Il poeta nel laboratorio

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Patrick Wilcken

Il poeta nel laboratorio Vita di Claude LĂŠvi-Strauss Traduzione di Raoul Kirchmayr


www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore © Patrick Wilcken, 2010 The moral rights of the author have been asserted Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria © il Saggiatore S.p.A., Milano 2013 Titolo originale: Claude Lévi-Strauss


Il poeta nel laboratorio per Andreia e Sophia



Sommario

Introduzione

9

1. Anni di gioventĂš

25

2. Arabesco

55

3. La linea di Rondon

87

4. L’esilio

123

5. Le strutture elementari

157

6. Sul lettino dello sciamano

187

7. Memorie

209

8. Modernismo

233

9. Il pensiero selvaggio

257

10. La nebulosa del Mito

283

11. Convergenza

315

Epilogo

347

Approfondimenti

351

Ringraziamenti

355

Note

357

Indice analitico

393


GUYA NA F RANC E S E

O

CO LOM BI A Isola Marajó Amaz z o delle Rio

ni

BRA SIL E PERÙ

Brasilia (1960)

Paludi del Pantanal

C I LE

San Paolo

OCEANO AT L A N T I CO

Spedizione nella Serra do Norte linea telegrafica (partenza) (sosta) (termine della spedizione)


Introduzione

Alcuni si potrebbero chiedere se durante la mia vita sono stato guidato da una specie di donchisciottismo, […] da un desiderio ossessivo di trovare il passato dietro il presente. Se per caso qualcuno un giorno dovesse prendersi il compito di capire la mia personalità, gli offro questa chiave. Claude Lévi-Strauss e Didier Eribon, Conversazioni con Claude Lévi-Strauss, 1991

Nel 1938, il giorno del suo trentesimo compleanno, Claude Lévi-Strauss si trovava in Brasile a guidare una carovana lungo quello che restava di una linea del telegrafo. I pali sbilenchi, i fili arrugginiti e gli adattatori in porcellana si allineavano tra le accidentate regioni boschive dello stato del Mato Grosso, nel Nordest del paese, lungo i bordi del bacino del Rio delle Amazzoni. Con la barba lunga e abbronzato dal sole, vestito con una tuta sudicia, in testa un cappello in stile coloniale e ai piedi degli alti stivali in pelle, Lévi-Strauss era a capo di una spedizione etnografica. Lo scopo della missione era di studiare alcune tribù nomadi che vivevano sull’altopiano e i cui membri non indossavano altro che piume da naso, braccialetti e cinture. Queste tribù erano note con un solo nome: nambikwara. Più avanti lungo il cammino, la boscaglia lasciò il posto alla giungla e la spedizione iniziò a spostarsi in canoa. Lévi-Strauss incontrò allora altre tribù accampate nelle radure della foresta tropicale: si trattava degli ultimi sopravvissuti delle culture arawak, caribi e tupi. Durante la missione – che diventò tanto famosa quanto controversa – lavorò a fianco di un gruppo di esperti, tra i quali la sua prima moglie, Dina, il dottor Jean Vellard, specialista in medicina tropicale, e un antropologo brasiliano di nome Luís de Castro Faria. Le fotografie fatte da Lévi-Strauss durante il lavoro sul campo appaiono datate anche per l’epoca in cui vennero scattate: bestie da soma gravate da casse d’equipaggiamento attraversano la natura selvaggia, uomini con elmetti coloniali si mescolano a nativi praticamente nudi, scambi di


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collane e lunghe stoffe per archi, frecce e oggetti rituali, canoe sovraccariche e bivacchi nella giungla. Un’immagine è attraversata dalla carcassa di un boa constrictor di sette metri e da una dozzina di feti del serpente, la sua progenie appena venuta alla luce, che si riversa per terra. «Ci vollero diversi proiettili per averne ragione, poiché questi animali sono indifferenti alle ferite nel corpo: bisogna colpire la testa» ricorda Lévi-Strauss.1 Tutto questo ha il sapore di una qualche grande spedizione scientifica ottocentesca. L’effetto è quello di una doppia incongruenza. L’antropologo polacco Bronisław Malinowski aveva condotto un famoso lavoro sul campo alle Trobriand, al largo delle coste della Nuova Guinea, dove aveva studiato lo scambio rituale tra le isole dell’arcipelago. Da quel momento in avanti l’etnografia si unì strettamente a un’immersione solitaria in un’altra cultura. Negli anni trenta c’era una grande probabilità che le foto del fieldwork mostrassero una tenda singola, piantata a ragguardevole distanza da una tribù, un tavolo a cavalletto coperto di diari, uno zaino con delle provviste e, talvolta, uno strumento di registrazione infilato in una cartella. L’aspettativa era che la veglia solitaria dell’antropologo portasse a risultati significativi, solo dopo lunghi anni di assimilazione. Al contrario, il gruppo di Lévi-Strauss percorse più di mille chilometri, fermandosi raramente in ogni singolo luogo per più di poche settimane. La sua spedizione sarebbe diventata una delle ultime avventure di questo genere, un anacronistico viaggio nel cuore di un angolo dimenticato del Brasile. Verso la fine del 1938 il gruppo si divise. Castro Faria ridiscese il Rio delle Amazzoni alla volta di Rio de Janeiro, Vellard e Lévi-Strauss presero un piccolo battello a vapore fino al fiume Madeira, poi salirono su un idrovolante che li portò a Cochabamba, in Bolivia.2 Per lo più fu un’esperienza frammentaria. Le sue note di lavoro, che ora sono conservate alla Biblioteca nazionale di Parigi, danno l’idea della disorganizzazione. LéviStrauss vi elenca le parole fondamentali di differenti gruppi di nativi e le intercala con schemi di parentela, con illustrazioni di tecniche tessili e disegni di animali, con volti e lance, con inventari di enormi quantitativi di provviste necessarie a prolungare la spedizione. Il viaggio fu la continuazione di un fieldwork di breve durata, che in precedenza si era svolto più a sud, tra i caduveo e i bororo. Fu il battesimo di Lévi-Strauss all’antropologia. Il tratto saliente di quel lavoro fu


