Biagio Simonetta
I padroni della crisi Come la recessione nutre le mafie Prefazione di Loretta Napoleoni
www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Š il Saggiatore S.p.A., Milano 2013
I padroni della crisi Ad Antonio e Martina cosĂŹ lontani, cosĂŹ vicini
Sommario
Prefazione di Loretta Napoleoni
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1. Mafie e crisi: una vecchia storia
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2. Spinti nella rete
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Il famigerato credit crunch Storie di usura e di imprese infiltrate Morire di fisco
3. Economia mafiosa Tra legalità e illegalità Ma le mafie quanto ci costano?
4. Cocaina Un business internazionale Le banche della droga I Robin Hood del nostro tempo
5. Il business dell’oro Quando l’oro parla Fabrizio e Teresa
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Chi ci guadagna? Compro oro: istruzioni per l’uso
6. A che gioco stiamo giocando? Azzardopoli Gratta e mafia Nel tunnel
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7. Una questione europea
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I padroni della crisi
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Note
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Ringraziamenti
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Prefazione di Loretta Napoleoni
Siamo tornati ai tempi di Al Capone, quando sullo sfondo della Grande depressione il crimine organizzato si arricchiva. È uno dei punti di contatto più inquietanti tra il nostro presente di austerità e il periodo tra le due guerre: la crescita dell’economia criminale. Quando l’economia ufficiale si ferma il mercato nero ci guadagna sempre, ma anche l’economia illegale e quella gestita dalle mafie ricevono grosse boccate d’ossigeno. E quanto più prolungata e seria è la crisi, tanto più efficaci saranno gli incentivi alle attività illegittime. Dimentichiamoci dei banchieri fraudolenti, dei trader che si portano a casa bonus miliardari; questa è solo la punta dell’iceberg. Il moltiplicatore della ricchezza criminale è alla base della piramide sociale: è la popolazione. Più la gente si impoverisce, più ha bisogno di contante: ed ecco che i forzieri del crimine organizzato, dai «compro oro» fino all’usura, si aprono per soddisfare questa domanda di liquidità. Per sopravvivere c’è chi vende persino la fede nuziale, e firma cambiali dando in garanzia la casa, il negozio, il ristorante, qualsiasi immobile abbia a disposizione, nella speranza che quei maledetti soldi a usura possano bastare fino alla ripresa delle attività. Ma questo non accade mai. I tassi d’interesse sono appunto da usura e, a differenza di quanto ci viene
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detto, le crisi economiche, inclusa quella attuale, non si esauriscono in tempi brevi. Così, a poco a poco, il cappio che il crimine organizzato ha calato intorno al collo delle persone inizia a stringersi. Negli ultimi tre anni, in tutta l’area mediterranea, le mafie locali sono riuscite a mettere le mani su una vastissima gamma di attività economiche proprio grazie all’usura. E come ai tempi di Al Capone le gestiscono in funzione dei loro business principali, dal riciclaggio alla prostituzione. È un aspetto della crisi economica di cui nessuno parla e che in fondo quasi tutti i politici ignorano. Ed è il tema di questo libro-verità sul mondo in cui viviamo. Tra le conseguenze più serie della politica di austerità imposta ai paesi della periferia europea c’è l’impoverimento, e questo lo sappiamo tutti, ma ancor più pericolosa della povertà è la progressiva trasformazione dell’economia legale e legittima in un’economia illegale e illegittima gestita dal crimine organizzato. Se questo processo non verrà arrestato intere regioni o settori finiranno per cadere nella rete delle mafie, con ripercussioni sociali ben più elevate di quelle economiche. È chiaro che se davvero il pericolo che la Grecia e il resto dei paesi debitori corrono è questo, la risposta del contribuente nordico – al quale viene chiesto di garantire i debiti di queste nazioni – dovrebbe essere diversa da quella attuale. Anche per motivi di egoismo: chi vorrà andare in vacanza nel Peloponneso o in Calabria se il territorio è nelle mani di bande criminali? Basterebbe raccontare questa storia per ottenere più supporto e simpatia per i nostri paesi. Ma una storia come questa mette anche in pessima luce lo Stato. Se è vero che le organizzazioni criminali riescono a «fatturare» in Italia intorno ai 130 miliardi di euro l’anno, allora Mafia S.p.A. è oggi la prima azienda del Belpaese, ma anche la prima banca, quella con più liquidità. Il che dà la misura
