I figli delle tenebre

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Anne-Marie Garat I figli delle tenebre

Traduzione di Massimo Fumagalli


DELLa STESSa AUTRICE Il quaderno ungherese


I figli delle tenebre



E quando attraversò il ponte, i fantasmi gli andarono incontro. F.W. Murnau, Nosferatu il vampiro, 1922



Virginia Woolf uscì alle cinque. All’improvviso, l’acquazzone cessò. Neanche più una goccia, davvero, come per intervento divino; così stupefacente, così incantevole che a Elise venne spontaneo un atto di ringraziamento. Era rimasta a lungo sul marciapiede di fronte, appostata davanti alla porta della Hogarth Press… Senza il minimo cenno di impazienza, senza nemmeno guardare l’orologio, per non offendere il tempo. Per non distrarsi dall’attesa svilendone il disegno, il cui fascino sta tutto nell’indecisione. Dietro ai vetri appannati, vedeva agitarsi grandi ombre sotto le lampade: tipografi occupati al bancone, impiegati alla cassa o giovani autori venuti a portare i propri manoscritti; che tra loro ci fosse anche l’editore, Leonard Woolf in persona? Veniva sera. Ai piani superiori, gli uffici degli avvocati Dollman e Pritchard erano illuminati. Ma in alto, il buio oltre i vetri indicava che non c’era nessuno negli appartamenti, che quel giorno non vi erano visite né riunioni private: allora Mrs Woolf doveva essere nel suo antro, in fondo al corridoio, il bloc-notes sulle ginocchia, la piccola macchina per scrivere accanto. Elise non avrebbe mai avuto il coraggio di varcare la soglia della Hogarth Press, ma immaginava benissimo quella sorta di ripostiglio seminterrato appena rischiarato da una vetrata, dove Virginia Woolf scriveva i suoi libri fumando, in mezzo a vecchi mobili e a pile di invenduti imballati in carta marrone. Sapeva soprattutto che, verso quell’ora della sera, le capitava di lasciare la stanza umida e scura per andare a camminare un po’, a prendere aria nel 9


quartiere, o per recarsi in visita presso qualche conoscente. Forse quella sera avrebbe obbedito al bisogno di sgranchirsi le gambe, o alla necessità più misteriosa del lavoro degli scrittori che, talvolta, li spinge a uscire… Non ne era affatto sicura, al contrario. Mille ragioni potevano opporvisi, non toccava a Elise congetturarle, né scongiurarle mediante assurdi rituali magici, né temerle, giacché non aveva nulla da esigere o da elemosinare. A ciò si aggiungeva il fatto che, il giorno dopo, sarebbe rientrata a Parigi come previsto, e questo rendeva ancora più importante il tentativo, visto che non avrebbe avuto la possibilità di ritentare la sorte… Venire lì al solo scopo di vedere uscire Virginia Woolf! Era talmente ridicolo alla sua età spiare così di nascosto, come una scolaretta esitante, un’innamorata timida. Timida e zuppa, a dispetto del grande ombrello che il portiere dell’albergo, vedendola uscire sotto la pioggia, le aveva prestato. Sempre premuroso Sparrow, che offriva pastiglie alla menta e le lucidava le scarpe… Please, Miss, take my umbrella! Ciò nonostante, aveva i piedi a mollo, e la goccia al naso che non asciugava: come poteva, così carica di acquisti, con quel manico a becco d’anatra che impugnava a due mani, dritto contro l’acquazzone? Ridicolo. Ma solo ai suoi occhi, giacché i rari passanti, di corsa sotto i loro ombrelli, non la degnavano di uno sguardo: se ne infischiavano che una qualunque Elise Casson facesse il piantone nella speranza di scorgere la grande Virginia Woolf. Aveva lasciato l’albergo di Armeny Street a mezzogiorno, di umore inquieto: fino a sera, mille pericoli l’avevano intralciata. Si era smarrita, l’orologio si era fermato. Era scivolata sul selciato bagnato, si era slogata una caviglia, e come si dice caviglia in inglese? Così si era intrufolata tra la folla, più anonima, più insignificante possibile, evitando l’ostacolo imprevisto che avrebbe potuto frapporsi tra lei e il suo appuntamento. Come se fosse un male andare in Tavistock Square… Tuttavia, dignitosa sotto l’umbrella, aveva assunto l’aria di una persona che conosce la propria destinazione, camminando decisa lungo quelle vie straniere, dalle insegne in lingua straniera. Miss Casson doesn’t speak English. O giusto un po’, ma lei scortica, storpia le parole, non ne infila tre giuste una dietro l’altra. I am one of your adoratives! Aveva preparato questa frase con il dizionarietto dalle pagine consunte, il bilingue di Mon10


sieur Brasier, e altre di rincalzo, eventualmente, ma la testa le ribolliva come una vecchia teiera, non ne ricordava nessuna, e a quale scopo? Dopo tutto, non è poi così terribile andare dove stai andando! La folla nei dintorni di Soho le faceva girare la testa. Quelle persone mal disposte, dall’aria annoiata, i passanti calati nella loro parte, molto british, le sembravano ostili. Persino la mendicante all’imboccatura del metrò suonava falsa, insaccata nei suoi abiti frusti. Di tanto in tanto, la pioggia lasciava che qualche cruda lama di sole abbagliasse la via, il vapore saliva dal selciato, accecava i marciapiedi; allora lei abbassava gli occhi, come in adorazione, infervorata per l’incontro promesso. Vediamo: in ordine, dignitosa. Il tailleur con i revers profilati con passamanerie, il taglio severo – la sargia si stropiccia meno della crêpe georgette – sul genere umile impiegata; il chutney della sera prima le aveva lasciato sulla lingua un pizzicore di menta, o di zenzero; e che sogni, per tutta la notte! Per ingannare l’attesa, aveva occupato il pomeriggio in acquisti vari. Nella luce azzurrata del negozio, un giovane commesso indiano le aveva mostrato l’assortimento dei tè. Glieli faceva annusare da sopra il banco, si applicava a elencare le essenze, mentre lei esprimeva la sua opinione, immergendo devotamente il naso all’interno dei vasi. Quella orazione dei sensi, il pizzicore polveroso delle cavità nasali erano dedicati a Mrs Woolf, verso di lei si innalzava la sua preghiera. Ma il commesso aveva bruscamente alzato gli occhi. E guarda con che aria equivoca, da saputello! Indovinava il suo segreto? Successivamente aveva comprato una giacca di lana di Scozia. Di un bel filo écru lavorato a nido d’ape, punti riso e torciglioni, una scelta sconcertante. Sulla pila di maglioni, sonnecchiava una gattina tigrata di tre colori, in realtà più di tre, liquirizia, caramello e nero, con il muso maculato di bianco, che la merciaia aveva sloggiato con malagrazia. L’aveva accarezzata sulla pancia tiepida, sotto il mento; Mrs Woolf sapeva suggerire così bene quelle sensazioni tenui. La gattina sbadigliava spalancando la gola rosea, docile, gli occhi vispi socchiusi e, dimentica dell’acquisto, lei si era lasciata mordicchiare le dita e aveva avvertito brividi elettrici nell’incavo del pugno. Le dita dalle unghie corte, la mano ferma di una donna fatta. Una donna sola, pensò, assorta nello spettacolo 11