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la sua ampiezza. Invece di svolgere analisi approfondite per ogni singolo gruppo, Lévi-Strauss monitorò per poco tempo una mezza dozzina di diverse culture native che punteggiavano le regioni interne del Brasile. Forse opportunamente, fu questo il punto di partenza della sua ricerca. A partire da alcuni elementi frammentari – un arabesco dipinto sulle guance infossate di un caduveo, le capanne a forma di igloo dei mundé, le canzoni rituali, accompagnate dalla musica del flauto dei nambikwara – Lévi-Strauss abbozzò la struttura di un’opera che avrebbe restituito non la complessità di una singola tribù, ma gli elementi comuni a un’intera cultura. Ironicamente, quella spedizione in stile ottocentesco finì per tornare utile a una delle opere più avanguardistiche delle scienze umane. Tristi Tropici, scritto nel 1955, è il resoconto delle riflessioni fatte da LéviStrauss su quel viaggio. Il libro fu scritto quindici anni dopo le esperienze in Brasile e tracciò sulla mappa dei saperi i confini dell’antropologia, a quel tempo disciplina emergente. Con le note di lavoro residue dipinse l’autoritratto dell’antropologo alla metà del secolo: un pioniere della conoscenza che vuole superare i confini della cultura occidentale allo scopo di conoscere un altro mondo e un’altra forma d’esistenza; un outsider condannato a girovagare senza sosta lungo i confini delle culture, sofferente («psychologiquement mutilé»)3 a causa di una cronica sensazione di disancoramento; un viaggiatore sconsolato che osserva le culture distrutte dall’espansione dell’Occidente e abbandonate ai suoi margini. Al tempo stesso Lévi-Strauss definì un nuovo approccio teorico. L’immagine della cultura dei nativi viene restituita in una forma cristallizzata e altamente stilizzata: i diversi gruppi nambikwara che si aggiravano presso le stazioni telegrafiche dismesse per ottenere piccoli oggetti e rifiuti dai missionari, gli insediamenti dei villaggi che sopravvivono a stento, il caldo, la polvere. Al modello fu dato il nome di «strutturalismo». L’approccio mirò a scoprire le simmetrie nascoste, sottese a ogni cultura. In Tristi Tropici LéviStrauss dapprima seduce il lettore, anticipando alcuni spunti metodologici, poi, durante il percorso, fa emergere un’inattesa coerenza dalla confusione che apparentemente regna tra le idee e le pratiche dei nativi. «Nel complesso, fatte le debite considerazioni, l’intervista è un genere talmente detestabile che la povertà culturale di un’epoca costringe qualcuno


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a sottomettervisi più spesso di quanto vorrebbe» disse una volta LéviStrauss (in un’intervista). Quando la sua notorietà crebbe con il successo di Tristi Tropici e con il successivo trionfo dello strutturalismo, egli continuò comunque a parlare regolarmente con giornalisti e colleghi d’università. Negli anni sessanta e settanta apparve spesso alla televisione francese, partecipò a una serie di documentari e, dopo la pensione, acconsentì in via straordinaria che lo scrittore e filosofo Didier Eribon lo intervistasse per un libro pubblicato nel 1988 con il titolo De près et de loin (Da vicino e da lontano). Tuttavia, tanto più lo si legge tanto più la persona risulta inafferrabile, come se si fosse nascosta dietro le parole e le immagini. Sia sulla carta che sulla pellicola Lévi-Strauss appare contemporaneamente cordiale ed elusivo. Nel corso degli anni non lesinò parecchi particolari della sua vita, ma tenne il riserbo sull’essenziale. Ciò che resta è l’impressione marcata di un’immagine superficiale, una vividezza senza profondità. I tratti semitici del suo volto (proveniva infatti da una famiglia ebrea, originaria dell’Alsazia) sono anonimi. La stessa posa informale è stata fotografata innumerevoli volte: Lévi-Strauss in piedi di fronte a sfilze di cassetti metallici con etichette di classificazione, all’interno di un archivio parigino, per esempio, oppure in giacca con un pappagallo appollaiato sulla spalla. Ma queste immagini non sembrano essergli appropriate, come se Lévi-Strauss volesse resistere ai richiami della notorietà. Nel 1970 il fotografo di Vogue Irving Penn lo fece posare. Lo fotografò mentre sembrava sprofondare in un cappotto, il capo quasi avvolto dai risvolti sollevati apposta, gli occhiali appoggiati sulla fronte, il lato sinistro del volto che sfuma nell’ombra. Penn fece un ritratto analogo a Picasso: vi si vede un occhio solo, che è staccato dal resto del volto e che fissa lo spettatore con uno sguardo penetrante. Se si confrontano i due ritratti, l’espressione di Lévi-Strauss risulta difficilmente leggibile. Neppure l’intimità artificiale creata dalla fotografia di autori celebri o l’occhio di un fotografo di talento quale Penn sono stati capaci di rivelare, al di qua dell’obiettivo, i suoi tratti più intimi. In parte Lévi-Strauss ha voluto cancellare quegli aspetti. Nel 1990 disse a Marc Augé: «Condivido l’approccio antibiografico fornito da Proust in Contre Sainte-Beuve. Ciò che importa è il lavoro, non l’autore al quale è capitato di scriverlo; direi piuttosto che il lavoro scrive se stesso attraverso


