Higgs e il suo bosone

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Ian Sample

Higgs e il suo bosone La caccia alla particella di Dio Traduzione di Paolo Bartesaghi


Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © Ian Sample, 2010, 2013 © il Saggiatore S.p.A., Milano 2013 Titolo originale: Massive: The Hunt for the God Particle


Higgs e il suo bosone ai miei genitori



Sommario

Prologo

9

1. La lunga strada verso Princeton

13

2. L’ombra della bomba

27

3. Settantanove righe

51

4. Il principe azzurro

74

5. Una seria rivincita

93

6. Il ribelle di Reagan

126

7. Grande Maggie!

150

8. La fine non è vicina

171

9. Il nodo gordiano

198

10. Girare in tondo

219

11. Il mondo nascosto

240

Epilogo

255

Ringraziamenti

285

Note

289

Bibliografia

311

Indice analitico

315



8. La fine non è vicina

In un qualche luogo, al di sotto del livello stradale, su un’isola altamente popolata subito a est di Manhattan, uno sfortunato evento sta per accadere.1 Un acceleratore di particelle, che ha funzionato per anni senza problemi, sta facendo collidere ioni d’oro uno contro l’altro. È quello che ha sempre fatto, dalla sua accensione in poi. Le collisioni sviluppano così tanta energia che i protoni e i neutroni negli ioni fondono all’impatto, producendo una zuppa bollente di quark e particelle di legame, chiamate gluoni. La prossima collisione ad aver luogo risulterà però completamente diversa dalle precedenti. Di solito, quando gli ioni collidono, i quark che alla loro formazione risultano liberi si raggruppano di nuovo a formare innocue particelle subatomiche. Questa volta, però, i quark si ricombinano in un modo ritenuto dagli scienziati così poco probabile da non essere neppure preso in considerazione. L’insolito granello di materia viene scagliato fuori dalla camera principale dell’acceleratore e va a conficcarsi all’interno di uno dei giganteschi magneti che circondano i rivelatori. Una volta intrappolato nel campo magnetico, il frammento si comporta in modo curioso: inizia ad attrarre e inghiottire gli atomi che lo circondano. Aumentando di dimensioni, entra in contatto con un numero sempre più grande di atomi vicini, divorandoseli a uno a uno. Raggiunta la dimensione di un atomo ordinario, cade inosservato sul pavimento del laboratorio e sprofonda immediatamente attraversando il cemento e il terreno sottostante.


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Ormai perso di vista, il frammento in continua crescita cade spiraleggiando verso il centro del pianeta, trasformando tutta la materia che incontra e rilasciando abbastanza calore da fondere le rocce e i minerali. Un istante dopo, la terra a sudest di New York comincia a tremare e a scricchiolare e, poco più tardi, dopo che le città si sono ripiegate su se stesse e gli oceani sono evaporati, l’intero pianeta Terra collassa e tutto ciò che rimane del mondo è una calda palla di materia non più grande del Lord’s (il campo di cricket nei pressi di Londra, uno dei più antichi al mondo). Frank Wilczek di solito non passava le sue estati a valutare simili folli scenari apocalittici. La sua routine consisteva nell’andare nel New Hampshire a godersi il Sole e il cambio dei ritmi di vita nel suo amato ritiro fuori città. Non c’erano telefoni in quella casa e chiunque lo cercasse doveva aspettare. Così andavano le cose di solito, almeno. Nell’estate del 1999 tutto andò diversamente. Alcune settimane prima, due lettere giunsero alla redazione di Scientific American. Sollevavano alcuni dubbi e preoccupazioni in merito a un nuovo collisore di particelle che stava per essere costruito a Long Island. Alcuni mesi prima, infatti, la rivista aveva pubblicato un articolo dal titolo «Un piccolo Big Bang» dedicato alla nuova macchina, il Relativistic Heavy Ion Collider (rhic), più familiarmente conosciuto come «Rick».2 Rick venne progettato per far collidere ioni d’oro, in modo che gli scienziati potessero studiare la materia esotica che si pensa abbia costituito l’universo nei primissimi istanti dopo la sua creazione. Una di quelle lettere su Rick giunse dalla British Columbia in Canada, da parte di un certo Michael Cogill: «Temo che i fisici si stiano muovendo in modo troppo disinvolto su un terreno estremamente pericoloso» scrisse. «Che cosa accadrebbe se dovessero in qualche modo alterare le leggi profonde della natura in modo che non possano più essere ripristinate?» L’altra lettera, invece, giunse per email dalle Hawaii, da parte di Walter Wagner. Wagner si chiedeva se gli scienziati potevano escludere, con assoluta certezza, il pericolo che Rick creasse accidentalmente un buco nero in grado di inghiottire la Terra in pochi secondi. Le lettere furono il punto di partenza per una sorta di «campagna di sensibilizzazione alla salute», condotta dai media nel confronti della fisica delle particelle. Le domande dei lettori erano perfettamente legittime almeno in quanto sollevavano alcuni problemi scientifici interessanti, ma


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gli eventi che scatenarono risultarono tanto grotteschi quanto lo scenario apocalittico descritto all’inizio. Il disastro culminò con un’azione legale che minacciò di far chiudere tutti i collisori americani ed europei: un risultato che avrebbe definitivamente posto la parola fine alla ricerca della particella di Higgs. La redazione di Scientific American decise allora di rispondere alle domande dei lettori, affidando il compito a uno dei ricercatori di punta nel campo. Chiamò, infatti, Frank Wilczek, chiedendogli la cortesia di scrivere una risposta. Egli la scrisse e la inviò alla rivista poco prima di partire per il New Hampshire. Il pezzo sarebbe apparso accanto alle lettere nel numero di luglio. Wilczek spiegava che difficilmente si sarebbero potuti formare buchi neri in Rick, ma la sua risposta non si limitò a questo. Il pezzo proseguiva, infatti, mettendo in luce un’altra, per quanto essenzialmente teorica, «ragionevole» possibilità, cioè che un’altra forma stabile di materia, chiamata materia strana o strangelet, potesse formarsi all’interno dell’acceleratore.3 Egli scrisse: «Potrebbe trattarsi di una transizione simile a quella del cosiddetto ghiaccio-nove.4 In tale stato, uno strangelet potrebbe crescere incorporando e trasformando la materia ordinaria che lo circonda». La sua risposta si concluse riaffermando che anche una particella strana come uno strangelet risultava una causa assai poco plausibile per la distruzione globale del pianeta. Tale risposta sembrò abbastanza confortante. Rassicurava i lettori sul fatto che non ci fosse alcun motivo per temere che si formassero a breve termine buchi neri al di sotto di New York e in più introduceva un affascinante concetto teorico, come nuovo stimolo di ricerca. «Ritenni di dover usare tale opportunità per dire qualcosa di nuovo» mi disse Wilczek dieci anni più tardi. «Era scientificamente più interessante parlare degli strangelet e avrebbe reso la mia risposta assolutamente più accattivante. In quelle righe volli dire qualcosa che suonava come: “Se proprio vuoi preoccuparti di qualcosa, allora preoccupati di questo!”» Quando però la risposta di Wilczek giunse a Scientific American, gli editori si accorsero che era troppo lunga e così decisero di tagliarla di circa un terzo.5 Purtroppo, però, tali interventi ne modificarono in modo significativo il tono e nella versione finale la risposta di Wilczek apparve molto più ambigua in merito ai pericoli delle possibili scorrerie degli