improvviso della propria mano. Allora le apparve la bambina che era stata, con le mani screpolate. E gli strofinacci umidi, appesi sopra i fornelli, nella cucina di Le Mesnil, il vapore dei bucati, delle stoviglie nell’acquaio… La giacca era per sua madre, anziana domestica, che non aveva mai lasciato quella cucina. Da Fortnum & Mason, aveva scelto una scatola di cioccolatini per Monsieur Brasier. Lì tutto era molto raffinato, molto elegante, specchi, cristalli, inservienti in grembiuli inamidati, espositori sontuosi rivestiti di carta dorata, e le caramelle inglesi dai colori aciduli nel cellophane lucido… Così aveva occupato il tempo, fino all’ora del suo appuntamento in Tavistock Square. Alla stessa ora, le cinque della sera, in quel mese di settembre del 1933, mentre Elise Casson aspettava Mrs Woolf sotto la pioggia battente di Londra, a Ginevra splendeva il sole, le sponde del lago Lemano erano nere di gente, un’atmosfera di vacanziera euforia. Eppure, quella stessa mattina, vi era stato un piccolo incidente nel corso della seduta a Palazzo Wilson. Sotto l’affresco del soffitto nel quale cinque uomini di buona volontà si stringevano la mano, allegoria eloquente, l’assemblea ascoltava un ebreo dell’Alta Slesia venuto a denunciare i soprusi nazisti, i massacri, i negozi saccheggiati, gli stupri, le sinagoghe e le tombe profanate… Allora il delegato della Germania si era alzato: «Signori, ognuno è padrone in casa propria. Siamo uno Stato sovrano, ciò che questo individuo ha detto non vi riguarda… Noi facciamo quello che vogliamo dei nostri socialisti, dei nostri pacifisti e dei nostri ebrei, e non siamo tenuti a subire controlli né da parte dell’umanità, né da parte dell’Sdn». Joseph Goebbels si era riseduto nel silenzio, quel giorno si annunciava bel tempo. Anche a Parigi faceva bel tempo. Oggi, Camille Galay non lavorava alla catena di confezionamento del caffè, era venuta a prendere la sua amica Magda alla gare de l’Est; il treno da Vienna era in ritardo. Anche lei aspettava e, per ingannare il tempo, contemplava perplessa Le Départ des poilus, il grande quadro appeso di fronte ai binari, la scena dipinta da Herter in ricordo del figlio caduto a Château-Thierry. Camille non aveva alcun ricordo delle partenze dell’agosto 1914, aveva cinque anni: le cose erano andate 12


così? Tutti nei toni pastello del blu, i fidanzati abbracciati, gli amanti rassegnati, il giovane padre in uniforme che bacia il figlio in fasce, l’anziano padre con il mazzo di fiori e il giovane coscritto in camicia bianca che saluta la vittoria; un uomo piange, una donna si inginocchia… Quella istantanea patriottica, di armoniosa e grave serenità, quale fotografo l’ha immortalata così? La fotografia vuole l’occhio obiettivo, diceva Jos, la fotografia ha un deal con la realtà. Anche sotto il sole dell’Alabama. Soprattutto sotto il sole. Sotto quello del settembre 1933, nell’Allgäu, anche Gabrielle aspettava, distesa sulla sdraio della terrazza. Spiava il rientro lungo il sentiero delle persone uscite per una passeggiata; a quella altitudine, faceva fresco e la luce declinava già. Dalle cime, dal passo verso l’Austria, proveniva un vento autunnale che piegava l’erba dei prati e dava i brividi. Ma, dalla cucina dove Grete toglieva lo strudel dal forno, l’odore acidulo si diffondeva e portava il suo profumo fino a lei. Davanti alla vecchia casa degli Zeisser, c’erano degli arbusti di lamponi e a Ginevra, in rue de Candolle, Julia Brighten gustava una Linzer Torte ai lamponi. Con i denti, l’elegante giovane donna prendeva la pasta dal bordo del cucchiaio, badando che nemmeno una briciola le finisse sul rossetto. Durante la Grande guerra, Lenin frequentava la brasserie Landolt. Sorvegliato con un occhio solo dalla polizia, vi incontrava i socialisti svizzeri, sopportando con angelica pazienza le loro cautele di pacifisti. Che ne era stato del suo tavolo preferito? Forse era proprio quello a cui Miss Brighten era seduta, mentre ingannava il tempo osservando alle pareti i quadri di Fontanez, una Ronde e un Carnaval di studenti, di un puntinismo vivace, soave e primaverile, estremamente rinfrescante nella calura settembrina… Ma era così che andavano le cose? Il suo passaggio nelle università di Bucarest, di Parigi o di Colonia, di Bruxelles non le avevano lasciato alcun ricordo di ronde o carnevali, Julia danzava già ben altre sarabande… Alle cinque della sera, si ballava nello scantinato della Coupole di boulevard Montparnasse. Lo swing, e soprattutto la rumba, l’orchestra del Melody’s Bar di Oskar Calle vi trattenevano fino al mattino, molto più che al Jimmy o al Palerme di Pigalle. Non un sabato Pauline avrebbe mancato di andare al dancing insieme alla 13


banda di Sylvain; i suoi amici sapevano spassarsela, e lei anche. Amava dimenarsi al ritmo delle arie antillane o cubane, ma senza annerirsi le spalle come quelle oche che vogliono atteggiarsi alla Rita Montaner: lei se ne stava sulle sue, una première di Coco Chanel non cade in certe volgarità. Cadeva piuttosto sul divano Chesterfield incrociando le belle gambe, si sventolava con il foulard e reclamava un punch molto ghiacciato: che caldo in quell’inizio di settembre, l’estate non voleva finire!… A Deauville, quell’estate, si portavano dei pigiami messicani in seta baiadera, con sandali da spiaggia in lamé, molto raffinati. Ciò le suggeriva delle idee. Di idee, lei ne aveva da vendere, le mancavano solo i quattrini. Ma i quattrini, sapeva dove andare a prenderli, adesso… Ecco delle cose serie che meritano riflessione, non come quelle storie di politica che riempiono i giornali e la radio! Sylvain non aveva altro in bocca, arrivando, si strangolava dall’entusiasmo: l’evasione di un certo Hofer, dall’Austria, un agitatore ferito nel corso di una bastonatura: in barba e sotto il naso della polizia di Dollfuss, alcuni amici lo avevano prelevato dalla prigione di Innsbruck e condotto in auto a Bressanone, oltre la frontiera italiana! Fosse anche su una barella, puoi giurarci che sarebbe stato al fianco di Hitler sulla tribuna d’onore! Lascia stare la politica e vieni a ballare, canticchiava Pauline, Casera de mi corazón, El manisero entona su pregón!… Simon Lewenthal non ballava, non mangiava Linzer Torte ai lamponi, non aspettava nessuno. Nel suo ufficio di direttore all’ultimo piano delle officine B&G di Choisy, cominciava la sua seconda giornata di lavoro. Il sabato è come tutti gli altri giorni della settimana, i dossier si accumulano, le quotazioni salgono, il caffè, il cacao, la produzione di grano è insufficiente, la crisi perdura. Si assume, si licenzia, un margine di sicurezza a seconda del mercato, il nuovo sistema di timbratura elettrica da allestire, due sindacalisti segnalati al reparto imballaggio. Per prima cosa aveva telefonato a suo fratello per sapere come stava, poi all’ingegner Courtois, infine a Madame Mathilde, che aspettava come ogni sabato sera il bilancio settimanale, la solita routine. Tuttavia, prima di immergersi nei dossier, si era avvicinato alla finestra, a strapiombo sui cortili deserti della fabbrica e sui tetti in cemento. Da lì, si poteva dominare il vasto paesaggio urbano della periferia, la distesa dei 14


capannoni industriali e delle ciminiere sotto il sole calante, in lontananza i tetti di Villeneuve-Saint-Georges, tra i quali quello della casa di Monsieur Patient. Quella sera sarebbe andato da lui, vi avrebbe passato la notte in compagnia… Il sole tramontava sull’Europa; ovunque, fuorché a Londra coperta di nuvole, il cielo era limpido, le condizioni meteorologiche estive e, se la notte saliva da est, calando nel buio pianure e catene montuose, il tracciato argenteo del corso dei fiumi, le palme di estuari aperti agli oceani, la sontuosa distesa dei ghiacciai e l’incresparsi delle foreste, la nebulosa blu delle città con i loro duomi e campanili pacifici, le ciminiere delle fabbriche, quale soldato di guardia, quale sentinella avrebbe potuto scorgere, in quella invasione naturale delle tenebre, lo spettro di una mano gigantesca che plana sulla carta, gettandovi la sua ombra tentacolare…