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l’autore. L’individuo non è altro che il mezzo di trasmissione e sopravvive nel lavoro solo come resto».4 Nel caso di Lévi-Strauss, però, questo resto è cospicuo. La sua prosa si rende subito riconoscibile e risulta impossibile da imitare; il suo approccio ai temi è così idiosincratico che per buona parte della sua carriera ha sfidato una critica sistematica. Sullo schermo Lévi-Strauss aveva delle maniere affabili e paterne. Comparve in programmi come Apostrophe, una trasmissione settimanale francese di cultura che andò in onda negli anni settanta e ottanta, nella quale spiegò dettagliatamente le sue teorie. Le sue apparizioni televisive erano fluide, talvolta monotone, in altri casi più vivaci, come quando estrasse una carta da briscola oppure quando concluse una vecchia storia con una battuta. Uno humour secco e un certo fascino francese brillavano tra le pazienti spiegazioni dei misteri dell’antropologia. Questa è l’immagine che si era sedimentata nella coscienza popolare in Francia: Lévi-Strauss come un prezioso tesoro nazionale, il padre (ora forse il nonno o perfino il bisnonno) dell’antropologia francese, un’icona di un’epoca in cui gli intellettuali francesi venivano celebrati all’estero. Se però riportiamo indietro le lancette dell’orologio, allora emerge un Lévi-Strauss differente. In un’intervista televisiva concessa a Pierre Dumayet per la trasmissione Lectures pour tous (Letture per tutti) nel 1959, vediamo un uomo assai più serio, si direbbe quasi un uomo d’affari.5 Abbigliato con un abito sobrio e un panciotto, ci mostra un altro risvolto quando risponde con una punta di arroganza a una domanda chiara e precisa di Dumayet sull’etnografia nel Nord America. I suoi tratti sono più marcati, meglio definiti, il suo modo di esprimersi scorrevole e privo di humour. Era un intellettuale al culmine della sua carriera, sul punto di entrare al Collège de France, un’istituzione elitaria che lo aveva respinto due volte nel corso del decennio precedente; un uomo che si era già «sbottonato»6 più volte per ribattere ai suoi critici con risposte al vetriolo. Se torniamo ancora più indietro, troviamo delle immagini fugaci di Lévi-Strauss sul campo. Le fotografie del Brasile mostrano un’espressione diversa, che sembra meno sicura di sé e meno ostile. Alle spalle si vede il fondale dell’arida savana brasiliana, mentre un giovane cosmopolita coperto di polvere e tormentato dalle pulci scruta nell’apparecchio fotografico. In Brasile Lévi-Strauss si comportava come un impacciato philosophe che restava immobile, in piedi, di fronte all’abituale nudità degli


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indios; era un francese che, imbarazzato, faceva il bagno in un fiume e si contendeva il sapone con delle sghignazzanti ragazze nambikwara; era un avventuriero che si preparava ad affrontare non tanto la mancanza di comfort fisico quanto quella del contesto culturale. Quando si guardano quelle immagini, egli sembra distaccato: uno spettatore, un osservatore, mai un partecipante in senso proprio. «I miei stati emotivi non erano per me così importanti» disse più tardi Lévi-Strauss a Didier Eribon, quando questi gli chiese se avesse conservato un diario personale dei suoi viaggi di studio.7 Taciturno e cortese, Lévi-Strauss poteva anche essere una persona distaccata: «freddo, innaturale, nello stile accademico francese», come annotò nel suo diario l’antropologo Alfred Métraux, suo amico di lunga data e collega, quando lo incontrò per la prima volta negli anni trenta.8 Si addolcì con l’età, ma non lo abbandonò mai la reputazione dovuta al tipico atteggiamento distaccato dei francesi. «A parte la sua famiglia e gli amici di scuola, c’erano delle persone che si rivolgevano a Lévi-Strauss con un familiare tu? Non credo proprio» notò Françoise Héritier, la quale gli succedette al Collège de France, dopo la morte.9 Incontrai Lévi-Strauss nel 2005, al Laboratoire d’anthropologie sociale, l’istituto di ricerca da lui fondato nel 1960 e situato nel v arrondissement di Parigi. Tutte le strade del v arrondissement riconducono a una cultura secolare: i nomi delle vie sono dedicati a Descartes, a Pascal, a Cuvier e a Buffon, vi si trovano quelle istituzioni d’élite che hanno visto sbocciare i più creativi ingegni francesi. Il liceo Henri-iv, l’École Normale Supérieure e il Collège de France, infatti, sono tutti incastonati nel Quartier latin. A est del quartiere si erge l’Institut du Monde Arabe, con i suoi mosaici metallici che si aprono e si chiudono per far filtrare la luce al suo interno. È stato il monumento simbolo dell’inclusione culturale nella Parigi degli anni ottanta, ora sembra una reliquia precocemente invecchiata, appartenente a un’altra epoca. Se si prosegue nel quartiere si trovano serre messicane, giardini d’inverno in stile Art Déco e uno zoo all’antica, i quali sono collocati nelle aiuole geometriche del Jardin des Plantes, risalente al xvii secolo. Lo studio di Lévi-Strauss si trovava in cima a una stretta scala a chiocciola. La scala conduceva a un soppalco che era stato ricavato in una sezione del tetto di un anfiteatro del xix secolo e quindi convertito a uso


