Gli imperfezionisti

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Tom Rachman Gli imperfezionisti Traduzione di Seba Pezzani

ilSaggiatore

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«Popolarità di Bush al minimo storico» Lloyd Burko – corrispondente da Parigi

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Lloyd si scrolla di dosso le coperte e si precipita verso l’ingresso in mutande bianche e calze nere. Si appoggia al pomello e chiude gli occhi. Da sotto la porta filtra aria gelida; Lloyd arriccia le dita dei piedi. Ma nel corridoio regna il silenzio. Sul pavimento del piano di sopra solo scalpiccio di tacchi alti. Una finestra che cigola dal lato opposto del cortile. Il soffio dell’aria che gli entra nelle narici, che esce. Una voce di donna giunge debolmente fino a lui. Strizza più forte le palpebre, come per alzare il volume, ma riesce a cogliere solo mormorii, un dialogo a colazione tra la donna e l’uomo dell’appartamento all’altro lato del pianerottolo. Finché la loro porta si apre di colpo: la voce della donna cresce d’intensità, le assi del pavimento del corridoio scricchiolano. La donna si sta avvicinando. Lloyd retrocede rapidamente, apre la finestra che dà sul cortile e vi prende posizione, posando lo sguardo sul suo angolo di Parigi. La donna bussa alla sua porta. «Avanti» dice Lloyd. «Mica devi bussare.» E sua moglie mette piede nell’appartamento per la prima volta dalla notte precedente. Non distoglie lo sguardo dalla finestra per voltarsi dalla 13

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parte di Eileen e si limita a premere con più forza le ginocchia nude contro la ringhiera di ferro. Lei gli liscia i capelli grigi sulla nuca. Lloyd trasalisce a quel tocco, che lo coglie di sorpresa. «Sono solo io» gli dice. Lui sorride, arricciando gli occhi, allargando le labbra, prendendo fiato come per dire qualcosa. Ma non ha nulla da rispondere. La donna lascia perdere. Lloyd finalmente si volta e la trova seduta davanti al cassetto in cui tengono alcune vecchie foto. Ha una salvietta da cucina su una spalla e ci si asciuga le dita, umidicce per via di patate appena pelate, detersivo liquido per stoviglie, cipolle sminuzzate, e sature dell’aroma di naftalina delle coperte e di terriccio delle fioriere. Eileen è una donna che tocca tutto, assaggia ogni cosa, infila le mani ovunque. Si mette gli occhiali da lettura. «Cosa stai cercando lì dentro?» le chiede. «Solo una mia foto del Vermont, quand’ero piccola. Per farla vedere a Didier.» Si alza in piedi, prendendo con sé una foto, e si ferma davanti alla porta dell’ingresso. «Sei impegnato a cena, vero?» «Mmm.» Indica l’album, con un cenno. «A poco a poco…» dice. «Cosa vorresti dire?» «… ti stai spostando verso l’altro lato del corridoio.» «No.» «Lo puoi fare.» Non si è opposto alla sua amicizia con Didier, l’uomo che sta all’estremità opposta del pianerottolo. A differenza di Lloyd, lei non si è ancora messa alle spalle quella parte della sua vita, il sesso. Ha diciott’anni meno di lui, un divario che un tempo lo stimolava, ma che, ora che ha settant’anni, si è fatto una voragine. Le manda un bacio e torna alla finestra. ­14

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Le assi del pavimento del corridoio scricchiolano. La porta di ingresso di Didier si apre e si chiude. Là in fondo, Eileen non bussa, entra e basta. Lloyd dà un’occhiata al telefono. Sono passate settimane dall’ultimo articolo che ha venduto e ha bisogno di soldi. Digita il numero del giornale di Roma. Uno stagista lo trasferisce al capocronista, Craig Menzies, un nevrotico stempiato che decide buona parte di ciò che appare su ogni numero. Menzies è sempre alla sua scrivania, l’orario non conta. Nella vita di quell’uomo c’è spazio solo per le notizie. «È un buon momento per una proposta?» chiede Lloyd. «A dir la verità, sono un po’ preso. Non puoi mandarmi una mail?» «No. Ho un problema col mio computer.» Il problema è che non ne possiede uno; Lloyd utilizza ancora un word processor, un residuato del 1993. «Posso stampare qualcosa e faxartelo.» «Dimmelo al telefono. Però ti pregherei, se possibile, di farti sistemare il computer.» «Sì, far sistemare il computer. Me lo sono debitamente annotato.» Gratta il taccuino con un dito, come per estrapolarne un’idea migliore di quella che ci è scarabocchiata sopra. «Vi può interessare un pezzo sull’ortolano? È una squisitezza francese, un uccello – una specie di fringuello, penso – la cui vendita qui è illegale. Lo infilano in una gabbia, gli strappano gli occhi, in maniera che non possa distinguere il giorno dalla notte, e poi lo rimpinzano di cibo. Quando è bello grasso, lo annegano nel Cognac e lo cucinano. Mitterand se n’è mangiato uno proprio l’altra sera.» «Uh-huh» risponde Menzies, senza troppo entusiasmo. «Scusa, ma dov’è la notizia?» 15

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«Nessuna notizia. Solo un approfondimento.» «Hai qualcos’altro?» Lloyd gratta nuovamente il taccuino. «Che ne dici di un pezzo di taglio economico sul vino? Le vendite del rosé, che in Francia per la prima volta superano quelle del bianco…» «È vero?» «Credo di sì. Devo ancora accertarmene.» «Non hai niente di più attuale?» «Non lo vuoi l’ortolano?» «Non credo ci sia spazio. Oggi siamo pieni. Quattro pagine di notizie.» Tutte le altre testate con le quali Lloyd collaborava come giornalista freelance lo hanno scaricato. Ora ha il sospetto che anche il giornale – la sua ultima risorsa, il suo ultimo datore di lavoro – stia pensando di cacciarlo via. «Sei al corrente dei nostri problemi finanziari, Lloyd. Di questi tempi, dai freelance compriamo solo roba che lasci a bocca aperta. Il che non significa che la tua non sia buona. Intendo solo dire che ora Kathleen vuole solo spirito di iniziativa. Terrorismo, programma nucleare iraniano, rinascita della Russia, cose di questo tipo. Il resto, di fatto, lo prendiamo dai dispacci di agenzia. Il problema sono i soldi, non tu.» Lloyd riattacca e torna alla finestra, dove si mette a fissare i condomini del Sesto Arrondissement: muri bianchi macchiati dalla pioggia leggera e dalle falle nelle grondaie, vernice che si sta scrostando, imposte ben serrate, in basso cortili in cui sono ammassate le biciclette dei residenti, in un intrico di manubri, pedali e raggi, in alto tetti di zinco, camini incappucciati che chiazzano il cielo di fumo bianco. Si avvicina alla porta chiusa dell’ingresso e resta immobile, in ascolto. È possibile che lei torni dall’appartamento di Didier senza che lui la solleciti. È la loro casa, Cristo. ­16

