Gloria agli eroi del mondo di sognosfoglialibro

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Giancarlo Liviano D’Arcangelo

Gloria agli eroi del mondo di sogno Il gioco del calcio Racconto fantastico di un universo mitico


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Gloria agli eroi del mondo di sogno



Sommario

Olympiastadion, Berlino, 9 luglio 2006

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Il tempo del mito superiore

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Il tempo dell’azione mitica (1)

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Il tempo dell’azione mitica (2)

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Il tempo del mito sconsacrato

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appendice

Messi, l’automa

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Nessuna verità è adunque più certa, più indipendente da ogni altra, nessuna ha minor bisogno d’esser provata, di questa: che tutto ciò che esiste per la conoscenza, – adunque questo mondo intero, – è solamente oggetto in rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce; in una parola, rappresentazione. Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione



Olympiastadion, Berlino, 9 luglio 2006

La rotta verso la vittoria è unica per tutti, qualsiasi luce nereggi nei loro occhi, ed è il tempio magico dove il verde è più verde. Eppure sgorgano come lava svuotando ogni punto cardinale, orde colorate e carnevalesche che si accalcano le une sulle altre e marciano a passo lento, godendo di un’arsura che da queste parti, nell’antico Reichssportfeld, era divampata così persistente solo durante i bombardamenti alleati. L’Olympiastadion frattanto ribolle come una caffettiera. Lascia disperdere voci che tambureggiano all’unisono come in un canto gregoriano, preghiere di divinazione e di minaccia, perché ogni fede ha i suoi ululati. Ma poiché c’è ancora molto tempo prima dell’inizio dei giochi duri, le migliaia ancora a spasso si lasciano rapire dal grande luna park semovente, sono onde giocose e pacifiche, schiere irretite dai carrozzoni dei balocchi, dai bagarini circospetti e dai mangiatori di fuoco che s’incontrano sul cammino lastricato verso lo spettacolo della gloria, e nonostante la febbre collettiva si stia alzando vertiginosamente micron dopo micron, minuto dopo minuto, man mano che l’ordalia si avvicina al suo principio c’è persino chi riesce a fare affari, nei padiglioni degli sponsor e tra le bancarelle. Venditori di hot dog con i crauti, di würstel inzuppati di effluvi, budello arrostito e brace, ambulanti turchi coi nasi adunchi e il cappellino con la visiera verde acido, coi denti marci e una propensione naturale al compromesso quando si tratta di soldi. Offrono i loro coriandoli di stoffa ammassati, ordinati secondo i colori del patriottismo, ton-


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nellate di bandiere piegate in sei lati pronte a sventolare come banconote, e nella memoria nemmeno uno straccio di caduto. La visuale è fantastica, da qualsiasi zona della città si transiti verso quest’angolo di Grunewald. Un immenso Colosseo s’appresta a riempirsi e a ogni passo appare sempre più grande, e tutto ciò che accadrà lì dentro entro la fine di questo giorno sarà un brandello di storia, nient’altro che storia moderna. È la festa del mondo, è la festa delle nazioni. I più fanatici avanzano a piedi, uno, due o tre chilometri di percorso, e per come procedono bighellonando sembrano quindici o venti miglia, una vera maratona di pigmenti in carne e ossa liberi di zigzagare e cincischiare in una Berlino agghindata come una sacerdotessa, veemente nel riflettersi nel cielo azzurro per chi sta alzando gli occhi all’empireo implorando vittoria, per poi scomparire proprio da lassù l’attimo dopo, all’erompere immaginifico del fantasma della sconfitta, unica ombra possibile in quell’azzurro trascendente, in quel cielo così trasparente che sembra manchi davvero una spanna affinché da quaggiù, dai meandri brulicanti di dannati, da quest’inferno gioioso, si possano scorgere i cancelli del paradiso. Ma i cancelli del paradiso esistono davvero, e non sono lontani. Sono protetti dai tornelli e dai metal detector, e sono già presi d’assalto. I prescelti col biglietto in mano, o in tasca, scendono dagli autobus o dalle vicine stazioni che servono l’Olympiastadion, e tutte le anime, nessuna esclusa, desiderano proiettarsi al futuro, a nient’altro che al futuro, perché l’essere lì e respirare nel baricentro planetario dell’avventura e della vita inimitabile è sufficiente per sfamare ogni bocca con la parola addio. Addio al passato, addio ai giorni e addio alle notti che furono, addio all’amore, alle sue estasi, alle sue pene, addio al mastodontico volano di ricordi e delusioni, di speranze irrealizzate e di vuoti, quando il tempo della vita è la lunga marcia e quando il sogno è la rifulgente brevità del mito. Italia-Francia, a Berlino. Finale del Campionato del mondo di calcio. Ventidue uomini in campo, settantacinquemila in tribuna, più di un miliardo via satellite o via cavo, e almeno la metà di loro porta sulle maglie sudate un numero dall’uno al novantanove, cucito sulla schiena dalla diaforesi. Prevale soprattutto il dieci, perché nel linguaggio in codice che