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civile. Da un lato c’era una lastra di vetro attraverso la quale si vedevano dei lampadari in ferro, sospesi alla trave centrale; in basso ricercatori e bibliotecari erano al lavoro su tavoli coperti di macchie scure, mentre digitavano sui loro computer portatili oppure setacciavano schedari cartacei. Il muro in fondo era decorato con fiori stilizzati, curiosi blasoni e armature medievali di color borgogna, oro e marrone chiaro. Lo studio non conteneva alcunché di esotico – maschere, piume o simili – ma solamente libri e tesi di dottorato dalle rilegature allentate. Lévi-Strauss era la copia fedele di immagini che riportavano indietro di decenni, solo avvizzita e un po’ più fragile. Indossava una giacca in tweed che gli era diventata un po’ troppo larga e che gli cadeva mollemente dal corpo. Fu cortese e premuroso; solo al momento di afferrare dalla tasca interna della giacca il suo taccuino per estrarre la sua agenda, un tremore alla mano tradì la sua età veneranda. A più di novant’anni Lévi-Strauss era solito recarsi in studio ogni martedì e giovedì, anche se non scriveva più molto. La conversazione si concentrò sul Brasile e fu uno strano miscuglio di storie che avevo letto altrove, riprodotte fedelmente parola per parola. Era intrisa di un sentimento che non mi sarei aspettato: un nichilismo acido ma ironico. Iniziammo discutendo di Tristi Tropici, il diario dell’esperienza sul campo in Brasile che lo fece diventare famoso negli anni cinquanta. Resta il suo unico lavoro non accademico, scritto con uno stile letterario che è appena accennato nelle altre opere più formali. Gli chiesi per quale ragione avesse improvvisamente adottato quel genere di scrittura, per non impiegarlo mai più in seguito. «Avevo firmato un contratto per farlo e avevo bisogno di soldi», replicò franco ma sbrigativo (la risposta fu inusuale. Altrove aveva offerto delle spiegazioni lunghe e complesse alla stessa domanda, entrando nel dettaglio circa le motivazioni e le aspirazioni letterarie nutrite all’epoca). Parlammo delle popolazioni native del Brasile contemporaneo. «Quali sono le loro prospettive?» gli chiesi. «Alla mia età non si pensa più al futuro» disse senza battere ciglio. Però proseguì e disse che, nonostante l’aumento della popolazione, la divisione della terra e, in qualche caso, una più ampia autodeterminazione all’interno dello Stato brasiliano, i popoli nativi erano stati prima impoveriti culturalmente e poi schiacciati dall’espansione dell’Occidente. La reazione che Lévi-Strauss ebbe a proposito di Brasilia m’incuriosì. La capitale brasiliana, simbolo del modernismo, ancora non esisteva


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quando Lévi-Strauss era impegnato nel suo fieldwork. Negli anni ottanta una breve visita di Stato assieme al presidente Mitterrand fu l’occasione per recarvisi. Gli chiesi se la città era in sintonia con la sua sensibilità estetica, con il formalismo del suo approccio teorico, con i suoi interessi per le forme e le linee. «Non ci fu abbastanza tempo e la visita era stata rigidamente programmata» si lamentò «ma sarebbe un grande errore collegare il mio lavoro al modernismo.» Da quella volta non ho smesso di ripetermi la risposta, alla luce delle apparentemente molteplici connessioni tra il movimento modernista e lo strutturalismo di Lévi-Strauss. Sembrava che non volesse parlare delle sue teorie. Quando gli chiesi dell’eredità del suo lavoro, se ci fossero altre persone che avrebbero coltivato il suo pensiero, se credeva che le sue idee sarebbero sopravvissute, fu schietto in un modo disarmante: «Non lo so e non me ne importa». Mentre mi stavo preparando a congedarmi, il suo umore si rasserenò e lui parlò lungamente della mostra Brésil Indien (Brasile indio) al Grand Palais di Parigi, invitandomi ad andare a vederla per conto mio.10 La settimana seguente passeggiai in mezzo a uno splendido assortimento di copricapi piumati. C’erano piume di colore rosso elettrico e blu; teste di pesci, di uccelli e di giaguari lavorati in una maniera tale che sembravano di cartapesta, incastonati in cornici di vimini, e un’urna funeraria di porcellana alta quattro piedi trovata a Marajó, un’estesa isola alle foci del Rio delle Amazzoni. Le collezioni di Lévi-Strauss chiudevano la mostra. Nelle teche in vetro c’erano le piume da naso dei nambikwara, le urne con i decori geometrici dei caduveo e gli ornamenti rituali dei bororo, di cui avevo letto in Tristi Tropici. Delle foto in bianco e nero realizzate splendidamente, scattate con la Leica di Lévi-Strauss, erano allineate nella stanza. I brevi filmati che aveva fatto sul campo erano proiettati sui muri. Muta, sovraesposta, un po’ tremolante e inframmezzata da titoli in portoghese, la pellicola era una via di mezzo tra i primi documentari e i filmini di famiglia. In una sequenza indimenticabile, un’anziana caduveo abbigliata con un lacero abito a fiori disegnava motivi geometrici sulla sua faccia, quei disegni che affascinarono Lévi-Strauss durante tutte le sue ricerche. A malapena si poteva collegare la figura del giovane barbuto proiettata sul muro con l’uomo che avevo da poco incontrato. L’abisso scavato dal tempo sembrava incolmabile e il cumulo di lavori che LéviStrauss aveva prodotto in tutti quegli anni non faceva altro che accentuare


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il senso di distanza. Quelle immagini spettrali parevano legate a un’altra vita, vissuta in un’epoca totalmente diversa. Il secondo incontro avvenne a casa sua, nel xvi arrondissement. Trovai Lévi-Strauss molto più rilassato. Nel frattempo ci eravamo scritti con regolarità. Durante l’incontro rispose volentieri alle domande sulle sue esperienze in Brasile. Viveva in un ampio appartamento altoborghese, confortevole e di grande buon gusto. I muri erano decorati con un mix eclettico di belle arti e manufatti indigeni: una scodella di legno proveniente dalla Columbia Britannica, un antico tappeto, un romantico ritratto di una ragazza incastonato in una cornice ornata in oro. Parlammo nel suo studio. La stanza pareva un bozzolo, aveva un robusto parquet a pavimento e una porta a prova di rumore. Un pesante scrittoio con gambe spesse, sapientemente intarsiate, era appoggiato a un sofà modulare di colore nero. Prese il mio cappotto e lo appese all’ingresso con lentezza, a causa dell’età veneranda. Parlò liberamente dell’intera sua vita. Di tanto in tanto interrompeva il discorso per riprendere fiato. Gli chiesi delle sue esperienze in Brasile, del suo viaggio con cui fuggì dalla Francia occupata dai nazisti e dei suoi anni di apprendistato da emigrato ebreo nella New York degli anni quaranta, dove si confuse tra gli artisti surrealisti in esilio, come André Breton e Max Ernst. Spostai l’argomento sul suo ritorno alla vita accademica a Parigi e sullo stallo che essa conobbe negli anni cinquanta, quando fu tentato di abbandonare completamente l’antropologia per dedicarsi al giornalismo. All’inizio fu loquace, ma quando cominciammo ad affrontare certi problemi teorici e a parlare della nascita dello strutturalismo, iniziò a stancarsi e le sue risposte si fecero sempre più brevi. Concludemmo con un argomento d’attualità: la polemica riguardante l’apertura del Musée du quai Branly, il grandioso progetto voluto da Jacques Chirac. L’edificio, situato di fronte al vecchio Musée de l’Homme, è coperto di vegetazione. È stato paragonato ora a un ventre gigantesco, ora a una nave su trampoli. Il progetto contrappose i puristi dell’etnografia e i curatori professionali di mostre, l’aria viziata dell’accademia e l’estetica con il gusto del teatrale. Quando si cominciò a parlare del museo, al Musée de l’Homme scoppiò una rivolta. Pare che i curatori fossero disposti a occultare gli oggetti di valore nei salotti di casa loro piuttosto che cederli ai laureati in belle arti incaricati di sistemarli nelle teche di quai Branly.