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strangelet nella materia ordinaria. Come disse sempre Wilczek: «Risultò molto meno chiaro, da quella versione, che anche lo scenario che prevedeva la formazione degli strangelet era di fatto assai poco probabile». Al Laboratorio nazionale di Brookhaven, dove il collisore era ormai pronto a entrare in funzione, il direttore, John Marburger, venne a sapere che la rivista stava per pubblicare le lettere e la risposta di Wilczek. Marburger era stato catapultato alla direzione dell’impianto di Brookhaven un anno prima, quando una perdita innocua di materiale radioattivo da uno dei reattori di ricerca del sito aveva scatenato una protesta pubblica.6 Le reazioni contro il laboratorio furono così forti che il Dipartimento dell’Energia fece spegnere il reattore e ordinò un’operazione di bonifica costata diversi milioni di dollari. Marburger, che in seguito avrebbe collaborato come consulente scientifico con l’amministrazione del presidente George W. Bush, scorse all’orizzonte un’imminente tempesta. Scientific American era una rivista seria. Frank Wilczek era un fisico famoso e brillante. La comunità locale era diffidente nei confronti del governo e della sua gestione del laboratorio. Le lettere, e in particolare la risposta di Wilczek, contenevano tutti gli ingredienti per produrre un disastro quantomeno sul piano delle relazioni pubbliche, se non qualcosa di più catastrofico a livello globale. «Compresi subito che sarebbe diventato un problema» disse in seguito Marburger. «Anche una piccola probabilità diventa un grosso problema quando è in gioco la distruzione della Terra.» Prima che Scientific American andasse in stampa, Marburger riunì un comitato di fisici. Chiese loro di prendere in considerazione tutti i possibili scenari di emergenza, anche i più inverosimili, che il collisore avrebbe potuto rischiare anche solo lontanamente di mettere in moto. «La prima persona che contattai perché facesse parte del comitato era Frank» disse Marburger. «La mia posizione era: ok Frank, hai iniziato questo casino, ora ci devi aiutare a sistemare le cose.» Pochi giorni dopo l’uscita del numero incriminato di Scientific American, la tempesta prevista da Marburger arrivò davvero. Il 18 luglio il Sunday Times, quotidiano di Londra, pubblicò un articolo dal titolo: «La macchina del Big Bang potrebbe distruggere la Terra». L’articolo parlava del fatto che Rick fosse «sotto inchiesta» e del fatto che Marburger avesse istituito una commissione di esperti per riferire sulla possibilità che «il


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progetto potesse portare a un disastro globale». Un editoriale di accompagnamento dichiarava: «Gli uomini in camice bianco ci faranno finire nell’oblio di un buco nero da loro stessi creato». I giornali inglesi non sono rinomati per la loro moderazione nei mesi estivi. Altri media inevitabilmente ripresero la storia. Alcuni definirono Rick la «macchina del giudizio universale». L’ufficio stampa di Brookhaven venne subissato di chiamate. Una persona volle sapere se fosse stato un buco nero creato dalla macchina ad aver abbattuto l’aereo di John Fitzgerald Kennedy Jr.7 In una dichiarazione volta a chiarire la situazione, Marburger ricordò alla gente che «gli scienziati non sono disposti a mettere in pericolo il mondo, o se stessi, più di chiunque altro». Tutti volevano parlare con Frank Wilczek ma lui era già partito per il New Hampshire. «Lì, non avevo una linea telefonica e in quel periodo non avevamo cellulari, ma fui assediato dalla stampa di tutto il mondo. Dovetti raggiungere in auto il telefono pubblico più vicino per rispondere loro» disse Wilczek. Lo scalpore destato dalla notizia non risultò del tutto negativo per il collisore. L’articolo del Sunday Times garantì pubblicità alla macchina e per ogni articolo che proclamava la fine del mondo ce ne furono molti altri che mantennero i piedi per terra e spiegarono il valore degli esperimenti eseguiti a Brookhaven. Intanto, a Ginevra, la direzione del cern si rese conto che il laboratorio europeo poteva rappresentare un ovvio bersaglio per quella minoranza che aveva la chiara intenzione di voler far chiudere tutti gli acceleratori di particelle. La gigantesca macchina del lep sarebbe rimasta in funzione ancora per un anno o giù di lì e non aveva ancora distrutto il mondo. Ciò che più spaventava al cern era la prospettiva di una reazione pubblica contro il Large Hadron Collider, che era destinato a diventare il più potente acceleratore di particelle del mondo. La scoperta della particella di Higgs sarebbe stata compromessa per sempre se il progetto della macchina fosse stato abbandonato a causa di un crollo del consenso pubblico. E, insieme a lei, una nutrita serie di altre teorie sarebbe finita nel limbo delle idee non verificate. In via precauzionale, il direttore generale del cern, Luciano Maiani, nominò un proprio team di fisici con lo scopo di effettuare una revisione della sicurezza del nuovo acceleratore. Le indagini condotte dai Laboratori nazionali di Brookhaven e del


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rappresentarono sicuramente il primo caso nella storia in cui i governi invitarono gli scienziati a riflettere sull’eventualità che gli esperimenti di laboratorio rischiassero di distruggere il pianeta. L’unica situazione analoga era stata quella del 1945, quando gli scienziati Emil Konopinski e Edward Teller del Progetto Manhattan calcolarono la probabilità che l’esplosione di una bomba nucleare innescasse una reazione a catena in tutta l’atmosfera terrestre. Stabilirono che ciò era impossibile, almeno con le bombe che avevano tra le mani, anche se questo non impedì a Enrico Fermi di accettare scommesse sull’eventualità che il mondo finisse quando la prima bomba atomica venne fatta esplodere il 16 luglio dello stesso anno presso il sito del Trinity Test. I comitati per la sicurezza raccolti dal Laboratorio nazionale di Brookhaven e dal cern analizzarono alcuni possibili scenari potenzialmente catastrofici per il pianeta. Tra questi, la creazione accidentale di pericolosi strangelet (alcune varietà si ritiene siano del tutto innocue), la produzione di un buco nero che inghiotta la Terra in un batter d’occhio, la creazione di monopoli magnetici che distruggano gli atomi e uno scenario estremo noto con il nome innocuo di «decadimento del vuoto». Il riferimento di Wilczek al ghiaccio-nove venne ripreso da un romanzo del 1963 di Kurt Vonnegut, dal titolo Cat’s Cradle (Ghiaccio-nove, appunto, in italiano). Nel romanzo veniva descritto un mondo trasformato dal rilascio accidentale di una forma alternativa e più stabile di ghiaccio sviluppata dai militari. Il ghiaccio-nove era stato progettato per risolvere i problemi creati dal fango alle truppe dell’esercito e ai veicoli militari, che vi si di impantanavano. Un singolo frammento di ghiaccio-nove gettato in una distesa fangosa agisce come nucleo di cristallizzazione, un punto cioè al quale le molecole d’acqua circostanti si attaccano, solidificando in una nuova struttura cristallina dura come una tavola. A differenza della normale acqua ghiacciata, il ghiaccio-nove non si scioglie fino a una temperatura di 45,8 °C. Un anno prima che Ghiaccio-nove venisse pubblicato, alcuni scienziati russi avevano creato qualcosa che faceva sorgere timori simili a quelli prospettati nel romanzo. Nikolai Fedyakin era un chimico che lavorava in uno sconosciuto laboratorio governativo a Kostroma, nella Russia centrale. Egli spese molto del suo tempo a studiare il comportamento dell’acqua entro tubi capillari di vetro. Un giorno, esaminando alcuni cacern


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pillari riempiti d’acqua fino a metà, si accorse che, sopra il livello originale dell’acqua, erano apparse alcune piccole gocce separate. Nel tempo, queste gocce aumentavano di dimensioni a spese dell’acqua sottostante. I test dimostrarono che queste nuove gocce d’acqua erano di fatto molto più dense dell’acqua normale. Fedyakin rimase sbalordito. I suoi esperimenti portarono alla scoperta di una nuova fase dell’acqua, uno stato più stabile e in grado di trasformare l’acqua pura con cui entrava in contatto. Le grandi scoperte non restano a lungo nei laboratori minori. Quando uscì la notizia della sensazionale scoperta, il lavoro di Fedyakin venne trasferito a Mosca, dove uno degli scienziati russi più autorevoli, Boris Deryagin, prese il posto di Fedyakin nelle ricerche sulla nuova fase dell’acqua. Deryagin, che era conosciuto per essere uno scienziato meticoloso e scrupoloso, ripeté con successo gli esperimenti di Fedyakin e dichiarò quindi pubblicamente la scoperta dell’«acqua anomala», un nuovo e prima sconosciuto stato del liquido più prezioso per la vita.8 L’intera comunità scientifica si mantenne profondamente scettica in merito, fino a che un team di scienziati dello US Bureau of Standards pubblicò uno studio che confermava i risultati russi. Il team analizzò come l’acqua anomala assorbisse la luce infrarossa e osservò un comportamento completamente diverso dall’acqua comune. Si spinse fino al punto di rinominare il liquido con il nome di poliacqua, nella convinzione che le molecole d’acqua si legassero a formare un polimero simile a un gel, composto da lunghe catene e anelli esagonali. La poliacqua sembrava condividere alcune caratteristiche inquietanti con il ghiaccio-nove. Alcuni scienziati ritenevano che fosse più stabile dell’acqua ordinaria e che fondesse a una temperatura superiore a quella del ghiaccio. Se ciò fosse stato vero e fosse mai stata prodotta e rilasciata nei corsi d’acqua del mondo, avrebbe potuto polimerizzare tutte le risorse idriche del pianeta. In altre parole, le molecole d’acqua si sarebbero collegate fra loro a formare macromolecole come quelle che possiamo trovare nella plastica. Le conseguenze immaginabili per la vita sulla Terra sarebbero state terribili. Nel mese di ottobre del 1969, la rivista Nature pubblicò la lettera di un lettore, F.J. Donohoe, del Wilkes College in Pennsylvania, che chiedeva garanzie agli scienziati sul fatto che la poliacqua fosse sicura. «Le conseguenze di eventuali errori in questo contesto sarebbero così gravi che risulta accettabile solo una prova diretta che