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quest’oggi il mondo intero condivide e canta, il dieci significa primeggiare, essere il leader morale di un culto, e per strada portano addosso un numero e un cognome che non è il proprio, ma è quello di un dio. C’è scritto Zidane ma potrebbe esserci Enea sulle loro maglie, Enea o Lancillotto, la Z di Zidane, il genio d’Algeria, il tesoro che da solo basta a giustificare duecento anni di politica coloniale, l’eroe dei Campi Elisi, la Z che sembra impressa da una lama di spada come se fosse di Zorro. Oppure potrebbe essere Achille, o Ercole, e invece campeggia la H di Henry con il numero 12, quello destinato ai portieri di riserva secondo la numerazione tradizionale, e che su un mulatto alto un metro e novanta più agile di una pantera diventa un messaggio chiaro e forte, un brand. Henry 12. Io sono Henry 12, e dichiaro a tutti voi che la mia visione del mondo è quella del predatore, sono o aspiro a essere un campione o, in alternativa, un cacciatore veloce come il vento in grado di procurarsi il cibo e le donne, di correre più dei suoi nemici e delle bestie selvatiche, immettendo la massima fiducia nei muscoli oleosi, nella lotta, nella voglia di vivere primeggiando. E così sono in pochi ad accorgersi delle proprie pance o delle calvizie incipienti quando qualche leggero colpo di vento serale porta quel po’ di refrigerio. Anche la percezione di se stessi – le coordinate sul proprio corpo o sul proprio aspetto – è polverizzata dall’idea di futuro come unica dimensione spaziotemporale concepibile; un futuro lungo due o tre ore al massimo. Poi sarà apoteosi o tragedia, e morte e resurrezione, perché comunque vada si verrà ricatapultati nella vita oscena, laddove non tutti sono superuomini aitanti e grandi cacciatori che rendono gloria alle proprie tribù. Ma chi ha voglia di pensare? Il caldo si sente anche sulla nuova pelle. Si formano file sconnesse sotto i diffusori di vapore acqueo, e un gruppo di bambini che nemmeno si conoscono iniziano un girotondo liberatorio corredato da urla e risa. Anche se non si sono mai visti prima si prendono per mano, grado zero di sovrastrutture, e in un attimo gli indugi del pudore si disintegrano e scorrazzano indemoniati, si bagnano e ritrovano vigore e voglia di vivacità. L’Olympische Brücke è poco più indietro. È il ponte che deve percorrere chiunque proceda a piedi dal centro città verso l’iridescenza, e agglomerati di persone si fermano davanti a un


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giocoliere. Parrebbe slavo, e neanche a dirlo inscena spettacoli di abilità con il pallone. Palleggia, lo lancia in aria dopo averlo ossequiato in equilibrio sulla coscia e lo stoppa dopo una piroetta, e quando quello cade a precipizio come fosse di piombo, lo attanaglia tra il polpaccio e il bicipite femorale. Non sbaglia. A corredo, lancia nell’etere quattro sfere arlecchinesche ripiene di farina, leggerissime eppure paffute, e mette in scena una sorta di sistema solare, un sole ballonzolante intorno a pianeti satelliti che zampillano come pulci, e quando ferma il pallone sulla nuca in posizione da slalomista, chino sul bacino, e per magia le quattro sfere di stoffa gli cascano a intervalli di tempo regolari nei palmi delle mani spalancate, viene giù un’ovazione. Avvampa il desiderio comune di assistere a cose straordinarie prima che il sole scompaia e risorga ancora, e il giocoliere è l’uomo giusto per il preambolo. Appena si formano degli assembramenti in qualche punto dell’area circostante lo stadio, nell’arco di una manciata di secondi ogni cerchia si dilata, cresce a dismisura, e poco dopo si disperde, mosche in cerca d’altro da fagocitare. Affinché muraglie umane crescano come trincee di fango innalzate dalla fame di spettacolo è sufficiente che un ballerino di breakdance si dimeni e insegua il record di evoluzioni per ogni singolo decibel. D’improvviso si ferma e si rivolge alla cerchia che lo contempla con mosse aggressive, e forse il suo è uno spettacolo comico o vuole solo tirar su qualche spicciolo. Poco lontano un ragazzino emulatore dei rapper yankee per come si concia, berretto con visiera e maglietta e pantaloni che di corpi come il suo ne potrebbero contenere almeno un paio, affonda in paragomiti e ginocchiere. Non trovando spazio per una discesa, si esibisce nel freestyle, e anche lui si guadagna una claque di ammiratori. Almeno fuori dallo stadio un millimetro di palcoscenico lo possono rosicchiare tutti, salti da salmone verso l’alto, strappando via e riportando lo skateboard sotto le scarpe da ginnastica. Il sentimento dominante è condiviso: sembra veramente libera l’esistenza all’ombra dei cinque cerchi olimpici che si stagliano tra le due torri. Se c’è davvero un frangente in cui la vita assomiglia a quella caramellata della pubblicità è qui e ora, quando lo spettacolo al suo massimo grado di meraviglia si può ammirare così da vicino.