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La pioggia cessa, Mrs Woolf compare, non può che essere lei. Chi altri sennò, con quella silhouette slanciata, di casta e cupa bellezza, talmente sottile da sembrare una ragazzina, con una lunga gonna piatta e una giacca corta in panno di velluto, abiti fuori moda, persino ineleganti, e tuttavia pieni di grazia… Nel vano della porta bassa, piega il collo, si attarda oltremisura nel tentativo di domare la maniglia della porta, che resiste o è lei che ci mette troppa foga, quindi getta verso il fondo della strada un lungo sguardo incredulo. Nel contempo, tende la mano davanti a sé, tasta l’aria come fosse una stoffa, una mano talmente esile e lunga che Elise ha un brivido. Allora ha veramente il tempo di vederla, di vedere il suo volto. La pioggia era cessata, così all’improvviso che sembrava un miracolo, bontà divina! Sipario che si alza, colpo di cembali e coro di serafini. Elise aveva dovuto chiudere gli occhi. Non si ricordava di avere chiuso gli occhi, si ricordava soltanto di averla vista allontanarsi rapidamente e adesso c’era, sì, una specie di cane giallo che le correva alle calcagna. Era trascorso solo un istante, ma già fuggiva lontana sotto gli alberi chinando nello slancio la sua alta figura, diretta chissà dove a grandi passi nervosi, come se fosse in ritardo, in ritardo, con la gonna che le frustava i polpacci seguendola come un vortice d’acqua. Si sarebbe detto che non toccasse terra, o forse era un effetto del controluce, della luce pallida della nuvola di pioggia nella quale era scomparsa. La strada ora era vuota, e aveva ripreso a piovere, a secchiate. 16


Vi capita mai di chiudere gli occhi nel momento stesso in cui al vostro sguardo si offre l’immagine più agognata, più accarezzata nei vostri pensieri e così fuggevolmente, così straordinariamente presente, così vicina che, a un passo da voi, potete toccarla, afferrarla con un gesto? Eppure, leggendo Una stanza tutta per sé, Orlando, questa persona la si conosce mille volte meglio! A voi si rivolge, direttamente, alla parte più oscura, più intima di voi stessi. A tu per tu nell’oscurità, si dialoga meglio che nella luce piena della realtà. Questa persona la ritrovate intatta domani, tra poco: aprendo semplicemente la pagina di un suo libro, lei è lì, in tutta la sua pienezza. L’altra, quella sull’uscio, è una divinità cinta dall’aureola della propria gloria. Non si avvicinano le divinità, per rispetto e per devozione, ci si tiene a distanza così da lasciarle fuori portata senza che debbano chiedervelo, questo è il prezzo della loro esistenza. Il fatto che Virginia Woolf uscisse proprio a quell’ora rappresentava un dono ineffabile e ricco di una tale grazia che la trivialità di un qualunque gesto l’avrebbe macchiato. Nemmeno per un attimo a Elise venne in animo di avvicinarla e di seguirla fino all’angolo della strada, o anche oltre, fino a dove era diretta… Abusare di quell’istante non avrebbe arricchito in nulla un tale dono e l’idea stessa di un pedinamento era talmente indegna che ne sarebbe rimasta mortificata per lei. Non ci pensò neppure. D’altra parte, ora che la Hogart Press era tornata la banale vetrina di un negozio qualunque, non vi era più nulla che la trattenesse. Girò i tacchi e si affrettò verso il metrò, come una ladra soddisfatta che si porta via una visione, un’immagine talmente inconsistente, talmente immateriale da sembrare forse un miraggio, il frutto di un’immaginazione sovreccitata dalla lunga attesa… Arrivata al proprio albergo, nei pressi della Victoria Station, nella penombra della sera, trovò il portiere intento a esaminare il travaso di un’anemica stella di natale, una delle piante esotiche che si ostinava a coltivare per abbellire l’ingresso, più per la propria soddisfazione personale che per quella della clientela di passaggio, e per fare ciò consultava una quantità di opere scientifiche sull’acclimatazione delle specie tropicali nei paesi a clima temperato. Lo sorprese immerso nelle sue perplessità e, all’inizio, levò a stento il capo. 17


«Manca di cloruro di ferro, o di sangue di bue» credette di comprendere Elise, che annuì con un sorriso amichevole. «Ah ma, povera signorina, sembra un cane bagnato! Like a soaking wet dog!» «A yellow dog! Yellow dog!» canticchiò Elise, scuotendosi allegramente sulla porta. Essere il cane giallo di Virginia, correre dietro ai suoi passi: che felicità! Il fatto che Sparrow non potesse capire la faceva sentire ancora più allegra. Questi corse subito a occuparsi di lei, la aiutò con gli acquisti, con l’ingombrante ombrello, mettendovi la stessa premura con la quale curava i cactus; accese quindi la plafoniera, per educazione, un lampadario modern style decisamente passato di moda, la cui flebile luce elettrica, anziché accenderli, smorzava i colori sbiaditi della tappezzeria, delle poltrone fruste e della collezione di stoviglie provenienti dalle Indie sonnecchiante nella vetrina vittoriana. Tuttavia, da quando scendeva in quell’albergo, a ogni viaggio, Elise ne aveva adottato l’arredamento, come si adotta quello di un’anziana parente della quale si ignora cosa contengano i cassetti degli armadi, quali vestiti appassiscano appesi alle grucce, quali anelli impallidiscano nei cofanetti, e se un giorno lo avesse trovato cambiato, ne sarebbe rimasta addolorata come se avesse perduto un vecchio libro. Sì, a ognuno dei suoi viaggi leggeva una nuova pagina, gli episodi galanti e desueti di un romanzetto da due soldi, nel quale il portiere incarnava il personaggio principale e gli ospiti occasionali i personaggi secondari, ma chi è secondario nella vita? Chi non porta con sé gli intrighi sconvolgenti e appassionanti di cui è fatta l’esistenza di ciascuno, i ricordi e i rimpianti, frammenti di speranza e di desideri irrealizzati, di amori e di odi, e dei piccoli crimini che commettiamo in ogni momento. Nelle prime ore del mattino, essi ritornano e allora bisogna ricominciare tutto daccapo, il nuovo giorno più vecchio di quello appena trascorso e tuttavia così nuovo! Rientrare stremata dopo quella corsa, con il segreto del suo incontro, all’improvviso tanto pesante, ecco un crimine che avrebbe dovuto confessare a qualcuno! Quanto le sarebbe piaciuto poter posare in quello stesso istante il capo su una spalla, quella di Sparrow, giacché era lì, affondare in una delle poltrone, conversare amabilmente con lui, di cose inoffensive e profonde, tenendosi le mani. Con lui, con il ragazzo ormai invecchiato, alquanto trascurato, spettinato, di cui 18