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La collezione di Lévi-Strauss, collocata nella penombra catacombale delle viscere del museo, presenta alcuni manufatti brasiliani. Al piano terra del museo si trova l’Auditorium Lévi-Strauss. A mio parere, mettendo in mostra i manufatti delle altre culture, il museo ne avrebbe offerto un’immagine esotica. Dopo che gli presentai la mia critica, si animò nuovamente. «L’antropologia è una scienza etnocentrica per eccellenza» rispose in modo elusivo. «Se il museo di quai Branly espone degli oggetti decontestualizzati, che dobbiamo dire del Louvre e dell’intera arte religiosa?» «Allora ci si può avvicinare all’arte indigena anche solo da un punto di vista puramente estetico?» «Se vuole» mi rispose. Poiché sembrava stanco a causa della discussione, interrompemmo l’intervista. Gli scattai due foto nelle quali mi fissava a vuoto dietro le lenti degli occhiali. Le foto erano tali e quali a decine e decine di altre fatte di recente. Trovai Lévi-Strauss aperto, perfino desideroso di aiutarmi a ricostruire i particolari e a raccontare per l’ennesima volta le storie del suo passato. Ancora si poteva riconoscere un personaggio dai tratti ben definiti, la facciata studiata mostrava alcune crepe e pure una specie di vuoto, di solitudine. Lo charme dell’uomo vecchio stile si sposava con una reticenza connaturata. Alla fine si tolse completamente la maschera. Quando però gli rivolsi delle domande più personali e in una lettera gli chiesi del suo secondo matrimonio, della malattia e della morte di suo padre, chiuse la porta gentilmente ma con fermezza. Lévi-Strauss veniva da un’epoca in cui le università coltivavano élite ristrette e le branche delle discipline umanistiche non erano ancora totalmente professionalizzate. L’antropologia era agli inizi, il lavoro sul campo era la riserva di caccia di un numero esiguo di accademici che lavoravano ai confini degli imperi europei ancora esistenti. Il mondo fisico era stato mappato, ma sotto il profilo delle culture regioni intere erano ancora ignote. Gli etnografi esploravano il mondo non per andare alla ricerca di sorgenti sconosciute, di guadi o di burroni, ma di cosmologie, di riti e di arte. Esploravano i limiti dell’esperienza umana, documentando le ricche alternative che emergevano dalle ombre del pregiudizio che aveva caratterizzato il xix secolo. Come autodidatta Lévi-Strauss si immerse quasi sempre da solo nei classici, tanto quelli americani quanto quelli francesi: Edward Tyler, Robert


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Lowie, James Frazer, Marcel Granet, Marcel Mauss. È stato uno dei pochi antropologi francesi della sua generazione a non assistere ai famosi seminari che Mauss dedicava alla ricerca sul campo. Organizzò, invece, delle spedizioni etnografiche per conto suo e scelse deliberatamente delle regioni il più possibile remote. La sua importante tesi, pubblicata successivamente nel 1949 con il titolo Le strutture elementari della parentela (Les structures élémentaires de la parenté), fu scritta nella Public Library di New York durante l’esilio dovuto all’occupazione nazista, e non fu supervisionata da nessun professore (una volta rientrato a Parigi dovette andare a caccia di un supervisore ex post, per poterla discutere). Inizialmente gli fu impedito di entrare nell’élite del Collège de France e trascorse una buona parte degli anni cinquanta a interrogarsi sul suo futuro di antropologo. Il risultato furono delle idee autenticamente innovative, che non avevano bisogno di rifarsi a un pensiero condiviso da un ambiente critico e formalista. Ispirandosi al surrealismo, alla linguistica, all’estetica e alla musica, Lévi-Strauss ha tracciato un nuovo cammino nelle discipline umanistiche. Nel suo percorso di ricerca ha fornito nuove interpretazioni iconoclaste della parentela, del pensiero religioso indigeno e del mito. È stato antropologo nel più ampio senso della parola, capace di spostarsi dai dettagli dell’etnografia agli universali della cultura, dalle tribù isolate alle leggi del pensiero. La sua opera ha avuto inizio da analisi etnografiche altamente specializzate ed è finita con una meditazione sulla nascita del romanzo, sull’evoluzione della musica occidentale e sull’inarrestabile declino delle arti visive. All’epoca del suo esilio newyorkese Lévi-Strauss incontrò il linguista russo Roman Jakobson, dal quale apprese una delle innovazioni più importanti del pensiero del xx secolo, cioè lo spostamento dal significato alla forma, dall’Io al sistema. La sua razionalità filosofica, il suo compito di «comprendere l’essere in rapporto a lui stesso e non in rapporto a me» (de comprendre l’être par rapport à lui-même et non point par rapport à moi),11 con cui definiva il progetto dello strutturalismo, annunciò una tardiva svolta d’avanguardia nelle scienze sociali. Fu grazie a Jakobson che Lévi-Strauss scoprì le idee del linguista svizzero Ferdinand de Saussure e iniziò ad applicarle alle sue ricerche. Pertanto il linguaggio diventò la metafora per l’analisi della cultura. Seguendo Saussure, si iniziò