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Verso ora di cena, lui si mette a fare il maggior chiasso possibile, sbattendo la porta contro l’appendiabiti, fingendo un attacco di tosse mentre esce, il tutto per fare in modo che Eileen, dall’altra parte del corridoio, lo senta andarsene per la presunta cena che ha in programma, per quanto non esista nessun programma del genere. Semplicemente, non ha nessuna intenzione di accettare l’ennesimo invito pietoso a tavola con lei e Didier. Se ne va a zonzo per boulevard du Montparnasse tanto per ammazzare il tempo, acquista una scatola di calisson da regalare a sua figlia Charlotte e se ne torna a casa, in maniera tanto silenziosa quanto prima era stata rumorosa. Quando mette piede nel suo appartamento, solleva la porta dell’ingresso sui cardini in modo da attutire il cigolio e poi la chiude delicatamente. Non accende la luce principale – Eileen la potrebbe scorgere sotto la porta – e annaspa in cucina, lasciando lo sportello del frigorifero socchiuso per avere un po’ di illuminazione. Apre una lattina di ceci e ci infila immediatamente dentro una forchetta, posando gli occhi sulla mano destra, screziata da macchie senili. Si passa la forchetta nella mano sinistra, con la destra che si infila in profondità nella tasca dei calzoni, dove stringe un sottile portafogli di cuoio. Si è trovato al verde molte volte. È sempre stato più bravo a spendere che a risparmiare. In camicie di sartoria acquistate in Jermyn Street. Casse di Château Gloria del 1971. Quote in una corsa di cavalli che per poco non gli facevano vincere dei soldi. Vacanze improvvisate in Brasile con donne improvvisate. Taxi dappertutto. Mangia un’altra forchettata di ceci. Sale. Manca il sale. Ne getta un pizzico nella lattina. All’alba, giace sotto strati di coperte e federe: non accende più il riscaldamento, a meno che non ci sia anche Eileen. Oggi andrà a trovare Charlotte, ma non è che ne 17

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abbia una gran voglia. Si gira sull’altro fianco, come per passare da lei al figlio, Jérôme. Un ragazzo d’oro. Lloyd si gira di nuovo. Sveglissimo, stanchissimo. Pigro. È diventato pigro. Com’è successo? Si scosta le coperte di dosso e, in calze e mutande, tremando per il freddo si avvicina alla scrivania. Studia attentamente vecchi numeri di telefono: centinaia di pezzetti di carta tenuti fermi con graffette, nastro adesivo, colla. Troppo presto per chiamare chiunque. Sorride di fronte ai nomi degli ex colleghi: il direttore che aveva inveito contro di lui per aver mancato i primi disordini di Parigi nel ’68, sbronzo com’era nella vasca da bagno insieme a un’amica. Oppure il responsabile dei corrispondenti che lo aveva mandato in aereo a Lisbona a occuparsi del golpe del ’74, malgrado non sapesse una parola di portoghese. Oppure il giornalista che si era fatto prendere dalla ridarola insieme a Lloyd a una conferenza stampa di Giscard d’Estaing al punto di farsi cacciare e beccarsi i rimbrotti dall’addetta stampa. Quanti di quei vecchi numeri funzionano ancora? La luce filtra gradualmente attraverso le tende del salotto. Le scosta. Il sole non si vede e nemmeno le nuvole: solo edifici. Perlomeno Eileen non si rende conto della sua situazione finanziaria. Se lo scoprisse, cercherebbe di aiutarlo. E a quel punto cosa gli resterebbe? Apre la finestra, inspira, preme il ginocchio contro la ringhiera. La grandeur di Parigi – la sua altezza e ampiezza e durezza e delicatezza, la sua perfetta simmetria, la forza di volontà dell’uomo che si è imposta sulla pietra, sui prati all’inglese, sui rosai riottosi – quella Parigi risiede altrove. La sua è più piccola, contiene lui, quella finestra, le assi del pavimento che scricchiolano in tutto il corridoio. Alle nove del mattino sfila per i Giardini del Lussemburgo in direzione nord. Si riposa davanti al Palais de Ju­18

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stice. Già stanco? Pigrone del cazzo: si costringe ad avanzare, oltre la Senna, lungo rue Montorgueil, oltre i Grands Boulevards. Il negozio di Charlotte si trova in rue Rochechouart, grazie a Dio in una zona non troppo alta della collina. Il negozio non è ancora aperto e così lui bighellona fino a un caffè e poi, una volta sulla soglia, cambia idea: niente soldi da sprecare in beni superflui. Dà una sbirciata alla vetrina della figlia, che è zeppa di cappellini fatti a mano, disegnati da Charlotte e prodotti da una squadra di giovani donne con tanto di grembiuli di lino a vita alta e cuffiette, una specie di domestiche del xviii secolo. Charlotte arriva più tardi dell’ora di apertura indicata. «Oui?» dice, non appena scorge suo padre. A lui si rivolge solo in francese. «Stavo ammirando la tua vetrina» le dice. «È sistemata benissimo.» Lei apre la serratura ed entra nel negozio. «Perché ti sei messo la cravatta? Devi andare da qualche parte?» «Qui… Dovevo venire qui a trovarti.» Le consegna la scatola di dolcetti. «Un po’ di calisson.» «Non mangio quella roba.» «Pensavo che li adorassi.» «Non io. È Brigitte che li adora.» Sua madre, la seconda delle ex mogli di Lloyd. «Non puoi darli a lei?» «Da te non accetterà niente.» «Sei così piena di rabbia nei miei confronti, Charlie.» Lei procede impettita verso il lato opposto del negozio e si mette a fare ordine come per prepararsi a una lite. Un cliente entra e Charlotte sfoggia un sorriso. Lloyd si ritrae in un angolo. Il cliente se ne va e Charlotte riprende il suo incontro di boxe con la polvere. «Ho fatto qualcosa di sbagliato?» 19