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non ci sia pericolo alcuno» scrisse Donahoe. «Ritengo che il polimero sia il materiale più pericoloso sulla Terra […]. Gli scienziati di tutto il mondo devono essere avvertiti della necessità di usare estrema cautela nello smaltimento della poliacqua. Essa va trattata come il più letale dei virus fino a quando non se ne sia stabilita l’assoluta sicurezza.» La poliacqua acquistò credito presso la comunità scientifica, anche se molti scienziati non ne erano ancora convinti. Sostenevano che, se ci fosse stata davvero una forma più stabile d’acqua, avremmo certamente dovuto trovarla già da tempo sotto forma di pellicole appiccicose. Il fisico Richard Feynman sottolineò anche che, se la poliacqua fosse stata reale, milioni di anni di evoluzione avrebbero prodotto una creatura il cui unico modo per sopravvivere fosse assorbire acqua ordinaria e secernere poliacqua, dato che la trasformazione avrebbe liberato l’energia necessaria all’organismo. Come sospettava Feynman, la poliacqua si rivelò un’assurdità. Dopo anni di esperimenti, gli scienziati conclusero che l’unica cosa che distingueva la poliacqua dall’acqua normale era il fatto che conteneva impurità, molte delle quali sembravano provenire dai capillari di vetro nei quali era stata mantenuta. Dall’eccitazione della scoperta all’imbarazzo dell’ammissione, la vicenda della poliacqua riuscì ad attrarre l’attenzione di scienziati, e non, per oltre un decennio. I timori che la poliacqua facesse ghiacciare i fiumi e gli oceani del mondo si calmarono rapidamente, ma la prospettiva che una qualche forma esotica di materia fosse in grado di trasformare la Terra no. Pochi anni dopo che il polverone si era diradato, un fisico americano di origini cinesi, di nome Tsung-Dao Lee, vincitore del premio Nobel, e un teorico italiano, Gian Carlo Wick, ipotizzarono che gli acceleratori di particelle fossero in grado di far collidere nuclei atomici uno contro l’altro in modo così violento da farli collassare in una nuova forma stabile e incredibilmente densa di materia. Lee fu così eccitato all’idea da proporre di unire due acceleratori di particelle per vedere se gli scienziati fossero in grado di produrre una piccola quantità della «materia anomala». Gli ingegneri del Lawrence Berkeley Laboratory in California si misero al lavoro. Riadattarono due acceleratori collegandoli in modo che uno sparasse nuclei atomici nell’altro, il quale li accelerava ancora di più prima di farli finire contro un bersaglio. Quando la macchina venne accesa,


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a metà degli anni settanta, gli scienziati non avevano la certezza di riuscire a creare la «materia anomala» di Lee e Wick. Ciò che sapevano era che, se ci fossero riusciti, la cosa non sarebbe stata del tutto sicura. Nel maggio del 1979, anni dopo l’accensione del Bevalac,9 ma prima che iniziasse l’accelerazione di ioni pesanti come l’uranio, gli scienziati che dirigevano il laboratorio si incontrarono in segreto per discutere se ci fosse qualche probabilità che la macchina creasse materia anomala e se la cosa rappresentasse un serio rischio.10 Ancora una volta sembrava incombere uno scenario globale simile a quello del ghiaccio-nove. Se la materia anomala fosse stata più stabile della materia ordinaria, anche una piccola quantità avrebbe potuto teoricamente innescare un processo di distruzione globale trasformando tutta la materia ordinaria con cui fosse entrata in contatto. Gli esperti riuniti, tra cui Tsung-Dao Lee e Bernard Harvey, direttore associato di Fisica nucleare del Laboratorio Lawrence di Berkeley, trascorsero un giorno e mezzo ad analizzare lo scenario di disastro e a discutere se gli esperimenti del Bevalac dovessero essere interrotti. Quando la riunione si concluse, furono unanimi nel sostenere che la materia anomala non fosse un pericolo. Collisioni ancora più energetiche si verificano da miliardi di anni sulla Luna, quando le particelle dei raggi cosmici precipitano sulla superficie lunare. Se la materia anomala fosse stata un pericolo, avrebbe distrutto la Luna già da molto tempo. Poiché la Luna sembrava in buona salute, gli scienziati conclusero che non ci fosse motivo di preoccuparsi. Per i ricercatori impegnati negli esperimenti con la macchina vi era però un altro rischio, di natura più personale, da prendere in considerazione. Anche se la maggior parte degli scienziati si considerava senza dubbio al sicuro, dalla fine degli anni settanta alla metà degli anni novanta gli Stati Uniti subirono un’imprevedibile serie di attentati che vedevano coinvolti scienziati e lavoratori delle compagnie aeree. Gli agenti dell’fbi che lavoravano al caso sapevano che il ricercato, Unabomber, era profondamente contrario a quella che percepiva come la cieca marcia della tecnologia e alle sue potenziali conseguenze per l’umanità. Un anno prima che il Bevalac venisse spento, due fisici, Gary Westfall presso la Michigan State University e Sabul Das Gupta presso la McGill University di Montreal, scrissero un articolo per la rivista Physics Today


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che celebrava i risultati del Bevalac. Si diceva che «alcuni incontri erano tenuti a porte chiuse» per decidere se il rischio di una catastrofe fosse sufficientemente serio da portare alla sospensione degli esperimenti per motivi di sicurezza. Il pezzo poi aggiungeva: «Gli esperimenti alla fine sono stati eseguiti comunque e per fortuna nessun disastro del genere è ancora avvenuto». Quando apparve l’articolo, l’fbi iniziò a temere che Westfall e Das Gupta potessero diventare due obiettivi per Unabomber. Entrambi vennero inseriti in un programma di protezione e Westfall accettò che la propria posta venisse messa sotto controllo, alla ricerca di esplosivi. Das Gupta rifiutò, scegliendo invece di fare affidamento sul servizio postale canadese e sulla sua segretaria in università. Non furono mai intercettati esplosivi indirizzati ai due ricercatori. Unabomber fu arrestato circa un anno dopo che Westfall e Das Gupta erano stati messi nella lista dell’fbi come potenziali bersagli. Theodore Kaczynski, matematico di Harvard divenuto in seguito professore presso l’Università della California a Berkeley, aveva lasciato la carriera universitaria per andare a vivere in modo spartano in una capanna nel Montana, da dove aveva condotto la sua campagna di attentati mediante pacchi esplosivi. Venne arrestato dopo che suo fratello riconobbe alcune espressioni verbali familiari nel manifesto su otto pagine, scritto da Unabomber, che due grandi giornali decisero di pubblicare. Nel documento, Kaczynski sollevava dubbi sulle motivazioni che avevano portato Edward Teller a sviluppare la bomba all’idrogeno e concludeva con un monito: «I tecnofili stanno portando tutti noi in un viaggio del tutto sconsiderato verso l’ignoto». Quando a Brookhaven l’acceleratore Rick fu pronto per essere acceso, le preoccupazioni sulla materia anomala di Lee e Wick erano ormai sfumate. Ma il pezzo di Wilczek su Scientific American assicurava che gli strangelet erano pronti, come insaziabili predoni, ad assumere il ruolo di temibili entità in grado di provocare la fine del mondo. Gli scienziati arrivarono all’idea di strangelet ragionando su ciò che potrebbe accadere se i protoni e i neutroni all’interno dei nuclei atomici fossero sottoposti a pressioni straordinarie. Una cosa del genere si verifica in natura nel cuore delle stelle di neutroni, che si formano quando stelle ordinarie esplodono e collassano sotto l’effetto della loro stessa gravità. Le stelle di neutro-