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Una famiglia di italiani vestiti da calciatori, come a una festa del giovedì grasso, è ferma intorno a un punto di ristoro non troppo lontano, e i due figli, un maschio e una femmina che paiono gemelli tranne che per i chiaroscuri invertiti tra carnagione e capelli, giocano con i parapetti d’acciaio a protezione di un dirupo. Complici, provano a riconoscere le bandiere in bassorilievo, ben sagomate ma decromatizzate, e ogni bandiera, presumono, appartiene a una nazione lontana. Quando il maschio ne riconosce qualcuna festeggia braccia alzate o imita l’esultanza dei calciatori che ha visto in televisione. Mima di stringere in grembo un neonato o mostra al cielo le proprie mani candide congiunte in un unico grande cuore, pollici e indici a contatto, e simbolicamente lo dedica al mondo intero accompagnato da sua sorella, come se insieme si preparassero a vivere proprio un persistente déjà vu, un codice binario fatto di tempo produttivo e tempo libero in osmosi. Poi provano a ritrovare il drappo vero sull’ultimo chilometro di Strasse, in stoffa e pennoni, quasi si tratti di una partita a Memory. «Campione del mondo!» urla il pargolo a missione compiuta. Poi mostra i muscoli a suo padre, ed ecco che finalmente qualcuno esprime con sincerità il desiderio che pulsa sotto pelle a ognuno e che è sempre lo stesso dalla notte dei tempi. Vincere, vincere e ancora vincere, anche per interposta persona. Le bandiere formano un colonnato, e immettersi in quell’ultimo istmo che sarà lungo due o trecento metri dà la stessa emozione che avanzare nella sala reale prima di ricevere l’investitura da cavaliere. Si respira solennità o si percepisce una missione, appartenere al grande mondo organizzato ed esserne fieri. Quasi i simulacri si possono toccare, un immenso pallone Adidas grande quanto la ruota della morte in cui si esibivano gli stuntman sulle moto da cross, gigantografie immobili come ballerine di lap dance evacuate dalla Hotzone, il quartiere imbottito di nightclub e bordelli presi d’assalto dai milioni di visitatori transitati in città durante la rassegna iridata. Un gruppo di drag queen si abbandona ai canti e di colpo il fascio di luce fatale le fulmina come un laser, quello formato dall’insieme di sguardi coordinati e guidati da impulsi sensoriali significativi, rumori, cigolii e bagliori intermittenti, il passaggio repentino di un elicottero della Polizei o l’esplosione di una bomba carta. Perché è il corpo a governare quest’oggi, il corpo con le sue esigenze. Il corpo e il suo alfabeto consacrato agli istinti primari.


