Thomas Mullen I Revisionisti Traduzione di Gianni Pannofino
I Revisionisti
Ai miei figli
Quando noi agiamo, creiamo la nostra realtà particolare. E mentre voi studiate quella realtà – con giudizio, come sempre – noi agiamo di nuovo, creando altre realtà particolari che voi, di nuovo, potrete studiare, ed è così che le cose funzioneranno. Noi siamo gli agenti della storia… e voi, tutti voi, non potrete fare altro che studiare quello che noi facciamo. Anonimo collaboratore del presidente George W. Bush, citato in Ron suskind, «faith, certainty and the presidency of george w. bush», The New York Times Magazine, 17 ottobre 2004 Mailer era tormentato dall’incubo per cui i mali del presente non solo fagocitavano il presente, ma consumavano anche il passato e promettevano di demolire vasti territori del futuro. Norman Mailer, Le armate della notte La storia ci ha insegnato che le menzogne la servono meglio della verità. Arthur Koestler, Buio a mezzogiorno
PRIMA PARTE
Lo shock del presente
Z.
Tre suv neri e bombati sfilano agili nel loro mondo come foche. La città brilla liquida nel riflesso dei loro finestrini oscurati: le luci gialle delle torri e quelle bianche delle strade e i semafori rossi, ignorati dai suv che attraversano l’incrocio con un colpo di clacson e un lampeggio di abbaglianti. I passanti sui marciapiedi li degnano a malapena di un’occhiata. Decido di attraversare la strada, vuota nella loro scia. Le luci del National Press Building sono perlopiù ancora accese, e i giornalisti delle agenzie di tutto il mondo digitano veloci per rispettare le loro scadenze. I redattori, a Tokyo, sono in attesa; le masse, a Bombay, sono curiose; l’opinione pubblica, a Londra, ha il diritto di sapere. Già solo il volume delle informazioni prodotte in questo edificio è per me insondabile, e così il loro peso, il loro spreco. Come se la gente ne avesse bisogno. Sono appena passate le dieci, e il mio obiettivo è in movimento. Ha un appuntamento importante, un appuntamento con la storia, per la precisione, benché lui non lo consideri tale. Sta per incontrare la sua fonte, l’individuo misterioso che gli ha lasciato intravedere una verità aurea, ma pericolosa, un mitico Graal della cui esistenza stava cominciando a dubitare. La fonte, questa sera, gli ha promesso il Graal. A patto di incontrarsi di persona. Il mio obiettivo è un uomo magro, tiratissimo. Ha l’aria di non aver dormito granché, ultimamente. Benché io non sia tanto esperto 11
in materia di stile contemp, è chiaro che lui ne ha ben poco: le macchie di caffè sulla camicia bianca, che dietro gli esce dai pantaloni; i jeans più stretti di quanto sarebbe comodo; ha dovuto sistemarseli davanti allo specchio dell’ascensore, che non è un posto privato come lui crede. Ha trent’anni e sta invecchiando troppo rapidamente; i capelli radi cominciano a ingrigire sulle tempie (però è vero che neanche la mia stima dell’età, in quest’epoca, è tanto affidabile, poiché mi è difficile quantificare gli effetti dell’insufficienza di medicine, alimentazione e igiene). Vive nella convinzione che l’opera della sua vita, la sua ragion d’essere, sia sottovalutata da questo mondo che lui ritiene di servire. È una persona per nulla importante. Non parla di queste cose con i colleghi, ma ne blatera sotto pseudonimo sul suo blog e nel diario segreto sul suo computer, aggiornato di continuo e inedito, ai quali si dedica a tarda notte, dopo aver spedito articoli che poca gente leggerà. Ah, ma tu sei importante, invece, caro il mio Karthik M. Chaudhry! Non hai idea di quanto sia apprezzato il tuo lavoro e di quanto sia spaventoso il suo valore. Sono diversi giorni, ormai, che lo sorveglio. Parla al telefono e presenzia a conferenze stampa, relegato nelle ultime file, e poi va a sedersi nelle biblioteche o nei caffè, con il suo computer, e legge e scrive. C’è così tanta informazione, qui, che la gente passa gran parte della vita a perdercisi dentro. Per quanto ne so io, non ha amici. Nel suo appartamento non ci sono vestiti né oggetti da donna, nemmeno una fotografia, nascosta nel primo cassetto, di una persona idolatrata e intoccabile. Colpa della sua dedizione al lavoro. Questa, perlomeno, è la giustificazione che lui si è trovato. In fondo, è molto bravo in quello che fa, e per questo si sta mettendo nei guai. Oggi ci siamo incrociati nel corridoio del suo palazzo e gli ho piazzato addosso un Tracker, così da poter sapere quando lascia l’ufficio per entrare in ascensore. È per questo che sono uscito dal bar di fronte, l’Anonymous Source, la Fonte Anonima, dov’ero appostato a sorseggiare un paio di drink, contravvenendo alle regole del Dipartimento. Entro nell’atrio, passando davanti al cinese che vende riviste e giornali e caramelle dai colori sgargianti, davanti al negozio di cravatte e a quello dei souvenir turistici: fotografie incorniciate della 12
Casa Bianca; tazze e matite con la bandiera americana. Il mio obiettivo sta scendendo con l’ascensore di vetro. Vederlo è l’unica conferma di cui ho bisogno, dopo di che torno indietro e risalgo a bordo della mia auto. So dov’è diretto e quando arriverà a destinazione. So anche che non possiede un’auto e che prenderà la metropolitana e che, a causa di un treno fuori servizio sulla linea blu, il suo tragitto sarà di una buona decina di minuti più lungo del mio spostamento in auto. Io ho una Corolla ocra presa a noleggio che i colleghi della Logistica mi hanno raccomandato per il suo aspetto anonimo. Prima di essere inviato qui, ho fatto pratica su una copia creata appositamente per me, ma la situazione reale è spiacevole da gestire, e devo solo sperare di non infrangere il codice della strada e di non farmi fermare dalla polizia. La vodka che mi sono bevuto rende il tutto ancora più surreale, l’auto grossa e ingombrante, debordante estensione della mia persona, torpida e beccheggiante in un mondo che a malapena comprendo. E che città! La pianta geometrica perfetta, gli ampi viali e i marciapiedi puliti, tutti i monumenti immersi in una luce celestiale. I contemp intorno a me non immaginano quanto tempo ci vorrà per ricostruire tutto questo. Riescono a vedere la bellezza che li circonda? Non hanno le vertigini per l’altezza di questa vetta su cui la loro civiltà oscilla in equilibrio precario? No, procedono intruppati, il collo torto a reggere i loro antichi telefonini, piegati come marionette. Hanno le guance destre illuminate. La notte è fredda e io guido con il finestrino abbassato. Mi piace com'è pungente l’aria, qui: mi dimentico di quanto sia cattiva la nostra aria malgrado i recenti progressi, finché non ritorno a un’epoca come questa, prima che tutto bruciasse. A un semaforo controllo il mio GeneScan interno e vedo che anche gli Agis sono in movimento. Lo scanner genetico mi informa se nei paraggi ci sono entità dalla composizione genetica non-contemporanea e mi consente di individuarle. Al momento anche gli Agis stanno facendo i loro pedinamenti. Ce n’è uno, credo, ma potrebbero essere di più; malgrado gli sforzi del settore Ingegneria, il GeneScan localizza con precisione gli Agis solo nel raggio di un miglio; quando la distanza è superiore, i segnali mi giungono come vago barlume, come una specie di presagio. Sì, caro Chaudhry, tu sei importante, eccome. Non hai amici né 13
