Gli ultimi poeti

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Giulio Ferroni

Gli ultimi poeti Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto


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gli ultimi poeti



l’opera – Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto sono stati gli ultimi esponenti di una grande generazione di poeti che ha vissuto attraverso la poesia un rapporto assoluto con il mondo, rivelando il senso più profondo dell’essere contemporaneo. L’uno, Giudici, poeta di città – Roma prima, Milano poi –, interessato alla dimensione sociale del quotidiano; l’altro, Zanzotto, poeta dei paesaggi naturali, immerso nel mondo campestre che prospera intorno a Pieve di Soligo. Entrambi critici sapienti, capaci di dialogare con i grandi del passato, di tessere un legame di continuità con la tradizione. Entrambi custodi del linguaggio, ascoltato e interrogato come un personaggio vivo che agisce sulla vita e sulla scrittura. Entrambi uomini comuni, lontani da ogni forma di narcisismo intellettuale, intenti a ricercare il sublime autentico fuggendo le vertigini dell’apparenza, le tentazioni dell’ostentazione mediatica. Gli ultimi poeti è un percorso emotivo e concettuale attraverso le differenze e le somiglianze di questi due grandi interpreti della letteratura italiana. Con la passione dello studioso e la fermezza del critico, Giulio Ferroni ci rende una testimonianza limpida ed essenziale, un confronto dialogico tra due uomini che con la loro morte hanno chiuso definitivamente una stagione poetica unica e irripetibile.

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l’autore – Giulio Ferroni, storico della letteratura, critico letterario, scrittore e giornalista, si è dedicato a studi sul teatro e sul Rinascimento, sulla teoria della letteratura e sulla produzione letteraria contemporanea. Ha insegnato in varie università (Padova, Roma, Cosenza); dal 1982 è professore ordinario di letteratura italiana all’Università di Roma La Sapienza; collabora alle pagine culturali de L’Unità. Ha scritto numerosi saggi di letteratura: su Machiavelli, su Aretino, sul Novecento e su molti scrittori contemporanei. Tra le sue pubblicazioni una Storia della letteratura italiana (4 voll., 1991; nuova edizione 2012-2013) che ha suscitato particolare interesse per alcuni giudizi contenuti nel volume dedicato al Novecento, in contrasto con le posizioni critiche allora dominanti. Una sintesi della sua prospettiva insieme teorica e militante è data dal volume Dopo la fine: sulla condizione postuma della letteratura (1996). Tra le sue pubblicazioni più recenti vanno segnalati i saggi: I confini della critica (2005), in cui sostiene la necessità di un’apertura ad altre discipline; Ariosto (2008); La passione dominante. Perché la letteratura e Prima lezione di letteratura italiana, editi entrambi nel 2009; Scritture a perdere. La letteratura negli anni zero (2010), acuta denuncia della deriva della narrativa italiana contemporanea.

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Sommario

1. Addio agli ultimi poeti

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2. Uomini comuni nella societĂ letteraria

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3. Cercare il sublime

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4. La scrittura e l’esistenza

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5. Lingua/lingue

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6. Verso la fine

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Nota

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1. Addio agli ultimi poeti

1. Nel 2011 Ci hanno lasciato in modi diversi nel corso del 2011: in silenzio (24 maggio) Giovanni Giudici, dopo la malattia che per alcuni anni l’aveva allontanato da ogni rapporto col mondo; quasi in un improvviso sospendersi della sua voce (18 ottobre) Andrea Zanzotto, sotto il peso dei festeggiamenti per il suo novantesimo compleanno, dell’insistente attenzione che per l’occasione si era concentrata su di lui (non solo da devoti cultori, ma perfino da incongrue figure politiche). Giovanni, di poco più giovane (26 giugno 1924), era giunto già con difficoltà all’appuntamento con l’ottantesimo compleanno (quando La Spezia gli assegnò la cittadinanza onoraria), dopo il quale era entrato in un silenzio, tanto angosciante per chi era abituato ad ascoltare la sua voce e a leggere i suoi scritti; di circa tre anni maggiore, Andrea (10 ottobre 1921) aveva fino alla fine manifestato la sua presenza, continuando a guardare il mondo lacerato dalla sua casa insieme remota e vicina, solitario e venerato emblema di saggezza e di resistenza. Due destini diversi, due diversi explicit, in cui sembrano fissarsi i diversi mondi, la di13


