Jean-Paul Manganaro
Federico Fellini Romance Traduzione di Angelo Pavia
Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreEd Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © P.O.L éditeur, 2009 © il Saggiatore S.r.l., Milano 2014 Titolo originale: Federico Fellini. Romance
Federico Fellini A Odette, a Edelweiss, a Gilles, a Jérôme, a Pierre, ad Angelo, a Ena, a Nellotte, a Renata, a Salvo, a Sebastiano e ad Alì, a tutti quelli che mi hanno aiutato (Parigi-Atene-Patmos-Avola)
Sommario
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9
PARTE PRIMA Le apparenze del reale: raccontare I . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
17
II . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
27
III . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
35
IV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
41
V . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
49
VI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
57
VII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
69
VIII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
75
IX . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
85
X . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
95
XI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109
PARTE SECONDA Le variazioni di una realtĂ che scompare: creare I . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121 II . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 143
III . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157 IV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 165 V . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197 VI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 213 VII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 223 VIII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 239 IX
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 249
PARTE TERZA Che cosa diventa il passato: raccontare la riflessione I . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 273 II . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 291 III . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 309 IV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 321 V . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 337 VI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 359 VII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 377
Concludere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 391 Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 399
Introduzione
Come una carezza infinita, la linea nera segue un disegno e lo modella: la linea nera del tessuto segue il colore e il tessuto della carne, disegnando, per contrasto tra luce e ombra, un chiaroscuro, un palpito nella notte della città, nella notte degli uomini. Come una carezza infinita della notte, la scollatura evoca un brivido. È il vento, un vento di stagione, la luce, una luce che non filtra più dagli occhi ma dalla carne, l’acqua, un’acqua lustrale che è lì per confondere e unificare: la figura si erge, la sua forza invade. C’è esuberanza nel destino di questa immagine, una forza tale da cancellare ogni piccolezza, tutto ciò che di misero c’è al mondo, è cornucopia: è un canto che si esaurisce in un grido languido, è talco e profumo, è miasma e calore, pania e marmo, scaraventa l’anima nel disastro, spinge l’inconscio a prendere il largo verso quello che c’è, in esso, di più tenero, in attesa. Quest’immagine si ripete, pur senza essere ossessiva, è nella sua forza calma, nella sua dolcezza rude; senza fine, viene ripetuta. La scollatura invita agli abbandoni, ai vagabondaggi e alle fluttuazioni della carne, ancor prima che dell’anima: è lì, da questa fonte, che l’anima proviene dalla carne, ne assume la forma e l’odore, scivola e si rifugia negli anfratti delle sue masse. Opulenza che allevia gli sconforti, gli affanni, risveglia la dolcezza che c’è in noi, ne accorda i tempi e i ritmi, all’unisono: è un’ebbrezza, uno stato che solo raramente appartiene all’umano, visto che – sembrerebbe – quest’ultimo lo rimuove e non osa ricordarsene. La scollatura – disegno della stoffa che accarezza il disegno dei seni – è anche una favola d’infanzia: una storia poco raccontata di labbra, di guance
10 Federico Fellini
accarezzate di notte da un lenzuolo di cotone, ruvido, o da un lenzuolo di seta, liquido, scene sepolte dell’infanzia, eppure così vicine a tutti, a portata di mano, a portata di guancia, di labbra, di ricordo felice, bacio. C’è una forza nel tocco leggero di questa morbidezza, di questa esteriorità della carne che sola si libra in tutto ciò che confonde, che manda in confusione. Immagine della notte, notturna, del tempo della notte o della notte dei tempi, profondità senza storia, vestigia e presenza, filastrocca e cantilena, lunga notte dell’uomo, sepoltura. Carezza immensa della notte, nella notte, carezza degli occhi accarezzati. * Il cinema ha cercato di insegnarci tutto. Come stare in piedi e camminare, come voltarci, come guardare in uno specchio, come avvicinarci agli altri e alle cose, come guardarle, le cose, come guardare in generale. Ha cercato di insegnarci come fare un discorso, restare in silenzio, sfuggire, trovare quel che c’era da trovare e cercare quel che desideravamo cercare e trovare. Ogni regista, ogni attore ha segnato questo sapere segreto del cinema con un’impronta propria: a ognuno di loro viene assegnato un modo particolare, rivelatore, che ne costituisce lo stile. Se a volte ci hanno mostrato come pensare alle cose, come guardare al piacere o alla fatica del piacere, tutti quelli che hanno fatto cinema sono accomunati dall’averci insegnato in che modo si manifesta l’amore, come se, in fondo, lì si trovasse l’essenziale di quello che andava raccontato, il motivo principale che giustificasse il rischio di produrre e investire energie, metterle in gioco, in movimento, e che legittimasse la riproduzione di antiche dinamiche legate al tragico e al comico, il tentativo di restituire emozioni perdute. Nessun film sfugge a questa regola, che è il motore di ogni volontà di creare, di dare un’anima a queste ombre che si muovono e parlano, simulando qualcosa che sembrava allora fondamentale, innegabile, a costo di contraddirlo. Così, apparentemente al di là delle leggi, delle famiglie e delle scuole, il cinema ci immergeva in quei saperi: corteggiare, sedurre, eccitare, e poi, soprattutto, baciare all’infinito, chiudendo gli occhi e offrendo la propria carne, baciare nella fiducia e nella tenerezza, nell’arroganza e nel disprezzo. Uno dei percorsi non raccontati dell’opera di Fellini è forse la riap-
Introduzione 11