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a vedere la cultura come un sistema di elementi contrastanti, come lo sono i fonemi nella lingua. Lévi-Strauss, inoltre, anticipò la rivoluzione cognitiva nelle scienze sociali, insistendo sul fatto che l’organizzazione di una cultura si radica, in definitiva, in processi mentali. Il suo sogno fu di far convergere campi del sapere da lungo tempo separati: le scienze sociali e le scienze esatte, la cultura e la natura. Opponendosi alle tendenze filosofiche dominanti, cercò di studiare il pensiero piuttosto che l’individuo, il ragionamento astratto e non l’esperienza soggettiva. Fu una rottura radicale in un’atmosfera culturale allora dominata da filosofie del soggetto quali l’esistenzialismo e la fenomenologia. Lévi-Strauss è il solo antropologo ad aver conseguito una fama mondiale (può venire in mente Margaret Mead ma, a differenza di LéviStrauss, la sua popolarità si limitò solo a un pubblico angloamericano). Dalla metà degli anni sessanta divenne una presenza fissa sulla stampa francese e concesse interviste a testate come Le Monde, Le Figaro, Le Nouvel Observateur e L’Express. Al di fuori della Francia, l’edizione americana di Vogue lanciò un servizio fotografico di Henri Cartier-Bresson a lui dedicato. Apparve alla televisione statunitense e fu intervistato da Playboy. Servizi nei quali venivano descritte le sue analisi strutturali sui processi del «pensiero selvaggio» furono pubblicati sulle pagine del New York Times, del Washington Post, di Newsweek e del Time e presentati come una rivoluzione nelle scienze sociali: una fase copernicana in cui la cultura umanistica veniva finalmente riportata al metodo scientifico. In Gran Bretagna fu intervistato dalla Bbc, apparve regolarmente sulle pagine del Times Literary Supplement e fu spesso citato anche dalla stampa popolare. La notizia della sua morte, nel novembre del 2009, apparve sulle prime pagine di tutto il mondo. Per quanto la celebrità ottenuta grazie ai media sia spesso immeritata, nel caso di Lévi-Strauss era fondata su risultati scientifici concreti. Freud scosse la psichiatria, disciplina all’epoca moribonda, con la rivoluzione psicanalitica. Due generazioni dopo, Lévi-Strauss avrebbe avuto lo stesso effetto dirompente sull’antropologia. Come Freud, la sua influenza si fece sentire sulle discipline affini e divenne il punto di riferimento per un nuovo stile di pensiero. Fu grazie alla sua influenza che il mondo di Albert Camus, di Jean-Paul Sartre e di Simone de Beauvoir cedette il


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campo, durante gli anni sessanta, a personalità quali Michel Foucault, Roland Barthes e Jacques Lacan. L’attacco tagliente di Lévi-Strauss a Sartre nell’ultimo capitolo del Pensiero selvaggio rese il processo ancora più rapido. Anche se la generazione successiva rifiutò lo stile di Lévi-Strauss e le sue grandi teorizzazioni, essa fu ancora alle prese con le problematiche filosofiche da lui avviate. I maggiori teorici contemporanei, come Slavoj Žižek, Alain Badiou e Giorgio Agamben, possono essere compresi solo attraverso la lente del decisivo riorientamento effettuato da Lévi-Strauss a metà del xx secolo. Figura cardine del pensiero del Novecento, Lévi-Strauss si rivolse tanto al passato quanto al futuro. Cavalcò le nuove tendenze con una precoce passione per le avanguardie. Si lasciò sedurre dalle promesse della tecnica dopo la Seconda guerra mondiale e dalle possibilità che essa avrebbe offerto alla futura ricerca antropologica. Gli inizi dell’informatica, la cibernetica, la fisica atomica e la matematica sembravano aprire nuove strade nel mondo delle popolazioni indigene, caratterizzato da un basso tasso tecnico ma da un’estrema complessità sociale e culturale. Nonostante si sforzasse di negarlo, le tecniche delle avanguardie – la narrazione sincopata, la giustapposizione, il collage – appartenevano al suo mondo. Però, analogamente, lo affascinavano le immagini del passato: il labirinto degli specchi, il caleidoscopio, i giochi di carte, i geroglifici, gli orologi e le macchine a vapore che sbucano continuamente nel suo lavoro sotto forma di metafore. In età adulta, il xix secolo esercitò su di lui un forte fascino grazie alla musica di Wagner, alle romantiche immagini di porti dipinte da Joseph Vernet, ai romanzi di Balzac e di Dickens. LéviStrauss ripudiò l’arte non figurativa e riformulò il suo precedente interesse verso il movimento surrealista: ad attrarlo del surrealismo non erano gli strani paesaggi onirici d’amore e di morte capaci di rompere i tabù dell’epoca, ma lo stile più discreto e snob che risaliva ai simbolisti. Quando andò in pensione disse che aveva in buona misura perso interesse per la musica del xx secolo, che non andava mai al cinema e che gli unici romanzi che leggeva avevano almeno cinquant’anni.12 Questa biografia intellettuale è un lavoro con cui si cerca di offrire una valutazione della lunga vita intellettuale di Lévi-Strauss. Lo segue da Parigi a San Paolo e nell’interno del Brasile. Ricostruisce i turbolenti anni di