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«Santo cielo… Sei così egocentrico.» Lui dà un’occhiata al retro del negozio. «Non sono ancora arrivate» sbotta lei. «Chi?» «Le ragazze.» «Le tue dipendenti? Perché me lo stai dicendo?» «Sei arrivato troppo presto. Pessimo tempismo.» Charlotte sostiene che Lloyd ha dato la caccia a ogni donna che lei gli ha presentato, a partire dalla sua migliore amica dei tempi del liceo, Nathalie, che una volta era andata in vacanza ad Antibes insieme a lei e aveva perso il reggiseno del bikini tra i flutti. Charlotte aveva sorpreso Lloyd a guardarla. Grazie a Dio, non era mai venuta a sapere che le cose tra suo padre e Nathalie si fossero spinte molto oltre. Ma tutto ciò è andato. Finito, finalmente. Così sciocco, a pensarci ora. Tanta fatica sprecata. La libidine: è stata la tiranna dei suoi giorni migliori, strappandolo dalla tranquilla America tanti anni prima alla volta della peccaminosa Europa, in cerca di avventure e conquiste, spingendolo a sposarsi quattro volte, facendolo inciampare un centinaio d’altre, distraendolo e degradandolo e portandolo quasi alla rovina. Eppure, per fortuna, è tutto finito, ora che il desiderio si è sopito negli ultimi anni, misterioso nella sua scomparsa così come al suo arrivo. Per la prima volta da quando aveva dodici anni, Lloyd è testimone del mondo senza alcuno stimolo. Ed è decisamente perso. «Davvero non ti piacciono le caramelle?» dice. «Non te le ho chieste.» «Già, non me le hai chieste.» Sorride mestamente. «C’è qualcosa, però, che posso fare per te?» «A che pro?» «Per aiutarti.» «Non voglio il tuo aiuto.» ­20

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«D’accordo» le dice. «D’accordo.» Annuisce, sospira e fa per avviarsi alla porta. Lei lo segue fuori. Lui fa per sfiorarle un braccio, ma lei si allontana. Gli restituisce la scatola di calisson. «Non li mangio.» Una volta a casa, passa rapidamente in rassegna i suoi numeri di telefono e finisce per chiamare un vecchio amico giornalista, Ken Lazzarino, che ora lavora per una rivista di Manhattan. Si scambiano qualche notizia e, per alcuni minuti, si abbandonano alla nostalgia, ma una strana atmosfera pervade l’intera conversazione: entrambi sanno che Lloyd ha bisogno di un favore, solo che non riesce a trovare il coraggio per chiederglielo. Alla fine, tira fuori le parole a fatica. «Cosa dovrei fare se volessi proporvi qualcosa?» «Non hai mai scritto per noi, Lloyd.» «Lo so, ci stavo giusto pensando.» «Ora mi occupo di strategie online. Non ho più alcuna voce in capitolo riguardo ai contenuti.» «Non c’è qualcuno con cui potresti mettermi in contatto?» Dopo essersi sentito dire di no in varie versioni, Lloyd mette giù il telefono. Si mangia un’altra lattina di ceci e riprova con Menzies al giornale. «Che ne dici se oggi mi occupo io dei titoli sull’economia europea?» «Ora è Hardy Benjamin a occuparsene.» «So bene che per voi è una menata che la mia mail non funzioni. Però, posso mandare un fax. Non farebbe nessuna differenza.» «Altro che se la fa. Però, sta’ a sentire, ti chiamo io se abbiamo bisogno di qualcosa che esuli da Parigi. Oppure, se hai qualcosa che davvero fa notizia, dammi un colpo di telefono.» 21

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Lloyd apre una rivista di attualità francese nella speranza di rubare un’idea per un articolo. Scorre le pagine freneticamente: non riconosce metà dei nomi. Chi diavolo è il tizio della foto? Un tempo sapeva tutto quello che accadeva nel paese. Alle conferenze stampa era sempre in prima fila, col braccio alzato, e appena finivano si precipitava a fare domande dalle retrovie. Ai cocktail party delle ambasciate, si sistemava accanto agli ambasciatori sfoggiando un sorrisino, mentre il taccuino gli spuntava dalla tasca posteriore dei calzoni. Di questi tempi, se partecipa a una conferenza stampa, finisce nelle retrovie a scarabocchiare distrattamente e sonnecchiare. Sul suo tavolino si formano pile di inviti stampati in rilievo. Scoop grandi e piccoli gli passano accanto, inosservati. Ha ancora la capacità di tirar fuori gli articoli più ovvi, quelli che è in grado di scrivere da sbronzo, a occhi chiusi, in mutande davanti al word processor. Getta la rivista d’attualità su una sedia. Che senso ha provarci? Chiama il cellulare del figlio. «Ti ho svegliato?» gli chiede in francese, la lingua che usano tra di loro. Jérôme copre la cornetta e tossisce. «Speravo di poterti offrire il pranzo più tardi» dice Lloyd. «Non dovresti essere al ministero a quest’ora?» Ma Jérôme ha il giorno libero e così stabiliscono di incontrarsi in un bistrot dalle parti di place de Clichy, dove abita il ragazzo, per quanto l’esatta ubicazione della casa di Jérôme resti un mistero per Lloyd tanto quanto lo sono i dettagli del lavoro del figlio presso il ministero degli Esteri. Il ragazzo è molto riservato. Lloyd giunge al bistrot in anticipo per dare un’occhiata ai prezzi del menu. Apre il portafogli per contare i soldi e poi occupa un tavolo. Quando Jérôme fa il suo ingresso, Lloyd si alza in piedi ­22