propriazione e il riordinamento delle rappresentazioni di questo sapere. Il motivo è semplice: nella cinematografia italiana nessuno, se si esclude qualche tentativo di Rossellini, ci si è ancora cimentato. Con Ossessione, Visconti va in questa direzione, ma non sfrutta appieno quel modello preso dall’estero – benché l’adattamento e la riterritorializzazione dell’intreccio funzionino, la lentezza e la passione per l’equivoco lo allontanano subito dalla precisione del modello americano. Da un altro punto di vista, i temi «neorealisti» di Rossellini costituiscono altrettanti eventi a caldo, troppo legati all’immediato perché vi si percepisca anche solo la possibilità di questo sapere più antico, a cui tanto piace prendere e perdere tempo; rimane, invece, la «novità» dei suoi film, che non sarà priva di utilità per Fellini. Più lontano, a monte, le favole di Fregoli, come le pose di Cabiria di Pastrone, rimandano a momenti passati, dimenticati dalla filmografia esangue, istituzionale e provinciale di vent’anni di cultura monarchicaclericale-fascista. L’Italia è una repubblica troppo giovane, e la sua popolazione deve ancora affrancarsi dalle vecchie immagini create sotto l’egida dei poeti «ufficiali» – Carducci o D’Annunzio, tra gli altri1 –, che le hanno fornito un modello deformato di sentimenti e passioni, e deve ancora emanciparsi da una dittatura culturale che, malgrado tutto, ha eletto e seguito fino alla sua apparente distruzione. La rivelazione di questa «apparenza» che resiste ai cambiamenti è uno dei temi impliciti dell’opera di Fellini, colora i temi del reale, offre un corpo feroce a tutto ciò che di nuovo s’inserisce nelle trame, nei movimenti e nei ritratti di questa opera. Non c’è scenografia, volto, battuta che non sottolinei – come un’eco, come una maledizione in fin dei conti comica – questo passato carico di segni sulla carne e sull’animo delle persone. La stessa cosa appare nell’ultima pellicola di Pasolini, Salò, in cui viene dichiarata, senza compiacimento, la capacità organica dell’Italia di marcire nel suo fascismo. Reimparare a stare in piedi e a camminare, a voltarci, a guardare in uno specchio, ad avvicinarci agli altri e alle cose, a guardarle, le cose, a incontrare i propri ricordi, a ritrovare storie. E imparare la «modernità» della città che era mancata alle vecchie esperienze – grazie alle città distrutte dei film di Rossellini, Roma o Berlino, divenute le periferie affollate del primo neorealismo –, impararla nuovamente dalla periferia di Rimini, che altro non è, dopotutto, che una Roma in piccolo, come Roma
12 Federico Fellini
è una Rimini in grande. Quindi imparare di nuovo l’amore, sia con storie pervase da grandi drammi, sia, una volta passato lo scompiglio, grazie all’analisi minuziosa degli elementi in cui i corpi – di donna, di uomo, di altri corpi che si somigliano – s’inseriscono, in cui disegnano pulsioni, istinti, parole. È così che Fellini rievoca o rielabora l’architettura di un corpo sociale rappresentato all’interno di musiche, movenze e ritmi cambiati, il quale deve dunque reimparare le regole e i riti che li determinano e li governano. C’è nel suo lavoro un confronto permanente tra le cose, che proviene dall’uso di antinomie feconde: il vecchio, o l’antico, messo davanti a quel che crede nuovo, rivela come questo nuovo sia già presente, da un tempo che non si può più calcolare, misurare. Non è un’autoanalisi, ma una rivelazione non assimilabile a una presa di coscienza: una rivelazione di cui il personaggio non sa che farsi, che forse lo imbarazza, che non può evitare di raccontare, di recitare. È solo allora che la ripresa e la ripetizione di vecchi temi ricreano energie e si ricostituiscono in un’immagine nuova. * È un’immagine storica, un’immagine sociale o altro ancora? Se la si confronta, anche solo in superficie, alle immagini quasi coeve di Visconti o di Antonioni, si vede subito come si discosti dall’immagine storicizzante del primo, che indugia nei salotti di tutte le decadenze narrate, e da quella fortemente concentrata e razionalizzata del secondo. Quella di Fellini è, prima di tutto, un’immagine affettiva. Non basta voler rappresentare l’Italia in un dato momento: quell’immagine, Fellini lo sa, non esiste. Bisogna cercarla, trovarla, crearla, inventarla; è così anche per se stesso, per la sua biografia: […] non ho una memoria fatta di ricordi personali. È semplicemente più naturale per me inventarne una mia, ispirata alla memoria di vite ed eventi che non sono mai esistiti, ma che l’esistenza richiama e di cui si nutre. Ho inventato tutto […]. Ho inventato la mia giovinezza, la mia famiglia, le relazioni con le donne e con la vita. Ho sempre inventato. L’irreprimibile urgenza d’inventare è data dal fatto che non voglio niente di autobiografico nei miei film […]. Così sono tutto e niente. Sono ciò che invento.2
Introduzione 13
Fellini sa che anche altri sono in cerca di questa immagine dell’Italia, e che essa varia continuamente da un autore all’altro; in quasi tutte le sue interviste non smette di affermare, come un tema ossessivo, la necessità di rievocare l’Italia, una qualche specificità italiana: Il nostro cinema è un cinema colpevole perché non ha raccontato veramente nulla dell’Italia. Inoltre, l’Italia è un paese completamente misconosciuto a causa della sua letteratura. Roma è stata un po’ raccontata. Anche Napoli, ma in modo folkloristico. La Sicilia viene sempre vista attraverso le sue truci storie di Mafia. Quanto al resto d’Italia in cui, ogni cinquanta chilometri, vi sono delle testimonianze di un’altra cultura, di altri miti, altri riti, non ne parla nessuno.3 Noi, i cineasti, non abbiamo detto nulla, o quasi nulla, dell’Italia. Il nostro paese è un universo ancora sconosciuto.4 Da sempre, era una delle mie ambizioni quella di poter raccontare […] storie del mio paese.5
Questa immagine deve superare lo stadio della rappresentazione: deve scaturire da una riflessione semplice, resa via via più complessa attraverso una serie di implicazioni, interferenze, commistioni. Al di là di un’immagine fedele degli anni sessanta, questo cinema si pone il problema di sapere come questa immagine diventi di colpo possibile in quegli anni, senza farne una storia univoca, cercandone la traccia ripetuta, il progetto, come disseppellendola. Dove va? Qual è il suo divenire possibile? Cosa si può farne? In cosa è una creazione? Cosa lascia dietro di sé? Su quali materie s’inserisce, si allinea? Dove si confonde? In cosa questa immagine non è più astrazione, ma viene forgiata come una materia e lancia un segnale chiaro a qualcosa che va oltre l’esperienza vissuta? È il caso della «fosforescenza» di Anita Ekberg nella scena della fontana nella Dolce vita: l’immagine affettiva sognata. Non nel senso del sogno o della fantasia. Non è un’immagine di sogno, secondo il cliché sancito dalle culture e dall’epoca. È una cosa che nessuno avrebbe potuto pensare né sognare in quella forma, colta in un contesto che la esalta e le fa ombra, la colora alla luce di ciò che ne esprime la costruzione comples-
14 Federico Fellini
sa, enuncia i modi della sua creazione e la rivela infine come ormai un’evidenza del nostro presente, di un presente indefinibile e senza contorni, un’estasi fiduciosa che si sarebbe potuta pensare e sognare, qualcosa di ordinario e di noto a tutti, e tuttavia straordinario: «Qualcosa che somiglia a una memoria che viene prima della memoria».6
PARTE PRIMA le apparenze del reale : raccontare
Quel che so, è che ho voglia di raccontare. Francamente, raccontare mi sembra l’unico gioco che valga la pena di giocare. Federico Fellini, Fare un film1
I
federico fellini: formazione e primi bozzetti. cenni sul neorealismo italiano. lo sguardo di rossellini. la collaborazione tra fellini e rossellini. una forza da carpire nell’opera e nella poetica di rossellini.