un’amante, ma hai me, il tuo angelo custode. Be’, non esattamente… anzi, l’opposto. Però hai me, e pochi altri: siamo tutti intrecciati come filamenti di dna, come soggetto, predicato verbale e complemento oggetto, e ci dipaniamo nel futuro, nell’infinito propagarsi di generazioni e frasi. Be’, non esattamente all’infinito… Per te, anzi, la fine è decisamente prossima. Io proteggo gli Eventi. È questo il modo più conciso di metterla giù, e così me l’hanno spiegata i miei superiori al Dipartimento, all’inizio. Di questi particolari Eventi, un tempo, sapevo quel poco che ne sapevano tutti, ma ora sono un esperto di quest’epoca. Ho capito perché queste persone si fanno la guerra a vicenda, so perché odiano, so quali sono le loro peggiori paure. Questo, perlomeno, è quanto mi è stato detto all’Addestramento. «Non farti spaventare» dicevano. «Conoscerai quelle persone meglio di quanto conoscano loro stesse.» D’altronde, fino a che punto è possibile capire davvero che cosa facciamo, e perché, mentre ancora lo stiamo facendo? Solo in seguito, quando guardiamo indietro, gli eventi rientrano in categorie facilmente definibili. Movente, desiderio, pregiudizio. Circostanze, casualità, intenzione. Causa ed effetto, mezzi e fini. Una cosa che questo lavoro mi ha insegnato è che le persone, prese nel vortice frenetico del tempo, prima soddisfano i propri bisogni, e solo in un secondo momento si inventano una giustificazione. Si discolpano, sostengono di non aver avuto scelta. Alzano le braccia al cielo o si limitano a scrollare con fatalismo le spalle. Lo chiamavano destino o Dio o Allah, anche se ora, ovvio, certi discorsi sono vietati. Ora. Non so praticamente più che cosa significhi, questa parola. È il mio decimo giorno a Washington, appena prima che inizino gli Eventi culminati nella Grande Conflagrazione. A ogni missione, il Dipartimento rinvia il Protettore a un momento precedente la presumibile comparsa degli Agis – gli agitatori storici – per consentirgli di compensare l’iniziale spaesamento e di consolidare la propria posizione. Qualsiasi vantaggio può risultare vitale. Dieci giorni, però, sono un tempo più che doppio rispetto al normale periodo di «acclimatazione». E ciò mi spinge a domandarmi se non sia stato 14
tutto un colossale errore, se non sia il caso che io avvii le complicate procedure per tornare al mio presente. I clienti contemp dell’Anonymous Source non presentivano la calamità incombente, ma erano tutt’altro che spensierati. Avevano le loro lagnanze, la cristallina percezione degli abissi spalancati tra i loro desideri e la loro condizione reale. Mi veniva quasi voglia di dare loro una pacca sulle spalle, di dirgli di godersela, finché c’era tempo. A qualche tavolo di distanza quattro giovani donne, finito un drink arancione con un ombrellino nel bicchiere, stavano passando a una bevanda color acquamarina. Al banco, spalle di giacche blu da completo tese dal grasso addominale in eccesso. Un uomo sedeva solitario a un altro tavolo e asciugava con ansia il liquido versato sul computer che teneva sulle ginocchia. C’era una coppia di giovani, seduti dallo stesso lato del tavolo per poter vedere una partita di basket in tv. La musica era cupa e profonda, tutta bassi e schitarrate monotone. Io ero a un tavolo d’angolo, al sicuro, velato dalla penombra. La gente poteva vedermi, e se avessi seguito il protocollo del Dipartimento avrei imparato i loro nomi, o surrettiziamente avrei prelevato loro campioni genetici o almeno masterizzato la loro immagine sul mio drive, per poi inserire i dati nel Rapporto sui contatti storici. Il Dipartimento vuole identificare tutti quelli con cui entro in contatto: il fine è quello di non lasciare tracce. Io però ho visto quanto fossero tutti ebbri e preoccupati, e quanto limitati i loro piccoli mondi. L’uomo silenzioso seduto al tavolo d’angolo non esisteva, per loro. E a me andava bene così. Sono abituato a non esistere. Sei persone tra uomini e donne che occupavano disordinatamente un tavolo alla mia sinistra festeggiavano qualcosa facendo humour nero. «L’arte tipografica è morta!» proclamò uno, sollevando risate di scherno e ululati tra i convitati. Colsi parole come «ristrutturazione» e «buyout», strane frasi contemp come «fare di più con meno» e «nuovi modelli di business». Sembravano convinti di essere giunti alla fine di qualcosa. Un cameriere mi ha servito da mangiare: avevo ordinato un’insalata e del risotto, unica portata del menu che non contenesse carne bruciata di animale morto. Poco alla volta mi sono abituato alla vista della gente che si abbuffa di «carne» – sono alla mia quarta 15
missione, ormai – eppure l’immoralità di questo comportamento, la noncuranza che denota, è sbalorditiva. I cibi geneticamente modificati sono ancora agli esordi, in questo periodo: è sempre difficile trovare il modo di mangiare abbastanza da mantenersi in forze senza cedere alle loro abitudini carnivore. Le mie budella si sono quasi del tutto riprese dal disturbo che mi ha colpito al secondo giorno della missione. Un aspetto deprecabile, ma inevitabile di tutta la faccenda, dato che dentro di me banchettano schiere di batteri e microbi a cui il mio organismo non è abituato. Mi sento ancora un po’ debole, avendo mangiato ben poco, a parte riso e banane, negli ultimi tre giorni. Adoro le banane. Per il gusto e per la loro novità: nel mio tempo non esistono. È come mangiare dinosauri: proibito e impossibile. Mentre mangio, però, il cibo diventa parte di me. Nel bar controllo a intervalli regolari il mio GeneScan, e intanto sfoglio la copia del Post che qualcuno ha lasciato sul tavolo. Ero impressionato dalla quantità di informazioni contenuta in questi fogli di polpa di cellulosa battuta, così come dalla loro natura non filtrata, dalla varietà di opinioni e punti di vista. Superato l’iniziale spaesamento, però, il fenomeno che più mi ha sconvolto è stato l’odio tra i vari gruppi. La sua miseria e prevedibilità. I russi odiavano i ceceni; i sunniti gli sciiti. I bianchi odiavano i neri, che odiavano i latini. Gli inglesi odiavano gli irlandesi. Gli hutu odiavano i tutsi. I bosniaci odiavano i serbi, e ho perso il conto di tutti quelli che odiavano i musulmani o gli ebrei o entrambi. I giapponesi odiavano i cinesi, che odiavano i taiwanesi e i tibetani. I salvadoregni odiavano i nicaraguensi. I sauditi odiavano gli yemeniti. Ed ero solo a pagina 9. Alcune di queste storie le avevo già lette nel quadro del mio Addestramento e con i miei studi sul campo, calandomi nella loro orribile mentalità che acquista quasi una certa logica, quanto più a lungo mi trattengo qui. Ed è per questo che me ne devo andare. Temo, se resterò qui per troppo tempo, di prenderci gusto, come un visitatore impazzito allo zoo che all’improvviso scavalchi la recinzione per socializzare con le bellissime tigri, correndo verso la propria fine. La strada taglia tra musei e monumenti, per poi fondersi con un’autostrada a scavalcare un fiume che luccica freddo sotto la luna. 16