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di quanto vani siano gli sforzi dell’Unione Europea, e pone sotto una pessima luce la signora Merkel e lo stesso Monti, preoccupati solo dallo spread mentre la popolazione si confronta con interessi da usura. Come è possibile che i nostri leader permettano alle organizzazioni criminali di sottrarre allo Stato tutte queste porzioni di ricchezza? E che lo facciano, a quanto dicono, per il nostro bene? Ai tempi dell’austerity, l’omertà assume nuovi significati. Si tace, si chiude un occhio – e a volte anche due – per non doversi confrontare con i propri insuccessi, ma anche per non far saltare l’unica fonte di liquidità ancora disponibile. E qui è bene che tutti facciano un gigantesco mea culpa. Siamo tutti complici: dal cittadino che per aggirare l’Iva paga l’idraulico in nero, fino al politico ben conscio che qualcosa non torna, ma che tace per paura che quel fiume di contante cessi di tenere a galla il suo quartiere, la sua città o la sua regione, e con essi pure la sua carriera. Anche senza far parte di organizzazioni criminali si finisce nella loro rete o si diventa funzionali alle loro attività. Soluzione del problema: tolleranza zero. Ma chi è disposto ad accettare le conseguenze di una simile decisione? Immaginiamo che oggi, miracolosamente, l’intera popolazione italiana dica no all’intervento del crimine organizzato nell’economia. Che cosa succederebbe? Che nel giro di un paio di settimane gran parte del Sud, del Centro e del Nord del paese si troverebbe a corto di liquidità. Tale è il radicamento delle mafie nel nostro territorio. E con ogni probabilità a soffrire di più sarebbe quel Nord dove negli ultimi vent’anni le infiltrazioni criminali nell’economia legale sono state particolarmente intense. Ci troviamo in una sorta di Comma 22: da una parte la stretta sul credito innescata dal crollo di Lehman Brothers ha messo in moto un processo di progressiva «criminalizzazione» dell’economia legittima, un fenomeno che la crisi del
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debito sovrano e la recessione stanno consolidando; dall’altra la denuncia di queste attività inasprirebbe le attuali difficoltà, privando molte più persone dei mezzi basilari di sopravvivenza. Per sciogliere questo dilemma ci vuole l’intervento dello Stato, intendendo per Stato un’istituzione che abbia a cuore gli interessi dei suoi cittadini e non quelli delle élite e delle caste che l’hanno guidata finora. Ed ecco che in un certo senso si chiude il cerchio storico. La nascita del crimine organizzato nel nostro Sud, all’indomani della conquista di Garibaldi, fu la risposta contadina e cittadina all’unificazione con un regno, quello di casa Savoia, percepito come straniero e nemico. Non ci si poteva fidare di uno Stato con un parlamento a mille miglia di distanza, dove si parlava un dialetto incomprensibile al Sud. Oggi, per tagliare la testa a quest’idra malefica che da quasi duecento anni opprime la nostra penisola, c’è bisogno di uno Stato vero, italiano, nel quale il cittadino possa credere e per il quale sia disposto anche a patire temporaneamente la recessione, purché alla fine di questo processo ci sia la speranza di una nazione giusta, civile e solidale. E, come avvenne negli Stati Uniti alla fine degli anni trenta, chi ci governa dovrebbe tornare a occuparsi dei problemi della società, dell’economia reale. Il New Deal di Roosevelt restituì ai cittadini la fiducia nello Stato, e poco a poco anche città come Chicago furono «ripulite». Al Capone finì ad Alcatraz per evasione fiscale e la sua gang svanì. L’avanzata del crimine organizzato sulle ali della crisi economica non può essere contrastata con l’intervento di vigilantes alla Batman, non ci troviamo a Gotham City. Un solo uomo, movimento o partito politico non è sufficiente a cambiare il corso della storia, c’è bisogno di tutti noi, e di uno Stato che finalmente faccia il proprio dovere. Ed è questo il messaggio rivoluzionario che Biagio Simonetta ci offre in questo pamphlet.