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ni sono oggetti incredibilmente densi: un cucchiaino di materiale estratto dal nucleo di una di esse potrebbe pesare circa 100 milioni di tonnellate. I normali protoni e neutroni sono costituiti da due tipi di quark, noti come up e down, ma gli scienziati sospettano che alcuni di questi, sottoposti a pressioni elevatissime, possano trasformarsi in una terza varietà, nota come quark strange. Il conseguente mix di quark è chiamato appunto strangelet. Nel 1984, Ed Witten, fisico dell’Institute for Advanced Study di Princeton, che molti considerano successore naturale di Einstein, calcolò che, una volta creati, gli strangelet potrebbero continuare ad aggirarsi nella materia ordinaria anche dopo che l’enorme pressione necessaria per crearli sia venuta meno. L’articolo insinuò il sospetto che, se gli strangelet rappresentano uno stato più stabile rispetto alla materia ordinaria, potrebbero innescare il tipo di scenario descritto da Wilczek per il ghiaccio-nove. Le conclusioni cui pervennero i comitati per la sicurezza di Brookhaven e del cern furono presentate sotto forma di lunghe spiegazioni teoriche in base alle quali non c’era motivo di preoccuparsi degli strangelet prodotti nei due collisori.11 Se fossero esistiti veramente, sarebbero stati molto difficili da produrre. Se anche fosse stato possibile crearli, non sarebbero stati abbastanza stabili. E se infine fosse anche capitato che indugiassero più a lungo del previsto nel nostro mondo, sarebbero stati quasi certamente carichi positivamente, nel qual caso non avrebbero potuto attrarre e inglobare i nuclei atomici. Le rassicurazioni teoriche sulla sicurezza del pianeta non andarono oltre. I fisici di Harvard Sheldon Glashow e Richard Wilson sintetizzarono le proprie preoccupazioni in un articolo apparso su Nature nel dicembre 1999: «Se gli strangelet esistono (cosa concepibile), se formano grumi ragionevolmente stabili (cosa improbabile), se sono carichi negativamente (sebbene la teoria propenda fortemente per una carica positiva) e se piccoli strangelet possono crearsi all’interno di Rick (cosa estremamente improbabile), allora ci potrebbe essere un problema. Uno strangelet neonato potrebbe inghiottire i nuclei atomici, crescere inesorabilmente e, infine, divorare la Terra. La parola “improbabile”, per quante volte la si ripeta, non basta a tranquillizzare i nostri timori per una tale catastrofe totale». Per rafforzare le loro conclusioni, i comitati di sicurezza sostennero che Madre Natura aveva già realizzato gli esperimenti di Rick per noi. I


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raggi cosmici contengono ioni metallici che si muovono quasi alla velocità della luce. Questi ioni impattano contro i minerali presenti sulla Luna e sugli asteroidi e contro gli ioni liberi sospesi nelle nubi di polvere e gas interstellari. Se fosse stato così facile creare i pericolosi strangelet, la cosa sarebbe già avvenuta nello spazio. Come accadde per il Bevalac e le preoccupazioni sulla materia anomala, la presenza perdurante della Luna venne riportata come una forte indicazione che strangelet maligni erano almeno straordinariamente rari. Se cinque miliardi di anni di collisioni di raggi cosmici non avevano ancora trasformato la Luna in un gigantesco blocco di materia strana, cinque anni di collisioni in Rick non avrebbero potuto essere affatto una minaccia per la Terra. Ulteriori rassicurazioni venivano da considerazioni in merito al destino degli asteroidi. Se i raggi cosmici avessero creato degli «asteroidi killer», trasformandoli in strangelet, alcuni sarebbero inevitabilmente caduti sul Sole o su altre stelle e li avrebbero distrutti. Ma, quando gli scienziati guardano ai 70 000 miliardi di miliardi di stelle nell’universo visibile, non vedono nulla più che il naturale morire di stelle attraverso esplosioni di supernova. Per avere un’idea di quanto sia improbabile che il Large Hadron Collider possa riservare brutte sorprese, gli scienziati del cern fecero un calcolo. Il nostro Sole è colpito costantemente da raggi cosmici di energia confrontabile con quella delle collisioni nell’lhc. In base al numero di stelle nell’universo osservabile, stimarono che la natura abbia ripetuto l’intera durata degli esperimenti dell’lhc (circa 20 anni) almeno 10 000 miliardi di miliardi di miliardi di volte e più, da quando è iniziato l’universo. E, cosa anche più significativa, l’impatto dei raggi cosmici sulle stelle lontane realizza collettivamente gli esperimenti dell’lhc 10 000 miliardi di volte al secondo. Di tutti gli scenari catastrofici esaminati dagli scienziati di Brookhaven e del cern, quello che ha ricevuto la maggiore attenzione da parte dei media è la creazione di un buco nero che inghiotte l’intero pianeta. Entrambi i gruppi esclusero questo pericolo. Per creare un buco nero ordinario, un collisore di particelle dovrebbe comprimere un numero veramente impressionante di particelle in un volume talmente piccolo che la gravità faccia poi collassare la pallina di materia su se stessa. L’impresa è talmente al di là delle capacità di qualsiasi collisore attuale – e di qualsiasi colliso-


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re nell’immediato futuro – che entrambe le squadre persero poco tempo ad analizzare quello scenario. L’archiviazione di un simile scenario si basava sull’ipotesi che le equazioni di Einstein rappresentassero l’ultima parola sulla gravità, ma è piuttosto improbabile che le cose stiano così. Alcune recenti teorie sostengono che la natura presenti delle dimensioni nascoste raggomitolate su se stesse su scale così piccole da non poter essere osservate. Al momento, non ci sono prove che suggeriscano che viviamo in un mondo a più di quattro dimensioni – le tre dimensioni spaziali più il tempo – ma se le dimensioni extra dovessero esistere è plausibile che, nei moderni acceleratori di particelle, microscopici buchi neri possano essere creati con una certa facilità. Di nuovo, gli scienziati sono convinti che non ci sia nulla da temere se microscopici buchi neri dovessero essere creati nei loro acceleratori. Nel 1975, il cosmologo Stephen Hawking, a Cambridge, dimostrò che i buchi neri emettono calore. Più sono piccoli, più calore perdono. Secondo le teorie che includono dimensioni extra, eventuali buchi neri creati nell’lhc sarebbero degli animaletti cosmici delle dimensioni di circa un milionesimo di miliardesimo di millimetro. A quelle scale, si comporterebbero come delle microscopiche punture di spillo a temperature estreme, circa un miliardo di volte superiori rispetto a quelle presenti nel centro del Sole. La buona notizia è che emetterebbero calore così velocemente da evaporare e scomparire in un istante. Un altro scenario potenzialmente catastrofico, che i fisici riuscirono a confutare facilmente, ipotizzava la creazione di monopoli magnetici. Si tratta di particelle veramente bizzarre e, come mostrò Alan Guth immediatamente prima di imbattersi nell’idea dell’inflazione cosmica, troppo pesanti per poter essere create in un qualsiasi acceleratore oggi concepibile. La particella più pesante mai creata in un acceleratore è il quark top, la cui massa di circa 170 GeV venne scoperta al Tevatron nel 1995. I monopoli magnetici, se esistono, è probabile che abbiano una massa più di un milione di milioni di volte superiore. Per curiosità, la commissione per la sicurezza del cern provò a calcolare quali danni avrebbe potuto causare un monopolo magnetico, se ne fosse apparso uno all’interno della macchina. Alcune teorie affermano che i monopoli magnetici possono essere pericolosi perché trasformano