Svolto a sud, costeggiando il fiume, verso il punto di decollo dei jet che urlano sopra di me. Lascio l’auto al parcheggio dell’aeroporto e proseguo a piedi non verso il terminal, ma lungo uno stretto passaggio asfaltato che fiancheggia la strada. Questo viottolo, durante il giorno, è utilizzato da ciclisti e podisti, ma di sera non ci passa nessuno. Lasciato alle spalle l’aeroporto, devio dal viottolo e aggiro un lotto recintato occupato da autocisterne e furgonati. Raggiungo in breve il parchetto ora deserto dove le famiglie vengono a fare colazione al sacco per la meraviglia dei ragazzini incantati dalle dimensioni e dal frastuono degli aerei in partenza, che con la coda sembrano quasi sfiorare le tovaglie da picnic. In riva al fiume ci sono degli alberi; mi avvicino a quello più prossimo all’acqua e mi ci nascondo dietro, le spalle al fiume. Il cielo è molto più limpido di quello a cui sono abituato: è un lenzuolo nero con qualche foro attraverso cui le stelle possono guardar giù. Noi non le vediamo più, le stelle, perché la nostra atmosfera è troppo opaca, ma è un problema che stiamo affrontando. C’è chi crede che le stelle non siano mai state visibili: pensano che sia folklore, un brandello di storia inventata che è riuscito a insinuarsi nell’inconscio collettivo. Io, però, alzo gli occhi e resto ammirato, come questi miei antenati, dalla vastità delle cose e dalla loro miseria. Dal parcheggio deserto deduco che l’informatore di Chaudhry non è ancora arrivato. Il mio GeneScan mi dice che gli Agis sono vicini, ma ancora non sono in grado di stabilire quanti siano. Non so neanche in che modo cercheranno di disturbare l’Evento, ma non è che si siano mai dimostrati tanto fantasiosi. Mi immagino un pistolero solitario acquattato tra le erbacce, con il cuore in tumulto, nell’atto di reclamare un suo spazio sulla pagina non ancora scritta della storia. I pistoleri solitari sono sempre i più facili. I dati relativi a questo Evento sono un po’ confusi, come al solito. La gente del settore Verità fa del proprio meglio con le informazioni limitate che si possono trarre da vecchi file, documenti bruciati, record d’archivio semicancellati. So che Chaudhry sta raggiungendo questo parcheggio, ma l’ora esatta dell’arrivo della sua fonte è avvolta nel mistero. L’incontro di Chaudhry con il suo informatore promuoverà la 17
sua carriera al di là delle più folli fantasticherie, ma non nel modo che a lui piacerebbe. Ogni aereo ruggisce come un’enorme fiera ansante. Buffo che Chaudhry pensi di poter conversare con qualcuno proprio qui. Ma anche questo ha un suo fascino: il luogo strano, il buio, le rotte che si incrociano nei cieli sopra di lui e sull’autostrada lì accanto. Persino io sono emozionato. Adoro questi momenti, questi minuscoli snodi della storia, quando gli ingranaggi si muovono sotto i miei occhi. E ci sono due Agis che attraversano l’autostrada a piedi. Stupidi come sono, è un miracolo che siano arrivati fin qui. Vengono quasi investiti, e qualcuno gli suona il clacson – sento uno stridio di pneumatici – ma riescono nel loro intento. Devono aver parcheggiato in un altro spiazzo, per evitare che l’auto tradisse la loro presenza. Uno di loro ha con sé un grosso zaino. Corrono verso un albero imponente a venti metri da me. Uno apre lo zaino, con un fremito della lampo, e ne estrae un fucile. L’altro si appoggia all’albero e guarda verso il parcheggio. Avanzo con cautela nella loro direzione, tenendomi basso; il rumore che produco è coperto dal boato sonico di un altro aereo. Osservo anch’io il parcheggio, dove Chaudhry, le mani nelle tasche, la borsa in spalla, percorre la pista ciclabile deserta, andando incontro a un’imminente fama. Dopo nove giorni passati ad attendere l’entrata in scena degli Agis, seduto nella mia orribile stanza di motel, da cui uscivo solo di notte per esplorare la città, sorvegliare Chaudhry e osservare gli abitanti del luogo senza lasciare tracce, mi sono infine concesso di andare un po’ a zonzo di pomeriggio. Il Dipartimento non mi avrebbe mai autorizzato, perché dovrei limitare le mie apparizioni alle incombenze strettamente necessarie, ma mi stavo annoiando e ho pensato che, a passeggio per il National Mall, sarei sembrato probabilmente un anonimo turista tra tanti. Alla mia prima missione, a sbalordirmi era stato il carattere vivido del tutto, la sua tangibilità. Mi ero aspettato di ritrovarmi come all’interno di un video, a camminare come su un’immagine bidimensionale; credevo di poter guardare la gente senza essere visto, di toccare oggetti che non avrebbero trasmesso calore ai miei pol18
pastrelli. Anche i suoni e gli odori, e la tridimensionalità, mi avevano colto di sorpresa: il fatto inconfutabile dell’esistenza di quel luogo, di esserci. E, insieme, la sua follia, l’assurdità. Era stato come svegliarsi in un altro emisfero, con l’improvviso scarto delle stagioni, l’atmosfera sbagliata, la costante sorpresa nel vedere la sghemba angolazione della luce che alterava l’aspetto degli oggetti comuni, conferendo a ogni cosa una strana lucentezza. Ero in un vecchio mondo nuovo, reale, dotato di peso. Al Mall, quel pomeriggio, i turisti intorno a me scattavano fotografie e si mettevano in posa davanti ai loro sproporzionati tributi a ex presidenti, ex giudici, ex combattenti. Ho provato a godermi questa possibilità inedita di visitare un’epoca antica e vedere meraviglie che presto avrebbero cessato di esistere. La pietra calcarea bianca che riluceva al sole pomeridiano, i commenti ammirati in un numero incalcolabile di lingue diverse, i bus sbadiglianti e i taxi annoiati, gli impiegati grondanti sudore che incastravano una corsetta nella pausa pranzo. I jet argentei sembravano sospesi nel cielo azzurro, quando inclinavano le ali pochi secondi dopo il decollo al di là del fiume. Elicotteri con l’emblema dello stato passavano ad alta quota, facendoci vibrare il petto. Camminando lungo uno specchio d’acqua ai piedi del Campidoglio, ho visto una giovane donna con sua figlia, una bambina nera con un maglione rosa e i capelli a treccine ornati di perle bianche. Sulle labbra della bimba, qualche residuo di zucchero filato, e tra me e me ho pensato: «Avrà due anni, forse tre». Avrei voluto sapere il suo nome, per cercare nei miei database, per vedere se, casualmente, sarebbe risultata tra i sopravvissuti. La cosa ha assunto un’importanza incredibile, per me. Le ho seguite per un isolato e poi ancora, cercando di inventarmi una scusa per avvicinarmi abbastanza da prelevare un campione o scattare una foto salvabile. La bambina mi ha sorriso e mi ha salutato con la mano. Sua madre non se n’è accorta, non si è voltata, e quando sono arrivate all’incrocio mi sono imposto di fermarmi. «Non fa la minima differenza» ho pensato. «Probabilmente morirà; se invece sarà fortunata sopravvivrà.» Sì, se sarà «fortunata» crescerà in uno dei periodi storici più violenti di cui si abbia notizia. L’ho salutata di rimando, inerme quanto lei.