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guerra – il suo volo dalla Francia di Vichy a New York e il suo successivo ritorno a Parigi – alla ricerca di quel «resto» che rese il suo pensiero così accattivante e riconoscibile. Non è una cronaca dettagliata e sequenziale della sua carriera che, nel dopoguerra, non fu tanto di più che una serie di lezioni, di pubblicazioni di libri, di conferenze e di riconoscimenti. Non cerca neppure di portare alla luce la sua vita privata. Da tipico francese, Lévi-Strauss ha tenuto il riserbo sui suoi tre matrimoni – due relativamente brevi (con Dina Dreyfus e con Rose-Marie Ullmo) e il terzo duraturo (con Monique Roman) – dai quali ebbe due figli: Laurent dal matrimonio con la Ullmo e Matthieu da quello con la Roman. L’aspetto interessante di Lévi-Strauss non è rappresentato dai dettagli della sua vita, ma dal modo in cui questa figura ascetica, all’opposto dell’intellettuale carismatico incarnato da Sartre, cercò di raggiungere l’acme della teoria e della concettualizzazione in una particolare fase del xx secolo. Qualcuno ritenne che il suo lavoro fosse spesso tecnico e impegnativo. Per costoro Lévi-Strauss ha fatto risuonare un accordo potente, la cui eco si è fatta udire tanto dentro quanto fuori dall’accademia. Nella prima metà del libro ho gettato uno sguardo su alcuni dettagli risalenti al periodo di formazione di Lévi-Strauss, che è quello più ricco di eventi, e ho rintracciato la nascita del suo pensiero dai giorni del lavoro sul campo in Brasile al periodo dell’esilio americano, fino alla pubblicazione di Tristi Tropici. A partire dalla metà degli anni sessanta la sua vita divenne un po’ più tranquilla, si ritirò così nel suo mondo di miti, di maschere e di arte primitiva. «Non ho vita sociale. Non ho amici. Passo il mio tempo nel laboratorio e quel che resta nel mio studio» riuscì a dire a un giornalista di Le Monde agli inizi degli anni settanta. L’affermazione era esagerata e voleva colpire il lettore, ma rende bene l’idea della progressiva solitudine che in seguito segnò la sua vita.13 La seconda metà del libro si lascia alle spalle gli aspetti biografici per discutere le idee. Riconsiderando i libri e i saggi fondamentali, ho cercato di individuare un percorso tra alcuni dei suoi lavori critici meno importanti e la venerazione che ancora lo circonda in Francia oltre che, curiosamente, in Brasile. Una cosa è meravigliarsi dei risultati conseguiti da un’intelligenza eccezionale, un’altra abbastanza diversa consiste nell’assumere del tutto quello che al tempo stesso potrebbe essere un progetto donchisciottesco, da lui coltivato con un senso tanto più idiosincratico


Introduzione  23

quanto più l’età avanzava. Il suo successo negli anni sessanta racconta di un’epoca più libera, forse più creativa, un periodo in cui grandi idee e grandi sperimentazioni potevano spiccare il volo, quando i pensieri di un uomo d’intelletto erano in grado di lasciare una traccia duratura sulla cultura. La sua lunga vita si è spenta dopo aver tracciato un solco decisivo sull’intero xx secolo. L’analisi strutturalistica avrebbe potuto diventare qualsiasi cosa. In ogni caso il pensiero di Lévi-Strauss svetta sul panorama intellettuale del nostro tempo.



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Il «ritorno al primitivo» fu il ritorno alla comunità, ma anche il ritorno al sacro, e perfino, forse, il ritorno agli dèi. Marcel Fournier, Marcel Mauss, 2006

La Senna disegna un’ansa quando piega verso sud, poco prima di incurvarsi attorno al Bois de Boulogne. In quel punto due padiglioni in pietra incorniciano una terrazza, anch’essa in pietra, dove nel 1940 Adolf Hitler e Albert Speer posarono per farsi scattare delle foto. Li si vede sorridere di fronte al Palais de Chaillot, sullo sfondo la Tour Eiffel si erge dalla riva sinistra della Senna. Un anno prima dell’invasione, Lévi-Strauss, giovane antropologo fresco di ricerca sul campo in Brasile, aveva lavorato presso il Musée de l’Homme, da poco istituito nel Palais. Il suo compito era di catalogare le penne da naso, i recipienti e le frecce che aveva barattato con perline di vetro nelle regioni interne del Mato Grosso. La mostra prevista, però, non fu mai inaugurata. Il luogo è noto non solo per la storia dell’antropologia in Francia, ma pure per lo sviluppo delle avanguardie artistiche d’inizio xx secolo. Fondato nel 1938, il Musée de l’Homme segnò l’avvio di uno stile espositivo moderno e professionale nell’etnografia. Se si guarda, però, indietro e lo si considera com’era in precedenza, nella forma del Musée de l’Ethnographie, che era situato nel Palais du Trocadéro, è come fare un salto in un’altra epoca della museologia scientifica. Stravaganza bizantina in stile moresco, collocato dallo stesso lato del Musée de l’Homme, il Musée de l’Ethnographie ospitava principalmente manufatti di epoca precolombiana, ma con il passare del tempo vi trovarono posto i bottini provenienti da un Impero francese che si stava espandendo in Africa: lance, tamburi e maschere vendute da com-