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protoni e neutroni in elettroni, positroni e altre particelle. Essenzialmente, quindi, vaporizzano la materia ordinaria. La commissione del cern concluse che un singolo monopolo magnetico distruggerebbe al massimo mezzo grammo di materia ordinaria prima che l’energia rilasciata nel processo lo proietti nello spazio. L’irreversibilità della fine del mondo, in qualunque modo avvenga, la pone tra gli scenari futuri possibili come il peggiore che si possa concepire, sicuramente almeno per l’umanità e per le milioni di specie che con noi condividono il pianeta. Ma c’è un quarto scenario apocalittico che gli scienziati sono stati costretti a prendere in considerazione e che rappresenta senza dubbio un destino peggiore di qualunque distruzione catastrofica del nostro pianeta e di tutto ciò che lo abita. Il quarto scenario apocalittico, il decadimento del vuoto, non estinguerebbe soltanto ogni forma di vita sulla Terra ma distruggerebbe ogni prospettiva e ogni speranza di vita per il resto del tempo in una fascia incredibilmente ampia di universo. Per gli scienziati della metà del xvii secolo, il vuoto era un concetto abbastanza semplice: collegavano una di quelle moderne pompe a un recipiente di vetro, si mettevano nell’ordine di idee di lasciar funzionare quella diavoleria per un bel po’ di tempo e, se erano abbastanza ostinati, riuscivano a rimuovere tutta l’aria dall’interno del recipiente. Quello che restava era un contenitore veramente vuoto, con dentro il nulla assoluto. Per gli scienziati moderni, il vuoto è tutt’altro che vuoto. Contiene un intero mondo invisibile di campi in continua evoluzione e corrispondenti particelle che nascono e muoiono incessantemente. L’energia intrappolata in questi campi dà luogo a ciò che gli scienziati chiamano ragionevolmente energia del vuoto dell’universo. Lo stato più stabile in cui un universo può trovarsi si realizza quando contiene la minore energia possibile. Il fatto è che gli scienziati non sanno se il nostro universo si trova nel suo stato più stabile o meno. Il vuoto potrebbe contenere più energia di quanto sia strettamente necessario: in tal caso, con il giusto stimolo, potrebbe improvvisamente collassare e cadere in una configurazione più stabile e a minore energia. Potete vedere un processo simile all’opera nel vostro salotto. Quando posate orgogliosamente una fotografia dei vostri suoceri sorridenti sopra


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il caminetto, essa possiede una certa energia potenziale. La gravità muore dalla voglia di ridurre tale energia potenziale, attraendo la foto verso il basso; non aspetta altro che una sfortunata brezza o un colpetto delicato per destabilizzare l’immagine e farla cadere dalla mensola sul caminetto sottostante. Se l’universo è in uno stato altrettanto precario – e sottolineo se – un colpetto di energia potrebbe concettualmente farlo cadere dal suo piedistallo cosmico verso uno stato più stabile. Gli scienziati di Brookhaven e del cern si chiesero se l’energia creata all’interno di un acceleratore di particelle, come il Rick o l’lhc, potesse veramente fornire all’universo un tale impulso. Le conseguenze, se ciò dovesse accadere, sarebbero straordinarie. Il fisico di Harvard Sidney Coleman ci sapeva fare con le parole. Fu lui a suggerire alla sua classe di fare a pezzi Peter Higgs e la sua grande idea, il giorno dopo l’importante seminario che Higgs tenne presso l’Institute for Advanced Study di Princeton nel 1966. Coleman era affascinato dalla prospettiva che l’umanità vivesse in un universo in uno stato metastabile, cioè un universo che funziona perfettamente ma che, trovandosi nelle giuste (o sbagliate) condizioni, può da un momento all’altro collassare in uno stato a energia inferiore. Coleman studiò che cosa accadrebbe se, in qualche angolo dell’universo, l’energia del vuoto per un motivo o per l’altro cadesse improvvisamente dalla mensola del caminetto, in altri termini se passasse da quella che a noi appare come una configurazione stabile a una ancora più stabile. Dimostrò così che si verrebbe a formare una bolla di «vero vuoto» e che questa, con sorprendente rapidità, comincerebbe a espandersi nel nostro universo. La superficie di separazione tra la bolla di vero vuoto e il «falso vuoto» del vecchio universo si propagherebbe verso l’esterno alla velocità della luce. L’energia del vuoto è il fondamento su cui si basano tutte le leggi naturali. Se dovesse improvvisamente venir meno, le leggi della fisica cambierebbero istantaneamente. Noi e qualunque altra creatura sulla Terra saremmo spacciati. Coleman, d’altra parte, scoprì qualcosa di ancora più inquietante. Il nostro vecchio universo verrebbe sostituito da una nuova e più stabile versione, in cui però non ci sarebbero più le condizioni che permetterebbero alla vita di tornare a svilupparsi.


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Dieci righe di un articolo di undici pagine che Coleman pubblicò nel 1980 riassumono le sue conclusioni e rappresentano sicuramente uno dei paragrafi più affascinanti mai apparsi in una rivista scientifica: Non è mai stato confortante considerare la possibilità che stiamo vivendo in un falso vuoto.12 Il decadimento del vuoto è la catastrofe ecologica definitiva. In un nuovo stato di vuoto ci sono nuove costanti di natura e dopo il decadimento del vuoto non solo è impossibile la vita come noi la conosciamo ma anche la chimica così come la conosciamo. Tuttavia, si poteva sempre trarre uno stoico conforto dalla possibilità che forse nel corso del tempo il nuovo vuoto potesse sostenere, se non la vita come noi la conosciamo, almeno alcune strutture in grado di provare gioia. Ma adesso è stata esclusa anche questa possibilità.

Un paio di anni dopo la pubblicazione del sorprendente articolo di Coleman, Wilczek e il suo collega, Michael Turner, cercarono di capire se il nostro universo si trova o meno nel suo stato di minima energia. Scrivendo sulla rivista Nature, conclusero: Sembra decisamente possibile […] che il nostro attuale stato di vuoto sia metastabile e che, tuttavia, l’universo abbia scelto, per così dire, di rimanervi intrappolato. Se questo è il caso, allora, senza preavviso, una bolla di vero vuoto potrebbe enuclearsi da qualche parte nell’universo e muoversi verso l’esterno alla velocità della luce.13

Poiché nulla può viaggiare a una velocità superiore a quella della luce, non avremmo alcun segnale del fatto che una tale catastrofe cosmica si stia dirigendo verso di noi. «Non vedi assolutamente nulla. Sparisci e basta» dice Wilczek. «Diventeremmo tutti nebbia purpurea.»14 Non sapremmo mai che cosa ci ha colpito, ma è difficile sopprimere il fascino morboso che suscita la domanda su cosa fisicamente accadrebbe a noi e al nostro ambiente qualora si verificasse un simile scenario. Una possibilità è che, non appena il nuovo vuoto si espande, la forza forte che tiene insieme le particelle all’interno dei nuclei atomici riduca improvvisamente il suo raggio d’azione, come accade ai bosoni W e Z quando si attiva il campo di Higgs. Se ciò accadesse, gli atomi dentro ogni cosa an-