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e sorride. «Mi era quasi passato di mente quanto ti voglio bene.» Jérôme si siede subito, come se si fosse spenta la musica durante il gioco della sedia. «Sei strano.» «Sì, è vero.» Jérôme scuote il tovagliolo e si passa una mano tra i riccioli flosci, sollevando ciuffi aggrovigliati. Sua madre, Françoise, un’attrice teatrale dalle dita chiazzate di nicotina, aveva il suo stesso vizio di arruffarsi i capelli, cosa che i primi tempi la rendeva ancor più attraente, finché era rimasta senza lavoro e quel vizio la faceva apparire solo più disordinata. Jérôme, con i suoi ventotto anni, ha già l’aria trasandata, con il suo abbigliamento da negozio vintage, un blazer di velluto dalle maniche che gli arrivano a metà degli avambracci su una camicia a righe eccessivamente attillata, con le cartine delle sigarette che gli spuntano da uno strappo del taschino. «Lascia che ti compri una camicia» gli dice Lloyd, di impulso. «Ti serve una camicia degna di questo nome. Andiamo da Hilditch & Key, giù sulla Rivoli. Prendiamo un taxi. Forza.» Parla in maniera avventata: non può permettersi una camicia nuova. Ma Jérôme declina l’offerta. Lloyd si sporge sul tavolo e stringe il pollice del suo ragazzo. «È passata un’eternità… Abitiamo nella stessa città, per Dio!» Jérôme ritrae il pollice e studia il menu. Opta per l’insalata col formaggio di capra e le nocciole. «Prendi un piatto come si deve» protesta Lloyd. «Mangiati una bistecca!» Sorride, per quanto i suoi occhi cerchino il prezzo della bistecca nel menu. Serra le dita dei piedi. «L’insalata andrà benissimo» dice Jérôme. Lloyd ordina a sua volta l’insalata, visto che è il piatto meno caro. Offre al figlio una bottiglia di vino ed è un sollievo che anche questa offerta venga declinata. Lloyd 23

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divora avidamente il suo cibo e tutto il pane del cestino. Troppi ceci, troppa poca carne. Jérôme, nel frattempo, pilucca il formaggio di capra e ignora la lattuga. Lloyd gli intima in inglese: «Mangia la verdura, ragazzo!». La faccia di Jérôme, che non ha capito, si fa corrucciata e Lloyd è costretto a tradurglielo in francese. Un tempo, Jérôme sapeva parlare in inglese, ma Lloyd se n’era andato da casa quando suo figlio aveva sei anni e, da lì in poi, le occasioni per fare pratica per lui erano state scarse. Ecco perché è così strano, ora, per Lloyd scorgere sul viso di quel ragazzino francese i lineamenti del suo stesso padre dell’Ohio, da molto tempo scomparso. A parte i capelli, la somiglianza è stupefacente: il naso schiacciato e gli occhi castani velati. Persino l’abitudine che ha Jérôme di utilizzare tre parole quando ne servirebbero venti. Solo che, ovviamente, le parole di Jérôme sono nella lingua sbagliata. Un pensiero inquietante passa per la testa di Lloyd: un giorno, suo figlio morirà. È un fatto puro e semplice, ma non ci aveva mai pensato. «Su» dice Lloyd. «Facciamo venire quella bella cameriera.» Alza un braccio per richiamare la sua attenzione. «È carina, no? Lascia che ti recuperi il suo numero di telefono» gli dice. «Lo vuoi?» Jérôme abbassa il braccio del padre. «Lascia perdere» gli dice, rollandosi frettolosamente una sigaretta. Sono trascorsi mesi dal loro ultimo incontro e la ragione appare presto chiara: si vogliono bene, ma non hanno molto da dirsi. Che cosa sa Lloyd di Jérôme? Gran parte di quel che sa risale ai suoi primissimi anni di vita: era timido, non faceva altro che leggere i fumetti di Lucky Luke, voleva fare il fumettista. Lloyd gli diceva di fare il giornalista. Il miglior lavoro al mondo, secondo lui. «Allora» gli chiede Lloyd «disegni ancora?» «Disegno?» ­24

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«Le tue vignette.» «Sono anni che non lo faccio più.» «Fammi un ritratto. Su un tovagliolo.» Jérôme, con lo sguardo basso, scuote la testa. Questo pranzo si concluderà presto. Lloyd deve fare la domanda per cui ha organizzato quest’incontro. Agguanta il conto, respingendo seccamente la mano tesa del figlio. «Non esiste. Offro io.» All’esterno del caffè, ha ancora la possibilità di fare quella domanda al figlio. Arriva l’ultimo momento. E invece dice: «Dove vivi ora?». «Sto per trasferirmi in un posto nuovo. Poi ti darò i dettagli.» «Ti va di fare due passi?» «Sto andando nella direzione opposta.» Si stringono la mano. «Grazie» dice Lloyd «per quest’incontro.» Per tutto il tragitto di ritorno a casa, maledice se stesso. Dalle parti di Les Halles, si ferma sul marciapiede per contare i soldi che ha nel portafogli. Un adolescente su uno scooter avanza verso di lui sul marciapiede, strombazzando come un pazzo. «Dove dovrei andare?» gli grida Lloyd. «Dove vuoi che vada?» Il ragazzo rallenta, bestemmiando, mentre il suo mezzo sfiora una gamba di Lloyd. «Testa di cazzo» gli dice Lloyd. La domanda a Jérôme non l’ha fatta. Una volta nell’appartamento, Eileen gli dice: «Mi sarebbe piaciuto che tu lo portassi qui. Mi piacerebbe preparargli un pranzo. Non sarebbe splendido se ogni tanto passasse di qui?». «Ha le sue cose da fare.» «Al ministero?» 25