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Man mano che i cancelli del paradiso si avvicinano, la tensione aumenta. Lo stadio visto dall’esterno è un connubio di futuro tecnologico e passato ideologico. Non è altissimo perché penetra nel terreno per una ventina di metri, come il cratere di un vulcano, ma il doppio giro di colonnati in pietra viva che Hitler aveva preteso possiede una certa maestosità ed è in grado di trasmettere timore reverenziale. Puro stile modernista conservativo. Razionalismo estremo e valori assolutizzati, decisionismo e maestosità in parti uguali. Ricorda il Pentagono per com’è basso e dispersivo. Ha più la silhouette di una caserma che quella di un’arena. Dentro il suo stomaco si sentono i decibel crescere, sono gli spasmi della fame, probabilmente nello stadio c’è già chi colpisce il tamburo a intervalli regolari, una marcia cupa verso il destino, e invece no, il rumore è esterno, sbuca un gruppo di nazi-skinhead che mima i gesti robotici di una falange militare. Camminano coordinando i piedi, passi destri e passi sinistri all’unisono, come in una danza macabra, ed è chiaro che vogliono solo provocare, perché la zona è presidiata dalle forze dell’ordine, militarizzata con truppe fantasma e agenti in borghese mimetizzati tra le famiglie. Dai cancelli non passa nemmeno uno spillo che abbia rapporti con la schedatura. I nazi stanno in silenzio e camminano tra la folla, una duna sabbiosa addensata e modellabile che al loro passaggio si apre come il Mar Rosso e tace, li asseconda. «Scheisse Ausländer!» si sente, un grido di battaglia disperato, «straniero di merda», e lo slogan è ripetuto una mezza dozzina di volte allo scopo di annunciare temerarietà e voglia di combattere. A dar fiato alla bocca è l’uomo in testa al gruppo, un marcantonio alto almeno due metri con la testa rasata e il simbolo delle SS tatuato sulla nuca. Indossa un bomber nero con i polsini rossi, un paio di bretelle sopra la giubba e gli scarponi militari d’ordinanza, e i suoi occhi si nascondono in antri così profondi che non è possibile scorgerne il colore. Provano ad avvicinarsi ai tornelli e inducono a un certo stupore e preoccupazione. Se avessero il biglietto d’ingresso sarebbe un problema non da poco, ma prima che possano posizionarsi in fila al solo scopo di disturbo un gruppo di agenti in tenuta antisommossa li avvicina e li accerchia amorevolmente, un golfo che accoglie il mare agitato. Ai nazi sta bene così. Meno di un


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mese fa da queste parti hanno pestato un italiano con le mazze da baseball, e qui intorno c’è una buona possibilità di trovarne altri, si direbbe, ma per il mese di giochi il governo ha varato misure punitive straordinarie. Per non parlare dei blitz negli appartamenti eseguiti in tutta la città, una retata studiata per mesi allo scopo di neutralizzare un commando inglese di nazi che si fa chiamare «Blood and Honour» e si è gemellato con i cagnacci berlinesi con la testa rapata. Bombe a mano e striscioni inneggianti alla liberazione della nazionale tedesca dai figli di immigrati. Connivenze con gli hooligans. E del resto, quale posto migliore della curva per forgiare delfini vogliosi di vita spericolata a far parte di un esercito? Dal loro fragoroso desiderio di giustizia s’è per poco salvato un uomo pingue di colore che si piazza sulla Strasse, costeggiata a destra da un magazzino di autotreni e materiali edili, container e mezzi pesanti, mentre a sinistra erompe il verde opaco della foresta che ottunde la vista sulla città in giubilo, e ancor più in espansione, al cui cospetto l’esistenza eterna della flora sembra solo bigiotteria. Lo stregone ha cinque pance ed è vestito come al Carnevale di Rio, t-shirt giallognola con al centro il bandierone del Brasile e un pennacchio di piume paillettate che sembra una palma trapiantata dal lungomare di Miami. E che ci farà mai una palma a Berlino? «Ordem e progresso!» urla con voce armoniosa e un accento dolcissimo, «ordem e progresso!» urla e sorride a chi gli passa vicino, e non appena attorno a lui si ferma un nugolo di spettatori conquistati dalla poderosa analogia del suo aspetto con la credenza universale di ciò che si può incontrare passeggiando a Copacabana, ecco che imbraccia le bacchette e inizia a percuotere il tamburo che porta legato al collo. Nel nome dell’antico rituale della danza si compie il miracolo della fratellanza. Nel nome suo e nel nome dello sport decoubertiano, perché nelle ore che precedono la battuta di caccia e solo in quelle tutto è lecito, anche l’amicizia tra nemici. Non esistono vendette né una reputazione da difendere nel proemio, non esistono Napoleone o la Gioconda, né la proverbiale maleducazione degli italiani o la spocchia transalpina da vendicare, come scrivono i giornali appicciafuoco. Basta solo partecipare al gioco della maggioranza e la vertigine è assicurata. E allora due gruppi folti, uno di italiani bardati dal tricolore da ca-