19
A cinquanta metri da me, un treno della metropolitana sbuca come un verme dalla terra e punta verso l’aeroporto. Gli Agis sono ancora acquattati dietro l’albero, unico riparo utile per preparare l’agguato a Chaudhry. Alle loro spalle, il terreno sale dolcemente in direzione del fiume; io sono venti metri più indietro. Il Potomac in secca puzza di carburante e del marciume di cose vecchie che sarebbero dovute restare sepolte. Vedo Chaudhry in lontananza che indugia ignaro nel parcheggio, illuminato da un unico lampione, attore solitario sulla scena. Si guarda intorno nervosamente, timoroso che qualche agente della Homeland Security possa chiedergli conto di quel suo aggirarsi nei paraggi di un aeroporto di notte. Non preoccuparti, Chaudhry: conosco gli orari dei giri di perlustrazione degli agenti Dhs, e di qui non ne passeranno prima di una certa ora. Nella mano destra ho la pistola che gli Ingegneri hanno progettato in modo da farla sembrare in tutto e per tutto una 9 mm automatica dei primi del ventunesimo secolo. Attaccato alla canna c’è un silenziatore, anche se l’arma resta un po’ troppo rumorosa. Nella mia epoca esistono sistemi più efficaci, ma il Dipartimento permette di riportare indietro nel tempo solo la tecnologia avanzata strettamente indispensabile, per ridurre il rischio che qualche contemp la rinvenga. Per fortuna ho in dotazione uno Storditore, che impugno con la mano sinistra. Ogni volta che un aereo decolla, la terra trema, e io mi avvicino un po’. Mi tengo basso, per evitare che Chaudhry possa scorgere il mio profilo sullo sfondo illuminato della città, anche se probabilmente sono troppo lontano perché possa vedermi, dato che non ha una buona vista ed è sempre lì a strizzare gli occhi dietro le lenti spesse dei suoi occhiali. (È imbarazzante la quantità di cose che so di lui.) Uno degli Agis controlla il calcio del fucile, l’altro scruta dentro un binocolo. Il cupo fragore di un aereo in accelerazione sull’asfalto è il mio via. Punto la pistola contro l’Agis con il fucile, mentre quello è ancora lì che ci traffica: probabilmente non capiscono bene come funziona quella tecnologia antica, anche se mi stupisce che siano riusciti a procurarsela. In questo stanno migliorando. Un’auto nera percorre la rampa d’uscita a spirale che porta al parcheggio e si avvicina lentamente a Chaudhry. A quel punto vedo l’aereo e ho quasi l’istinto di ripararmi, quando si alza come un 20
predatore esponendo il petto di acciaio lucente. Chaudhry è ora di spalle rispetto a noi, rivolto verso l’auto, perciò non vedrà la fiammata della mia pistola. Il rombo del jet è al suo apice quando premo il grilletto. L’Agis si era girato, lo colpisco alla nuca; lui sembra solo che annuisca, come per dare l’assenso a qualcosa di non detto, e poi si accascia. Il socio lo prendo alla base della schiena, così magari dopo riesco a fargli qualche domanda. Arranco fino a lui e gli scarico contro lo Storditore, soprattutto per evitare che gridi. Il suo corpo è addossato all’albero, e io lo adagio a terra. Mi stendo accanto ai due corpi e vedo che Chaudhry ora è in piedi nel parcheggio insieme ad altri due uomini. Uno è calvo, l’altro ha i capelli neri con una stria bianca per ogni lato, sopra l’orecchio, come se avesse una parrucca in pelo di puzzola. Un terzo uomo è seduto al volante dell’auto nera a fanali spenti. Questa è gente che sa come muoversi: i due si sono piazzati ai fianchi del giornalista, più basso e più minuto di loro, mettendolo con le spalle all’auto. Mi sorprende soltanto che non abbiano trovato il modo di rompere la luce del lampione prima dell’incontro. (Sotto il lampione è fissata una telecamera di sicurezza che a successive verifiche si rivelerà mal funzionante.) Sento alzarsi una voce, due sillabe staccate, seguite da un rapido movimento, e Chaudhry si piega in avanti. Uno dei due uomini apre la portiera posteriore dell’auto e, con l’aiuto del socio, lo spinge a bordo. È di nuovo circondato; le portiere si richiudono. Mentre l’auto imbocca la rampa in salita, lo colpiscono di nuovo, ripetutamente. Il passaggio di Chaudhry in questo spiazzo rimarrà ignoto a tutti per alcuni giorni, finché un collega preoccupato non aprirà la sua posta elettronica e ci troverà un messaggio – del cui mittente nessuno saprà nulla, di preciso, perché l’e-mail è giunta attraverso una serie complicata di reti, domini e portali segreti – in cui si dava appuntamento a Chaudhry in quel parcheggio per quella sera. Nonostante il grande impegno investigativo della polizia, dello sdegnato datore di lavoro, dei colleghi sconvolti e della famiglia in lutto, quello è l’ultimo luogo in cui Chaudhry risulterà essere stato in vita sua. L’auto si immette in autostrada, diretta a sud – se a qualche studente di storia dovesse interessare – anche se non so dove lo stiano portando. 21
Metto lo Storditore in modalità inversa e lo applico all’Agis che non è ancora morto: che botta, risvegliarsi in quelle condizioni, con una pallottola in un rene! Mi odio per questo: avrei dovuto sparargli in testa come al suo socio. Boccheggia, confuso, forse intorpidito dalla vita in giù, e comincia a sputare sangue. «Dove sono gli altri?» gli domando. Tosse, risatina, sputo. «Quanti siete? Dimmelo. È la tua opportunità di redimerti: hai sì e no dieci secondi.» Mi colpisce alla testa con una cosa che non può essere un pugno. Mi si rivolta lo stomaco e, in preda a un capogiro, riesco appena a mettere avanti le mani prima di cadere. Sta per colpirmi di nuovo – ha in mano una pietra – ma riesco a bloccargli il braccio e a saltargli addosso. Lotto con lui per un attimo: di energia gliene resta più di quanto immaginassi, ma sta scemando rapidamente. Lo immobilizzo a terra e lo colpisco una volta in pieno viso. Mi alzo in piedi e, mentre incombo su di lui, i suoi occhi si spalancano. Morto. Osservo lo scempio da me compiuto. No, lo scempio è il loro: sono loro la causa dei problemi a cui io devo porre rimedio. Come se le giustificazioni alleviassero il peso di aver ucciso due persone. Inspiro a fondo e cerco di riprendere il controllo del mio stomaco. La vertigine è già passata – un fenomeno improvviso e di breve durata –, ma è subentrato un dolore ben più intenso, con epicentro appena sotto l’orecchio sinistro. Ho una decina di minuti prima che un agente Dhs o una lancia della guardia costiera o altro personale di sicurezza perlustri la zona. Frugo nelle tasche degli Agis e prelevo i portafogli, con tanto di documenti falsi: di nuovo, sono molto colpito. Stanno imparando. Non hanno altre armi né chiavi di stanze d’albergo: nulla da cui dedurre dove fosse la loro base. Raccolgo campioni genetici per poter identificare con precisione le mie vittime. Il Dipartimento vuole che ci si sbarazzi dei corpi, e io ho con me un paio di Flasher che eliminerebbero i cadaveri insieme a ogni altra cosa nel raggio di qualche metro, ma fanno troppa luce e attirano l’attenzione. Decido, allora, di trascinare gli Agis per le gambe fino alla riva del fiume. Mentre gli aerei continuano a urlare in cielo, getto nell’acqua prima un cadavere, poi l’altro e infine il fucile. La confluenza del Potomac con l’Anacostia dovrebbe trascinare i corpi abbastanza 22