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drebbero semplicemente in pezzi. Spontaneamente, così. Nel caso fosse stata necessaria, e sicuramente lo era, l’anno successivo giunse una qualche forma di rassicurazione sotto forma di una nota scritta da Martin Rees, che in seguito sarebbe diventato astronomo reale britannico e presidente della Royal Society, e da Piet Hut, un fisico dell’Institute for Advanced Study di Princeton. Ancora una volta, le stranezze dei raggi cosmici vennero in aiuto per placare le paure esistenziali dell’umanità.15 Hut e Rees fecero notare come l’universo sia durato perfettamente per quasi 14 miliardi di anni con il suo attuale stato di vuoto. Ciò significava che, per indurre il vuoto a decadere, gli esseri umani avrebbero dovuto fare qualcosa di molto più violento di quanto si sia mai verificato in qualsiasi altra parte dell’universo. Le collisioni più energetiche tra particelle che hanno luogo sulla Terra si verificano quando gli ioni nei raggi cosmici vanno a sbattere contro gli ioni negli strati superiori dell’atmosfera. La coppia di fisici calcolò che, ogni secondo, si verificano nella nostra atmosfera circa 100 milioni di collisioni più violente di quelle che potrebbero essere prodotte negli attuali acceleratori di particelle. Il messaggio di Hut e Rees era quindi che l’universo non fosse così fragile da poter essere distrutto da un acceleratore di particelle terrestre. Be’, almeno non ancora. La domanda dovrebbe essere posta di nuovo nel caso gli acceleratori di particelle diventassero cento volte più potenti degli attuali, ma per ora siamo al sicuro. «Possiamo essere fiduciosi che nessun acceleratore di particelle nel prossimo futuro rappresenterà una minaccia per il nostro vuoto» scrissero gli scienziati su Nature. La dichiarazione suonava assolutamente gradita, anche se evocava l’immagine di manifestanti raccolti di fronte ai cancelli del cern entro i prossimi vent’anni ad agitare cartelli scarabocchiati con messaggi del tipo: «Giù le mani dal nostro vuoto». Non sarebbe la prima volta che manifestanti si presentano davanti a un collisore di particelle con la speranza di mettere fine alla fine del mondo. A metà degli anni novanta, un piccolo gruppo di manifestanti, piuttosto preoccupati che gli scienziati potessero «creare un buco lacerando il tessuto dell’universo», arrivarono a picchettare il Fermilab in occasione della riaccensione del Tevatron, dopo un aggiornamento. Si trattava di una cosa modesta. La protesta aveva il suo centro nella figura di Paul Dixon,


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uno psicologo dell’Università delle Hawaii, che arrivò al Fermilab con uno striscione tagliato da un lenzuolo alto fino alle spalle sul quale proclamava che al Fermilab sarebbe nata la «prossima supernova». Sia il gruppo di Brookhaven sia la commissione per la sicurezza del cern utilizzarono l’argomentazione di Hut e Rees sui raggi cosmici per confermare che non c’era alcun pericolo che i loro acceleratori di particelle causassero il decadimento del vuoto. Sicuramente la domanda si riproporrà di nuovo quando acceleratori più potenti saranno costruiti.16 La relazione originale sulla sicurezza redatta dal gruppo di Brookhaven venne pubblicata nel settembre del 1999. Non fu scritta per il pubblico ma divenne una pietra miliare di un più ampio sforzo di pubbliche relazioni di cui diede prova il laboratorio. Il suo valore, almeno per Marburger, consisteva nel fatto di contenere le unanimi, e straordinariamente positive, conclusioni di quattro scienziati che erano senza dubbio i migliori al mondo. Sulla base della relazione, Marburger rassicurò l’opinione pubblica sul fatto che Rick non fosse una minaccia per il pianeta. Uno di coloro che non si sentirono rassicurati fu Walter Wagner, la cui lettera aveva sollevato timori specifici in merito alla possibile formazione di buchi neri. Ancor prima che la sua lettera apparisse su Scientific American, aveva fatto richiesta attraverso un tribunale californiano di applicare un’ingiunzione restrittiva provvisoria all’acceleratore Rick di Brookhaven. Quando la domanda venne respinta, Wagner chiese al tribunale di riesaminarla. Dopo tre richieste di quel tipo, il giudice respinse la causa definitivamente. Wagner è un personaggio improbabile.17 Ex responsabile di un ufficio per la sicurezza dalle radiazioni a San Francisco, era noto per andare a caccia di radioattività nel quartiere. Si arampicava in mezzo ai cespugli per controllare le piastrelle degli edifici pubblici. Bussava alle porte di estranei, agitando un contatore Geiger e offrendosi di entrare a controllare le piastrelle del bagno. Fuori da una conferenza scientifica, allestì un banchetto per far conoscere quelli che considerava pericolosi livelli di radiazione in una scuola locale. Il Dipartimento di Stato per la salute considerava le sue rilevazioni così allarmistiche da indurlo a installare dei banchetti proprio vicino a quello di Wagner per contrastare i suoi messaggi. Negli anni successivi al suo tentativo di far chiudere Rick per vie le-


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gali, Wagner mise in atto tattiche simili per impedire che, al cern, venisse acceso l’lhc. Wagner fu uno dei pochissimi oppositori degli acceleratori di particelle ad avere spazio sui media. Ciò però non significa che il grande pubblico fosse completamente convinto della sicurezza di tale macchine. Diversi sondaggi pubblici rilevarono una silenziosa preoccupazione in una ragguardevole minoranza della società, per quanto sondaggi di questo tipo siano quasi sempre destinati a essere poco rappresentativi o viziati in altri modi. Tra coloro che ritenevano una sciocchezza l’idea che gli acceleratori potessero distruggere il mondo vi era anche Peter Higgs. Un problema che continua ad affliggere le discussioni sulla sicurezza degli acceleratori di particelle, per quanto il problema investa anche altri settori della scienza di confine, come la biologia di sintesi e la genetica, è l’impossibilità di riuscire ad avere quello che potrebbe essere ragionevolmente definito un dibattito pubblico informato sulle questioni. Le persone che possono capire nel modo migliore le questioni lavorano nel campo su cui si dibatte, per cui si tende ad accusarli di interesse personale. Per ironia, invece, il maggior numero degli oppositori a una nuova tecnologia, almeno quelli più in vista, sono spesso così male informati da essere rapidamente e giustamente liquidati come pazzi. Quello che si può ottenere è solo l’illusione di un dibattito pubblico. Gli oppositori disinformati rendono un cattivo servizio a chi nutre un genuino interesse per l’argomento e ha seria preoccupazioni in merito, e così si perde un’occasione per un’equilibrata discussione sui rischi reali. I mezzi di informazione ebbero la colpa di alimentare un dibattito illusorio sulla sicurezza degli acceleratori di particelle, contrapponendo scienziati seri a una critica ben poco informata. Non era una cosa necessaria. Tra gli studiosi seri, ve ne furono uno o due oggettivamente critici nei confronti delle relazioni sulla sicurezza di Brookhaven e del cern. Pochi di coloro che sollevarono preoccupazioni nello spirito di un sano dibattito ebbero voce al di fuori degli articoli tecnici e delle riviste specializzate. John Marburger era ben consapevole del fatto che alcuni degli argomenti usati nella relazione sulla sicurezza di Brookhaven avevano il difetto di far temere peggio ad alcune persone. Per esempio, il fatto che il Sole e la Luna siano ancora tra noi pur essendo stati oggetto, da miliar-


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di di anni, di bombardamenti da parte dei raggi cosmici non conterebbe nulla se il catastrofico processo che potrebbe essere innescato dall’uomo fosse terribilmente raro in natura. Ma potrebbe anche essere pura fortuna che non sia ancora successo. Un’altra causa di confusione fu il fatto che la quantificazione del rischio delineata a Brookhaven rappresentava un limite massimo teorico, non avrebbe dovuto essere interpretata come la possibilità che qualcosa andasse di fatto storto. Il rapporto di Brookhaven asseriva, basandosi sull’argomento dei raggi cosmici, che la probabilità di formazione di uno strangelet in Rick era minore di due su un miliardo, per ogni anno di funzionamento della macchina. Poiché la macchina avrebbe dovuto lavorare per dieci anni, la probabilità che l’impresa distruggesse il mondo era di uno su cinquanta milioni. Questo numero però è abbastanza inutile. Il calcolo significa che, se le collisioni in Rick avvengono come in natura, le possibilità che la macchina scateni uno spiacevole Armageddon non potrebbero essere più di due su un miliardo l’anno. La probabilità potrebbe essere trilioni e trilioni di volte più piccola, ma si tende a interpretare il valore indicato come una stima del rischio piuttosto che come un limite superiore: diventa così una piccola e reale probabilità che quel disastro accada. La mancanza di prove a favore o contro l’esistenza degli strangelet rese le cose ancora più difficili. Il massimo che chiunque potesse affermare era che uno strangelet non era mai stato creato in un collisore di particelle, nonostante gli scienziati abbiano setacciato i propri dati alla loro ricerca. Non sono mai stati avvistati mentre viaggiano nello spazio o mentre si trattengono intorno alla Luna o a un altro pianeta. Non esiste una teoria rigorosa che affermi che devono esistere. Eppure, nessuna teoria li esclude espressamente. In una situazione come questa, il calcolo di un rischio significativo che uno strangelet venga creato in un collisore di particelle e distrugga il pianeta è impossibile. Marburger paragona il problema a quello della stima del rischio di essere divorato da un inafferrabile mostro scozzese quando ci si tuffa nel lago di Loch Ness. Nessuno ha mai (davvero) visto il mostro; tutto quello che sappiamo è che la scienza ci porta a sospettare che non esista, ma nessuna legge della natura esclude la possibilità che il mostro esista. Nonostante la persistente mancanza di avvistamenti (e con grande sollievo