1. Mafie e crisi: una vecchia storia
Vai a Berlino Est e compra tutto. Tutto. Discoteche, pizzerie, ristoranti, bar. Tutto, tutto, tutto. Intercettazione telefonica fra due mafiosi, 9 novembre 1989
Il 24 ottobre del 1929 era un giovedì. A New York una nebbia timida si faceva spazio fra i grattacieli. I tombini fumanti di vapore preannunciavano l’inverno. Per molti era stata una notte lunghissima. Una notte di incubi e telefoni roventi, in attesa di quello che sarebbe successo al mattino. Quanto accaduto nei due giorni precedenti faceva temere il peggio. Sembrava tutto già scritto, col mondo rassegnato ad assistere al disastro. Quel giorno lo ribattezzarono in fretta il «giovedì nero», quello del crollo finanziario degli Stati Uniti d’America. Dodici milioni di azioni vendute in pochi istanti. In una sola mattina si tolsero la vita decine di uomini che avevano visto polverizzarsi il proprio patrimonio. Un investigatore di Chicago, Sherman Skolnick, ritiene che proprio da allora i grattacieli americani siano stati costruiti con le finestre bloccate, così da evitarne l’apertura dall’interno. Il 24 ottobre 1929 il mondo si rese conto di quanto la finanza e i mercati fuori controllo potessero diventare devastanti dal punto di vista sociale. Di quanto quel gioco quasi virtuale di denaro che crea altro denaro potesse tradursi in miseria, riducendo la gente alla fame, senza più casa né viveri. Quel maledetto giovedì davanti a Wall Street si raduna-
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rono in fretta migliaia di persone. Era il caos. L’aria di Manhattan era elettrica. Speculatori agitati attendevano ansiosi un balzo degli indici. Il balzo non ci fu. Le cronache di quelle ore raccontano di gente in preda al panico, che pronunciava frasi confuse uscendo dal palazzo della Borsa. Poi di colpo la piazza si fermò. La sagoma di un uomo che faceva capolino dal cornicione di un palazzo gelò il sangue della folla. Un altro suicidio? Un altro azionista o speculatore pronto a lanciarsi nel vuoto e a schiantarsi sul cemento? No, solo un carpentiere che stava lavorando e incuriosito dalle urla aveva deciso di dare un’occhiata laggiù. Poi era rientrato ma, in quel momento, aveva forse avuto l’istinto di cadere? Cadiamo noi, cadiamo tutti, quando cade il mondo. È passato quasi un secolo da quando la più grande recessione della storia si abbatté sugli Stati Uniti. Un secolo e una guerra mondiale. Eppure c’è poca differenza coi nostri giorni. Oggi, come allora, una profonda crisi economica sta attraversando il mondo. Quanto sta accadendo in Italia, Spagna e Grecia ricorda da vicino quel 1929 americano. Le reazioni sociali sono diverse, il mondo della tecnologia diffusa riesce a nascondere gli effetti più dolorosi. Il crollo finanziario si mimetizza e diventa invisibile davanti a un Apple Store, con centinaia di persone in fila da ore per l’uscita del nuovo iPhone. Poi torna con violenza davanti al cancello di una fabbrica chiusa per sempre, o davanti al cadavere di un imprenditore morto suicida perché non poteva pagare i debiti. E allora basta svegliarsi dall’ipnosi tecnologica per comprendere che l’America della Grande depressione ce l’abbiamo in casa. Non si tratta solo di indicatori economici, di spread o di mercati azionari. È l’economia reale, quella che quotidianamente attraversa la vita di ogni singolo cittadino, a somigliare sempre di più a quella degli Stati Uniti di allo-
1. Mafie e crisi: una vecchia storia 3
ra. E anche gli effetti collaterali di questa crisi sono gli stessi di quasi un secolo fa. In quegli anni, in America, si aggirava indisturbato un ragazzone di Brooklyn, ma di genitori italiani. Rispondeva al nome di Alphonse Gabriel Capone, ed era meglio conosciuto come Al Capone. Qualche tempo dopo, il suo nome entrò di prepotenza in pellicole e libri. Divenne l’uomo simbolo della mafia americana di quei tempi. Probabilmente lo è ancora, malgrado un’emorragia cerebrale lo abbia ucciso all’età di 48 anni, nel 1947. Perché nonostante la sua morte, ha lasciato un’eredità criminale che ancora oggi influenza traffici ed equilibri fra clan. Capone seppe sfruttare l’intuito meglio di chiunque altro. E si prese l’America. Quando gli Stati Uniti furono investiti dalla crisi, si rese subito conto di quanto un’organizzazione criminale potesse beneficiarne. Era la prima volta nella storia globale che due fenomeni così pericolosi si trovavano a convivere nello stesso territorio: mafia e crollo finanziario. Il ragazzo di origini italiane fiutò l’affare. Capì prima di ogni altro che quando la democrazia è messa a repentaglio da una recessione che riduce la popolazione alla fame, il consenso popolare è in vendita. E anche gli affari illeciti sono molto più semplici da portare a termine. Così, dal suo quartier generale, il prestigioso hotel Lexington di Chicago, Capone ordinò ai suoi uomini di offrire pasti caldi ai bisognosi finiti in mezzo alla strada a causa della recessione. L’ampia catena di ristoranti riconducibile al boss diventò mensa per i poveri. E anche le aziende di abbigliamento da lui controllate iniziarono a distribuire vestiti gratis agli indigenti. Laddove lo Stato non riusciva ad arrivare, c’era lui. C’era la mafia. Chi si era trovato di colpo senza uno stipendio a causa della crisi, ora un salario lo aveva di nuovo. Glielo garantiva Al Capone.