versa poesia e la diversa presenza di Andrea e Giovanni: nel nuovo rilievo dato dalla loro esistenza conclusa, per quell’azione della morte che muta gli uomini (e in modo particolare i poeti) definitivamente in se stessi, come perentoriamente ha affermato Mallarmé nel celebre incipit del Tombeau d’Edgar Poe: «Tel qu’en Lui-même enfin l’éternité le change». Tels qu’en eux-mêmes enfin l’éternité les change. Ma in questo mutarsi e fissarsi dell’immagine dei due poeti del Novecento, su queste date ancora iniziali del nuovo secolo/millennio che ha costituito una parte minore del loro esistere, si dà come un effetto di allontanamento, di perdita: dal loro scomparire scaturisce la sensazione che siano stati come gli ultimi poeti, che con essi ci abbia lasciato una configurazione essenziale dell’essere poetico, del darsi della poesia nel nostro paese, di ciò che la poesia è stata nel secolo passato e di come tante generazioni l’hanno recepita, vissuta, amata. Ultimi poeti, e non solo per questo effetto del loro allontanarsi, per la naturale tensione che ci porta a sentire come “ultima” ogni vita essenziale che se ne va, ma per quella che è la condizione della poesia nel mondo attuale e per il confronto con l’essere “ultimo” e postumo che ha animato variamente la loro presenza e la loro opera. Come se dopo di loro poeti non ce ne siano o non ce ne possano essere più. Dire questo significa dar luogo a dissensi, risentimenti, commiserazioni, recriminazioni, nell’affollato mondo letterario, nei tanti poeti più o meno meritevoli che sono in attività, nei critici più o meno giovani che li seguono e li sostengono. Ma no: di poesia ce ne può essere ancora tanta (forse troppa); molti possono essere i poeti degni di attenzione, in Italia e nel mondo. Eppure mi sembra sempre più evidente che nel nostro paese Giudici e Zan14


zotto sono stati gli ultimi a vivere nella poesia un rapporto integrale col mondo, entro una coscienza culturale e critica di ampio respiro, come scommessa essenziale che chiama in causa tutto il senso dell’essere contemporaneo, la totalità del destino individuale e collettivo, personale e storico: la loro poesia è stata presenza, passione e critica, piena disposizione esistenziale e intellettuale. Sono stati gli “ultimi” di una grande generazione, venuta da lontano, formatasi in un universo di comunicazione in cui la letteratura copriva ancora un ruolo essenziale, poteva ancora ambire a (o credere di) raccogliere in sé i nodi centrali dell’essere contemporaneo, a tracciarne i confini e gli orizzonti critici: quando ancora la percezione della modernità non comportava un’interruzione di continuità con la tradizione, con la grande letteratura del passato. La poesia di “dopo”, quella delle generazioni successive, è stata ed è cosa diversa, si è trovata a percorrere la via di una sorta di parzialità culturale e comunicativa: le è stata recisa la possibilità di uno sguardo integrale sul mondo, mentre sempre più si riduceva il suo rilievo pubblico. “Ultimo” da questo punto di vista può essere considerato anche un grande poeta da Giudici e Zanzotto comunque assai lontano, della generazione immediatamente successiva alla loro, scomparso all’inizio del 2012, Elio Pagliarani, per la spinta del suo formidabile impulso ritmico, per la singolare percezione delle sfasature e dislocazioni in cui si dispiegano le cose, le presenze umane, i linguaggi, per il modo potente, vorticoso, avvolgente, straniante, in cui il suo ritmo si fa carico di tutta la complicazione e la contraddizione dei tempi attraversati. Negli explicit di Giudici e di Zanzotto il caso sembra sottoscrivere i diversi caratteri della loro poesia e della loro persona, i loro differenti abiti esistenziali e intellet15