L’universo dell’immagine e i problemi legati alla sua formalizzazione irrompono molto presto nella biografia artistica di Fellini, all’inizio come gioco infantile: […] da bambino costruivo da solo dei burattini. Prima li disegnavo sul cartone, poi li ritagliavo, infine mettevo insieme le teste con la creta e con l’ovatta imbevuta di colla. Di fronte a casa nostra c’era un giovanottone con la barba rossa, faceva lo scultore […]. Un giorno mi vide in un angolino che pastrocchiavo per conto mio e mi insegnò a usare il gesso liquido e la plastilina. Fabbricavo da me anche i colori schiacciando i mattoni e riducendoli in polvere. […] C’erano […] falegnami […], anche nella loro bottega mi piaceva passare del tempo e portavo via delle tavolette di legno dolce. Insomma, se ci ripenso mi pare che per me la fantasia è sempre stata legata al lavoro artigianale. Non mi sono mai appassionato ad altri giochi all’infuori dei burattini, dei colori e delle costruzioni in cartoncino, quei disegni in pianta e prospettiva che si ritagliavano e s’incollavano […]. Mi piaceva anche star chiuso nel gabinetto per ore ed ore, mettermi la cipria in faccia e mascherarmi con baffi di stoppa, barbe, sopracciglioni mefistofelici, e basettoni disegnati col sughero bruciato.1
Disegno, ritaglio, montaggio, trucco, ricerca, collage: sono già presenti, in sintesi, alcuni dei saperi essenziali del fare cinema; la passione per il disegno porta Fellini a maturare un’assoluta padronanza del bozzetto carica-
18 Federico Fellini
turale, grazie alla quale, nel 1937, insieme a un amico, Demos Bonini, apre una «bottega di ritratti» chiamata Febo, dalle iniziali dei suoi fondatori. Nel 1944 questa esperienza porta all’apertura, a Roma, insieme ad alcuni amici, del Funny Face Shop, frequentato soprattutto dai soldati americani che si facevano fare la caricatura o fotografare secondo composizioni prestabilite. Fellini non abbandonerà mai questo lavoro sul disegno e sulla caricatura, e proprio grazie a quest’attività, in apparenza ludica, darà in seguito forma alle intuizioni e ai bozzetti che, a poco a poco, costituiranno le sceneggiature dei suoi film, più simili a storyboard che a copioni canonici. A quest’attività si affianca una modalità di scrittura molto particolare che, coinvolgendolo più del disegno e della caricatura, lo porterà in maniera naturale a scrivere sceneggiature: a Rimini collabora stabilmente con riviste umoristiche o satiriche – tra le quali le più importanti di questo primo periodo sono La Domenica del Corriere, il 420 e l’Avventuroso –, anche nelle pagine destinate ai bambini. A Roma, dal 1939, Fellini inizia la carriera di giornalista. Prima scrive per settimanali relativamente noti legati al mondo dello spettacolo, occupandosi sia di teatro che di cinema: Rugantino, Cineillustrato, Cinemagazzino e il quotidiano Il Piccolo. Ma è soprattutto attraverso la collaborazione con il Marc’Aurelio, il giornale satirico più conosciuto dell’epoca,2 che Fellini allestisce vere serie a tema satirico, umoristico, e anche più che umoristico: il loro «spirito ironico sistematico», che è un’importante fonte popolare di ispirazione comica, finisce per incrociare un certo anarchismo della cultura familiare, in grado di sfociare verso «un altrove in cui ripararsi per sfuggire al linguaggio totalitario»3 e ordinario imposto dalla dittatura fascista. Nasce così in Fellini un umorismo aperto al meraviglioso, che si può vedere all’opera anche all’interno delle sceneggiature scritte per altri, Rossellini per esempio, e che resiste anche nei film più cupi, pronto a cogliere l’aspetto paradossale delle situazioni. Disegno caricaturale e scrittura evidenziano subito, ognuno a suo modo, un atteggiamento non proprio di critica o di sfiducia, ma di distanza nei riguardi della trasposizione cinematografica di stampo neorealista. L’obiettivo non è affatto quello di porsi in posizione conflittuale nei riguardi del realismo, e nemmeno di operare all’interno di una problematica che tende spesso a un esito manicheo di tutte le domande poste incessantemente dal realismo e dalle sue aspirazioni; e nemmeno, come si è potuto pensare, quello di aderire a qualsivoglia avatar del pirandellismo, il quale
Le apparenze del reale – I 19
comporta un’analisi apparentemente «aperta» delle realtà che ci informano, spesso risolta attraverso l’umorismo o l’ironia freddamente negativista.4 La questione è in primo luogo quella di un confronto diretto con l’immediatezza poetica e tecnica ricercata dal neorealismo. Da un lato, perché l’apprendistato di Fellini si compie con Rossellini e, in parte, con Cesare Zavattini – quest’ultimo fornisce, in una cultura ritenuta popolare, lo slancio di un nuovo genere di umorismo intimista, venato d’ironia surreale e di grande sensibilità per i fenomeni sociali –, ma, dall’altro, in virtù di una pressione culturale, ideologica e politica interna al neorealismo stesso, con la quale all’epoca bisognava fare i conti. Questa pressione ha determinato forzature e imposizioni nei confronti di tutto quello che correva il rischio di svincolarsi da un’elaborazione sorvegliata, come spesso fu quella del neorealismo, fin dentro territori dal punto di vista culturale non italiani. Si tratta più precisamente di ridimensionare la stessa scuola neorealista, troppo rigorosa e categorica – ciò che del resto non ha mai esitato a fare Rossellini – e inoltre, di contenere il neorealismo attraverso linee di fuga che verranno tracciate nella realizzazione poetica di Fellini. Spesso queste linee di fuga si compongono in leitmotiv che tornano nell’opera per scandirne visibilità, meccanismi, slittamenti, nuovi avvistamenti. Si radunano nella formalizzazione di ciò che potremmo chiamare «tratti» – tratti di spirito, di carattere, di riflessione sociale o politica –, che in alcuni casi iniziano a indicare, grazie al talento di precursore di Fellini, l’imminente perversione del cinema italiano verso quella che in seguito verrà chiamata «commedia all’italiana». Questi tratti erano già, in qualche modo, forme mentali specifiche della cultura italiana, e Fellini, diversamente e prima di altri, ha saputo farli emergere e mostrarli. * I primissimi rapporti di Fellini con il cinema risalgono al periodo in cui gli umoristi del Marc’Aurelio furono chiamati a inventare sketch destinati ai film del comico piemontese Erminio Macario, diretti da un veterano dello spettacolo, Mario Mattioli. Fellini ha sostenuto di aver debuttato come «negro», cioè come collaboratore occulto di Cesare Zavattini. La sua presenza all’interno del clan Zavattini sarà di breve durata, ma è lì che incontra Piero Tellini, con il quale collabora alla scrittura di una decina di