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po a piedi con cappelli da giullare ornati da una dozzina di campanelli, e uno di francesi che paiono un plotone di replicanti per come sono vestiti all’unisono in divisa nazionale con tanto di galletto a troneggiare sul cuore, si lasciano convincere e danzano insieme. Nasce un girotondo mano nella mano al ritmo tribale imposto da quel vecchio santone che fa da pifferaio magico, e non si capisce se il finto sciamano ha un ritmo giamaicano in testa o se affida al caso l’andamento delle percussioni. Quel climax proteiforme, votato a celebrare la vita metropolitana interrazziale, per poco non si va a far benedire ancora una volta quando un paio di adulti a petto nudo si fanno largo sgomitando per raggiungerlo. Intendono toccare il santone con le loro mani. Sembrano culturisti o buttafuori in discoteca, la bandiera italiana la portano annodata in vita, e quando si avvicinano a lui impugnano una birra e avanzano con movenze robotiche, e sembrano adorare l’ambiguità di cui sono conduttori. L’essenza della minaccia che incarnano è la loro estasi, siamo violenza caotica o siamo legittima difesa? Chi si accorge della scena ed è sobrio smette di ballare perché deflagra l’insidia del gesto inconsulto. Gli stessi spettatori occasionali, che prima scandivano il ritmo battendo le mani, ora vagolano via. Tedeschi, messicani, uno sciame di giapponesi, italiani, francesi e olandesi, ora girano i tacchi e orientano lo sguardo alle due alte torri di pietra conchilifera che sovrastano l’ingresso orientale dello stadio, e del resto nessuno è in cerca di grattacapi proprio adesso, a un baleno dal fischio d’inizio, non è così? Tuttavia è un falso allarme. Lo stregone è al sicuro. I due uomini hanno gli occhi slabbrati per l’alcol e l’espressione barricata e bronzea, non si sa se brancolano amorfi o se covano rabbia in cerca di un bersaglio, ma tutto si risolve in un rito scaramantico, sciamanico, gli toccano il pennacchio gialloverde e lo baciano in fronte, e poi gli chiedono di cantare una versione afro di ’O sole mio. Per gli astanti ardimentosi rimasti nei paraggi non ci sono dubbi, quel bacio è un gesto che equivale a una preghiera apotropaica, a un’invocazione divina, perché chi si affanna da queste parti lo sa bene: se gli dei del calcio esistono hanno sangue brasiliano. Esiste un dettaglio che accomuna tutti i settantacinquemila esseri umani che tra pochi istanti formeranno quella muraglia umana senza porosi-


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tà, ed è che al momento in cui varcheranno l’ultimo gradino e il manto verde apparirà dinanzi a loro, ognuno degli eletti si fermerà ad ammirare la scena per cinque o dieci lunghissimi secondi, pervaso dal fascino della rivelazione. Quanto complessa e quanto magnificente sa essere l’opera umana? Lo spettacolo che sta per esplodere è il risultato di guerre coloniali, guerre mondiali, rivoluzioni industriali, scoperte scientifiche, enormi avanzamenti nel campo dello studio anatomico e della scienza medica, e se non è un miracolo che la realtà ripresa a Berlino da una scatola di ferraglia salga fino allo spazio, rimbalzi su un satellite e si diffonda come luce solare in tutto il resto del pianeta, allora i miracoli proprio non esistono. Domina l’azzurro dappertutto. Palloncini che salgono guidati dal vento, persino la pista d’atletica che incornicia il prato ribolle di blu elettrico, e l’Olympiastadion sembra lungo dieci chilometri, con la sua forma ovoidale e le tettoie che uniscono le torri al Marathontor, il palcoscenico che dal 1936 ospita il braciere olimpico per volere di Goebbels e Speer, coloro che inventarono la cerimonia della fiamma olimpica. E come sono lontani i tempi nei quali assistere a una partita era un test di virilità, tribune rozze, scalinate di legno, la sedia solo se la si portava da casa. Oggi l’impianto è un gioiello per la celebrazione del tempo libero, non c’è odore che non sappia di sintetico e di disinfettante, è solo passato arcaico il profumo di fritto o di alcol emanato da migliaia di fiati che i vecchi frequentatori degli stadi ricordano come madeleine, la fragranza del tabacco o della nicotina, né si vede nessuno sgranocchiare i semi di zucca o bere un Caffè Borghetti. Il prato è addobbato, sembra l’habitat naturale della vita eterna, eppure lo spettacolo che si vede, il grande spettacolo visibile a una semplice occhiata così piena di sentimento, è solo la minima parte di ciò che esiste e pulsa sottotraccia. 113 palchi, 4500 posti business, 630 posti per macchine da presa, è enorme la dotazione nascosta dello stadio in fatto di tecnologie di ritrasmissione intercontinentale. C’è persino un impianto di sorveglianza inserito nella copertura, affinché dal quartier generale stipato chissà dove in città si spii senza essere spiati, e meraviglia delle meraviglie, ecco accendersi i due schermi giganti che penzolano ologrammatici. Nel loro volto luminoso verranno ripetuti gli highlights e i momenti più toccanti delle fasi di gioco, come in televisione, allo stadio come a casa. I