lontano da non permettere alla polizia di ricollegarli a Chaudhry, ma la cosa non mi preoccupa granché. Le loro impronte digitali risulteranno ignote, le loro arcate dentali prive di indicazioni significative, e il dna lascerà piuttosto perplessi gli analisti. Quei cadaveri diventeranno un po’ un mistero, ma a Washington succede, e l’omicidio di due uomini senza nome verrà senz’altro visto come la punta di un iceberg meritevole di un approfondito esame. La polizia locale domanderà discretamente ai federali, che magari si rivolgeranno agli sfuggenti e sospettosi membri delle tante diramazioni delle forze clandestine, ma i loro occhi schermati e notturni non tradiranno il minimo interesse, e ognuno attribuirà la colpa a qualcun altro. La scoperta dei cadaveri verrà tenuta nascosta ai giornali e ai reporter delle tv; la cittadinanza non si allarmerà, e i miei superiori resteranno ancora una volta sbalorditi dalla mia abilità nel portare a termine missioni complesse senza lasciare tracce. Controllo di nuovo il GeneScan, per accertarmi che non ci siano in arrivo altri Agis ritardatari: incompetenti come sono, ne sarebbero capaci. Niente. Il GeneScan dovrebbe apparire come una serie di immagini e di puntini sovrimpressi a quello che vedono i miei occhi o distribuiti a mo’ di radar sul mio gps interno. In questo momento, però, il GeneScan non funziona. Spero sia solo un’interferenza del mal di testa dovuto alla sassata, e che sia temporanea. Ripulisco dal sangue il tronco dell’albero con uno straccio che, una volta gettato nel fiume, riluce al buio come carta stagnola. Devo sembrare un essere regredito, ma non a quest’epoca, bensì a una di molto precedente, che qui chiamavano preistoria, quando certe strane, piccole e miserabili creature offrivano sacrifici agli dèi del mare che loro stessi avevano inventato, gettando beni più o meno preziosi nelle acque torbide. Pregando per un mondo tranquillo e fecondo senza inondazioni, per una vita di pace imperitura. Ci sono tante domande che avrei dovuto ricordarmi di porre prima di accettare questo lavoro. Sapevano già dall’inizio che ero interessato, anche se mi hanno talmente lusingato da farmi sorgere il dubbio che ci fosse qualcosa di poco chiaro. D’altra parte, è difficile fare caso a ciò che viene taciuto quando ciò che viene detto ti sconvolge a tal punto la mente. Era un onore, una proposta che non potevo rifiutare. 23
Mi sono domandato, negli ultimi tempi, se avrei davvero potuto rifiutare, e quanto sia stata libera la mia scelta; se mi abbiano forzato la mano o se mi sia mosso volontariamente. Che cosa c’è di preordinato e che cosa di spontaneo? Ci si pensa, a certe cose, dopo tanto tempo che si fa questo lavoro. Si comincia a riflettere su possibilità di cui la maggior parte della gente ignora persino l’esistenza, si intravedono percorsi segreti e vie di fuga nascoste. Oppure accade l’opposto: si percepiscono le forze superiori che ti guidano contro la tua volontà o a tua insaputa. Se si è quel che si fa, che cosa siamo quando sono altri a decidere ciò che facciamo? Le mie tre missioni precedenti si erano svolte in un’epoca diversa, negli anni quaranta del Novecento. Una delle cose che non ho mai domandato è per quanto tempo, in genere, deve continuare a lavorare un Protettore. Data la quantità di Addestramento e la competenza che un Protettore deve avere per navigare un’epoca, i transfer devono essere rari. La mia missione attuale, però, non è da considerare un vero e proprio transfer, dicevano, quanto una risposta a uno sviluppo imprevisto. Il Dipartimento dell’Integrità Storica, creato quando il governo si era reso conto che i gruppi rivoluzionari avevano accesso alla tecnologia ed erano anche loro in grado di viaggiare nel tempo, si è dimostrato abilissimo nell’indovinare quali Eventi gli Agis avrebbero inizialmente preso di mira. Prima di tutto avrebbero provato a cambiare l’andamento della Seconda guerra mondiale, con particolare riguardo per l’Olocausto. Quella era l’epoca. Gli Agis volevano prevenire lo sterminio: erano un gruppo estremista ebraico, anche se la specificazione può sembrare ridondante. Volevano salvare la vita a milioni di innocenti. Un fine ammirevole. In tal modo, però, avrebbero alterato il corso della storia e, quindi, il nostro Presente Perfetto. Il motto del Dipartimento, inciso sullo stemma sotto il quale ogni Protettore passa entrando al quartier generale (quartier generale di cui nessun altro è a conoscenza, per un Dipartimento di cui nessun altro è a conoscenza) recita: L’integrità della storia va preservata. Io proteggo Eventi di cui nel mio vero tempo rivolto al futuro nessuno sa nulla. Noi Protettori siamo guerrieri silenziosi che operano nel vuoto. Impediamo agli Agis di rimuovere i pilastri su cui si regge la nostra Società Perfetta. Che cosa sarebbe successo se Napoleone fosse morto da bambino? O se Mao non avesse lanciato 24
la Rivoluzione culturale? O se Osama bin Laden non avesse scagliato aerei come freccette contro i suoi bersagli globali? Gli Agis argomentano che in questo modo si sarebbero salvate vite umane ed evitate tragedie, e hanno ragione, dal loro ristretto punto di vista. Intendono ignorare che tali cambiamenti distruggerebbero il nostro Presente Perfetto: la Grande Conflagrazione, o qualche altro evento analogo, si verificherebbe ugualmente, e la sofferenza non avrebbe mai fine. Tutti i problemi che abbiamo risolto, tutte le disfunzioni della società a cui abbiamo rimediato, tutti gli sforzi fatti per eliminare la cattiveria e la fragilità umane – tutti questi traguardi vanno difesi, a qualunque costo. Dopo aver guardato i cadaveri degli Agis che si allontanano galleggiando nel fiume, riprendo l’auto e torno in città. Mentre la mia mente vaga da un luogo all’altro, da un’epoca all’altra, e ripenso a mia moglie e alla casa che non visiterò mai più, vengo riscosso bruscamente dal GeneScan. Si accende all’improvviso, ma non funziona come dovrebbe. Vedo puntini e macchie e strie dappertutto, la visuale fratturata in un universo di costellazioni illeggibili quanto le stelle del cielo. Sbando, distratto. Alcuni puntini svaniscono, ma uno persiste: il GeneScan sembra voler segnalare la presenza di un Agis nei paraggi. Non era contemplato nelle informazioni in mio possesso, però. Io ho un elenco dettagliato degli obiettivi degli Agis, e per questa sera non era previsto nient’altro, tantomeno in questo quartiere. Forse sono incappato nel loro nascondiglio: una coincidenza fortuita, che mi avrebbe concesso l’opportunità di eliminarli tutti. In Polonia, una volta, ho avuto questa fortuna: ho trovato il remoto fienile da cui pianificavano di bombardare le linee ferroviarie dei nazisti e ho eliminato tutti con un incendio notturno e alcuni colpi di fucile ben piazzati; è stata per me la missione più facile di sempre. Faccio del mio meglio per seguire il GeneScan, cercando di collegarlo al mio gps interno. Non funziona. Le informazioni geografiche fornite dagli addetti alla Logistica sono le migliori di cui disponevano, ma questo non significa granché. Gli Archivi stessi sono imprecisi, pieni di errori e cronologicamente inaffidabili. Ci sono ruspe e camion con rimorchio parcheggiati in tutto il quartiere, e improvvise svolte che rendono inservibili le mie mappe: i camion 25