20 Federico Fellini
film.5 Tuttavia, la storia di Fellini sceneggiatore inizia davvero con il teatro di varietà e l’incontro, nel 1939, con uno degli attori comici più popolari dell’epoca, Aldo Fabrizi, per il quale Fellini e Ruggero Maccari elaborano alcuni sketch riuniti sotto il titolo «Ci avete fatto caso?»: si fa satira sull’attualità, uno dei numeri irrinunciabili per gli attori di avanspettacolo. La collaborazione artistica – che presto diviene amicizia – con Aldo Fabrizi si estende al campo cinematografico, e pare che Fellini abbia collaborato alle sceneggiature di tre film di successo dell’attore.6 Ma «la migliore prova della coppia Fellini e Fabrizi nel dopoguerra resta Il delitto di Giovanni Episcopo, girato da Alberto Lattuada nell’inverno 1946-1947».7 Qui, tra Fabrizi, Magnani e Lattuada si tirano le fila degli inizi cinematografici di Fellini: quando Rossellini ha bisogno di scritturare Fabrizi per la parte di don Giuseppe Morosini in Roma città aperta, chiede aiuto a Fellini per convincere l’attore, già molto celebre e popolare, a recitare in un film dall’esito incerto e il cui budget è in pratica ancora inesistente.8 * Come è avvenuto l’incontro con Rossellini? Per quanto Fellini abbia cercato in seguito di minimizzare, la prima parte del suo lavoro, da Luci del varietà fino alle Notti di Cabiria, s’inserisce nella prospettiva del neorealismo. Si tratta, certo, di neorealismo italiano, storico, impegnato in qualcosa che, a partire dalle riprese di due film di Rossellini, Roma città aperta e Paisà, è stato fortemente politicizzato, mostrando una visione del mondo che si opponeva alla storia raccontata dal fascismo e dai suoi sostenitori. Il merito di Rossellini non è soltanto quello di aver saputo operare per primo questa rottura, ma di aver preso le misure necessarie per realizzare un nuovo cinema, al quale aderiranno e in cui si formeranno diversi cineasti. La scelta di attori come Anna Magnani9 e Aldo Fabrizi, per esempio, in un’ottica rigorosamente italiana, e in seguito quella di Ingrid Bergman e di George Sanders, che conferma l’adozione della stessa ottica, risponde a scelte metodologiche che riguardano la messa in scena della realtà, come la intende un regista che vuole testimoniare un evento del reale attraverso la finzione: non si tratta tanto di filmare le cose come si suppone che debbano apparire, ma di farle avvenire organizzandole in un’azione.10 Su questo rapporto di Rossellini con le riprese e con la messa
Le apparenze del reale – I 21
in moto dell’azione filmica, quindi con la sua «rivelazione», Fellini è tornato spesso, raccontando il suo apprendistato iniziale: Lo rincontrai dopo un po’ alla Scalera Film, in un teatro di posa dove io ero entrato sbagliando porta. In uno stanzone vuoto, in un angoletto in fondo, c’era lui con dei riflettori accesi e delle persone ferme, e una inginocchiata. Mi sono avvicinato e ho visto un piccolo recinto con della sabbia, con delle erbe e degli insetti. Stava facendo un documentario sugli insetti, e in un silenzio quasi chiesastico tentava di farli saltare con dei pezzetti di legno.11
Quello che Fellini percepisce, nella semplicità della scena descritta, è il pragmatismo forsennato del lavoro di Rossellini, che provoca l’insorgere necessario di un particolare effetto del reale: non la sua deformazione, ma la sua costituzione, il suo concatenamento, la sua descrizione, la sua formalizzazione a partire da quel minimo di «oggettività» di cui la realtà permette di disporre, cercando di ricavarne in seguito tutto il beneficio narrativo possibile e sapendo immediatamente che soltanto l’immagine, al di fuori di ogni altro linguaggio, deve raccontare la sua totalità. Da un punto di vista tecnico, Rossellini rintraccia le capacità meccaniche proprie della situazione che sta filmando, che la trasformano in un racconto specifico delle riprese. Nell’esempio riportato è già presente il nucleo della realtà di un ambiente – che potrebbe anche essere sociale – raccontato attraverso individualità isolate e singolari, di frammenti dell’«umano» che si riuniscono in intenzioni sociali, in cui la forza e la potenza (il bene) provengono da un confronto nel quale l’individuo affronta gli aspetti negativi delle situazioni. Numerose testimonianze su Rossellini descrivono questo modo di filmare, che non precede l’atto estetico, ma la cui formalizzazione determinata a posteriori ne fa una nuova categoria, una categoria della necessità, un nuovo modo di operare, una nuova competenza. * In quest’incontro, quello che colpisce è l’acquisizione di un metodo. E se è vero che Fellini all’inizio è soltanto uno degli importanti ingranaggi del neorealismo rosselliniano, non è meno vero che lo scambio ha luogo nelle
22 Federico Fellini
modalità di un apprendistato che sarà fondamentale: come girare un film, come il film si fa da sé, qual è il reale contributo del regista, come far funzionare questa macchina che implica anche rapporti con una burocrazia tiranna. È qui che si incrociano le questioni di fondo relative al lavoro cinematografico, compresa quella della produzione, problema fondamentale nell’impegno creativo di Fellini, sul quale tornerà polemicamente più volte: Vedendolo al lavoro mi parve di scoprire per la prima volta, con improvvisa chiarezza, che era possibile fare cinema con lo stesso rapporto privato, diretto, immediato con cui uno scrittore scrive o un pittore dipinge. La macchina che hai alle spalle, quella specie di babele di voci, richiami, spostamenti, gru, riflettori, trucco, aiuti, megafoni che m’era parsa così prevaricante, così debordante e rapinatoria quando, da sceneggiatore, venivo chiamato in qualche teatro di posa ad assistere a una scena o a riscrivere un dialogo; quel macchinoso coinvolgimento, da esercito in manovra che mi aveva sempre nascosto, come velato, il contatto diretto con l’espressione, in Rossellini veniva annullato, cancellato, respinto sullo sfondo, relegato a cornice chiassosa e necessaria di uno spazio franco in cui l’artista di cinema compone le sue immagini, come un disegnatore fa i suoi disegni sul foglio bianco.12