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Il ragazzo di Brooklyn investiva i suoi soldi anche in consenso sociale e rispetto. Con i pasti caldi e i vestiti, con uno stipendio insperato, da quel giorno molte persone gli sarebbero state riconoscenti. E la riconoscenza gli avrebbe aperto molte porte. Un sistema studiato e perverso che le mafie sfruttano ancora oggi. Per le organizzazioni criminali è prassi consolidata fornire aiuti a determinate categorie di persone in difficoltà. La camorra, ad esempio, compra il motorino ai ragazzi di Scampia, che in cambio fanno le sentinelle nelle piazze dello spaccio; paga le spese legali agli affiliati finiti in galera, così da evitare collaborazioni di giustizia. Si deve far passare il messaggio che l’organizzazione pensa a tutto. La ’ndrangheta corre in aiuto dell’imprenditore in difficoltà, immette liquidità nelle aziende sofferenti, paga banchetti ed escort a politici o a giudici più o meno influenti. È un modo per conquistare fiducia. Dopo un approccio apparentemente umanitario, però, l’organizzazione svela il suo volto più feroce. E come una belva affamata divora le sue vittime. Lo faceva Capone, oggi la storia si ripete. C’è una storia emblematica che racconta come un’organizzazione criminale possa venire in soccorso al cittadino costretto alla fame da questa crisi. È la storia di Alberto, 32 anni, una moglie e due figli a carico. Di professione fa il fabbro, perché «mio padre» dice «faceva questo lavoro, e io ho seguito lui anziché andare a scuola». Alberto è nato e cresciuto a San Giovanni a Teduccio, quartiere di Napoli dove il dominio del clan Mazzarella vige incontrastato. Qui sorgeva la Cirio, l’impero di Sergio Cragnotti. E anche Alberto, qualche anno fa, sognava il posto fisso lì dentro. Poi le cose sono andate in modo diverso, e si è trovato con una famiglia da far campare e un lavoro pre-
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cario. Nessuna assicurazione, niente stipendio fisso, una vita alla giornata. Lo incontro alla stazione ferroviaria di Napoli. È stato un vecchio collega del Mattino a metterci in contatto. Con la tuta da lavoro annerita sulle ginocchia e una felpa da ultras, Alberto ha la titubanza di chi si trova davanti a uno sconosciuto per raccontargli la sua vita. All’inizio mi chiama «dottò», e mi ripete che non vuole essere fotografato. Mi studia un po’, mi sento passato allo scanner. Ma dopo qualche minuto e un buon caffè, inizia la nostra chiacchierata. «Il guadagno varia, dipende dai lavori e da chi te li chiede. Quando va bene porto a casa 20-30 euro in un giorno.» «A nero?» gli chiedo un po’ stupidamente. «E allora come?» mi risponde aggrottando la fronte. Però Alberto ogni tanto qualche soldo in più riesce a incassarlo. E non si vergogna di raccontarmi che lo fa grazie alla camorra. «Perché dovrei vergognarmi? Io non sono un fuorilegge, ma lo Stato mi ha abbandonato. Invece la camorra mi ha chiesto di fare dei lavori che io so fare, mica lavori illegali. E io devo campare. Puoi scriverle queste cose. È lo Stato che deve vergognarsi, mica noi. Io ho due figli, l’ultimo ha nove mesi e lo sai quanto costa un pacco di pannolini?» Non sono sicuro di sapere quanto costa un pacco di pannolini, ma il messaggio di Alberto l’ho capito bene. Lui appartiene a quella schiera di operai che vive di precariato, lontano dalle logiche criminali. All’occorrenza, però, non si tira indietro se a commissionare un’attività è il clan. Sono i fabbri della camorra, anche se non uccidono nessuno. La crisi economica li ha spinti a fare lavori che in altre situazioni non avrebbero accettato: lavorano dopo il tramonto, quando il sole sparisce dietro le vele di Scampia. Saldano rinforzi in ferro ai cancelli dei palazzi dove avviene lo spaccio, costruiscono pareti che proteggono da occhi indiscreti.