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dell’ente per il turismo delle Highlands scozzesi), coloro che vi credono non si lasciano scoraggiare. Alcuni commentatori sollevarono dubbi anche sull’equivalenza tra le collisioni dei raggi cosmici e le collisioni prodotte negli acceleratori di particelle, un presupposto che non era stato messo in discussione dalle due commissioni per la sicurezza. Anche se in natura si verificano collisioni di particelle quando i raggi cosmici impattano contro pianeti e nubi di polveri interstellari, di fatto tali collisioni non sono identiche rispetto a quelle studiate dagli scienziati sulla Terra. I due tipi di collisioni potrebbero anche differire per dettagli di poco conto, ma è molto difficile valutare gli effetti di tali differenze sulla scorta di teorie così incomplete nelle loro previsioni sulle particelle che potrebbero venirsi a creare. Quando gli ioni nei raggi cosmici colpiscono la Luna, viaggiano a velocità prossime a quella della luce. Se, in seguito a una collisione, si venisse a creare uno strangelet, esso dovrebbe sopravvivere a un viaggio ad alta velocità attraverso la polvere lunare prima di arrivare a far danni. In un collisore, le particelle si urtano frontalmente nel vuoto, quindi i frammenti creati dall’impatto si muovono più lentamente e non vengono colpiti da roccia lunare nel momento in cui nascono. Potrebbe forse essere che uno strangelet creato in queste condizioni risulti più pericoloso di uno prodotto sulla Luna? Adrian Kent, un teorico quantistico dell’Università di Cambridge, mise in dubbio direttamente i presupposti su cui si basava l’analisi della sicurezza degli acceleratori.18 La relazione di Brookhaven sosteneva che l’argomento dei raggi cosmici bastasse da solo a garantire la sicurezza di Rick. Quando Kent evidenziò che tale conclusione era «profondamente viziata», la commissione di Brookhaven fu costretta a rivedere il proprio rapporto e a rimuovere l’affermazione. Kent sosteneva che, per quanto un limite superiore di rischio pari a uno su cinquanta milioni possa sembrare basso – e si tratta di circa un quarto della probabilità di vincere il jackpot della lotteria del Regno Unito –, tale probabilità dovesse essere pesata in relazione a ciò che si sarebbe potuto perdere. Se le cose fossero andate male, sarebbe calato immediatamente il sipario per l’intera popolazione mondiale di 6,7 miliardi di persone, e ci si sarebbe giocato per sempre il futuro dell’umanità e di ogni altra specie vivente.


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Negli ambienti assicurativi, una probabilità di uno su cinquanta milioni di uccidere 6,7 miliardi di persone equivarrebbe ad attendersi la morte di 134 persone, un valore ottenuto moltiplicando la probabilità per il numero totale di vite in gioco. Sicuramente nessun esperimento che preveda un numero così elevato di morti otterrebbe mai il via libera da parte dei governi. Eppure, gli esperimenti di Rick andarono avanti, anche in forza dell’analisi iniziale sulla sicurezza condotta dalle commissioni. «Per quanto ne so, nessuno sforzo è stato fatto a Brookhaven per riottenere un’autorizzazione sulla base delle revisioni delle stime di rischio o per portare all’attenzione dei media e del pubblico un’analisi con correzioni così significative. A mio parere, si sarebbe dovuto fare un tale sforzo» commentò Kent. Nel suo ruolo di avvocato del diavolo, Kent insistette nel cercare altri difetti negli argomenti che erano stati utilizzati dagli scienziati per giustificare la sicurezza degli acceleratori di particelle. In quell’occasione, arrivò a identificare un potenziale scenario di disastro cui nessuno aveva fino a quel momento pensato. Entrambi i comitati di sicurezza affermavano che gli strangelet, essendo carichi positivamente, fossero sicuri perché avrebbero respinto i nuclei atomici che si fossero trovati nelle vicinanze, impedendo loro di divorarseli. Ma che cosa sarebbe accaduto se uno di essi fosse riuscito a farsi strada verso il Sole, magari con qualche mezzo molto poco naturale? Una volta dentro, avrebbe potuto innescare uno scenario catastrofico capace di distruggere persino il Sole. Kent spiegò che i componenti dei rivelatori dentro un acceleratore di particelle potrebbero, senza che nessuno se ne accorga, rimanere contaminati da strangelet positivi. Un giorno potrebbero quindi essere riciclati in una navicella spaziale lanciata nello spazio, che alla fine potrebbe cadere sul Sole. Oppure, un gruppo di terroristi tecnologici potrebbe riuscire a impadronirsi di materiale contaminato e minacciare di usarlo, lanciandone un quantitativo sul Sole, per provocare un Armageddon. Kent allertò quindi le commissioni del fatto che «il materiale di laboratorio potenzialmente contaminato da strangelet di carica positiva costituirebbe un possibile pericolo, piccolo fin che si vuole ma tale da richiedere una gestione molto prudente». Egli ammise comunque che un gruppo con mezzi economici e competenze tali da poter portare a termine un lavoro del genere «se lo volesse, potrebbe minacciare una catastrofe, in modo più credibile, con mezzi molto meno esotici».


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Se Madre Natura realizzasse soltanto esperimenti simili a quelli previsti nei nostri acceleratori di particelle, gli argomenti teorici diventerebbero più significativi. Ma anche in questo caso, scienziati esterni ai gruppi di valutazione della sicurezza misero in luce alcuni pericoli. Una valutazione del rischio formulata sulla base di una teoria deve prendere in considerazione la possibilità che tale teoria sia sbagliata. Qualunque sia l’entità, più o meno apprezzabile, dell’incertezza associata a una teoria, ogni valutazione del rischio che si basi su di essa può diventare del tutto inutile. Per esempio, la minaccia collegata alla formazione di buchi neri nell’lhc è giudicata trascurabile. Una ragione è che, per creare buchi neri nei moderni acceleratori, la gravità deve comportarsi in modo strano su scale microscopiche; un comportamento, questo, che viene postulato ma che è tuttora sconosciuto. Se così fosse e i buchi neri venissero prodotti, li si giudicherebbe inoffensivi sulla base della teoria di Stephen Hawking, che suggerisce che i buchi neri irraggino calore e, così facendo, evaporino nel nulla. Ma tale teoria non è d’acciaio e i suoi dettagli non sono ancora stati fissati con precisione. La prospettiva che dei buchi neri potessero diventare un serio problema per gli acceleratori di particelle spinse gli scienziati a immaginare una soluzione fantasiosa. Se il buco nero non fosse troppo efficace– si intende rispetto ad altre entità in grado di ingoiarsi il pianeta –, è probabile che crescerebbe piuttosto lentamente. Questo darebbe ai ricercatori il tempo di puntare contro quella canaglia un tubo a raggi catodici e di riempirlo di elettroni. Ingoiando le particelle, il buco nero svilupperebbe una carica negativa. Gli scienziati potrebbero quindi intrappolare il buco nero in una scatola rivestita di pareti metalliche con carica negativa. Le pareti della scatola respingerebbero il buco nero e così, a condizione che esso venga mantenuto nel vuoto, il minaccioso buco nero verrebbe tenuto a bada facendolo levitare dolcemente mentre gli scienziati elaborano una soluzione e decidono cosa farne. Un’opzione potrebbe essere quella di caricarlo su di un razzo e di spedirlo nello spazio. Gli scienziati stessi che hanno sviluppato l’idea ammettono però che essa può avere qualche difetto. Francesco Calogero è un fisico teorico italiano che ha trascorso otto anni come segretario generale della Pugwash Conferences on Science and World Affairs. Le conferenze promosse da questa organizzazione non governativa sono un vero e proprio paradiso per gli studiosi di ogni nazione