Le testimonianze di Fellini riguardano colui che, pur non rappresentando il suo maître à penser, gli permise di imparare ad affrontare la costruzione di un film; questi racconti vengono ripresi in tutte le sue interviste, senza variazioni. L’accento è posto ogni volta su piccoli dettagli in apparenza insignificanti, ma che attestano come questo apprendistato sia avvenuto, per così dire, furtivamente. Basta leggere, a tal proposito, le pagine che descrivono lo smarrimento di Fellini il giorno di inizio riprese del suo primo film, Lo sceicco bianco,13 per rendersi conto che è impossibile raccontare che cosa succede finché si resta al di fuori del vero atto creativo; le conoscenze acquisite funzionano soltanto quando sono messe in relazione con quest’ultima azione, come un ricordo che torna alla mente. Fellini rievoca spesso questa dinamica: Rossellini mi ha insegnato moltissimo, ma quasi di più sul piano psicologico. Rossellini è stato veramente un maestro, nel senso che mi ha fatto capire che si poteva anche guidare con semplicità tutta la macchinosità che c’è in
Le apparenze del reale – I 23
una ripresa cinematografica, tutta l’organizzazione logistica, i rapporti con il denaro, con il produttore, l’organizzazione e poi il comandare cento persone, la ciurma, l’equipaggio, non soltanto gli attori, ma tutte le altre persone […]. Tutto questo l’ho appreso d’istinto da Rossellini e mi pare che sia stata la sua grande lezione […]. Ecco, ho visto la sua grazia, l’eleganza, la sicurezza, anche l’indifferenza e tutto questo mi sembrava di averlo davvero assimilato […]. Facendo finta di non esserci, per esserci veramente […]. L’unico che riusciva a captare proprio il momento esistenziale di quello che accadeva, irripetibile, o comunque a restituirlo come tale all’immagine cinematografica, era proprio lui con il suo talento particolare […]. La sua apparente sciatteria era proprio quella che creava un’atmosfera arcana, magica […]. Per un contatto misterioso, per la coincidenza di una macchina da presa lì presente nel momento giusto, un accadimento diventava essenziale e veniva registrato per sempre. Paisà è pieno di questi momenti di eternità dell’arte, colti dall’occhio che hanno solo i grandi pittori e i grandi narratori.14
E ancora: Non credo che mi abbia influenzato profondamente nel senso che di solito si dà a questa parola. Gli riconosco, nei miei confronti, una paternità come quella di Adamo: una specie di progenitore da cui siamo tutti discesi […]. Rossellini ha favorito il mio passaggio da un periodo nebbioso, abulico, circolare, allo stadio del cinema. È stato un incontro importante, sono stati importanti i film che ho fatto con lui: in maniera di destino, però, senza che ci fosse volontà o lucidità da parte mia. Io ero disponibile per qualche impresa e lui era lì.15
Ciò dipende dal fatto che Fellini non si avvicina al cinema passando per la regia, ma tramite un’attività che occupa già un posto importante nella sua vita, la scrittura nelle sue varie forme, alla quale si aggiunge il disegno. Un pensiero segreto gli permette di attraversare tre dimensioni, in apparenza molto diverse tra loro, che finiscono per convergere nel lavoro a cui decide di dedicarsi. Nell’ordine cronologico ricordato: la fotografia e la caricatura;16 la scrittura di vignette per uno dei giornali satirici più in voga dell’epoca, il Marc’Aurelio; il lavoro occasionale da giornalista, nella rubrica degli spettacoli di numerose riviste:
24 Federico Fellini
Nel mio arrivo a Roma dunque il cinema c’entrava in qualche modo: avevo visto tanti film americani in cui i giornalisti erano dei personaggi affascinanti. Non ricordo più i titoli, sono passati parecchi anni, certo è che rimasi talmente impressionato da come vivevano quei giornalisti che decisi di diventare giornalista anch’io. Mi piacevano i loro soprabiti, e il modo come portavano il cappello, buttato all’indietro.17
È dunque in qualità di sceneggiatore che arriva al cinema, un lavoro che, dopo alcune esitazioni dovute alle attività che lo impegnano al suo arrivo a Roma – senza un mestiere preciso, Fellini all’epoca sa soltanto ciò che non vuole fare –, lo occuperà per un periodo di tempo relativamente lungo. Sceneggiatore, insieme ad Amidei, di Roma città aperta e di Paisà – e aiuto regista in entrambi i film –, sempre sotto l’influenza di Rossellini, Fellini elaborerà un proprio modo di scrivere le sceneggiature, simile a quello di Rossellini stesso: Fino ad allora avevo scritto sceneggiature per vari registi […].18 Ho cominciato a utilizzare [i foglietti] con Paisà e con Rossellini. Lui si intimidiva molto [con gli attori] e allora mandava avanti me, con i foglietti.19 Dopo Paisà, scrissi per Rossellini, in collaborazione con Tullio Pinelli, il soggetto del Miracolo.20
* Davvero l’influenza di Rossellini su Fellini può essere circoscritta a queste testimonianze di una felice scoperta della relativa predisposizione nella percezione e nella realizzazione di sé? Nulla dell’estetica del primo sarebbe passato nell’immaginario visivo del secondo? Forse si può riflettere su tre aspetti, condensati in un solo film di Rossellini, Germania anno zero. In primo luogo, la carrellata e la panoramica con cui l’autore penetra nella città di Berlino, costeggiando lo spazio, lasciando che si racconti da sé, non più con scrupolo documentario o turistico, o mediante il cliché dei trionfi hitleriani, ma nel suo dolore carbonizzato di realtà schiacciata, distrutta. Riflettendo, da questa scena emana già la potenza di un sapere che ci dice il futuro
Le apparenze del reale – I 25
di questa città; e viene rimodellata una mitologia che conferma nel nostro presente altre distruzioni, da Gerico a Sodoma, da Babilonia a Cartagine. Inoltre, carrellata e panoramica rimandano alla complessità di uno dei grandi temi specifici del neorealismo rosselliniano: il vagabondaggio come istituzione di una nuova poetica dei territori e delle città, una poetica della modernità inaugurata dalla flânerie erratica di Baudelaire, che si farà carico della descrizione dei terreni incolti e delle periferie, fino al canto finale di Pasolini. Carrellata e panoramica percorrono e attraversano in ogni direzione il corpo e l’anima delle città, il corpo e l’anima degli uomini, di cui propongono una nuova descrizione che ci insegna da capo a immaginare le cose. Allo stesso modo, Fellini descriverà più volte e in modo sempre diverso il corpo di Roma, scovando i geroglifici e le iscrizioni che caratterizzano la contemporaneità della città. E trascrivendo in una forma che gli è propria, il significato di questi attraversamenti in linee, in scie, in tracce