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Nei territori ad alta densità criminale un muro, o una cancellata, può fare la differenza. Per questo i clan si preoccupano di farli ricostruire immediatamente, se durante un’operazione antidroga vengono abbattuti. Filmare un’azione di spaccio diventa più difficile, con un muro costruito ad hoc in mezzo a un parcheggio, o davanti a una scalinata. «Io faccio quello che mi chiedono, senza troppe domande» mi dice Alberto. «Ho bisogno di soldi per vivere e nella vita so fare solo il fabbro. Se mi chiamano per dei lavori mi danno l’opportunità di sopravvivere. Una volta che ho finito il lavoro io me ne torno a casa, a farmi i fatti miei. Ho fatto solo qualche saldatura.» In realtà Alberto sa benissimo di rischiare il carcere. La mattina del 29 marzo 2012, proprio a Scampia, c’è stato un blitz della polizia contro gli spacciatori. Le forze dell’ordine sono riuscite, grazie all’aiuto dei pompieri, ad abbattere muri abusivi e cancelli. Le famigerate «case dei puffi», come vengono chiamate alcune abitazioni popolari di Scampia per via delle soffitte troppo basse, sono state messe a soqquadro. Qualche ora dopo un fabbro, pagato dal clan, si è messo al lavoro per erigere una nuova cancellata. Ma la polizia lo ha denunciato per favoreggiamento e concorso in spaccio di droga.1 I clan hanno liquidità. Pagano fino a 50 euro per una semplice saldatura, e artigiani nelle condizioni di Alberto cedono facilmente. Perché qualsiasi cosa è meglio della fame. E questa, come abbiamo ricordato, è una vecchia regola. Se nel ’29 c’era chi, sfinito dalla crisi, accettava i vestiti da un malvivente come Al Capone, oggi c’è chi, come Alberto, in mancanza di altro si tura il naso e lavora per i clan. Il terremoto finanziario scoppiato a cavallo delle due grandi guerre fece in modo che il virus mafioso si propagasse negli Stati Uniti. Con la recessione dei nostri giorni l’Italia, già malata di ’ndrangheta, camorra e Cosa nostra, si sta aggravando sempre di più.
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Che le mafie sappiano approfittare puntualmente delle grandi trasformazioni storiche lo testimonia un’altra data: il 9 novembre 1989. Fu una notte lunghissima, quella. A Berlino fecero a pezzi il grande muro. Di quel giorno ricordo le immagini sbiadite della mia tv: le ruspe in azione, le migliaia di berlinesi dell’Est che sorridenti abbracciavano l’Occidente. Un uomo alto e biondo imbracciava un piccone ridendo davanti a telecamere e fotografi. Mio zio fissò lo schermo e poi esclamò: «Che cazzone!». Ridemmo anche noi. Quel muro distrutto non fu solo un momento simbolico. Nient’affatto. Fu l’inizio di un cambiamento che negli anni scoprimmo rapido e travolgente. Mentre il muro si sbriciolava sotto i colpi dei cingolati, si apriva un processo che avremmo imparato a conoscere in fretta: la globalizzazione. L’economia del pianeta, da quel giorno, sarebbe cambiata. L’Occidente ebbe il via libera: la cannibalizzazione nei confronti delle culture e delle economie dei paesi del blocco sovietico poteva avere inizio. Le organizzazioni criminali hanno capito molto prima degli imprenditori onesti come funziona la globalizzazione. Il 10 novembre 1989, il giorno dopo la caduta del muro, un emissario di Cosa nostra era a Berlino Est. Quel pezzo di città fino a quel momento inesplorato aveva aperto le frontiere, e la mafia, come ogni grande holding che si rispetti, non voleva perdere tempo. C’è un’intercettazione ormai celebre. Mentre le ruspe abbattono il muro, un mafioso telefona al suo referente in Germania: «Guarda che è caduto il muro di Berlino.» «Sì, e io che devo fare?» «Vai a Berlino Est e compra tutto. Tutto. Discoteche, pizzerie, ristoranti, bar. Tutto, tutto, tutto.»