non conosceva nemmeno il nome, dopo tutto quel tempo, soltanto il soprannome Sparrow che gli affibbiavano i clienti. Certo, l’aspetto compito e anche un po’ spennacchiato di un passero ce l’aveva; ma che essere coriaceo, agile e forte sul lavoro! Come gli sarà rimasto appiccicato addosso un simile soprannome, quale essere al mondo e in quale circostanza lo avrà battezzato in quel modo? Una madre, una sorella, un padrone in vena di scherzi? Anche lei lo aveva adottato, insieme alla casa, alla plafoniera e al suo odore di muschio, insieme ai vecchi merletti e alle tristi stelle di natale. «Ah! Sparrow, eccomi di ritorno… Sono tutta inzuppata, e il suo parquet sarà perduto» si scusò quasi sul punto di mettersi a piangere. Quelle ore sconvolgenti le avevano fatto venire i nervi a fior di pelle? In ogni caso, lui comprese che era agitata a causa di qualcosa di personale, e desiderosa di raggiungere la propria camera: come al solito, le avrebbe portato più tardi il vassoio serale, con la grande teiera e i tramezzini al burro di arachidi, e una porzione di crumble alle mele. Ma prima: «Miss Casson, tutto a posto, il suo pacco è arrivato. Glielo porterò in camera tra poco…». No, lei lo prende subito. Perché i tè, d’India o di Cina, le giacche in lana di Scozia, i gatti di tre colori, i cioccolatini di Monsieur Brasier e persino l’incontro folgorante continuamente rimandato, continuamente promesso in Tavistock Square, tutto ciò è totalmente privo di importanza rispetto al pacco che viene a ritirare in servizio obbligato, ogni due mesi, a data fissa, all’albergo di Armeny Street. Senza mostrare alcuna sorpresa, mantenendo l’abituale contegno distaccato, Sparrow si inabissò sotto il banco, prese il pacchetto legato con uno spago e glielo porse. «Tuttavia non dimentichi di lasciarmi le scarpe fuori dalla porta. Visto come le ha ridotte, un buon colpo di spazzola…» «Le scarpe?… Sì, certo… Grazie, Sparrow!» Non vi era nulla di più pressante che salire in camera e sfuggire al suo sguardo. Con il pacco stretto tra le mani, si affrettò verso le scale, ma è talmente pesante che le frena lo slancio: contiene una copia di tutte le riviste, i settimanali, i mensili e i bimestrali che trattano dell’attualità letteraria, romanzesca, teatrale e poetica, la 19


summa degli articoli di erudizione di tutta l’intellighenzia britannica. Non uno di meno. Qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe più pratico, e meno dispendioso, al posto di un viaggio Parigi-Londra andata e ritorno più una camera nell’albergo di Armeny Street e le relative spese, pagare degli abbonamenti alle case editrici londinesi, alle università di Cambridge e Oxford, far consegnare a Parigi tramite i servizi postali, che funzionano benissimo, quelle riviste a tiratura limitata, la cui collezione è un rompicapo e la cui scelta aleatoria. Avrebbe perfettamente ragione. Corre forse allo stesso modo in tutte le città d’Europa per rifornire rue Notre-Dame-des-Champs di periodici di Berlino, Vienna e Budapest, e di Roma, e persino, di tanto in tanto, di New York? Arrivano molto agevolmente tramite corrieri. Certo, in numero ridotto, ma la clientela specializzata non se ne lamenta affatto, un ristretto circolo di iniziati parigini e qualche illustre o sconosciuto letterato straniero di passaggio, i quali sanno che, alla libreria Brasier, si ha la fortuna di trovare le novità della vita artistica internazionale. Prendono quello che trovano, ben contenti che a Parigi esista un luogo del genere. A che cosa sarà dovuta una tale ammirazione nei confronti di Londra? D’altra parte, a causa di quella gestione insensata, di quel gusto smodato per le uscite inglesi più rare, una quantità di invenduti restano tra i piedi, notava ancora Elise: anche soltanto con i fondi di magazzino, si potrebbe erigere un monumento alla gloria della letteratura d’avanguardia. Ingombrano il piccolo deposito nel cortile, e nessuno ha il tempo né il coraggio di mettervi un minimo di ordine, di catalogare tutto quel museo di carta. Ma, ma, ma, ribatteva Monsieur Brasier, abbonarsi alla cieca è rischioso. E anche disdire l’abbonamento, preoccupazioni, denaro perso, calcoli bene. Non si può mai sapere quali riviste nascono e quali muoiono, questo genere di pubblicazioni è effimero per natura, variabile quanto al contenuto: non si può mai sapere qual è il livello dei redattori, se restano oppure se ne vanno. Con le riviste, bisogna avere fortuna: meglio occuparsene direttamente, quando se ne ha la possibilità. E poi, Elise, non paragoni l’Inghilterra agli altri paesi d’Europa: è la patria di Laurence Sterne e di Jonathan 20


Swift. Infine, amo Londra, non c’è altro da aggiungere: vi ho imparato l’inglese, e mio figlio vi è sepolto, nel cimitero di Highgate. Ecco tutto. Ecco le ragioni assurde che Monsieur Brasier opponeva alla giovane Elise Casson, quando quest’ultima, all’inizio, gli esponeva le sue argomentazioni, e per diversi anni gli vide compiere quegli assurdi viaggi bimestrali, con una regolarità da metronomo. In sua assenza, lei gestiva la libreria di rue Notre-Dame-des-Champs, sistemava la vetrina a seconda del proprio umore, mettendovi in evidenza i libri che le piacevano. Per qualche giorno, aveva licenza su ogni cosa, era la padrona: un incanto. Al rientro, il libraio si gettava vorace sulle sue riviste inglesi, quindi riprendeva daccapo la lettura del Tristram Shandy, del Viaggio sentimentale o anche della Certosa di Parma. Era sempre meno frequente che mettesse il naso nei libri contabili, le lasciava la briglia sciolta. In fondo, portava avanti gli affari come più le aggradava. Grazie a Stendhal e a Sterne, alle riviste di Londra, grazie alla compiacente distrazione di Monsieur Brasier e ai suoi ghiribizzi, aveva appreso il mestiere di libraio meglio che in qualunque scuola. Tutto ciò accadeva un tempo, prima che Monsieur Brasier diventasse di colpo anziano, prima che la gotta lo colpisse a tradimento. Così come in passato era stato brillante, svelto, perentorio, instancabile, ora rimpiccioliva, si ripiegava su se stesso, trascinava la gamba gemendo, imprecando e protestando, scontroso, dolente, impotente. Lui, che nemmeno beveva, che non fumava, a parte, di tanto in tanto, un piccolo manila, per sfizio – sarà forse la nicotina che mi esce dall’alluce, Mademoiselle? –, era contrariato oltremodo da una simile ingiusta punizione. Aveva ormai rinunciato a recarsi in visita presso le case editrici come fosse un vicino di casa o un amico, ad andare a comprare il suo formaggio olandese dal lattaio all’angolo, a salire nell’appartamento al piano di sopra. In occasione di una crisi più acuta del solito, aveva sistemato il letto e la poltrona nella stanzetta dotata di un lucernario posta dietro la cucina. Vi si era acquartierato e, certe mattine, era talmente spossato a causa dell’insonnia che non si faceva vedere in negozio prima di mezzogiorno. Infine, aveva proposto a Elise, invece di rientrare, la sera, nel suo modesto appartamento della Glacière, di installarsi al 21