emotive. Un altro grande tema rosselliniano: filmare il vagabondaggio alla ricerca di letture possibili che ricordano le tracce incise sui muri, nelle vite. Sempre in Germania anno zero, Edmund Möschke, il bambino, cammina a lungo tra le rovine di Berlino, costeggia le linee, si china su zone di ombra e di luce, attraversa disegni, forse il disegno della sua vita che non riesce più a capire, che non sa più decifrare, che già viene incorniciata come la proiezione della sua morte in un quadrato d’ombra contrastato. Rossellini mostra qui la prefigurazione di quello che accadrà al bambino, della sua caduta dal mondo. Nel frattempo avrà filmato il pensiero di colui che pensa, che si mette in attesa di questo pensiero rivelatore, come in un viaggio, anche se questo viaggio si risolve in una liberazione individuale. Temi che Fellini, a suo modo, riprenderà: […] Rossellini è stato l’inventore del cinema fatto all’aria aperta, in mezzo alla gente, nelle circostanze più imprevedibili. Fu accompagnando lui per girare Paisà che scoprii l’Italia. È da lui che ho preso l’idea del film come viaggio, avventura, odissea.21 È il senso del viaggio che va cominciato per poterlo poi raccontare.22
II
primo lavoro in collaborazione con lattuada: luci del varietà; il mondo degli attori dell’avanspettacolo o della rivista e la loro incursione incostante nel
tessuto sociale; l’attore secondario e le variazioni sul genere. la molecola del
«sentimentale». il radicamento nel mito (tespi) e la continuità dell’immagine culturale (la commedia dell’arte e la dissipazione storica delle sue varianti). prima descrizione della provincia e delle sue anime. i motivi ricorrenti della passeggiata e del vagabondaggio.
Il primo film di Fellini, Luci del varietà (1950), assembla in modo apparentemente casuale alcuni temi autobiografici: descrivendo il viaggio di una troupe di avanspettacolo – o di varietà – in tournée per la provincia italiana, il film è lo specchio di una materia psicologica, affettiva e sociale che l’autore conosce perfettamente, la cui storia e il cui destino gli stanno a cuore. Questi attori, con i quali ha viaggiato,1 appartengono a un mondo particolare, il più infimo che possa esistere nell’ambito attoriale italiano. Ma che cos’è l’avanspettacolo, e chi è un attore di avanspettacolo? Questa forma di spettacolo – letteralmente «prima dello spettacolo» – nasce nelle grandi città qualche anno dopo il cinema, e lo accompagna per lungo tempo, circa fino alla scomparsa del muto. È una parte del «programma» che va in scena prima del film, durante la quale si esibiscono svariati talenti: cantanti, acrobati, verseggiatori, prestigiatori, ballerini, contorsionisti, e soprattutto la macchietta, un attore capace di caratterizzare in maniera grottesca una determinata tipologia sociale o morale. Tutto ciò che il circo alla Barnum ha già proposto – animali esclusi – è recuperato in questa forma artistica, in cui sono essenziali la rapidità e l’aspetto folgorante del numero proposto, così come la dizione, che imita, deridendola, l’enfasi dei grandi attori, le pose dei grandi personaggi o, ancora, la banalità quotidiana, in cui si utilizza uno spazio scenico dalla funzione duplice, utile sia al cinema che al teatro. Fregoli, per esempio, prima di essere immortalato nei film, è stato uno dei grandi interpreti di questo genere, che riprende alcune forme del caffè concerto, del café chantant, dei bal taba-
28 Federico Fellini
rin2 delle grandi piazze teatrali europee, e il cui modello resterà per lungo tempo il Théâtre Maillol. Con l’avvento del sonoro l’avanspettacolo si è evoluto in una forma indipendente che ha preso il nome dal francese variétés, varietà, teatro di varietà, che corrisponde al music hall, con le sue due figure principali: la vedette femminile e il presentatore di rivista, che svolge la semplice funzione di collegamento fra i diversi numeri, o ne esegue lui stesso alcuni. Stranamente, la vedette verrà chiamata «soubrette»3 nella rivista di varietà italiana, per un bizzarro slittamento di ruolo e di senso al quale sarebbe difficile riconoscere un qualsivoglia significato.4 * Luci del varietà inquadra un periodo preciso di questa esperienza, ma coglie anche il momento di passaggio, per Fellini, da un’abilità puramente funzionale – la scrittura di sceneggiature – a una capacità di elaborazione più precisa, quella di un regista.5 La motivazione esteriore del racconto, tuttavia, è determinata dalla nostalgia e dal desiderio di rimanere quel «giornalista» che Fellini sognava di essere da adolescente, e che adesso cerca di analizzare, raccontandola nelle modalità specifiche del neorealismo, un’immediatezza percepita come un luogo in cui il racconto vive dell’attualizzazione del suo passato, un passato ripetuto nei cambiamenti e nei percorsi del presente. La storia del film recupera un tema elaborato sulla base delle conoscenze acquisite in ambito giornalistico – giustificando così la posizione di narratore – e nell’avanspettacolo, o nei sottogeneri che ne derivarono.6 Fellini riprende allora, a qualche anno di distanza, alcune rubriche del 1941 incentrate sulla questione dell’avanspettacolo, e coglie – in questo presente – interessi interni al cinema come nuova possibilità espressiva in cui si fondono due elementi: Luci del varietà l’ho ideato e sentito come un film mio; c’erano dentro ricordi, alcuni veri, altri inventati, di quando giravo per l’Italia con una compagniola di rivista. Erano i primi appunti cinematografici su una certa provincia intravista dai finestrini delle terze classi o dalle quinte di teatrini fatiscenti, in paesetti arroccati su cocuzzoli ventosi o annegati nelle
Le apparenze del reale – II 29
nebbie di tetre vallate. Il film lo dirigemmo in due, Lattuada e io: Lattuada con la sua capacità di decidere, con la sicurezza professionale dell’esperienza […]. Io stavo al suo fianco in una situazione abbastanza comoda di irresponsabilità.7