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primi sussulti tuttavia sono doni: come in una grande lotteria in mondovisione, a qualcuno del pubblico ma prima a donne e bambini è concesso di alternarsi in diretta planetaria alla teca degli eroi, con a disposizione perfino il tempo di riconoscersi, di emozionarsi, di salutare parenti e conoscenti. E non è finita. Sotto le due corone di spalti riempite dalla cerchia stregata pulsa un secondo universo sotterraneo: parcheggi, un ambulatorio, suite extralusso per clienti che dopo la partita hanno voglia di farsi una bella dormita, palestre, bagni, uffici della polizia, servizi per disabili. Tutto ciò che la Weltanschauung del progresso si aspetta da una grande nazione. Ma quanto manca agli inni nazionali? Ormai pochissimo. Un gruppo di signori anziani accede allo stadio tra l’incitazione generale. Sono tedeschi, autonomi e in salute. Potrebbero avere più di ottant’anni e sembrano i veterani di una grande azienda statale poi privatizzata che hanno ricevuto un premio alla memoria, e prima di rivolgersi a uno steward per capire qual è il loro posto sembrano fissare il Marathontor, quell’ampio pezzo di vuoto, e soprattutto ciò che emerge alle sue spalle, la torre del campanile, che dalla loro prospettiva s’innalza al cielo fallicamente sovrastando un sottosuolo massiccio. È la Langemarckhalle, il monumento ai caduti che divenne un luogo sacro e commemorativo della morte in massa di studenti tedeschi nel 1914 a Langemarck. Morte eroica dunque. La stessa che tra pochi minuti tutti si aspettano simbolicamente dai propri beniamini. Se morte dovrà essere, che almeno sia eroica, non c’è altro da augurarsi. I veterani riprendono fiato. Hanno bisogno del loro tempo, e tra un respiro e l’altro si ricordano di quando scorrazzavano da queste parti a sei anni, in braghe corte e camicia, biondissimi in cresta e adamantini sulla pelle, e con un po’ di fortuna era possibile incrociare sui velocipedi le Mercedes nere e sprezzanti che a bordo portavano Albert Speer l’architetto, Joseph Goebbels il propagatore, o addirittura il Führer in persona. Pensano che sia un fatto di onestà intellettuale rianalizzare con calma il passato, e che tutto sommato non c’è niente di male ad ammetterlo: quello Speer in termini di monumen-


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talità e scenografia ci sapeva fare. Le sue Erinnerungen. Chi se li scorda quei fantastici castelli di bandiere? Anche se a dirla tutta Speer si occupò di limare i dettagli del progetto originale del meno noto Werner March, e il ricordo allora rimanda subitaneo ai calendimaggio dell’infanzia. Anni di speranza, prima e dopo i Grandi Giochi Olimpici che mostrarono al mondo intero la potenza organizzatrice della grande nazione tedesca, e poi il patatrac, il trionfo di Jesse Owens la pantera nera sulla razza ariana. L’intero, l’immenso Campo di Maggio gremito in ogni millimetro cubo, ginnasti e volk insieme, cinquecentomila persone unite da un intento comune, come no? nient’altro che salutare la primavera. Ma i vecchi ricordano bene anche l’Olympiazug, una vera e propria impresa moderna che poi si è evoluta fino a convergere nei moderni tour elettorali dei presidenti, e che nel mondo contemporaneo potrebbe essere una trovata pubblicitaria riciclata da un brand di pneumatici. Era un interminabile corteo di camion e rimorchi che percorse più di diecimila chilometri per le campagne tedesche, da nord a sud e da est a ovest, un tentativo di coinvolgere la popolazione rurale nella leggendaria festa dello sport attraverso gli ideali nazionali della purezza di spirito e della sanità corporea. Rimorchi trasportavano delle tende che una volta spianate si tramutavano in effigi di discoboli della Grecia classica, di lottatori di pancrazio, di atleti tedeschi in pose aspiranti alla perfezione muscolare e a modelli virtuosi di fisici aerodinamici, opere d’arte sportiva e modellini dei nuovi impianti monumentali che stavano sorgendo in tutto il paese. Ma quelle adunate, milioni di voci e di menti all’unisono, ora sono soltanto passato, e l’enorme maggioranza dei presenti, si sa, non prova alcun interesse per il passato, specialmente adesso. Una voce dagli altoparlanti dice «ladies and gentlemen»… ed è la prima scarica. La massa è ancora compatta, braccia libere per applaudire e piedi liberi per pestare il cemento armato, e il rumore sale fragoroso ma omogeneo. Ai bordi del campo formicolano centinaia di persone tra fotografi, i soliti steward e gli addetti al campo che indossano una pettorina verde. Di colpo, teleguidati, si disperdono sui lati del terreno di gioco come se fossero state scavate occasionali trincee. È un segnale inequivocabile del principio: il campo di battaglia è sgombro ed è pronto a essere percosso. La Coppa del mondo, scintillante, luccica su un piedistallo, ed è così