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«Immagino di sì. Non lo so. Gli faccio delle domande e ottengo solo vaghe…» Lloyd apre una mano, come se stesse cercando qualcosa, scruta il suo palmo, incapace di trovare la parola giusta. «Non so che dire. Chiedilo a lui.» «D’accordo, però prima lo devi far venire qui. Ha una ragazza?» «Non lo so.» «Non c’è bisogno che tu te la prenda con me.» «Non me la prendo con te. Ma come faccio a saperlo, Eileen?» «Lavorare al ministero deve essere interessante.» «Per quanto ne so, magari è lì a fare fotocopie.» «No, sono certa che non è così.» «Devo dire, però, che lo trovo davvero strano.» «Cos’è che trovi strano?» Lui ha un’esitazione. «Il semplice fatto che – ben sapendo che faccio il giornalista, e che il mio lavoro l’ha aiutato a crescere e l’ha mantenuto durante l’infanzia – non mi abbia mai passato la minima informazione o la più insignificante indiscrezione sul ministero. Non che sia una gran tragedia. Solo che… sarebbe normale se l’avesse fatto.» «Forse non ha niente da darti.» «So bene come funzionano i posti come quello. Ha roba che potrebbe servirmi.» «È probabile che non sia autorizzato a parlare con i giornalisti.» «Nessuno lo è. Ma lo fanno comunque. Si chiamano fughe di notizie.» «So come si chiamano.» «Non intendevo dubitarne. Scusa.» Le tocca un braccio. «Non c’è problema» le dice. «Non è più un problema.» La mattina seguente, Lloyd si sveglia furibondo. Qualcosa nel sonno lo ha fatto infuriare, ma non si ricorda di cosa si tratti. Quando Eileen lo raggiunge per fare cola­26

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zione, le dice di andare a mangiare da Didier. Lei se ne va e lui rimpiange che l’abbia fatto, che non abbia dormito lì la notte scorsa. Apre il portafogli. Sa quanto c’è dentro, ma controlla ugualmente. Se presto non guadagna qualcosa, non potrà restare in quell’appartamento. Se si trasferisce, Eileen non lo seguirà. Senza di lei, dove può andare? Gli servono soldi; gli serve uno spunto. «È il secondo giorno consecutivo che ti sveglio. A che ora ti alzi normalmente?» chiede a Jérôme al telefono. «Sta’ a sentire, ho bisogno di vederti di nuovo.» Jérôme arriva al caffè e stringe la mano del padre. Come da copione, Lloyd dice: «Mi spiace scocciarti di nuovo. Ma c’è una cosa importante che ho bisogno di verificare per il mio lavoro.» «E io che c’entro?» «È una cosa da niente. Sto scrivendo un articolo sulla politica estera francese. È urgente. Il termine massimo per presentarlo è oggi. Nel pomeriggio.» Jérôme si appoggia allo schienale della sedia. «Non so nulla che ti possa risultare utile.» «Non hai ancora sentito la mia domanda.» «Davvero, non so nulla.» «Che cosa ci fai in quel posto?» sbotta Lloyd, per poi placarsi leggermente. «Voglio dire, non hai nemmeno sentito quello che ti sto per chiedere. Devono essere tre anni che lavori in quel posto. Non mi consenti di passare a trovarti, non ti va di parlarmene. Sei solo un addetto alle pulizie e hai paura di ammetterlo?» Ride. «Una scrivania te l’hanno data, vero?» «Sì.» «D’accordo. È un quiz. Non fai altro che darmi risposte a monosillabi. Ma ci arriverò in fondo. La tua scrivania è vicina alla poltrona del ministro? Oppure lontana?» 27

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Jérôme si agita sulla sedia. «Non lo so. È a una distanza media.» «Medio significa vicino.» «Non tanto vicino.» «Cristo, è peggio che cavare denti. Sta’ a sentire, mi serve uno spunto per un articolo. Permettimi di approfittare di te per un minuto.» «Pensavo che avessi una domanda specifica…» «Ma ce l’hai qualche idea? In fondo, ieri ti ho offerto il pranzo.» Aggiunge: «Scherzo». «Non posso.» «Non farò il tuo nome. E non ti sto chiedendo di andare là dentro a rubare qualche documento o che so.» «Che tipo di informazione vuoi?» «Non ne sono sicuro. Magari, qualcosa che abbia a che fare col terrorismo. Oppure con l’Iraq. O Israele.» «Non lo so» dice Jérôme pacatamente, con lo sguardo posato sulle ginocchia. Gli altri figli di Lloyd a quel punto lo avrebbero già congedato. Solo Jérôme è leale. Tutte e tre le figlie sono come Lloyd: sempre in lotta, sempre con un grillo per la testa. Jérôme, invece, non va al contrattacco. Solo lui è leale. Lo dimostra, dicendo: «Al massimo, ci sarebbe questa faccenda sulla forza armata a Gaza». «Quale forza di Gaza?» Lloyd si alza di scatto. «Non conosco tutti i dettagli.» «Aspetta, fermati un attimo. Il ministero sta parlando di una forza a Gaza?» «Credo di averne sentito parlare.» «Credi?» «Credo di sì.» Lloyd è raggiante. «Forse c’è qualcosa per noi. Forse, forse.» Tira fuori un taccuino e si annota qualcosa. Estorce la primizia, la tira, la contorce. Un brivido percorre il corpo ­28

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di Lloyd: è in queste cose che ci sa fare. Ma Jérôme ha smesso di parlare. Troppo tardi: ormai si è aperto. Ecco che le cose vengono fuori. Forza. «Non puoi utilizzare nulla di quella roba.» «Non finirai nei guai.» «Sono informazioni di mia competenza» gli dice Jérôme. «Non sono di tua competenza. Sono informazioni, nient’altro. Non appartengono a nessuno. Esistono a prescindere da te. Ora non posso più fingere di non sapere. Vuoi che mi prostri? Ti ho chiesto un piccolo aiuto. Non capisco perché sia tanto difficile. Spiacente» dice Lloyd «però, sei stato tu a fornirmele.» Corre a casa. Forse ce la può ancora fare a rispettare la chiusura. Telefona a Menzies. Ah ah, porca puttana, pensa Lloyd mentre la sua telefonata viene trasferita. «Bene, amico mio» dice «ti ho trovato una storia.» Menzies lo ascolta finché non ha finito. «Ma, aspetta un attimo… La Francia sta proponendo una forza di pace dell’Onu a Gaza? Israele non lo accetterebbe mai. È un’impresa votata al fallimento.» «Come fai a esserne certo? Comunque, sto solo riportando la notizia secondo cui i francesi starebbero lanciando l’idea. Quel che succederà dopo è un’altra faccenda.» «Bisognerebbe che noi la sostanziassimo.» «Posso farlo.» «Hai cinque ore prima del limite massimo. Sta’ a sentire, tiraci fuori tutto quello che riesci e fatti risentire fra un’ora e mezzo.» Lloyd mette giù il telefono. Dà un’occhiata ai suoi contatti telefonici. Non dispone neppure di informazioni aggiornate sulla situazione di Gaza. Digita il numero di cellulare di Jérôme che però squilla a vuoto. Trova un numero del ministero degli Esteri. Forse può riuscire a otte29