La questione dell’attribuzione del film a Lattuada o Fellini, a lungo dibattuta, non è molto rilevante. Ciò che conta è il passaggio a una nuova fase, che apre la strada a una costruzione personale, alla scrittura filmica. La trama sviluppa alcuni intrecci interessanti: segue una compagnia di attori organizzati in un gruppo sociale tipico degli scenari storicamente poco definiti (il dopoguerra non ha ancora proposto modelli alternativi) e, più in sordina, la vita di una strana categoria destinata a scomparire, che reca in sé il germe della sua estinzione. Il punto di osservazione è al centro di un ambiente considerato nelle sue abitudini e nei suoi valori più realistici.8 È la caricatura della provincia, che vive per consuetudini stratificate, senza domande, senza domani, nella ripetizione dei modi di essere e di parlare, in un’opacità in cui scompare persino la capacità di dare senso ai propri luoghi di appartenenza. Questo tema, ampiamente ripreso e rielaborato con toni che virano sempre più al fantastico,9 si sviluppa in antitesi alla presentazione della città per antonomasia: Roma, al contempo capitale storica e luogo di scioglimento di nodi in apparenza insolubili. In questi intrecci, che moltiplicano occasioni mal vissute o mal descritte, si delinea la realtà di un mondo che scompare perché incapace di aggiornarsi, ma anche a causa dell’ancoraggio impossibile a una realtà altra rispetto a quella della sua eterna finzione, nella quale la vita e l’opera si confondono in un accordo semplificato. La troupe si forma per imitazione di un ambiente sociale, con le sue regole implicite – identiche a quelle che regolano nello specifico il lavoro teatrale, il lavoro come necessità sociale in generale –, con le sue gerarchie e le sue prepotenze, i suoi desideri e i suoi deliri; viene lentamente risucchiata nell’incapacità di leggere il reale, se non come ripetizione compulsiva e ossessiva, sempre più convinta dell’esistenza di un destino che attende ogni personaggio, a sua insaputa.10 In tal senso, il monologo di Checco (Peppino De Filippo) nella scena in cui chiede a Melina (Giulietta Masina) i suoi risparmi, perfino al di là delle menzogne dissimulate, serve a fare luce su una vita che continua ad attribuire a un altrui imprecisato le noie degli impegni esistenziali:
30 Federico Fellini
Non merito niente, tanto sono un uomo finito io… era l’ultima occasione questa, tu lo sai Melina, perché per me il teatro è la vita. Io là sopra sono nato e là sopra devo morire. Ma sarebbe stata la mia compagnia questa… mi si sono messi tutti contro… invidie, gelosie… Dopo trent’anni di palcoscenico sarebbe stata la svolta decisiva della mia vita, e invece… […]. Io debbo ammainare bandiera perché sono un povero diavolo senza una lira… e mi basterebbero quattro soldi!
Al di là del tono shakespeariano, che ricorda il grande monologo di Macbeth sull’attore, la battuta descrive nel modo più straziante la verità-altra di una dissoluzione. La passione per Liliana (Carla Del Poggio) serve soltanto a mascherare temporaneamente la crudeltà non tanto del destino, quanto della storia stessa – un’autentica storia di produzione e denaro –, che inaugura in questo momento preciso il discorso in apparenza sentimentale che Fellini affronterà sui reietti e sugli emarginati. Allo stesso modo, il paragone con i diversi ambienti sociali che il gruppo incontra durante il film ripete in modo insistente questa lotta tra modi di essere e di parlare, accennando un doppio motivo musicale: da un lato la cacofonia insopportabile della piccola borghesia di provincia, che canta con arroganza l’opera nazionale credendo di possedere ancora lo strumento espressivo che si è accaparrata con violenza nella costruzione della sua storia, ma di cui non sa più decifrare i codici; dall’altro una melodia che appare già come un’attesa del tempo, un «mambo» continuo, violento e tenero, tema folgorante dell’opera di Fellini, motivo di esaltazione quando viene cantato da Liliana, ma libero e invadente in virtù della sua fluidità quando viene suonato, di notte, in una piazzetta di Roma. Una melodia che servendosi della funzione di allontanamento che la musica crea intorno all’esperienza vissuta, accenna alla fuga verso un esterno in cui un’altra vita sarebbe possibile per Checco e per gli spettatori. * È la descrizione di un piccolo mondo che fa naufragio. Fellini non prova nessun imbarazzo davanti alla forza drammatica della storia: essa è lì, presentata nell’evidenza schiacciante della sua ripetitività, modello ossessivo in grado di prendere forma in qualsiasi ambiente, all’interno di qualsia-
Le apparenze del reale – II 31
si coppia, in qualsiasi individuo. Questa evidenza resta malleabile, neutra, quasi insignificante, funge da sostegno allo sviluppo di una tensione differente, che si fa carico di una specifica «sentimentalità» e rimanda a una funzione essenziale del neorealismo.11 Proprio questa sentimentalità renderà fluida la narrazione, frammentando la falsa oggettività della forza drammatica in una serie di dettagli che appartengono tutti alla storia specifica di questi attori. Tale procedimento, già presente nei titoli di testa costruiti sul modello della commedia musicale hollywoodiana, si prolunga nella presentazione dello spettacolo, del pubblico, dell’orchestra, nel finale degli attori, nei bisticci che anticipano i contrasti che a poco a poco si insinuano nel gruppo o temporaneamente lo smembrano, mostrandone ogni volta l’unione a scapito delle singolarità irriducibili. Ognuno di questi segmenti narrativi è rappresentato con una caricatura, in cui l’umorismo serve a esaurirne la violenza tramite un dettaglio appena rubato – uno sguardo, una posa, una smorfia, un gesto –, che spinge la storia drammatica verso ciò che di umanamente e sentimentalmente irrisorio possiede. Il film è costruito su questa esaltazione della massa dei dettagli contro la massa drammatica, che finisce per indebolirsi nella ripetizione rappresentata dal finale: quella di una storia che, nel suo dramma specifico, resterà identica, ma non smetterà di essere «un’altra storia» in virtù delle particolarità che la caratterizzano. Su questo orizzonte inatteso affiora l’espressione propria del film: sentimentalità nel far ricorso al mito fondatore sotterraneo dell’attore errabondo, nella scena dell’automobile che rifiuta di caricare gli attori alla stazione ferroviaria. Questa scena, al di là della sua rappresentazione, rimanda alla capacità di resistenza presente in ogni attore, quella di restare nell’elemento che gli appartiene. L’apparizione della carrozza evoca la fine temporanea delle discordie attraverso l’adunata su questo carro di Tespi, origine mitica del mestiere di attore. Allo stesso modo, la sfilata dei numeri dello spettacolo rimanda alla particolarità di questo teatro, erede della commedia dell’arte. Ovvero ciò che è diventata la storia di un teatro italiano che nel tempo si è modellata in parallelo, o contro, o in resistenza a un’altra storia, ben diversa, del teatro – quello del Rinascimento, un teatro delle «tecniche» contro un teatro delle «passioni» –, e ciò che resta di una storia della teatralità italiana. Ed è questa deriva, riattualizzata, a essere raccontata: il rapporto