piano di sopra come fosse a casa sua, di mettervisi pure a proprio agio, tanto lui non vi sarebbe più tornato ad abitare, questo era certo. Elise aveva accettato, perché un anziano solo la malattia lo affligge e lo spaventa. Senza alcun calcolo o esitazione, malgrado sapesse bene che, all’occasione, avrebbe dovuto fargli ormai da infermiera, vegliarlo di notte, in nome delle tantissime cose che doveva a quell’uomo, delle tantissime cose di cui, tra loro, non parlavano mai. Giacché, se lei oggi era quella donna istruita e libera, che si guadagnava da vivere, che era in grado di dare indicazioni ai clienti senza arrossire né confondersi, di consigliarli nelle loro letture e persino di sostenere una conversazione con Monsieur Gide o con Monsieur Cocteau quando passavano in libreria, di accogliere gli stranieri famosi che passavano da quelle parti prima di approdare nei caffè di Montparnasse, era perché Monsieur Brasier un tempo si era preso l’immensa, bizzarra e penetrante libertà di osservare da vicino la sua gioventù e di averne riconosciuto meglio di lei le promesse. Era ormai trascorso, eppure era sempre nuovo, il tempo della guerra in cui era cresciuta senza nessuno che le facesse da guida, abbandonata a se stessa, nell’angoscia generale. Chi mai avrebbe potuto preoccuparsi della piccola servetta, della sua solitudine, quando nessuno sapeva più dove sbattere la testa, quando il disastro si portava via tutto. Si rifugiava nella biblioteca, l’unico luogo dove nessuno veniva mai, e così si era ritrovata in mezzo ai libri. A dire il vero, una donna glieli aveva messi tra le mani, aveva aperto il primo per lei. Aveva osato al suo posto ciò che lei non avrebbe mai avuto il coraggio di fare, prendere ciò che non le apparteneva. Le aveva dato ciò che non le spettava. Si era ritrovata in mezzo ai libri, trasportata in viaggi talmente lontani che ne ritornava sconvolta, ebbra e spossata, e triste, triste del languore dell’abbandono nel quale ogni romanzo la lasciava, di trovarvi e perdervi in continuazione la ragione di vivere che a lei mancava. Monsieur Brasier aveva riconosciuto in lei tutto ciò. Aveva meno di vent’anni, mentre lui più del doppio. Veniva a trovare Henri de Galay nella sua reclusione di Le Mesnil, a portargli i libri che gli ordinava, poiché quel vecchio cliente era stato a lungo tra le sue frequentazioni abituali e conosceva la sua vita. Un bel giorno lei 22


entrò portando un vassoio con il loro spuntino e, vedendola così fresca, come le domestiche di una volta, le fece qualche complimento; allora la ragazza aveva osato replicare, impertinente, con dei versi di Ronsard totalmente fuori luogo, di una tale incongruità che ne rideva ancora; d’altra parte, non aveva altro da opporgli se non il bel sonetto che le occupava la mente, la sua passione letteraria del momento. La loro amicizia risaliva a quel giorno. E al giorno del funerale, nel cimitero del villaggio, nel quale si accalcava la piccola folla convenuta alle esequie di Henri de Galay – non c’era molta gente ad accompagnarlo, tra un giovane morto in guerra e l’altro, annunciati ormai quotidianamente. Lei era meno di niente, si teneva in disparte rispetto alle persone della buona società. Monsieur Brasier le si era avvicinato. Sapeva che non possedeva alcun diploma, né conoscenze che le permettessero di lasciare Le Mesnil, che sarebbe stata una bocca di troppo, ora che non aveva più nessuno da servire, lei che, da tre anni, leggeva al malato rinchiuso nella sua camera, sicché le aveva detto: Sono solo nella mia libreria, ho bisogno di una commessa. La rapisco. Vuole? Non aveva chiesto nulla, né ascoltato le grida della madre o le rimostranze della governante, Madame Victor. Come riconoscere l’occasione giusta, come coglierla al suo passaggio con l’intuizione degli illuminati? Aveva preparato velocemente la valigia, la piccola valigia del suo viaggio a Venezia, ed era partita il giorno stesso con Monsieur Brasier, un uomo che conosceva appena, del quale ignorava i pensieri, le abitudini e i gusti, per un colpo di testa, un’ispirazione improvvisa, di quelle che ribaltano il destino. La prima sera, Parigi era fredda, ostile e vasta, era sbarcata come una contadina sul marciapiede della città straniera, una giovane donna ingenua e ignorante in compagnia di un signore attempato, senza nemmeno avere idea di quanto ciò fosse equivoco. Per la sua prima notte, le aveva sistemato un letto di fortuna su di una panca, esattamente nella stanzetta attigua alla cucina dove ora lui alloggiava. Come inizio, poteva andare. Su quella specie di letto, non aveva chiuso occhio per tutta la notte, convincendosi di non avere nulla da rimproverarsi, di non dovere alcunché ai padroni che aveva lasciato. Concedendosi il diritto di essere felice, la fame feroce della sua felicità del momento, che era quella di restare dritta distesa 23


come una regina nel suo giaciglio, sveglia come una civetta, intenta ad ascoltare rumori sconosciuti in mezzo all’odore di carta vecchia, alla polvere soave, dolciastra, che le si sfarinava sul viso e che la faceva ridere in silenzio, solleticata da quel buon odore di libri, sotto il quadrato del vasistas, ben presto reso grigio dall’alba e poi azzurro, così azzurro quella mattina! Un quadrato di azzurro inaudito di cui si ricordava come della vetrata di una chiesa. Sicché, per quanto fosse perentorio, lunatico e maniacale, quell’uomo l’aveva adottata, l’aveva ospitata e istruita, redarguita e tormentata, e aveva per lei la bontà dei pastori. L’ultima volta che Monsieur Brasier aveva percorso il tragitto Parigi-Londra e ritorno, l’avevano chiamata dalla gare du Nord. Aveva dovuto chiudere la libreria per andare a prenderlo in uno stato pietoso, triste poiché incapace persino di sollevare il pacco delle riviste, che un facchino teneva appoggiato su un carrello, mentre lui se ne stava disteso su una panchina della sala d’attesa, spossato dal viaggio, furioso contro quella dannata gamba, la schiena bloccata, rifiutandosi di prendere da solo un taxi, di fare anche un passo in più nella folla agitata della stazione. Quel ritorno in rue Notre-Dame-des-Champs era stata la conclusione più triste delle spedizioni inglesi; tuttavia, in fondo a se stessa, Elise si rallegrava del fatto che fossero finite. Finite! Due mesi più tardi, era lei a prendere il treno e il traghetto Calais-Southampton, a sbarcare a Londra con la missione di prendere in consegna il pacco delle riviste nell’albergo di Armeny Street. Da un anno, eseguiva la corvée per compiacerlo. Una corvée all’inizio, perché in seguito non fu più così fastidiosa, cominciò al contrario a piacerle quella breve avventura, la partenza e il ritorno lungo il medesimo percorso, ritrovare Sparrow e gli odori del piccolo albergo, il suo lampadario fuori moda e il crumble serale. E ben presto, mentre si emancipava in quelle escursioni londinesi, ciò che lei non avrebbe mai osato immaginare, mai osato concepire come un progetto realizzabile, qualcosa di impensabile aveva progressivamente preso forma a ogni viaggio. O piuttosto ogni ritorno la proiettava già verso la partenza successiva, verso un appuntamento che non osava formulare, dal quale si lasciava tentare, se24


durre e che la rendeva inquieta, con, alla bocca dello stomaco, il turbamento di una innamorata perché, trovandosi nella stessa città, così vicina a quell’atmosfera sacra nella quale viveva la celebre donna, nacque in lei il desiderio di vedere, di vedere un giorno la scrittrice che aveva conosciuto grazie alla recente traduzione delle sue opere. Forse, all’inizio, per merito di una di quelle riviste rimaste sulla scrivania di Monsieur Brasier, o forse perché, una mattina, erano arrivati alcuni esemplari freschi di stampa dei suoi libri, che aveva avvicinato al viso per annusarne l’odore di inchiostro fresco. Ne aveva letto uno la sera stessa, l’aveva divorato, dimenticandosi di togliersi le scarpe, di cenare, a poco a poco stregata, soffocata dall’emozione, con le ginocchia tremanti, nella rara illuminazione di sentire salire quella voce, una voce familiare e sconosciuta che le diceva così intimamente, così magicamente, chi era lei, Elise Casson, come viveva e pensava e sentiva il mondo. Virginia Woolf! Una donna che non era morta, che non era il solito scrittore imbalsamato in chissà quale cimitero, nel quale gli ammiratori vanno a raccogliersi. Lei era viva, respirava, andava e veniva per le strade di Londra, magari incrociava i suoi passi. Era un essere calato nel suo tempo, una contemporanea. Elise era riuscita a vedere una volta una sua foto su una rivista… Impossibile ritrovarla in quel museo, nella confusione del cortile, sotto le pile di invenduti. Una fisionomia insolita, un viso lungo ed emaciato, malinconico; era proprio lei o un’altra? Come scoprirlo? Attendeva ormai con impazienza le consegne da Londra che il loro assiduo commesso viaggiatore portava ogni due mesi, aveva decifrato parola per parola, con l’aiuto del dizionarietto bilingue – che progressi faceva in quell’esercizio! –, alcuni articoli su certe conferenze recenti della celebre scrittrice, i cui Le onde e Flush erano appena stati pubblicati, una donna della quale il cronista diceva, in termini sibillini, le abitudini barocche, e l’umore tetro, forse addirittura morboso. Insomma, una creatura altera e mondana, molto in voga, per quanto selvatica, inaccessibile. Tuttavia, prima di autorizzarsi, di concedersi il diritto di immaginare di incontrarla, di concepirne l’idea e di darle forma, correggendo di continuo le circostanze nella propria mente, erano trascorsi alcuni mesi, un tempo di attesa lento 25


