un valore aggiunto che quando si posa su un oggetto ne accelera, quasi per contagio, la comunicazione; è una risorsa straordinaria che premia spesso chi sa disciplinare il proprio talento creativo e usarlo per offrire nuova vita a risorse limitate; per esempio a un pezzo di marmo, a un lampione e a un tubo di acciaio. In sostanza: «fare di più con meno» significa che lo sviluppo economico non è solo una variabile dei meccanismi finanziari e delle relazioni internazionali tra le banche centrali. Rilanciare l’Italia significa oggi progettare un nuovo rapporto tra la società, lo Stato e i suoi territori. Capire che il valore aggiunto che l’Italia può offrire nasce proprio da un’antica attitudine a vivere ogni processo economico come un progetto di territorio, a considerare il rischio di impresa una variabile delle relazioni sociali, a trasmettere ai prodotti

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artigianali e industriali le caratteristiche distintive delle donne, degli uomini e dei luoghi da cui nascono. Ecco, di seguito, alcuni esempi – certamente non esaustivi – di come l’Arco dei fratelli Castiglioni potrebbe aiutarci a scoccare alcune frecce nel futuro prossimo del nostro paese.

Il ciclo della nutrizione In Italia ogni giorno, ripeto, ogni giorno consumiamo circa settantacinque ettari di terreno agricolo o naturale. Ogni giorno in Italia si rende impermeabile una superficie di 750mila metri quadri. In provincia di Milano, per fare un solo esempio, il ritmo del consumo giornaliero è di 20mila metri quadrati. È come se ogni dieci giorni un tappeto di capannoni, edifici e centri commerciali si srotolasse a coprire i terreni coltivati da un’azienda agricola in grado di produrre il frumento necessario a fare 150 tonnellate di pane (dati dal Rapporto 2012 del Centro di ricerca sui consumi di suolo, fondato da Legambiente e INU).3 Finora non siamo riusciti a fermare questo processo di erosione che avanza attorno a tutte le nostre grandi città, né con le norme paesistiche regionali, né con i piani urbanistici comunali e nemmeno con le delibere di Giunta (Ilaria Buitoni Borletti, Per un’Italia possibile, Mondadori, Milano 2012; Salvatore Settis, Paesaggio Costituzione cemento, Einaudi, Torino 2010). La verità è che le energie che in Italia alimentano il consumo di suolo sono potenti. Risiedono innanzitutto nell’abitudine delle grandi proprietà immobiliari ad acquistare terreni peri-urbani e a gestirli con un’agricoltura intensiva a basso costo, in attesa di poterli valorizzare con l’edilizia. Ma anche nel bisogno sempre più impellente delle amministrazioni lo-

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cali di ricavare risorse finanziarie dagli oneri di urbanizzazione, cioè dal mercato delle costruzioni. E infine nell’inerzia di un vecchio modo di pensare che attraversa tutta la politica italiana, secondo il quale il valore economico di un pezzo di terra è una variabile dipendente dalla quantità di cemento che vi si potrà costruire sopra. Nasce così la convinzione che le zone di espansione previste dai piani regolatori comunali siano una sorta di «toccasana» per il settore delle costruzioni che, da buon volano per gli altri settori produttivi, alimenta tutta l’economia di un territorio. Le migliaia e migliaia di ettari di anticittà4 (Stefano Boeri, L’anticittà, Laterza, Bari 2011) cioè di un paesaggio «senza centro e senza senso» di villette, palazzine, capannoni e centri commerciali che hanno fuso insieme grandi città e piccoli centri, creando immense conurbazioni di piccoli edifici solitari e ammassati, sono l’esito di questa logica perversa per cui una società urbana, qualsiasi sia la sua dimensione, per svilupparsi deve estendersi come una macchia d’olio nel territorio che la circonda. Poco importa se questa famelica estensione del costruito abbia generato danni giganteschi alle filiere dell’agroalimentare; abbia ovunque intaccato le cinture naturali di boschi, prati, fiumi, che ancora resistono attorno alle nostre città; abbia coperto con una barriera corallina di asfalto e cemento coste, colline e pendici montane; abbia trasformato gran parte del nostro territorio in una piastra che riverbera il calore del sole, sulla quale le precipitazioni diventano volumi d’acqua che scorrono rapidissimi e senza più possibilità di assorbimento, provocando inondazioni e smottamenti. Ci può piacere o no, ma in Italia la fame di suolo è sembrata – e sembra tutt’ora – un male minore di fronte alla recessione dell’economia. Nulla di più sbagliato. È proprio l’erosione di un bene primario come il suolo permeabile a co-

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stituire oggi un sabotaggio della nostra economia. Perché distrugge la qualità e l’attrattività dei nostri paesaggi, impedisce che il suolo diventi fertile e dunque produca lavoro e beni alimentari, crea dissesti ambientali mettendo a rischio territori pregiati del nostro paese. Fare i conti con una crisi che ha cambiato per sempre le condizioni della nostra vita, significa avere il coraggio di capire che per bloccare il consumo di suolo non bastano le moratorie e le normative di Piano; servono tre mosse simultanee. La prima è una moratoria nazionale sull’espansione urbana. Serve una legge nazionale che (rafforzando e completando le indicazioni positive del disegno di legge del ministro delle Politiche agricole Mario Catania)5 sottoponga ogni progetto comunale di espansione a un rigido requisito di necessità: ci si può estendere solo per ragioni di evidente utilità sociale e solo dopo aver dimostrato che non è possibile realizzare la stessa funzione all’interno dei confini della città già costruita. E serve una modifica delle norme che consentono ai Comuni di ricavare oneri di urbanizzazione a prescindere dalla zona in cui si costruisce. Ma questa moratoria rischia di essere l’ennesima buona intenzione senza effetti reali, se non si attiva contemporaneamente una seconda mossa che riguarda l’agricoltura attorno alle nostre città. Dobbiamo ri-destinare le aree permeabili rimaste attorno alle nostre città a un’agricoltura diversa da quella attuale: più parcellizzata nella gestione e più eterogenea nei prodotti e nelle colture. Solo così potremmo finalmente alzare il valore economico – oltre che paesaggistico e culturale – di una cintura di terreni rurali che smetterebbero di essere considerati solo come una distesa anonima di campi di mais e cereali, privi di una effettiva biodiversità. Dunque sacrificabile alle necessità di crescita delle città.

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