32 Federico Fellini
conflittuale tra due forme identiche di «teatro di varietà» – quello già morto di Checco e quello apparentemente ancora in vita di Liliana –, raccontate attraverso storie che non hanno niente a che vedere con il teatro, e che mostrano da un lato un teatro dei poveri e dall’altro un teatro dei ricchi. La bellissima scena finale del music hall «chic», in cui Liliana fa il suo vero debutto, riassume questi temi: filmata da dietro le quinte, l’attrice esprime le sentimentalità in cui si scelgono e si affrontano le tecniche e i modi di «essere» di un determinato ambiente, ma sviluppa al tempo stesso un tema profondamente ironico – non umoristico – nei confronti di questo «chic» che sarà, a sua volta, spazzato via dalla televisione. A ciò si deve aggiungere un elemento che Fellini inventa e di cui si servirà ancora: la caricatura dell’immediato presente dei personaggi, che passa qui attraverso l’imitazione minuziosa della grande vedette italiana di music hall dell’epoca, Wanda Osiris, imitazione che si ispira alla sua carriera e alle storie, vere o presunte, che giravano sul suo conto. Tuttavia, sono una caricatura e un’imitazione non più tali: si tratta piuttosto di un «somigliare» preciso e profondo, più che di un «imitare», il cui effetto immediato è di sorprendere con l’indeterminatezza. «Somigliare» significa inserire nella storia un momento che è passato, e che in sua assenza rischierebbe ancora una volta di passare: dunque, ricordare da lontano. Questo «stilema», che non è comprensibile se non mediante l’applicazione «minuziosa» dei dettagli che servono a comporlo e a descriverlo, è un elemento essenziale dell’opera di Fellini, il punto nevralgico della sua riflessione sull’«adattamento» per lo schermo di opere letterarie.12 * Deriva costante, assenza di un posto in cui fermarsi, peregrinazione da un luogo all’altro: se è vero che questo elemento si sviluppa in parallelo con la vita intima dell’attore fino a divenirne quasi una risonanza simbolica, è altrettanto vero che in questo film il vagabondaggio riflette una poetica ben specifica di Fellini. Vagabondaggio da una provincia all’altra, di cui ci vengono mostrati di sfuggita i campanili e i luoghi segreti; vagabondaggio che allontana il soggetto, separandolo dalla rete di conoscenze e di incontri; vagabondaggio attraverso le strade della grande città in cerca di soluzioni possibili; nomadismo sentimentale di Melina, di Checco,
Le apparenze del reale – II 33
entrambi temporaneamente separati dalla loro vera storia, quale essa sia. Falso vagabondaggio, per il momento, di Liliana, che sembra l’unica a realizzare il suo sogno, vagabondaggio dei corpi e delle anime in quei luoghi così particolari che sono i teatri, veri o presunti, fatica dei corpi feriti da questa esperienza che li spinge in ogni direzione. Il vagabondaggio è descritto come ricerca consustanziale alla vita di ogni essere, ed è più forte dell’individuazione di un punto di approdo, sia pure provvisorio. Più che un motivo, questo è certamente il grande tema dell’inter opera felliniana, ripreso in varie forme in tutti i film, dai Vitelloni alla Voce della luna. Indipendentemente dalla rappresentazione che ne viene data, dalla classe a cui appartiene, l’uomo contemporaneo di Fellini è preso in questa rete inestricabile che la realtà gli getta addosso, obbligandolo a definire via via il suo destino e le risposte che quest’ultimo è in grado di dargli. Tema lancinante delle solitudini in mezzo alle folle, già in questo primo film il vagabondare sfocia su una piazza, una piccola piazza italiana, in cui i conflitti – grazie alla musica della vita e al mambo che la colora – sembrano poter prendere una direzione diversa, più serena e più accomodante. Tema preciso al punto che Fellini ne mantiene una traccia, le fila, come una rima poetica o un ritornello che ricama la fine dei percorsi: fila di piccoli preti, file di suore, di ragazzine e di ragazzini, file di persone erranti, file ripetute all’infinito, perché il vagabondare corrisponde qui a una formalizzazione della riflessione sulle cose e sugli eventi.13 Se Rossellini è presente in questo vagabondaggio, lo è già da tempo. Certo, segue anche lui le tracce di una recitazione interna alla materia di questi diversi percorsi italiani, la quale indica una concretezza impercettibile, e tuttavia condensata nel desiderio di visitare l’Italia: una visita non puramente funzionale, ma che rivelerebbe ciò tramite cui la sua immagine coincide con qualcosa dell’immediato, qualcosa di insistente, un tema ripreso ed enunciato da altri. Ma che il tema sia quello poco importa. Il vagabondaggio felliniano ha perso ogni contatto immediato con una finalità più o meno reale; è un punto di partenza, un dato di fatto della vita contro il quale non c’è nient’altro da fare, se non prenderne atto e aspettare lì dove ci scaraventa: forse un segno insolito che dovrebbe arrivare dall’esterno, probabilmente dal tempo. A proposito di questo primo film, a Fellini piace dire che la risposta a Luci del varietà è legata comicamente all’attesa di «un’alba livida»:
34 Federico Fellini
L’alba livida. L’attesa «dell’alba livida» […]. L’alba livida era diventata una «cosa», come il cestino, come i binari del carrello, una cosa pratica da trovare, da consumare […]. Per il cinema, tutto diventa una sconfinata natura morta, anche i sentimenti degli altri sono qualcosa di cui si può disporre.14
Vagabondaggio dell’autore da un film all’altro, perché si tratta anche di voler dare colore a qualcosa che, girato in bianco e nero, finisce per virare in un colore supposto ma inafferrabile: quello livido del vagabondare, delle partenze che implica. Grazie a queste determinazioni indipendenti delle storie raccontate, Fellini sfugge agli schemi di ogni scuola, compreso il neorealismo. Si tratta di cogliere qualcosa che non esiste in una realtà data, ma che può esistere davvero, una tonalità, una sfumatura, una variazione, una fluttuazione impressa sulla pellicola, come il desiderio tenue di qualcosa di cui non si sa nulla, come la carezza momentanea di un istante di vita; qualcosa che riunisce gli esseri erranti, che ne fa qualcosa di squisito e di diverso, qualcosa che si potrà serbare per dopo, per altri momenti di attesa.