e malgrado ciò leggero, a tal punto che non vi era nulla che potesse né assicurare né compromettere il sogno. Non aveva detto niente del suo disegno, della sfrontatezza di un simile progetto, di quell’assurdo atto infantile; a nessuno parlava di ciò che le passava per la testa. Di sicuro non a Pauline, la quale, su tali soggetti, aveva delle intuizioni da veggente e ti trafiggeva il cuore con i suoi commenti assassini. Nemmeno a Monsieur Brasier, il quale trattava le persone illustri che frequentavano la sua libreria con la stessa bonomia con cui trattava il lattaio o la fruttivendola all’angolo. L’avrebbe disapprovata, si sarebbe fatto beffe di una cosa tanto eccentrica, avrebbe abbattuto il suo castello in aria. D’altra parte, segreto per segreto, le aveva mai detto, in tutto quel tempo, in cosa consistesse esattamente la consegna delle riviste, che cosa andasse a prendere a Londra, così docile e fiduciosa, senza fare domande? D’altra parte, quali domande fare, visto che credeva, da ingenua quale era, di soddisfare un ghiribizzo dell’uomo anziano, di risparmiargli la contrarietà di dover interrompere i suoi approvvigionamenti, ai quali teneva tanto? Poi lui aveva finito col raccontarle tutto, la sera prima di una partenza. «Sassette» le disse «bisogna che parliamo.» Sassette! Solo il nome, tornato all’improvviso sulle sue labbra, rappresentava un forte motivo d’allarme. Monsieur Brasier non aveva più usato quel nomignolo che lei proibiva, quel nome di un tempo che aveva abbandonato così come aveva abbandonato se stessa, per avere una vita, una stanza tutta per sé. Quella sera, aveva appena tirato la serranda della libreria, rimesso un po’ di ordine tra i libri sugli scaffali, sempre da risistemare dopo il passaggio dei clienti durante il giorno. Aveva tirato un po’ tardi spillando le note di vendita, preparando gli ordini per gli editori, mentre la zuppa per il libraio si riscaldava sul fuoco. Lui l’aveva trattenuta nella piccola cucina prima che salisse nel suo appartamento: bisogna che parliamo. Si scrutavano con diffidenza come per intuire cosa dell’uno l’altra sapesse e viceversa, poco o niente che fosse, visto che, a dispetto degli anni trascorsi, non sapevano quasi nulla di loro. Il loro modo di stare insieme impediva qualunque scambio di confidenze. Quando si vive negli stessi cinquanta metri quadri per tutto il giorno, le confessioni fatte alla 26


leggera possono risultare pericolose, persino catastrofiche. Per questo, Elise non avrebbe mai chiesto a Monsieur Brasier chi fosse il figlio morto a Londra, o la madre, giacché doveva per forza averne avuta una, nonostante non ve ne fosse traccia, né in cucina, né nelle due stanze al piano di sopra. Quanto a lei, si sarebbe sentita troppo in pena se avesse dovuto parlare di suo padre in risposta a una sua eventuale domanda. Non averlo ti risparmia un sacco di conversazioni. La zuppa lei la prepara con le sue mani, il solo piatto serale che il frugale libraio si concede, insieme a una scaglia di formaggio, il solito formaggio olandese dalla crosta rossa. Quanto alla maniera di preparare il porro, sminuzzandolo o tagliandolo alla julienne, di affettare la cipolla per traverso o per il lungo, di passare le verdure con il passaverdura a seconda della stagione e delle primizie disponibili, tali soggetti di conversazione rispettano l’intimità anche se, badando alle proprie occupazioni, si discute senza fine per sapere se è vero oppure no che Monsieur Malraux immagini che qualcuno abbia letto Cuore di tenebra prima della sua Via dei re, se Benjamin Constant è un uomo di mondo scettico o un disperato, un dogmatico oppure un opportunista, se Garamond, il genio della tipografia, avrà studiato il nervo ottico per adattarvi talmente bene il suo carattere oppure se avrà obbedito a un’intuizione da artista della geometria. L’una o l’altra che fossero, si trattava sempre di dispute e controversie innocenti, e le serate trascorrevano così, in una totale neutralità di sentimenti. «Sassette, bisogna che parliamo.» E invece se ne stava in silenzio, mentre lei versava la zuppa nell’enorme piatto simile a una bacinella. Era talmente imbarazzato, Monsieur Brasier, che non osava nemmeno toccare la sua minestra; d’altra parte, era bollente, fumante sotto la luce della lampada. Si accostò al discorso da lontano, con enorme prudenza. Aveva mai visto il corriere che consegnava presso l’albergo il pacco legato? Mai. Né lo incontrava, né aveva mai sentito parlare di lui. Veniva e depositava l’involto in sua assenza? Sì, precisamente, ed era uno dei motivi di fascino di quel viaggio il fatto che fosse così libera, senza l’obbligo di dover correre da una parte o dall’altra impegnata in mille commissioni, senza persone da incontrare in 27


uffici riservati, soprattutto con il suo inglese più che zoppicante. Il fatto che qualcuno, un osservatore diligente e fedele della produzione letteraria, di sicuro molto ben introdotto, facesse con discernimento la cernita giudiziosa di ciò che interessava il vecchio libraio parigino… Una persona accorta, l’amico londinese, un fine conoscitore degli ambienti ad hoc, colto, puntuale, servizievole, discreto. In un certo senso, un eccezionale informatore. «Il fatto è, Sassette, bisogna che lei lo sappia, non possiamo continuare in questo modo: non posso con lei, non ne ho il diritto. Ho il diritto, sono autorizzato a dirglielo. Si sieda dunque.» Siccome lei rideva di tutta quell’esitazione – suvvia, di cosa sta parlando? –, assunse un’aria imbronciata: Sappia che, tra queste riviste, ce n’è una di una specie particolare, una specie. Quell’espressione, specie, ripetuta più volte, fece ridere ancora di più Elise, che se ne stava in piedi con il mestolo in mano. Mentre il fumo azzurro saliva dalla piccola bacinella, Monsieur Brasier vi immerse il naso più del solito – quel suo lungo naso sensibile, le cui cartilagini erano visibili attraverso la pelle fine, sul quale scivolavano gli occhialini dalla montatura in acciaio – e, mescolando con il cucchiaio, pensoso, quasi vergognandosi, spiegò a Elise che lei svolgeva a sua insaputa, e ciò lo aveva assai tormentato, più ancora della gotta, mi creda, un servizio segreto. Una specie. Che consisteva nel portare, senza leggerlo – a dire il vero, leggerlo era impossibile, da quel punto di vista poteva stare assolutamente tranquilla, e lui anche – nel portare, quindi, un documento che non li riguardava, né lei né lui. Che informava certe persone. Lo sa o no che cosa significa informare? Di ciò era incaricato, aveva accettato, non era il caso adesso, in ogni caso non subito, magari più avanti, che le raccontasse in quali circostanze e perché facesse volontariamente quel genere di cose, rendesse quel genere di servizi. Ma lui era lui, e non lei, e se lei non voleva, se lei aveva paura… Paura di che cosa? pensò Elise, più divertita che sorpresa, giacché era tanto facile fare ciò che bisognava fare, ciò che lui non poteva più fare, come già aveva fatto più volte dall’inverno scorso, ossia portare in patria il pacco e posarlo tranquillamente sulla scrivania del libraio, con tanto di spago. «Ingenua! Parliamone seriamente.» 28