tuali, ma anche alludere ai loro legami, alle qualità e alle occasioni che li avvicinano. Giovanni Raboni, in un profilo del 1986 sulla poesia italiana di fine Novecento, li ha collegati sotto un’insegna comune, entrambi entro una sorta di contraddizione (Grande stile e ironia), sottolineando nel contempo «la loro solitudine, anzi le loro due solitudini»: e ciò apre già una strada all’identificazione della loro particolarità, dell’eccezionalità della loro condizione “ultima”. Più recentemente Andrea Cortellessa ha ricordato la loro reciproca considerazione, manifestata da un certo numero di recensioni di Giudici a Zanzotto, a cui corrisponde una sola ma determinante recensione di Zanzotto a Il male dei creditori (Corriere della sera, 28 aprile 1977), raccolta in Aure e disincanti nel Novecento letterario con l’emblematico titolo L’uomo impiegatizio e Giudici: e ha notato come la successiva recensione di Giudici al libro del 1978, Il Galateo in bosco (l’Unità, 10 marzo 1979), raccolta in Per forza e per amore, con l’altrettanto emblematico titolo In questa lingua che passerà, assume un aspetto di vera e propria risposta. Partendo dalla felice formula del «vissuto dell’uomo impiegatizio nella sua versione più tetra, dalla prospettiva di un terziario strettamente condizionato dal neocapitalismo», Zanzotto notava la tendenza di Giudici «a contestare dall’interno» quello stesso modello, dando rilievo a una sorta di doppio, «un personaggio che, si nasconda nell’io nel tu o nel lui, è una caricatura del sé in quanto tipo, generalità». Verificava poi come ne Il male dei creditori si desse una vera e propria frana di quel modello, con l’affacciarsi di «un paesaggio di “rovine dell’impiegatizio” diventate qualcosa d’altro: spigoli, durezze, spaccati, ma anche soffici bisbigli, cantilenate fughe, fili amorfi e vaganti»; e puntava sul «mitologema» 16


del titolo, sull’avere creditori e sul sentirsi creditori, con questa determinante domanda/risposta: Credito/debito verso chi? Verso la soglia in cui muoiono e da cui vengono tutti i discorsi.

La “risposta” di Giudici prendeva avvio con un incipit in diretta ironica ripresa del motivo del «credito»: Andrea Zanzotto è il poeta che gode oggi in Italia del massimo credito.

La sua fama «oltre la cerchia degli iniziati», l’attenzione ricevuta dal mondo accademico, la sua qualità di «poeta difficile sul quale si può scrivere facilmente e anche troppo talvolta» comportavano il rischio, «paradossale per uno scrittore di tanta passione e purezza» di farlo «diventare un poeta à la mode». E Giudici identificava in lui «un dire riscoperto fenomenologicamente nel suo proprio impedimento a dirsi e pertanto coincidente in tendenziale totalità col soggetto poeta incapsulato nel bozzolo della lingua»: ne Il Galateo in bosco «una ricognizione di devastazioni», tra «frantumi di letteratura / convenzione» e «strade sbarrate» che alla fine portavano a evocare in modo per così dire rovesciato il celebre ultimo verso di The Waste Land di Eliot («These fragments I have shored against my ruins»): «Con queste rovine ho puntellato i miei frammenti» potrebbe scrivere oggi Zanzotto. Ma andrà avanti.

Questo scambio tra i due poeti lascia trasparire il filo che li collega nel loro stesso essere “ultimi”: mette in evi17


denza tutta una serie di dati che in parte li collegano, in parte li distinguono, come l’intelligenza critica, la condizione umana da cui emerge la loro poesia, il suo credito e apprezzamento pubblico, il rischio della sovraesposizione, l’azione fagocitante di tanto scrivere accademico sulla poesia (con l’eventuale moltiplicarsi di misurazioni e di analisi critiche), il vario manifestarsi e nascondersi del soggetto, il confronto pluridirezionale con la lingua, il rovesciarsi di rovine, di frammenti e frantumi dai variabili, indefiniti, molteplici contorni.