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nere qualche dettaglio senza dover indicare Jérôme come sua fonte. Certo che può. Lo ha già fatto un milione di volte. Telefona all’ufficio stampa del ministero, per la prima volta felice che quella pazza di Françoise abbia cambiato il cognome di loro figlio, facendogli adottare il suo: nessuno collegherà il nome di Lloyd Burko con Jérôme. Lloyd fa qualche domanda introduttiva all’impiegata di servizio. Ma alla donna interessa più ottenere che fornire informazioni e così lui taglia corto. Nell’istante in cui riattacca, gli squilla il telefono: è Menzies. «Ora sei tu a chiamare me» gli dice Lloyd, con una sfumatura di trionfalismo nella voce. «Ho menzionato il tuo pezzo nella riunione del pomeriggio e Kathleen ora è in agitazione» dice, riferendosi al caporedattore. «Come sai, Kathleen è meglio non farla agitare.» «Quindi lo accettate?» «Prima dovremo vederlo. Dipendesse da me, lo metterei in pagina.» «Quante parole vi servono?» «Quante ne servono a te. A patto che il pezzo regga. Come ho detto, prima dovremo visionare il testo. Pensi che lo si possa mettere in apertura?» Se il pezzo finisce in prima pagina, deve poi continuare anche nelle pagine seguenti, il che implica una maggiore lunghezza. E maggiore lunghezza significa più soldi. «Prima pagina» dice Lloyd. «Decisamente in prima pagina.» «Ci stai lavorando sodo, giusto?» «Ho appena parlato al telefono con il ministero degli Esteri.» «E allora?» «Altre notizie sulla stessa linea.» ­30

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«Stai ottenendo conferme… Stupefacente. Non ne ho letto da nessuna parte.» Dopo aver riattaccato, Lloyd passeggia per l’appartamento, guarda fuori dalla finestra, grattando il vetro, sforzandosi di trovare nei propri ricordi qualche fonte utile. Manca il tempo. Non può far altro che lavorare su quello che ha: perfezionare un pezzo ottenuto grazie a un’unica fonte, rimpinguarlo con un po’ di materiale di contorno e pregare che passi. Si accomoda davanti al suo word processor e batte un pezzo che, quando strappa il foglio dalla macchina, è decisamente l’articolo più inconsistente che abbia mai cercato di scrivere. Posa il foglio da una parte. Nessun virgolettato, niente. Inserisce un foglio nuovo e ricomincia da capo, scrivendo il pezzo come avrebbe dovuto essere: virgolettati, date, ammontare dei soldati, dispute all’interno del gabinetto, ostilità sull’altra sponda dell’Atlantico. È un lavoro che conosce bene: è tutto espresso in termini di possibilità, proposte, concetti volatili. Tutte le fonti inventate di sana pianta sono «sotto il vincolo dell’anonimato» oppure «funzionari vicini a» o, ancora, «esperti informati sulla faccenda.» Nessuno compare sotto il proprio nome. Millequattrocento parole. Calcola quanto ne ricaverà. A sufficienza per pagare l’affitto: una tregua. A sufficienza per comprare una camicia decente a Jérôme. Per portare Eileen fuori a bere qualcosa. Legge l’articolo, utilizzando una penna rossa per eliminare quello che gli potrebbe venire contestato. Ma così il testo si accorcia e allora si inventa un paio di frasi ripetitive pronunciate da «un funzionario amministrativo di Washington». Lo ribatte, apporta qualche modifica e lo faxa da un centro telefonico sotto casa. Se ne torna a passo allegro al suo appartamento, facendo una sosta sul pianerottolo, a corto di fiato, cercando di sorridere. «Pigrone del 31

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cazzo!» si dice da solo. Bussa alla porta di Didier. «Eileen? Ci sei?» Entra nel suo appartamento e trova una bottiglia impolverata di Tanqueray da un quarto di litro, se ne versa un bicchierino e fa mulinare il liquore in bocca, lasciando che gli bruci l’interno delle guance. Non ha mai falsificato un pezzo prima d’ora. «Non è male come sensazione» dice. «Avrei dovuto farlo già anni fa! Mi sarei risparmiato un sacco di lavoro!» Si versa un altro schizzo di gin, attende l’inevitabile telefonata. Il telefono squilla. «Bisogna rafforzare la fonte» dice Menzies. «E in che modo?» «Sono parole di Kathleen. A proposito… il fatto che tu utilizzi il fax è un incubo per il termine massimo di presentazione del pezzo. Dobbiamo ribattere tutto. È davvero il caso che tu ti faccia sistemare la mail.» Buon segno: Menzies conta su altri pezzi in futuro. «Hai ragione. Faccio sistemare immediatamente il computer.» «Quanto alle fonti, dobbiamo essere più chiari. Per esempio, nel terzo paragrafo introduttivo, la citazione suona davvero strana. Non si può identificare il soggetto come una persona “informata sul rapporto” quando non abbiamo nemmeno menzionato un rapporto.» «Non l’ho tolta? Avevo intenzione di tagliarla.» Apportano migliorie, passano in rassegna l’intero pezzo, chiudono la conversazione in armonia. Lloyd beve un altro sorso di gin. Il telefono squilla di nuovo. Menzies continua a non essere soddisfatto. «La fonte diretta del pezzo non è una persona o un’istituzione. Non possiamo limitarci a parlare di “ministero degli Esteri francese”?» «Non vedo perché “un funzionario” non vada bene.» «Nella parte essenziale del tuo pezzo c’è una sola fonte ­32