Paura, certo, con i tempi che corrono, visto come va il mondo. Suvvia, Elise, non sia sciocca. E dove corrono i tempi Monsieur Brasier? Di che cosa sta parlando? Il fatto è che la cosa era talmente ben rodata che non si era potuto interromperla; era organizzata con una tale cura che la sua malattia aveva messo certe persone in difficoltà. Non era così facile trovare su due piedi qualcuno di fidato che ritirasse il pacco, che scortasse quella cosa. «L’ho ingannata, Sassette, non è giusto. Bisogna che lei sappia, ora. Prima di tutto che Sparrow sta con noi, che è una tomba.» «Una tomba? Sparrow?» «Anche lei, Sassette, una tomba. Qualunque cosa decida d’ora in avanti.» «Sparrow? Quello che mi lucida le scarpe?» «Proprio lui, Elise. Ora decida. È un argomento estremamente delicato, ma di lei mi fido. Posso fidarmi, vero, Elise?» Adesso Sassette non è più in grado di fare nulla. È giusto perché ti voglio bene e un uomo non è mai più pericoloso di quando fa leva sui sentimenti. Ora capisco dove vuoi arrivare, Brasier. La questione della fiducia c’entra come un capello nella zuppa serale, e lui aggiunge, come aggiungerebbe un pizzico di sale: «Quello che posso dirle è che la causa è giusta. Cioè, è abbastanza buona perché io accettassi. E lei? Accetta?». Sopra la zuppa, sotto la lampada gialla, tra una mescolata e l’altra, ecco come si decidono le cospirazioni. Elise ne ride, ha il buon cuore di riderne, benché questa storia improvvisa le apra prospettive verticali alquanto vertiginose. In primo luogo, alle sue obiezioni sulla praticità e l’economicità dell’abbonamento poteva pensarci anche il primo idiota di turno. Il loro piccolo commercio letterario, il ritorno da Londra con il pacchetto sotto il braccio salta all’occhio anche a un orbo. Lei obietta, lui scuote la testa. Persone come me, o ancora di più come lei, non rispondono al profilo abituale, non ne possiedono né lo stile, né il genere. Un vecchio un po’ strambo, maniaco di riviste letterarie, manifesti e pamphlet, non salta minimamente all’occhio ed è tutt’altro che plausibile. «E quale sarebbe lo stile e il genere degli altri, mi dica? A che cosa somiglia una spia?» «Una spia! Che parolona, lei legge troppi romanzi. Diciamo 29


agente di collegamento. Noialtri siamo roba da poco, fattorini, addetti ai bagagli, sguatteri, galoppini. Vale lo stesso per lei, senza offesa, Elise – sorriso da bibliotecaria, che passa il tempo a leggere poesie, che storpia le tre parole di inglese che conosce: è perfetto, lei è perfetta. E mi raccomando: non impari l’inglese, rimanga com’è ora.» Rideva anche lui perché sapeva che Elise aveva acconsentito. Per ignoranza, o per immaturità, per amore, per sfida, per ingenuità. Sì, lo aveva detto senza dirlo, e sarebbe partita l’indomani. Eppure Sparrow le troncava il respiro, per quella sua aria da mai visto né conosciuto, da passero con la vista corta. Un ragazzo talmente scialbo, ossessionato dalle colture di cactus in serra, confinato nel suo antro dell’albergo di Armeny Street, che non andava più in là del mercato dei fiori, nei rari giorni di bel tempo, un agente di collegamento: al solo pensarlo rimaneva a bocca aperta. Ma anche abbastanza sveglia da immaginare quella confraternita, concedendosi qualche fantasia pittoresca. Poi dimenticò, dimenticò davvero, perché erano così facili, affascinanti il breve soggiorno, gli acquisti e le passeggiate, e anche il grande appuntamento con Mrs Woolf che le riempiva il cuore. L’ultima volta che vi era andata era estate, e Londra è deserta in estate, i suoi bei quartieri vuoti; la gente di Kensington e di Notting Hill è partita verso i cottage di campagna, verso le spiagge di Brighton o di Exeter, la Costa Azzurra o Roma. Come è possibile avere paura, sentirsi in pericolo lungo i viali spopolati dove passeggiava, nelle piazze assolate, nel grande parco ombroso dove sognava, sola su una panchina, in compagnia degli scoiattoli e degli uccelli che beccavano le briciole del suo picnic, fino a sfiorarle i piedi?… A quell’epoca, non si era ancora spinta fino a Tavistock Square. In quel periodo estivo, la donna che occupava i suoi pensieri sarebbe stata assente, in viaggio verso un qualche luogo di villeggiatura lontano. Non vi era nulla che le mettesse fretta, che la obbligasse a rincorrere il tempo, era una stagione intima, colma di vaghe promesse. All’incrocio delle linee di Piccadilly, Regent Street e Haymarket, si trovava al centro di un perimetro familiare, il cuore le batteva tranquillo. Nell’atmosfera luminosa della città, 30


nel silenzio, nella quiete domenicale, la realtà era benevola, le piccole isole delle nuvole attraversavano in fila il cielo azzurro, sulla scia di un vento alto, mentre intorno a lei non si muoveva nulla, né una foglia, né un filo d’erba… Tuttavia, sulla panchina del giardinetto, le si era all’improvviso formata nella mente l’idea di un’audacia, autorizzata dalla stagione estiva, un’avventura di cui nessuno avrebbe sentito parlare. Lasciandosi trarre in inganno da se stessa, era riuscita a convincersi che si trattava di una innocua passeggiata di frodo, di un’idea venutale lì per lì: aveva preso il filobus fino a Hampstead e aveva visitato il cimitero di Highgate. L’improvvisata spedizione non aveva dato alcun frutto, fatta eccezione per le gambe rotte, giacché il luogo è ripido e il sole picchiava, e per la scoperta, in quel quartiere lontano, del fascino di un antico villaggio e, nel cimitero, di una bellezza paragonabile a quella del Père-Lachaise. Ben inteso, nel serpeggiare dei viali vuoti e all’ombra delle fronde degli alberi non aveva trovato, in mezzo alle numerosissime tombe, per puro caso, quella di un giovane Brasier. Che, in realtà, stava appunto cercando. In mancanza di meglio, un guardiano le aveva indicato quella di Karl Marx, accanto alla quale era rimasta seduta per un po’, disorientata dal fatto di essere finita proprio lì. Quindi, sudata e assetata, aveva prosciugato la fontana dell’ingresso, ubriaca, quasi smarrita: ma che ci faceva lei in quel posto, a mezzogiorno, in quella domenica di luglio, alla ricerca della tomba di un giovane sconosciuto? E, cosa ancora più incongrua, al ritorno, stanchissima, con il pretesto di rilassarsi, di trovarvi un po’ d’ombra e di frescura, era entrata alla National Gallery. Aveva errato nelle sale vuote, nella silenziosa teoria delle grandi stanze piene di quadri, lungo corridoi vuoti e scale vuote, immergendosi in quel castello esposto ai quattro venti, con la voglia di chiamare, come si fa sulla soglia delle case sconosciute: «C’è qualcuno?», per timore di commettere qualcosa di indiscreto, di essere congedata come un’intrusa dai ricchi abitanti assentatisi per un istante; quindi si era fermata di colpo davanti a un enorme quadro ed era rimasta a tu per tu con Jean de Dinteville e Georges de Selve, un colloquio sorprendente, senza alcuna traduzione né spiegazione. 31