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piccola. Un immenso sogno condiviso e un simulacro così minuto a rappresentarlo. La colonna sonora ufficiale della manifestazione viene diffusa a mille decibel e scende e copre ogni altro brusio, e su quelle note che richiamano al contempo gioia e fierezza si concretizza il primo contatto con il fantasmatico e il perturbante. I calciatori escono dal tunnel degli spogliatoi e sono tesi, percorrono a passo lento i primi metri di campo, l’applauso dei settantacinquemila ribalta la prospettiva sonora. È di nuovo la massa a trionfare in questo istante. Si mostra, fa sentire che è viva e che freme, e avvistare la sagoma muscolosa e rampante degli atleti è per tutti una liberazione. L’attesa era un orizzonte di tempesta, e ora è finita. La disposizione in fila indiana e la sfilata erano state organizzate nel tunnel, in diretta sui maxischermi. Ufficiali di gara in testa e poi i morituri, ma il flashback è solo un dettaglio. Non è forse la peculiarità dei rituali quella di suscitare sensazioni di pari valore a quelle improvvise, anche se chiunque vi partecipi ne conosce ogni passaggio? I ventidue eroi procedono. Alzano il braccio alla folla. Mo-ri-tu-ri te salutant. Fino a oggi e per tutto il corso del grande torneo sono stati esaltati perché vincenti, coccolati, modellati, invidiati, emulati e amati, ma domani? Resterà qualcosa del loro poderoso cammino di conquistatori, della gloria ottenuta nelle battute di caccia precedenti contro le fiere forti, feroci e lestissime uccise simbolicamente giorno dopo giorno, steppa dopo steppa? Saranno esaltati e premiati anche in caso di sconfitta o riceveranno odio e vessazioni da chi adesso giura e spergiura di venerarli? La verità è che non sembrano affatto curarsene, la loro prospettiva è l’immediato che incalza mentre avanzano a mento alto, concentrati, imperturbabili e perché no, nervosi, forse impauriti. Del resto sono esseri umani e alcuni molto giovani, il peso delle responsabilità è enorme. Ma è lo status di eletti a caricarli inesorabilmente di responsabilità. Gli eletti dell’arte pedatoria nazionale, la coorte di migliori a cui demandare la difesa dell’orgoglio e della gloria di due popoli, perché ogni epoca ha i suoi metodi. Reminiscenze del passato che ancora funzionano come propellente del mito, e se si considera che per i milioni davanti allo schermo dall’Etna alla Normandia non è che corrano tempi particolarmente flo-