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e per i funzionari pubblici che si vogliono porre come obiettivo l’esplorazione di nuove modalità di risoluzione dei conflitti e di riduzione degli armamenti, in modo onesto e riservato. Nel 1995, Calogero ritirò il premio Nobel per la pace assegnato congiuntamente alla Pugwash Conferences e a Joseph Rotblat, il fisico di origine polacca divenuto uno dei principali promotori del disarmo nucleare. Quando scoppiò il polverone su Rick, Calogero propose un modo migliore per valutarne la sicurezza.19 Nel 2000, Calogero pubblicò un articolo scientifico che avrebbe potuto vincere un premio per il suo titolo tranquillizzante: «Può un esperimento di laboratorio distruggere il pianeta Terra?». In esso Calogero sosteneva che Brookhaven avrebbe dovuto avvalersi di due gruppi di scienziati: un team blu incaricato di produrre un’oggettiva relazione sulla sicurezza del collisore e un team rosso, nel ruolo di avvocato del diavolo, con il compito di cercare deliberatamente di dimostrare che l’esperimento era pericoloso. Terminato il proprio lavoro, i due team avrebbero dovuto raggiungere un accordo e, se possibile, quantificare i rischi concordati per poter poi decidere come procedere. Quella strategia avrebbe, per lo meno, rassicurato l’opinione pubblica sul fatto di non essere ingannata da un esercizio di pubbliche relazioni. Mettere due squadre una contro l’altra, però, ha un altro effetto notevole: legittima un sano esercizio di critica obiettiva e aperta, per il quale Calogero riscontrò poco interesse tra i suoi colleghi. Dopo aver sollecitato i pareri degli esperti sulla sicurezza del collisore di Brookhaven, sintetizzò le risposte dei suoi colleghi nel modo seguente: «Molti di loro, anzi la maggior parte, mi sembrano più interessati all’impatto sull’opinione pubblica di ciò che dicono, o altri dicono e scrivono, che a fare in modo che i fatti siano presentati con completa oggettività scientifica». La loro acquiescenza alla linea ufficiale sfiorava la connivenza. I difetti della valutazione sui rischi di Rick vennero evidenziati da Richard Posner, un rispettato giudice federale degli Stati Uniti, nel suo libro del 2004: Catastrophe: Risk and Response, dove sollevava interrogativi sull’imparzialità degli scienziati chiamati a valutare la sicurezza degli esperimenti e chiedeva quali vantaggi la società dovesse aspettarsi dall’accettazione di un certo livello di rischio. Posner invitò i colleghi giuristi a diventare più competenti in ambito scientifico, anche se sembra ambizioso aspettarsi che siano in molti a poter cogliere appieno le teorie


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quantistiche che prevedono ipotetiche particelle e la complessità di una valutazione del rischio associato alla loro verifica. In ultima analisi, Posner osservò come decisioni di questo tipo è meglio siano messe per legge nelle mani di un «comitato permanente per la valutazione dei rischi di catastrofe» con il potere di porre uno stop a progetti che comportino un «rischio eccessivo per la sopravvivenza umana». Quali insegnamenti possiamo trarre da tutto questo? La storia suggerisce che tra le teorie degli scienziati sarà sempre in agguato una qualche entità potenzialmente in grado di causare la fine del mondo, e il calcolo della probabilità che un incidente la possa scatenare sarà quasi certamente avvolto nell’incertezza. Anche se i pericolosi strangelet e i monopoli magnetici venissero esclusi definitivamente, dalle teorie dei fisici emergerà una qualche altra possibilità. In base a cosa, allora, la società dovrebbe decidere se avviare o meno un esperimento che comporti anche un minimo rischio di causare un disastro totale? Nel lontano passato, le conseguenze di un esperimento finito male interessavano solo coloro che ne erano direttamente coinvolti o che si trovavano nelle vicinanze, ma niente di più. È possibile argomentare che, essendo essenzialmente la sola scienza pura a trarre vantaggio dagli acceleratori di particelle, ci siamo già spinti troppo lontano. Ma questo ragionamento è miope. Gli esperimenti di fisica delle alte energie ci hanno portato le più diverse e rivoluzionarie tecnologie, basti pensare al World Wide Web o all’adroterapia per il trattamento del cancro. Quando facciamo progressi nella scienza pura, i vantaggi tecnologici spesso seguono a ruota. Forse la cosa migliore che possiamo sperare è un vero dibattito, aperto e pubblico, in cui vengano esposti i rischi reali. Senza ciò, la società nel suo complesso non ha alcuna possibilità di prendere una decisione informata. Come raggiungere questo obiettivo diventa un problema sempre più pressante quanto più la scienza avanza. Quando Emil Konopinski e Edward Teller sedettero a un tavolo e calcolarono la probabilità che un’esplosione atomica potesse scatenare una reazione di fusione incontrollata nell’atmosfera, avevano abbastanza conoscenze sulle proprietà nucleari dell’atmosfera da essere sicuri che non ci sarebbe stato alcun pericolo. Le loro conclusioni furono confortanti ma segnarono un punto di non ritorno nella storia della scienza, un punto in cui gli scienziati dovettero seriamente prendere consapevolezza del fatto che avevano tra le mani il potere di distruggere il mondo. Quel momento


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della storia era ben presente nei pensieri di Marburger quando lo scambio di lettere su Scientific American suscitò la raffica di timori apocalittici intorno agli acceleratori di particelle. «L’analogia con le preoccupazioni per il Trinity Test era nella mente di tutti» mi disse. «Avrei voluto che fosse stato anche nella mente di Frank quando scrisse quella risposta.» Il Trinity Test, avvenuto il 16 luglio 1945 nel deserto del New Mexico, fu la prima dimostrazione della potenza di un ordigno nucleare. Gli scenari apocalittici che gli scienziati di Brookhaven e del cern presero in considerazione possono sembrare stravaganti. Immaginiamo però che, invece di voler costruire acceleratori di particelle con un rischio di distruggere il mondo a malapena concepibile, agli scienziati fosse ordinato, da una qualche malvagia autorità, di costruire di proposito una macchina per distruggere il pianeta. Ci sarebbero discussioni su come costruirla. I progetti finali sforerebbero il budget previsto. E anche se venisse costruita, potrebbe anche non funzionare o avere problemi prima di raggiungere il suo scopo. Quello che voglio dire è che distruggere il pianeta potrebbe non essere una cosa banale da realizzare. Parlando con Frank Wilczek degli scenari apocalittici, mi venne da chiedere se non ci fosse un po’ di arroganza da parte degli scienziati nel considerarsi capaci di distruggere il pianeta, fosse anche per un incidente. La sua risposta mi diede da pensare: La fisica classica era a suo modo meravigliosa ma non era sorprendente quanto lo è la fisica moderna. Nel mondo quantistico le cose sono diverse. Ci sono enormi quantità di energia racchiuse nella struttura dell’universo su piccola scala e nessuno è arrivato a immaginarle dall’esperienza quotidiana. Si può chiamare arroganza ma è fondato che, se comprendiamo tale struttura in profondità, possiamo realisticamente fare cose che sembrano magiche. A ogni fase, quando nuove cose vengono scoperte e capite, dobbiamo analizzare tutte le possibilità. Non credo che vi siano limiti superiori ai danni che si potrebbero fare. Dobbiamo essere prudenti e seri.

Nel 1999, il polverone sollevato intorno agli scenari apocalittici produsse in certa misura un proficuo dibattito sulla scienza, sulla natura e la gestione del rischio e sulla responsabilità pubblica degli scienziati, ma rappresentò anche una grossa distrazione dal lavoro che era in corso nei


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laboratori degli acceleratori. Al Fermilab, gli ingegneri erano ormai vicini alla conclusione di un importante aggiornamento progettato per incrementare le prestazioni del Tevatron. Una volta riaccesa, la macchina sarebbe stata pronta a intraprendere la sua prima importante ricerca del bosone di Higgs. Al cern, il lep aveva davanti a sé solo un anno di attività prima di chiudere e lasciare il Tevatron solo nella corsa alla ricerca dell’inafferrabile particella.



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