2. Intelligenza critica e tradizione poetica L’intelligenza critica è stata qualità essenziale in tutti e due i poeti, che pure l’hanno esercitata in modo diverso: come vari altri poeti del Novecento, sono stati tutti e due critici di rilievo, hanno nutrito la loro poesia di una fortissima coscienza critica e di una aperta disponibilità all’ascolto di altri poeti e scrittori, che hanno in un certo senso accolto dentro di sé, senza per questo deformarne l’interpretazione, senza trasformarli in diretti specchi di se stessi. Svolgendosi direttamente dal loro fare poesia, questo fare critico ha assunto su di sé la stessa qualità di attenzione integrale all’orizzonte culturale, al mondo e al suo destino: come la poesia, è stato un modo di essere, di confrontarsi con la realtà e con il linguaggio, di percepire il senso dell’esistere, di ascoltare le voci, le esistenze, le passioni del presente, di istituire un contatto con l’alterità, di interrogare le possibilità dell’umano. La loro critica, come la loro poesia, non si è mai chiusa in un appartato circolo di gusto e di esperienza, in qualche limitata couche esistenziale o teorica, ma ha sempre guar18


dato allo stato della cultura contemporanea, alla varietà e alla complessità delle forme e dei temi che si davano sulla scena del mondo: per quanto di essenziale la letteratura potesse dare alle nostre vite e alle nostre parole. Così in modi opposti, dalla dimessa colloquialità di Giudici al teso e sinuoso avvolgersi di Zanzotto, la loro critica appare lontanissima da ogni sistematicità e da ogni accademismo, dialoga direttamente con i suoi oggetti, non si atteggia in quella fastidiosa pretesa di superiorità interpretativa o di astratta scientificità che aduggia tanta critica ufficiale: non è operazione tecnica, ma storica ed esistenziale. Siamo quanto mai lontani dagli invadenti e stucchevoli “discorsi secondi”, dai giochi eccessivi e pletorici dell’interpretazione (propri di tanta critica accademica e di tante ermeneutiche postmoderne) come dalla disinvolta fatuità mediatica (verso cui spesso viene trascinata la critica militante e giornalistica). Proprio la loro qualità di poeti, che sentono quanto la loro poesia può essere violata dai possibili sguardi deformanti di una critica incongrua, li tiene lontani da un esercizio tecnicistico, da ogni hýbris dell’interpretazione. Più determinata in questo senso è la posizione di Giudici, la cui critica si svolge in proiezioni colloquiali, in osservazioni apparentemente incidentali, in formule che, toccando i punti nodali degli autori considerati, si dispongono “in situazione”, direttamente “agiscono”: con una urbanità e socievolezza comunicativa, che non arretra di fronte ai dati più complessi e problematici, ma sa toccarli con naturalezza, nel quadro di una razionalità spontanea e minimizzante, una sorta di illuminismo ironico e disilluso, che diffida di ogni sussiego e di ogni recitazione di “aura”. Giudici si sente estraneo ad atteggiamenti critici professionali, segnati da punti di vista in19


terni a qualche istituzione (sia pure quella degli addetti alla poesia). Così in una sua più distesa riflessione sulla condizione della letteratura, che prende avvio da una poesia non scritta (Lorenzo in Antibo: quel che diventa la letteratura, 1979, poi raccolto in La dama non cercata), mette in guardia dall’abitudine «di parlare (e scrivere) sulla scrittura dal punto di vista di chi potrebbe scrivere (e scrive) a sua volta». Più volte egli ha avanzato riserve (specialmente ai tempi dell’egemonia della semiotica e della linguistica) nei confronti di ogni critica che pretenda di imporre alla poesia modelli teorici precostituiti e autosufficienti e della complementare «ossessione dello scrivere versi già prefigurandosi il possibile discorso dello specialista»: ossessione, questa, che conduce all’esito per cui, «traviato in metodologo, il critico è virtualmente deresponsabilizzato di ogni giudizio che non sia quello della scelta del testo, in funzione […] della sua adattabilità alla metodologia; e, in questa situazione, è inevitabile che egli tenda a servire soprattutto se stesso, venendo meno alla sua funzione nei confronti del lettore». Al tecnicismo analitico egli ha sottratto anche la retorica, a cui pure ha sempre prestato grande attenzione, affermando il carattere spontaneo e naturale di certi suoi procedimenti; così in Andare in Cina a piedi (nella sezione Alcune cose da evitare): La retorica non è un sistema di regole astratte, ma codificazione di procedimenti nati dall’esperienza e riconosciuti di volta in volta come i più efficaci e forse connaturati ai modi del nostro intelletto, spontanei e naturali né più né meno che i modi di certi esercizi fisici quali il nuoto e la danza. 20


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