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ridi in quanto a libertà individuale e contingenze economiche, in quanto a libertà dello sfruttamento dei molti da parte dei pochi e in quanto a buon governo e giustizia sociale, allora la responsabilità di questi ragazzi aumenta vigorosamente. Sono loro a incarnare la gloria e la dimenticanza, è loro il compito di cancellare lo sfruttamento, i divorzi, tutte le isterie, le ingiustizie, i buoni propositi e quelli cattivi. Nel bene e nel male saranno strumentalizzati in prima pagina, incoronati come incarnazioni dell’araba fenice. Vento di conversione verso la giustizia, la rinascita, la palingenesi, i motori dell’economia. Oppure uccelli del malaugurio, esempi di decadenza, della mollezza della gioventù che è cresciuta senza il trauma formativo della guerra, vessilli della corruzione o del malcostume, miliardari da strapazzo. Se vinciamo sarà la rinascita, se perdiamo sarà la fine, è questo che vogliono credere i testimoni. Palingenesi o estinzione. Prima del gioco, tuttavia, c’è ancora spazio per i rituali. È il momento degli inni nazionali. I morituri lasciano la mano ai bambini che li hanno accompagnati sul campo e si dispongono su un’unica fila orizzontale, rivolti alla tribuna d’onore. Le due compagini sono divise dalla terna arbitrale, e quando la musica sale al cielo frattanto brunito, la regia produce la sua prima, lunga mise en abyme. Indugia sui volti dei calciatori, primi piani strettissimi che puntano a mostrare le sensazioni più recondite, le pulsazioni e i tic nervosi, ed ecco la seconda scarica d’adrenalina, l’apertura di un microfono da campo che svela le voci gladiatorie atte a intonare l’inno nazionale, prima gli italiani con l’Inno di Mameli e poi i francesi con la Marsigliese, e il fatto che i calciatori cantino è una richiesta espressamente formulata dalle televisioni alle federazioni nazionali. Il canto scalda gli animi, è un cristallo magnetico di partecipazione, qualche stonatura va bene. Aiuta la mente a percepirli uomini veri, specializzati come atleti. E sono belli i loro volti, bellissimi. Bellissimi qualsiasi sviluppo pittorico decretino i lineamenti. Sono belli perché carichi, profondamente umani, ed è questo l’attimo in cui sta avvenendo la trasformazione, e i calciatori vivono attimi di pura ascesi. La partita in sé, per l’intero suo tempo di durata, sarà la parabola intera del processo di metamorfosi collettiva, di chi gioca e di chi assiste.


24    Gloria agli eroi del mondo di sogno

Sarà il frangente in cui il vero diventa un momento del falso, e tutti i partecipanti al rito ritornano a un grado di esistenza autentico, in cui a trionfare è la signoria dei sentimenti sulla tirannia del mercantile: esperienza compiuta di vita e umanità compiuta.* E se per i calciatori l’ascesi è già un momento del vero, per gli spettatori quello degli inni è invece un ultimo anelito di falso imperante, di rituale. Il vis-à-vis esaspera simpatie e antipatie, stimola il giudizio sommario, come il patibolo. La passerella procede lenta, la telecamera indugia tentacolare sugli indicatori principali degli stati d’animo, occhi acquitrinosi e solenni, mandibole acuminate, zigomi infuriati. Ventidue uomini in campo e ventidue visioni della vita, condensate in una varietà di scelte aeriformi, da cui si potrà sempre abiurare. Gli italiani. 10 – francesco totti. Trequartista. Ciuffo ingelatinato e occhi taglienti, quelli d’er più del rione. La vita come incarnazione di un dogma indiscutibile ma arcaico e pretecnologico, diffusosi solo dove il messia è nato. Buddha, Krishna, Zoroastro, la vita del forgiatore di anime e dello scuotitore di cuori. Nel suo feudo, a un suo comando migliaia di uomini ma anche donne e bambini sono pronti a rispondere e a proteggerlo, a incitarlo, a rendergli omaggio, a lottare per lui, a schiumare rabbia contro chi lo discute e non si limita a blandirlo. E al contempo la vita genuina di quartiere, la romanità più autentica che non ci si può scrollare di dosso. L’istinto assoluto e la forza esplosiva. Coraggioso, bullo, furbo, lamentoso, a un passo dal genio ma privo di genio. Del genio gli manca la capacità d’accesso all’impossibile. Spesso fa tutto il possibile, ma non l’impossibile. E sull’erba non vola, tracima campo con la potenza gladiatoria, cui unisce fulminee visioni panottiche. Tanti lo venerano. 20 – simone perrotta. Interditore. Testa alta, occhi vividi e aria tonante nei polmoni. La vita di chi deve tutto alla tenacia, all’impegno giornaliero, alla tigna e alla generosità gratuita verso il prossimo suo, evocando una fedeltà impossibile da non contraccambiare. L’uomo che conosce se stesso e sceglie a chi appartenere, proteggendo con la fatica tutto ciò che ci si è guadagnati metro dopo metro. Un inaspettato numero di ammiratori, agguerriti, con altissimo coefficiente di rispecchiamento. *

Da Salvatore Bruno, L’allenatore, Vallecchi, Firenze 1963.


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