sono lì per abbattere vecchi edifici e costruirne di nuovi. È triste vedere la gente che si dà tanto da fare per costruire questo mondo. A quel punto, vedo le luci della polizia nello specchietto retrovisore. Infastidito dal circuito fuori uso nel mio cervello, riesco a spegnere l’inutile GeneScan, e intanto accosto. I poliziotti si avvicinano alla mia auto, uno per lato. Guidavo con i finestrini per metà abbassati, e mi domando fino a che punto puzzi di alcol o di polvere da sparo. «Patente e libretto» dice l’agente alla mia sinistra. È di un biancore straordinario. La sua pelle sembra risplendere, illuminata dai fanali delle auto di passaggio. Mi sono abituato nel corso delle varie missioni a quanto possano essere pallidi i «bianchi» e scuri i «neri», eppure gli indicatori razziali, qui, sono stranissimi. È come quando ti chiedono di descrivere il gusto di un piatto cucinato con ingredienti sconosciuti: mancano i punti di riferimento, i termini di paragone. Solo estraneità e meraviglia. Gli passo la patente e il contratto di noleggio. Il furto d’identità è un grosso problema in quest’epoca, e gli addetti alla Logistica ricorrono a una quantità di trucchi per costruire identità fittizie. Compulsano vecchi dossier e sistemi informatici – quello che è sopravvissuto alla Grande Conflagrazione, alle molte guerre successive e al lungo declino – in cerca di nomi che possano essere prelevati, di dati trasferibili, di vite da rubare. Scelgono persone che noi possiamo «sostituire» tra quelle scomparse nel nulla o morte in circostanze misteriose, quelle i cui dati sono sopravvissuti qualche giorno più a lungo di loro. La patente dice che mi chiamo Troy Jones e che vengo da Philadelphia. Al Dipartimento sono conosciuto come Zed, e in realtà non abito da nessuna parte. Controlla i miei dati, e all’improvviso realizzo che potrebbero essere degli Agis. Un travestimento da poliziotti sarebbe notevole, qualcosa di più sofisticato del loro solito. Cerco di riavviare il GeneScan, che si accende troppo rapidamente e, come sopraffatto dall’eccessivo carico, si spegne subito dopo. Riprovo, ma non accade nulla: il mio fidato assistente ha deciso di congedarsi in anticipo da questa avventura. Noto che i poliziotti, alla cintura, hanno la fondina della pistola aperta. Non so se sia una procedura di routine in mezzo al traffico. 26
La mia pistola è nel cassetto del cruscotto, lo stesso che se fosse a un miglio di distanza. L’altro poliziotto è in piedi sul lato destro della mia auto e non riesco a vederlo in faccia: solo la pancia, da cui deduco che i requisiti fisici per diventare agenti, in quest’epoca, non sono così severi come nella mia. Punta una torcia elettrica all’interno della Corolla e il fascio di luce indugia sulla giacca leggera posata sul sedile accanto a me. «C’è qualcosa sotto quella giacca, signore?» Il secondo poliziotto sembra più anziano del primo; più stanco. «No, agente.» «La sollevi con estrema lentezza e mi faccia vedere.» Obbedisco, dopo di che l’agente illumina il sedile posteriore. Senza poter contare sul GeneScan, mi sento per un attimo perduto, un viaggiatore confuso dopo aver perso di vista il proprio interprete in un mercato affollato. «C’è qualcosa che non va, agenti?» «Lei ha ignorato una precedenza, signor Jones, e ha cambiato corsia senza segnalare» dice il poliziotto che ha in mano la mia patente. «Mi dispiace molto. Credo di essermi perso.» Scelgo un indirizzo a caso a pochi isolati di distanza e gli dico che lo stavo cercando. «Non sono di queste parti.» «Lo vedo. E ha anche un accento curioso, se posso permettermi.» Mi ferisce più di quanto lui possa immaginare: ho passato intere giornate a lavorare sulla voce, ad ascoltare vecchie registrazioni e a vedere filmati forniti dagli addetti degli Archivi, per studiare la cadenza e il tono dei contemp. «Lei non mi pare per niente un Jones» dice l’altro, chinandosi per puntarmi la luce in faccia. Io distolgo lo sguardo e mi volto verso il primo poliziotto: «Ho un albero genealogico complicato». «Come mai si trova a Washington, signor Jones?» «Sono un appaltatore del dipartimento della Difesa, e sono qui per alcune riunioni. Sto cercando l’ufficio di un mio collega con cui ho in programma un incontro su questioni di strategia.» Questa copertura era stata scelta per la sua vaga aria di mistero e solennità, mi avevano detto, ma i poliziotti non sembravano particolarmente colpiti. «Un appaltatore della Difesa? Davvero?» 27
«Un’ora un po’ tarda per una riunione strategica, no?» domanda l’altro. «La strategia è una questione aperta ventiquattr’ore su ventiquattro, nel settore della Difesa» ribatto io. «E poi ho perso tempo lungo il tragitto.» «Anche noi, qui nel District, prendiamo molto sul serio le strategie di difesa.» «Per l’esattezza, di quale tipo di strategia si occupa con i suoi colleghi, signor Jones?» Non mi aspettavo una reazione del genere. Rifletto un attimo, domandandomi dove ho sbagliato. «Non posso entrare nei particolari» dico. «Posso dire che ha a che fare con questioni di intelligence.» Aspettano una frazione di secondo. «Se lei sta andando a una riunione di lavoro per discutere di strategie, non dovrebbe avere con sé dei documenti?» «Li tengo nel bagagliaio.» «Le dispiace se diamo un’occhiata?» «Guardi pure, agente, se vuole, ma i documenti sono segreti.» Il poliziotto grasso scoppia a ridere, e a me fa un effetto strano, perché non lo vedo in faccia. Registro mentalmente il nome appuntato sulla sua camicia blu e faccio altrettanto con il suo collega, sempre per il mio Rapporto sui contatti storici. Dice al collega: «Non si capisce se abbiamo fermato al-Zawahiri o Colin Powell». Questi nomi figurano nell’archivio su «Persone, Luoghi ed Eventi Contemporanei», collegato al mio cervello attraverso un microchip che mi hanno impiantato. È quasi come la memoria, ma non del tutto. Ci mette un secondo. E se anche quei nomi non ci fossero stati, avrei capito lo stesso: a prescindere dall’epoca, dal contesto culturale e dalla lingua, gli insulti si riconoscono. I poliziotti stanno facendo fatica a decifrare la mia origine etnica, con una diffidenza epidermica per gli scuri di carnagione dall’aria intelligente mista a paura della malvagità araba. I miei superiori dicevano che agli occhi di un contemp bianco sarei potuto sembrare «un afroamericano molto chiaro» o uno delle «isole del Pacifico» o un «individuo multirazziale di un certo interesse». Il secondo agente si china e lo vedo in faccia per la prima volta. Come il collega, è di un pallore al limite della morte. Guardo le sue 28
guance paffute e arrossate e i suoi occhi vitrei per un istante, prima che lui mi punti la torcia negli occhi costringendomi a girarmi. «Signore» dice «le chiedo gentilmente di aprirci il bagagliaio. Non frugheremo tra le sue carte. Sappiamo leggere a malapena. Vogliamo solo vedere se per caso c’è qualcos’altro.» Annuisco e cerco la leva per aprire il bagagliaio. La mia inesperienza con le auto, evidentemente, pare loro una sospetta riluttanza a eseguire gli ordini. Alla fine, trovo la leva e sento, alle mie spalle, lo scatto sommesso. Il poliziotto grasso perquisisce il bagagliaio, mentre il poliziotto che stava alla mia sinistra torna verso l’auto per digitare i miei dati nel suo computer di bordo. Apro con circospezione il cassetto del cruscotto e ne estraggo la pistola approfittando del fatto che il portellone aperto impedisce loro di vedermi. La infilo all’interno della giacca che mi stringo addosso, nella speranza che non si accorgano di nulla. Li ho letti, i documenti che ci sono nel bagagliaio: un garbuglio incomprensibile. Se quello che la Logistica mi ha stampato è davvero rappresentativo dei documenti trattati dagli appaltatori della Difesa contemp, non c’è da stupirsi che le cose siano precipitate tanto rapidamente. Il poliziotto grasso chiude il bagagliaio e torna alla sua posizione precedente alla mia destra. Un minuto dopo, anche l’altro agente ci raggiunge, porgendomi un foglietto rosa, pronto a spiegarmi la contravvenzione. Non sono Agis, solo agenti contemp annoiati e speranzosi di essersi imbattuti in qualcosa di importante, ma ormai rassegnati a tornare ai loro ruoli di secondo piano nella frenetica narrazione metropolitana. «Stia più attento quando guida in città, signor Jones. A proposito, com’era l’indirizzo che stava cercando?» Glielo ripeto, superando anche questo test, e lui mi dà le indicazioni. Mi augurano la buonanotte e tornano alla loro auto. Io seguo le indicazioni ricevute, ben sapendo che mi stanno seguendo. Dopo un paio di svolte, arrivo a destinazione: un grattacielo di vetro e acciaio. Trovo un buco per parcheggiare (le manovre in automobile non sono esattamente il mio forte, ma operare sotto pressione sì) e i poliziotti aspettano alle mie spalle, mentre io mi avvio deciso. A quel punto decidono di andarsene. Percorro la Sedicesima Strada, che era il luogo in cui il GeneScan 29