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non meglio identificata. Troppo vaga per la prima pagina.» «E secondo voi è vaga? Roba come questa la pubblicate costantemente.» «Mi era parso che tu avessi detto che c’era stata la conferma del ministero degli Esteri.» «C’è stata.» «Non possiamo scriverlo?» «Non intendo bruciarmi la fonte.» «Ma ormai siamo in chiusura.» «Non voglio nemmeno che scriviate che si tratta di qualcosa di “francese”. Limitatevi a dire “un funzionario”.» «Se non ti trovi d’accordo su un uso più accurato dei termini, non potremo pubblicarlo. Mi dispiace… ma c’è Kathleen accanto a me che mi sta dicendo proprio questo. E questo significherebbe mandare a puttane la prima pagina. Ovvero, l’inferno in terra a un soffio dalla chiusura. Bisogna decidere ora. Lo accetti?» Attende. «Lloyd?» «Una fonte presso il ministero degli Esteri. Scrivete questo.» «Ed è affidabile?» «Sì.» «Per me è sufficiente.» Ma non per Kathleen, a quanto sembra. La donna telefona a un suo contatto di Parigi, che si fa beffe del suo pezzo. Menzies lo richiama. «La fonte di Kathleen è un importante addetto stampa del ministero. La tua è superiore?» «Sì.» «Superiore di quanto?» «Superiore e basta. Non posso dirti di chi si tratta.» «Sto lottando con Kathleen su questa cosa. Non metto 33

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in dubbio la tua fonte. Ma, tanto per farmi star meglio, dammi un indizio. Non andrà in pagina.» «Non posso.» «In tal caso, non se ne fa niente. Mi dispiace.» Lloyd fa una pausa. «Un membro della commissione per il Medio Oriente, ti basta? È una fonte buona: una fonte operativa, non dell’ufficio stampa…» Menzies passa l’informazione a Kathleen e mette Lloyd in vivavoce. «E questo tizio è affidabile?» gli chiede la donna. «Molto.» «Quindi, l’hai utilizzato altre volte?» «No.» «Però ci si può fidare di lui?» «Sì.» «In confidenza, di chi si tratta?» Lloyd ha un’esitazione. «Non capisco perché tu lo debba sapere.» In realtà, lo capisce e come. «È mio figlio.» Le loro risa si sentono sul vivavoce. «Dici sul serio?» «Lavora al ministero.» «Non mi aggrada particolarmente l’idea che tu citi membri della tua famiglia» dice Kathleen. «Ma, a quest’ora, l’alternativa è mandare in pagina un dispaccio d’agenzia sugli indici di gradimento di Bush che, francamente, a questo punto non rappresentano più materiale da prima pagina.» Menzies suggerisce: «Potremmo pubblicare il pezzo sulla situazione a cinque anni dall’11 settembre, che è praticamente pronto». «No, l’anniversario è lunedì e dunque voglio tenerlo per il fine settimana.» Fa una pausa. «Va bene: vada per Lloyd.» Quando Eileen torna a casa, Lloyd è sbronzo. La donna ha lasciato Didier insieme ai suoi amici in un jazz club e ­34

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ora bussa alla sua porta. Perché non entra e basta? Ma lui non solleverà certo l’argomento. Corre a prendere un altro tumbler e le versa del gin prima che lo possa rifiutare. «Domani non scordarti di comperare il giornale» le dice. «Prima pagina.» Gli accarezza un ginocchio. «Congratulazioni, tesoro. Quand’è stata l’ultima volta che ci sei finito?» «Quando c’era ancora Roosevelt, probabilmente.» «Franklin o Teddy Roosevelt?» «Teddy, senza alcun dubbio.» La tira a sé in maniera un po’ brusca e la bacia: non uno dei loro bacetti tiepidi, bensì un abbraccio focoso. Lei si ritrae. «Basta così.» «Giusto. Cosa faremmo se si presentasse tuo marito?» «Non farmi sentire da schifo.» «Stavo scherzando. Non sentirti in colpa. Io non mi sento in colpa.» Le dà un pizzicotto a una guancia. «Ti amo.» Senza dire una parola, lei torna dall’altra parte del corridoio. Lui si lascia cadere sul letto, brontolando con voce ebbra: «In prima pagina, porca di quella puttana!». La mattina seguente, Eileen lo sveglia delicatamente e posa il giornale sul letto. «Si gela qui dentro» dice. «Ho messo su il caffè.» Lui si mette a sedere. «Il tuo pezzo non l’ho visto, tesoro» gli dice. «Non è sull’edizione di oggi?» Lloyd passa in rassegna i titoli della prima pagina: «Dimissioni di Blair entro 12 mesi»; «Il Pentagono vieta pratiche crudeli negli interrogatori dei terroristi»; «I matrimoni gay sconvolgono l’America»; «L’Australia piange il “cacciatore di coccodrilli”»; e, per finire, «Popolarità di Bush al minimo storico». Il suo pezzo su Gaza non è finito in prima pagina. Sfo35

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glia rapidamente le pagine interne. Non è da nessuna parte. Tra una bestemmia e l’altra, digita il numero di Roma. È ancora presto, ma Menzies è già alla sua scrivania. «Che n’è stato del mio pezzo?» chiede Lloyd, con voce pressante. «Spiacente. Non lo abbiamo potuto utilizzare. L’addetto stampa francese amico di Kathleen ha richiamato e ha negato tutto. Ha detto che, se fossimo andati avanti per la nostra strada, saremmo rimasti fregati. Che avrebbero inoltrato una protesta ufficiale.» «Un addetto stampa amico di Kathleen piscia sul mio pezzo e voi ci credete? E comunque, come mai Kathleen svolge ulteriori ricerche sul mio lavoro? Ve l’ho detto, mio figlio lavora al ministero.» «Be’, anche questo è un po’ strano. Kathleen ha fatto il nome di tuo figlio al suo amico.» «Lo ha indicato come fonte? Siete fuori di testa?» «No, no… aspetta un attimo. Non ha mai detto che era la tua fonte.» «Non sarà difficile scoprirlo. Cristo santo!» «Lasciami finire, Lloyd. Lasciami finire. Non ci lavora nessun Jérôme Burko.» «Coglioni. Porta il nome da nubile di sua madre.» «Oh!» Lloyd deve avvertire suo figlio, dargli il tempo di escogitare una scusa. Chiama Jérôme sul cellulare, ma lui non risponde. Forse è andato al lavoro presto, tanto per cambiare. Cristo, che disastro. Lloyd telefona al centralino del ministero. L’operatore dice: «Ho davanti una lista di tutte le persone di questo edificio. Quel nome non compare». Lloyd raggiunge in fretta boulevard du Montparnasse, alza un braccio per chiamare un taxi e poi lo abbassa. Indugia accanto al cordolo, schiacciando il portafogli, che è ­36