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A Berlino Est la domanda di capitali era elevata e la democrazia era ancora ben lontana dal consolidarsi, e così le organizzazioni criminali potevano facilmente aggirare le regole e sguazzare nel mare dell’illegalità. Oggi, grazie alla magistratura, sappiamo che mentre il muro cadeva, mentre il mondo si apprestava a una svolta, le organizzazioni criminali erano lì. E iniziavano a conquistare paesi fino ad allora sconosciuti. Seguirono l’odore degli affari, e con fiuto da segugio di razza si catapultarono alla conquista di nuovi territori: Russia, Polonia, Ungheria e Romania. I miliardi delle mafie italiane vennero investiti per acquistare palazzi, ristoranti, negozi, intere fabbriche. Appena tre anni dopo la caduta del muro, nel 1992, la procura di Locri si imbatté in uno stranissimo giro di riciclaggio che dalla cittadina calabrese arrivava fino in Russia. Si capì che la ’ndrangheta aveva anticipato tutti. Il clan aveva creato una struttura efficientissima, in grado di riciclare il denaro proveniente dal traffico di droga. Ed era riuscito a racimolare qualcosa come 2600 miliardi di rubli russi per acquistare un’industria chimica, un’acciaieria, alcune catene di alberghi, un paio di agenzie bancarie di Mosca, un casinò e una banca. Così si muovono le mafie, con spietatezza e decisione. Soltanto un anno dopo, era il 1993, il dipartimento di Stato americano lanciò l’allarme mafia nell’ex blocco sovietico, parlando di una «Internazionale mafiosa» formata dalla mafia italiana e da Cosa nostra americana. Un’associazione che aveva concentrato le sue attenzioni nell’Est europeo. Il funzionario Irving Soloway non lasciò spazio ad alcun dubbio: «La criminalità organizzata sta diventando uno dei più gravi, forse il più grave problema di sicurezza per le aziende americane e i loro dirigenti nell’Est europeo, in Russia e nelle altre ex repubbliche sovietiche. I mafiosi, come gli uomini d’affa-
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ri, si sono resi conto dell’enorme potenziale di questi nuovi mercati e hanno deciso di sfruttarli». Soloway spiegò che la mafia italiana e la sua «succursale» americana si erano messe d’accordo con la criminalità locale nei vari paesi dell’Est Europa e dell’ex Urss «per attività che trascendono anche l’Europa e investono gli Stati Uniti». Insomma, come scrisse bene l’inviato della Repubblica a Washington, l’ex blocco sovietico era passato «dalla Internazionale socialista alla Internazionale del crimine». Il tutto grazie agli scenari venutisi a creare con la caduta del muro di Berlino, che aprì le frontiere di nazioni criminalmente inesplorate. Naturalmente la caduta del muro diede il via a fenomeni ben diversi, rispetto a quelli dei giorni nostri o alla Grande depressione. Dopo l’89 ci fu un periodo di forte ascesa capitalistica, con le economie occidentali salde e in crescita, mentre oggi, come nel ’29, è la recessione a imporre le regole del gioco. In tutti i casi, il terremoto sociale è stato dirompente, ed è riuscito ad aprire enormi faglie democratiche. La forza camaleontica delle mafie le ha rese pronte a sfruttare tutte le circostanze. Le organizzazioni criminali hanno dato prova di grande ecletticità, hanno dimostrato di saper anticipare i tempi con lungimiranza. Che sia crisi economica o solo politica o sociale, poco cambia. Hanno sfruttato la fame nel ’29 e hanno preso il timone nella transizione postsovietica negli anni novanta. I grandi cambiamenti storici non intimoriscono le mafie. Anzi, le fanno sentire a loro agio. Anche oggi lo sono.