sembrava volermi condurre, prima di spegnersi. È una via più trafficata, con auto di passaggio in entrambe le direzioni: avvocati impegnati fino a tardi e lobbisti e propagandisti che corrono a casa verso la loro tv, i loro figli, il loro isolamento. Davanti a me vedo una grande chiesa di mattoni rossi. È un punto d’incontro che si addice agli Agis: molti di loro sono religiosi, spinti da un’irriducibile devozione alle loro fedi pericolose. Li si potrebbe immaginare felici in un’epoca come questa dove sono circondati da chiese, sinagoghe e moschee e in qualsiasi momento possono entrare in una libreria e vedere in vendita le loro amate scritture. Da un cartello nel minuscolo spiazzo antistante capisco che si tratta di una chiesa congregazionalista. Stando al foglio di servizio, non dovrebbe accadere nulla a quest’ora. Avverto il brivido del proibito avvicinandomi all’edificio sacro. Una croce pende sopra il portale; su un lato, sculture sbiancate già in stato di abbandono – un dito mancante qui, una striscia di sporco là – come se sapessero che la loro epoca volge al termine. La pesante porta non è chiusa a chiave. Entro e guardo le file di panche scure, il pavimento di piastrelle grigie, le vetrate che incombono sull’altare spoglio. C’è un silenzio tale che pare di sentire l’eco dei respiri. Nelle prime file noto le schiene di due anziane dai capelli grigi raccolti a crocchia. Provo a figurarmi quello che staranno pensando quelle donne lì inginocchiate che si prostrano umilmente davanti a un essere nato dalla loro immaginazione, un’entità che ha acquisito un enorme potere grazie alla fede condivisa. «Posso esserle utile?» Mi volto e vedo un vecchio, di un biancore angelico. Mi sorride con gentilezza. Sopra di lui ci sono immagini del loro Messia torturato, fustigato, assassinato. «Mi scusi, stavo solo guardando…» Non so bene che cosa dire. È stato un errore entrare qui. Il sacerdote indossa una camicia bianca e pantaloni neri larghi; la croce che porta al collo scintilla nella luce fioca. Registro la sua immagine, lo ringrazio e indietreggio. Volantini bianchi e gialli affissi a una bacheca di sughero accanto a me promuovono vendite di torte, annunci di baby-sitter e raduni politici in nome della «vita». Il vecchio mi si avvicina e mi domanda se sono sicuro che non ci sia altro. 30
«Nel paese in cui vivo» provo a spiegare «non ci sono chiese. È… interessante trovarsi di nuovo a visitarne una.» «Dev’essere un posto terribile. Che paese è?» Rispondo con un breve sorriso. La gente qui è abituata a ricevere solo frammenti minimi di informazione. «Devo andare. Buonanotte.» «Che la pace sia con te.» Non mi curo neanche di ricambiare il suo auspicio. All’esterno faccio un’altra verifica sul mio gps e mi rendo conto di essere a un solo isolato a nord di Lafayette Square, praticamente il cortile anteriore della grande residenza del presidente locale, detta Casa Bianca. Poteva darsi che gli Agis avessero mire su un edificio tanto protetto? Forse no, dato che una simile manomissione avrebbe riverberi storici che neanche loro potrebbero prevedere, ma sarebbe stato da negligenti non verificare. Vedo una folla davanti a me. Subito dopo sento una voce che, attraverso un altoparlante, snocciola una serie di nomi: «Sergente Wilfredo Dominguez; soldato di prima classe Martin Dithers; specialista Gloria Wilcox». Il lato sud della piazza è occupato da circa duecento persone. Di spalle, immobili come statue, con una luce irradiante sul davanti. Ho la sensazione di essere entrato in una qualche installazione d’arte contemp, un labirinto di forme umane ognuna con una minuscola candela bianca tenuta davanti al petto. Eseguo un controllo sui nomi appena uditi, passando in rassegna tutti i database. Appartengono a soldati e soldatesse morti nelle guerre contemp. È angosciante trovarsi tra questa gente in lutto. Non ci sono proteste nella mia epoca né manifestazioni (ben strana parola da scegliere, in questo caso, giacché che cosa stanno manifestando, se non la loro impotenza?). Questa è una manifestazione pacifica, di un pacifico inquietante. Le lacrime sulle guance di alcune persone sono le sole cose in movimento. Cerco un cartello con il nome del gruppo, ma non trovo nulla. Controllo data ed epoca in svariati database, ma senza risultati. Di qualunque cosa si tratti, il Dipartimento non la considera importante. Perché, allora, il GeneScan mi ha portato qui? Nel corso delle mie missioni, è allettante pensare a me stesso 31
come l’unico essere vivente in una terra di fantasmi, e ora questo effetto è accentuato. La città appare tranquilla dall’interno del parco, come se le preghiere silenziose di tutta questa gente fossero in grado di cancellare il rumore del mondo. L’elenco dei nomi si interrompe e i presenti, uno alla volta, spengono le rispettive candele, piccoli barlumi di speranza che si estinguono tutt’intorno a me. Il mondo si fa più buio; lampi di luce arancione all’interno della mia retina danzano come un GeneScan fuori uso. C’è chi posa in un mucchio la candela dallo stoppino ancora fumante. Altri la conservano. Restano dove sono, solitari o abbracciati a gruppi singhiozzanti, oppure lasciano lentamente la piazza. Nessuno ha proclamato la fine dell’iniziativa: è sembrato quasi l’effetto di un messaggio telepatico o di un istinto genetico che non ha bisogno di ricorrere al pensiero cosciente. È incredibile come la tristezza riesca a essere bella. I fantasmi mi sciamano intorno da ogni parte e io proseguo il mio giro, in cerca di non so cosa. Qualcosa. Una cosa dal significato lampante. Come se il lavoro fosse sempre così facile. Di nuovo, mi mostro a un numero incalcolabile di contemp, violando palesemente le norme del Dipartimento, ma non so che altro fare. «Sembri scettico più o meno come me» dice una voce di donna. La sua pelle appare scurissima ai miei occhi; i suoi capelli sono raccolti in trecce sottili che le ricadono dietro le spalle. Porta occhiali dalla massiccia montatura viola. Eravamo uno accanto all’altra e guardavamo la piazza. Qualcuno ha riacceso la propria candela e cammina tenendola davanti a sé, come se avesse bisogno di luce per procedere o come se temesse di farla cadere. Che cosa intende dire? Forse non sono riuscito a mimetizzarmi come si deve: mi ha individuato come l’unica persona che non ha pianto, che non ha gli occhi rossi. Neanche lei ha gli occhi rossi, però. Accenno alla candela spenta che regge tra le mani giunte. «Per chi sei venuta qui?» «Per il tenente Marshall Wilson, mio fratello. Era nell’esercito. È stato ucciso nel giugno scorso.» «Condoglianze.» Non si dice così, nella mia epoca, ma l’ho imparato al corso su usi e costumi. Guarda le mie mani vuote. «E tu?» 32