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più sottile che mai. Se deve proprio finire in bancarotta, che succeda pure in questo modo. Ferma un taxi. Di fronte al palazzo del ministero, gli addetti alla sicurezza non vogliono farlo entrare. Ripete il nome del figlio, insiste che si tratta di un’emergenza familiare. Ma non ottiene nessun risultato. Mostra il suo tesserino di giornalista, che però è scaduto dal 31 dicembre 2005. Attende all’esterno mentre chiama Jérôme sul cellulare. Alcuni funzionari escono a farsi una pausa sigaretta. Li studia, alla ricerca di suo figlio, e chiede se qualcuno di loro lavora alla sezione nordafricana e mediorientale. «Quel ragazzo me lo ricordo» dice una donna. «Qui ci ha fatto uno stage.» «Lo so, ma adesso in quale sezione è?» «Non è in nessuna sezione. Non lo abbiamo mai assunto. Credo che abbia fatto gli esami scritti, ma che non sia riuscito a superare la parte linguistica.» Stringe gli occhi e sorride. «Ho sempre pensato che mentisse sul fatto di avere un padre americano…» «Che intende dire?» «Solo che parlava un inglese pessimo.» Tira fuori un indirizzo di Jérôme e lo consegna a Lloyd, che va in metro fino alla fermata di Château Rouge e trova l’edificio, un malridotto palazzo intonacato dal cancello principale rotto. Passa in rassegna l’elenco dei residenti davanti a ciascun cortile interno, alla ricerca del cognome di Jérôme. Non lo trova. Ma poi scorge un cognome inatteso, il suo. Sul campanello c’è scritto: «Jérôme Burko». Lloyd lo schiaccia, ma non ottiene risposta. Si siede ai margini del cortile, con lo sguardo rivolto verso l’alto, verso le finestre con le persiane. Dopo un’ora, Jérôme spunta dal cancello principale, ma non scorge subito suo padre. Apre la cassetta della posta e, spulciando tra i volantini pubblicitari, attraversa il cortile. 37

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Lloyd pronuncia il nome del figlio e Jérôme ha un sussulto. «Cosa stai facendo?» «Scusa» dice Lloyd, alzandosi in piedi a fatica. «Scusa se mi sono presentato in questo modo.» Non si è mai rivolto al figlio in quella maniera, con deferenza. «Sono passato di qui così… Ti dispiace?» «C’è di mezzo il tuo articolo?» «No, no. Non c’entra niente.» «E allora, cosa?» «Possiamo andare di sopra? Ho freddo. È da un po’ che sono qua fuori.» Ride. «Sono vecchio, lo sai! Magari non si direbbe, ma…» «Non sei vecchio.» «Sì, sono vecchio.» Tende la mano, sorride. Jérôme non si avvicina. «Ultimamente, ho pensato alla mia famiglia.» «Quale famiglia?» «Posso entrare, Jérôme? Se non ti spiace. Ho le mani ghiacciate.» Se le sfrega, ci soffia sopra. «Mi è venuta un’idea. Spero che la cosa non ti offenda. Pensavo che, magari – solo se ti va – ti potrei dare una mano a migliorare il tuo inglese. Se lo pratichiamo con regolarità, imparerai. Te lo garantisco.» Jérôme arrossisce. «Che intendi dire? Il mio inglese va benissimo. L’ho imparato da te.» «Non è che tu abbia avuto molte occasioni di sentirlo.» «Non ho bisogno di lezioni. E, comunque, quando potrei seguirle? Il ministero non me lo consentirebbe mai.» Per esprimere meglio il proprio concetto, Lloyd passa all’inglese, parlando in maniera volutamente veloce. «Sono tentato di dirti quel che so, figliolo. Però, non voglio farti stare di merda. Ma cosa ci fai in questo cesso? Santo cielo, è incredibile quanto assomigli a mio padre. È così strano ­38

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rivederlo. E so che non hai un lavoro. Dei quattro figli che ho fatto, tu sei l’unico che ancora accetti di parlare con me.» Jérôme non ha capito una sola parola. Fremente di umiliazione, risponde in francese: «Come faccio a sapere quello che stai dicendo? Parli troppo velocemente. È ridicolo». Lloyd passa a sua volta al francese. «Volevo dirti una cosa. Chiederti una cosa. Sai, sto pensando di andare in pensione» dice. «Devo aver scritto… vediamo… un articolo al giorno da quando ho ventidue anni. E ora non riesco a tirare fuori una sola idea nuova. Neanche una. Non so più cosa diavolo stia succedendo. Non vuole pubblicarmi più nemmeno il giornale. Era la mia ultima… la mia ultima risorsa. Lo sapevi? Nessuno stampa più la mia roba. Credo di dover abbandonare il mio appartamento, Jérôme. Non me lo posso più permettere. Dovrei andarmene. Ma non lo so. Non c’è ancora nulla di definitivo. Quello che sto cercando di chiederti… Sto tentando di capire la situazione. Che cosa è il caso di fare. Tu che ne pensi? Come la vedi?» Fare quella domanda gli costa molta fatica. «Cosa mi consiglieresti di fare, figliolo?» Jérôme apre la porta dell’ingresso. «Entra» gli dice. «Fermati a casa mia.»

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