All’inizio sembrava quasi un sogno, bizzarro quanto le enigmatiche costruzioni di cui il cervello si riempie durante il sonno, ma che, una volta svegli, assicurano che abbiamo dormito bene talmente ciò che rappresentano contraddice la realtà. Lei era sveglissima, eppure risucchiata, come in ipnosi, dal liuto e dal globo, dalla bussola, dal quadrante solare e dal compasso, dalla pelliccia d’ermellino e dalla seta rossa della manica, dal poliedro e dai motivi del tappeto, del pavimento, dalla medaglia e dai guanti, distribuiti in maniera matematica o geometrica, oggetti che evocano la sapienza e il lusso di un tempo passato, strumenti e accessori il cui rebus la riempiva di torpore. Più lei avvertiva le membra appesantirsi, più capiva che non si trattava di un sogno, bensì di un avvertimento che i maliziosi Ambasciatori le stavano dando. I due personaggi sopravanzavano il tempo, parevano a conoscenza di maneggi inquietanti che, in qualche modo, in quel momento, la riguardavano. Così come della sua spedizione segreta al cimitero di Highgate, del reale motivo della sua indagine funebre. Così come dei suoi soggiorni a Londra, del piccolo traffico di riviste di contrabbando. E della sua visita alla Hogarth Press; ma soprattutto dei sommovimenti in Europa, degli sconquassi di avvenimenti lontani che si tramavano nel deserto sonnolento dell’estate londinese. Nulla sfuggiva al loro sogno. Sapevano allo stesso modo quanto lei fosse insignificante, una figlia di nessuno, senza educazione. La quale aveva tratto le proprie conoscenze dalle letture quotidiane dei giornali per Monsieur Henri, quando lavorava come donna di servizio, senza capirci nulla. Allora lui la interrompeva, commentava con la condiscendenza divertita di un maestro di scuola gli articoli di politica dell’Illustration, del Temps e del Matin, per poi congedarla bruscamente, irritato dalla sua ignoranza… Apparteneva allo stesso genere di uomini d’armi e d’affari che scatenano guerre e provocano crisi e bancarotte dei quali le parlavano i personaggi del quadro, nel silenzio del museo. All’improvviso spaventata da quel faccia a faccia, aveva girato i tacchi, sfuggendo lo sguardo vivo delle due persone che sembravano accompagnarla, che parevano volerle insegnare ciò che lei non voleva sapere. All’esterno, ebbe l’impressione di avere recuperato la spensieratezza del mattino, sulla panchina del parco, ma la bella 32


estate immobile era scomparsa, la sera annegava le strade in un’ombra sudicia, solo i tetti più alti afferravano ancora i raggi di un sole morente. Era stato forse da quell’ultimo soggiorno che aveva cominciato ad avere dei dubbi sulla missione di Monsieur Brasier, a voltarsi timorosa, diffidente, verso una mendicante vestita di stracci vicina al metrò, a immaginare a ogni angolo di strada che un poliziotto le avrebbe controllato i biglietti del metrò o che un commesso indiano, affabile, mellifluo, l’avrebbe all’improvviso scoperta. Salì le scale dell’albergo tenendo tra le braccia i pacchetti e l’involto contenente le riviste, con l’ansia di sentirsi sulla nuca lo sguardo di Sparrow, insistente quanto quello degli Ambasciatori. Mentre conversavano, non aveva manifestato alcunché, ma ora la seguiva con gli occhi mentre lei saliva le scale, stupito del suo voltafaccia, perplesso, riprovatore. Cosa c’è di nuovo? Perché prende il pacco? È tanto urgente? Mentre lei si domandava: Cosa dunque mi è preso? Chiederlo subito non è nelle nostre abitudini, questo lo contraria. Lo porta sempre più tardi nella mia camera, con il vassoio, magari dopo averlo aperto, dopo aver verificato che è tutto a posto?… O meglio, dopo aver fatto scivolare lui stesso il documento, questa cosa segreta che non è in grado di leggere, può stare tranquilla, e Monsieur Brasier anche. Si sentì mancare dalla paura, paura vera, questa volta! La paura della quale si prendeva gioco, stupida, sotto la lampada della cucina. Ingenua! Adesso tremava, non solo perché era tutta bagnata. Ogni gradino sembrava più alto del solito, il pacco più voluminoso, più pesante, era evidente. E domani, come avrebbe fatto ad andare alla stazione con aria naturale, anodina, visto che ora metteva in pericolo così stupidamente le disposizioni ben rodate delle quali il Passero era garante, una tomba? Monsieur Brasier, ugualmente una tomba. E così evitava di spiegare chi fossero le persone che la sua malattia metteva in difficoltà; pensava al posto di quelle persone i gesti che dovevano compiere, calcolava i loro spostamenti, i loro orari e le loro attività, delle quali lei era il fattorino. A un primo sguardo, è vero, una persona fidata che può prendere in consegna il pacco, scortare la cosa: Elise, che sempliciotta… Di pessimo umore, gettò sul letto quella cosa sempre più scioc33


cante. Decisamente cattiva. Suvvia, siamo seri, si raddrizzò. La pioggia tutto il giorno, la nebbia, quel sole insolito che penetrava attraverso le nuvole e gli andirivieni, gli acquisti per ingannare il tempo e, per finire, la lunga attesa in Tavistock Square: di questo passo, qualunque cosa finisce con l’assumere un’aria sospetta. Persino la luce della vecchia plafoniera sembrava falsa, falsi i fiorellini inglesi della tappezzeria, e lei stessa, nello specchio dell’armadio, ebbe l’impressione di vedervi riflessa una finta giovane donna travestita da Elise Casson. I cui pensieri reconditi non avevano più nulla a che fare con la paura, o sempre meno. Piuttosto con il fastidio, con la collera vera e propria. Allora, realmente indignata, furiosa all’idea di essere trascinata a destra e a sinistra, presa in giro da chissà chi, le venne l’eccellente idea di mettere le cose in chiaro. Nell’impeto di un’ispirazione improvvisa, aprì il pacco. Per quale motivo non lo aveva fatto prima? Era talmente facile slegare lo spago, gettare a terra la carta marrone, un imballaggio veramente buttato lì, un lavoro buttato lì. Le riviste, una ventina (come potevano pesare così tanto?), si sparsero sulla trapunta. Le sfogliò rapidamente, ne conosceva i titoli, Criterion di T.S. Eliot, contributi di Auden, Dylan Thomas. Writing & Reading traduce Gide, pubblica Forster, Bowen… Scrutiny: la moglie di Leavis vi scrive a proposito di Jane Austen. Articoli su Conrad, James ecc. Loda D.H. Lawrence, stronca Hemingway, Greene… New Literature, Delphin Revue, Novels and Poetry, New Magazine of Arts… Pagine grigie, gialle, color ghiaccio, di grammatura pesante o leggera, stampa standard o artistica… So What?… Quale di queste è un alias, dove sta l’anomalia? Alla fin fine, a prima vista, nessun esemplare rivelava un qualunque difetto di fabbrica, niente che potesse causare un battito del cuore, tutto pareva insignificante. In piedi nel centro della camera, con ancora il tailleur indosso, il berretto sul capo e i piedi bagnati, concluse: Monsieur Brasier ha ragione, possiamo stare tranquilli. Alla fine si svestì, si tolse le calze e la gonna, si infilò una vestaglia, senza mai abbandonare con la coda dell’occhio la pila di riviste, ancora in collera per essersi montata la testa con delle cose da nulla, quando il momento più bello della giornata, della sua vita, era stato l’attimo illuminante in cui Mrs Woolf era apparsa sulla soglia, un perfetto precipitato di tempo! 34


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