«Anch’io per mio fratello.» La bugia mi viene spontanea perché non voglio che lei si renda conto della mia estraneità. Un errore innocuo, forse. E voglio che continui a parlarmi. Ha gli occhi grandissimi e cupi, e l’atmosfera sembra carica di energia per via delle candele, delle preghiere, del ricordo dei defunti. Registro la sua immagine sul mio drive, ma non in vista del rapporto che dovrò presentare. Solo un piccolo ricordo da portarmi dentro quando se ne sarà andata. Ripete quello che io ho detto a lei, a completare il rituale, per chiudere questo piccolo e tragico cerchio. «Secondo me, se davvero contasse ciò che pensa la gente» dice «se tutte queste speranze messe insieme potessero ottenere qualcosa, prima o poi loro dovrebbero tornare a casa. E quello che hanno passato troverebbe una ricompensa. Questa, però, è un’idea assurda, perciò viene da domandarsi quale sia il senso di tutto questo, no?» Non so che cosa dire. Lei prosegue. «È un modo socialmente accettabile di farci sentire meglio, credo. E forse mi sono sentita davvero un po’ meglio, per un paio di minuti.» Scuote la testa. «Ora, invece, sono più arrabbiata di prima.» Non so se la gente, qui, sia abituata a parlare così liberamente con gli sconosciuti o se lei si sia solo fatta prendere dall’atmosfera del momento. O forse pensa che io, per il solo fatto di essere presente, sia d’accordo con lei su tutto o, quantomeno, sulle cose principali. Ho conosciuto mia moglie a un raduno pubblico, molto diverso da questo, ma non posso fare a meno di ripensarci. È accaduto tanto tempo fa, così avanti nel futuro… Mi manca. Mi domando se non sia per questo che sono ancora qui a parlare con una donna che ha un disperato bisogno di essere ascoltata. Vedo che ha scritto delle parole sul disco di cartone che circonda la candela. «Che cosa c’è scritto?» Lei inclina d’istinto la candela per mostrarmi le parole. «Oh, soltanto un vecchio modo di dire che usavamo mio fratello e io. Una battuta.» «Scusa, non avrei dovuto curiosare.» «No, figurati, sono stata io ad attaccare bottone con un uomo strano.» 33
Mi concedo un vaghissimo sorriso. «Non sono così strano.» Sorride. «Non intendevo…» «Lo so. Un tipo strano, in un parco, di notte. Dovresti fare più attenzione.» «Devo aver pensato di trovarmi in un ambiente sicuro.» Signorina, io ho appena ammazzato due persone; milioni di persone, in un certo senso. «Giusto» dico. «E poi ci sono tutti quei poliziotti armati fino ai denti, nel caso io tentassi qualche mossa fuori luogo.» Segue il mio sguardo e osserva i poliziotti e le guardie di sicurezza in posizione davanti alla Casa Bianca e sui tetti degli edifici vicini, tutti con il fucile imbracciato e il petto rigonfio per via del giubbotto antiproiettile. Stanno lì in piedi e fingono di non vedere i fantasmi che si allontanano impalpabili dal loro territorio. «Avevo sentito parlare di queste iniziative, ma non ci ero mai voluta venire, prima di oggi» dice. «Dovevo venirci con i miei genitori, ma mia madre s’è presa il raffreddore e ha deciso di rimanere a casa.» Scuote la testa, come se avesse cercato un modo per esprimere i propri sentimenti e, alla fine, ci avesse rinunciato, rassegnata alla loro indicibilità. «Non ho mai visto niente del genere prima d’ora» dico. «Già, non ricevono molta attenzione da parte della stampa. Credo che in realtà non importi a nessuno.» «No, volevo dire…» Che cosa volevo dire? «Non sono di qui. Abito a Philadelphia, ma sono qui per lavoro, per un po’. È un periodo interessante… cioè, un posto interessante.» Restiamo lì a parlare per qualche minuto. Di politica, delle guerre. Le domando di suo fratello, e lei all’inizio non sa che cosa dire, ma poi finisce per dire tantissimo. Non era favorevole alle guerre prima che iniziassero, e di certo non lo è diventata dopo aver perso il fratello. Vorrebbe aver fatto di più quando lui era vivo, quando avrebbe avuto importanza. Ma ora avrebbe importanza per tutti quelli che stanno ancora combattendo, no?, mi domanda, e io annuisco. Vorrei dirle che non ho il diritto di parlare con persone come lei, che lei dovrebbe fuggire da me urlando, per quello che ho fatto e per quello che sto facendo. Però voglio anche stare qui, avvolto dalla calma del parco, dalla notte, dalle parole di lei. Si scusa per aver chiacchierato troppo, teme di essere sembrata 34
troppo egoista. Mi domanda di mio fratello. Forse si aspetta un racconto altrettanto lungo e divagante. Io, invece, mi stringo nelle spalle e dico: «Mi è ancora difficile accettare che sia realmente successo». Mi limito a questo, e lei annuisce. «Ti capisco.» La piazza si sta svuotando intorno a noi. Lei non sembra ancora pronta ad andarsene. Forse, per lei, è come abbandonare il fratello. Mi interrogo su tutte le antiche superstizioni e credenze, su quale sia il potere mistico di cui lei si sente preda. Ma avevo provato qualcosa anch’io tra quelle statue al lume di candela, o no? Di che cosa si era trattato? Non dovrei essere qui. Dovrei smetterla di parlare così con questa donna. «Be’, grazie per le chiacchiere» mi dice; stacca una mano dalla candela e me la tende. «Mi chiamo Tasha.» «Troy.» Mi piace la sensazione della sua mano. Fredda per l’ora tarda, viscida per aver stretto la cera. «Dicevi che non abiti qui?» «Abito qui solo temporaneamente. Sono un consulente.» Stimo, lì per lì, che un lavoro nel settore della Difesa non incontrerebbe la sua approvazione. «Nel settore della Sanità.» «Finché resterai qui in città, se ti va di cenare insieme qualche volta…» «Certo.» Una falsa promessa non può fare danno. E mi concedo una breve fantasticheria, immagino di avere quella libertà. «Sarebbe fantastico.» Tasha dice che dovremmo scambiarci i numeri di telefono per poterci organizzare, e io confesso di non averlo. Lei alza un sopracciglio. «Ce l’hanno tutti un telefono.» «Be’, avevo un cellulare, ma si è rotto appena prima che la ditta mi mandasse qui, e io non ho ancora memorizzato il numero dell’hotel. Perché non mi dai tu il tuo?» Mi squadra. Devo aver calpestato una qualche convenzione sociale, ma lei snocciola il numero, e io lo registro. Ci salutiamo, e lei si allontana. Sento che il cuore mi batte più rapido del solito, come se avessi salvaguardato un qualche Evento di vitale importanza. Il GeneScan 35
mi ha portato fuori strada, e io ho lasciato che il mero desiderio carnale, o forse il mio cuore infranto, facesse il resto. Mentre cammino diretto alla mia auto noto un tale disteso su una delle panchine del parco. È avvolto in una lurida coperta grigia; accanto a lui, il grosso mucchio dei suoi disparati beni. Dopo aver violato tante regole, stasera, che differenza può fare una violazione in più? «Hai degli spiccioli, amico?» domanda. Ha la barba folta e una pelle che non sembra vera. Sembra fatta a strati. Chissà chi troverei, se potessi rimuoverli? «Dormi qui? A così poca distanza dalla casa del presidente?» «Cristo, amico, lui mica ci dorme, lì! Quella è solo una proiezione spettrale. Lui è in cielo sulla sua navicella, a tirare le fila.» Prendo un biglietto da cento dollari dal mio portafoglio e glielo porgo. «Che cazzo!» grida, e io arretro. «Questa è falsa!» Non mi aspettavo questa reazione rabbiosa, come se gli avessi fatto uno scherzo. «Forse non esiste nulla di vero» gli dico «ma sono soldi buoni, tranquillo.» Aspetto un altro istante, mentre lui osserva la banconota in controluce, sfruttando un lampione. Non mi ringrazia, e io spero che non getti via il denaro che ho ritirato dal conto di Troy Jones nel corso dell’ultima settimana. Me ne torno in auto al mio orribile motel. Avendo ancora in mente Tasha, controllo tutti i database che mi hanno installato. Come previsto, le notizie che la riguardano si interrompono all’inizio della Conflagrazione.
36