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mercianti nei porti situati lungo l’intera costa dell’Africa occidentale. Gli oggetti furono classificati per tema più che per regione o per tribù. I curatori raggrupparono gli strumenti musicali in un angolo e i tessuti in un altro; corridoi stipati di statuette scolpite nel legno, stanze laterali colme di simboli della fertilità, il tutto esposto con pochissime indicazioni, quando ce n’erano. «Quando ci andai per la prima volta, su esortazione di Derain, l’odore di umidità e di marcio mi serrò la gola» ricordò un giovane Pablo Picasso nel 1907, parlando di una visita al museo, il cui labirinto era composto da corridoi ammuffiti immersi nella semioscurità. «Mi depresse a tal punto che desiderai solo uscire in fretta. Invece, mi fermai a studiare.» Picasso era stato condotto dal suo fiuto estetico verso i mucchi di manufatti lì depositati. Pochi anni prima aveva acquistato una maschera proveniente dall’Africa occidentale, che aveva studiato non come se fosse un feticcio arcaico o un reperto di un lontano passato, ma come un’espressione artistica nel vero e proprio senso del termine. Fu però nei meandri del Palais du Trocadéro che fece la sua scommessa. Non erano solo le forme plastiche, le distorsioni e la libertà poetica a colpire Picasso, ma il fatto di rendersi conto che l’arte non è un esercizio di rispecchiamento della realtà. In termini etnografici, essa potrebbe avere una funzione «magica» nel catturare e tenere sotto controllo timori e paure, fissandoli sulla tela con colori e forme. «Il giorno in cui lo capii» disse in seguito Picasso «avevo trovato la mia strada.»1 Un famoso fotografo lo incontrò un anno dopo questa esperienza rivelatrice, lo stesso in cui nacque Lévi-Strauss. Picasso aveva ventisette anni ed era seduto nel suo studio di Bateau-Lavoir a Montmartre. Da un lato c’erano un paio di statuette africane in legno e quella che sembrava una testa di maiale, dall’altro lato una libreria piena zeppa di figurine precolombiane. Non c’era più nessuna traccia dell’antichità classica, di icone cristiane e rinascimentali. Una nuova generazione di artisti stava guardando al di là del proprio contesto culturale immediato per cercare ispirazione. Più o meno nello stesso periodo dell’epifania di Picasso, artisti come André Derain, Maurice de Vlaminck e Juan Gris stavano studiando l’arte tribale del Dahomey e della Costa d’Avorio. Il collezionista Paul Guillaume acquistava sculture africane. Nel periodo in cui furono esposte le misteriose sculture di Brancuşi, a forma di totem, intitolate Co-


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lonna infinita (1918), le opere delle moderne tendenze artistiche divennero in effetti indistinguibili dai manufatti indigeni. In un qualche punto collocato tra gli sgangherati corridoi del Musée de l’Ethnographie e le gallerie organizzate professionalmente del Musée de l’Homme nacque l’antropologia francese. Negli anni dell’infanzia di LéviStrauss le ricerche sociologiche sui riti e le religioni diedero i loro frutti grazie a una nuova forma, particolarmente raffinata, di indagine antropologica. I ricercatori universitari che si erano raggruppati attorno a L’année sociologique – l’autorevole rivista di Émile Durkheim, fondata alla fine del xix secolo, nella quale veniva promosso l’approccio sociologico – specializzavano le loro ricerche nei campi del totemismo, del sacrificio e del pensiero religioso «primitivo». La nuova disciplina prosperava grazie al gusto per l’esotico che al contempo la nutriva. Sfiorò le avanguardie – in particolare l’emergente movimento surrealista, che si interessò a sua volta all’idea di cultura primitiva – nonostante avesse imboccato una direzione più accademica. Marcel Mauss, il nipote di Durkheim, fu una delle prime figure chiave di questo orientamento. Al volgere del xx secolo, aveva ottenuto una cattedra in Histoire des religions des peuples non civilisés (Storia delle religioni dei popoli non civilizzati), nella quinta sezione dell’École Pratique des Hautes Études, quella che Lévi-Strauss avrebbe diretto per più di mezzo secolo. In quel periodo Mauss era impegnato in una profonda riflessione sull’origine della religione moderna. Aveva accumulato una conoscenza enciclopedica su tutto ciò che all’epoca risultava noto delle società tribali, sia grazie alle relazioni stese dagli amministratori coloniali, dai missionari e dagli esploratori, sia ai primi studi scientifici di etnografia che erano apparsi da poco in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Durante la sua carriera approfondì lo studio di questi materiali, producendo una serie di saggi curiosi, eppure brillanti e sintetici: sulla personalità, sulla preghiera, sui gesti e sulla credenze legate alla morte. Scrisse un breve saggio diventato un classico, l’Essai sur le don (Saggio sul dono),2 che LéviStrauss sottopose poi a un’aspra critica, e lasciò in eredità pure una gran quantità di lavori incompiuti. Mauss era perfettamente cosciente del fatto che, mentre L’Année sociologique progrediva sul terreno dell’antropologia, le istituzioni universitarie francesi segnavano il passo rispetto a quelle inglesi e americane.


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Sognò di creare un «ufficio, un istituto, un Dipartimento di etnologia, non importa in che modo lo si voglia chiamare» per riorganizzare un campo allora diviso tra diverse istituzioni: l’École coloniale, il Muséum National d’Histoire Naturelle e la sua stessa università, la quinta sezione dell’École Pratique des Hautes Études. Solo diverso tempo dopo la morte dello zio, avvenuta assieme a quella di molti membri di talento dell’Année sociologique, che perirono durante il primo conflitto mondiale, Mauss riuscì alla fine a far vedere la luce all’Institut d’Ethnologie, che fu aperto in rue Saint-Jacques nel 1926.3 Mauss era di corporatura atletica, aveva occhi penetranti, una folta barba e una «voce cavernosa». All’istituto teneva splendide conferenze improvvisate, impartite non solo a studenti di antropologia, ma a missionari e ad amministratori delle colonie. Insaporiva le conferenze con dettagli raccolti un po’ ovunque, muovendosi dal sensazionalismo antropologico – cannibalismo, sacerdotesse prostitute e curiose forme di circoncisione – alla celebrazione del prosaico: «Una scatola di latta può caratterizzare le nostre società molto meglio di uno splendido gioiello o di un rarissimo francobollo».4 Contemporaneamente forniva ai suoi studenti delle nozioni specialistiche di lavoro sul campo: come sviluppare rapidamente le pellicole, come stilare un inventario degli oggetti su schede indicizzate, come tenere un diario di campo: «non credete a tutto, non sorprendetevi di tutto, non perdetevi mai d’animo» raccomandava. Analogamente, suggeriva delle possibili aree di ricerca: i tipi di armi, i metodi nella preparazione dei cibi (crudo, affumicato, seccato, bollito, arrostito, fritto), le differenze dei tessuti. L’ironia fu che Mauss odiava viaggiare, perfino in Europa, e, fatta eccezione per un breve periodo in Marocco, non svolse mai alcun significativo lavoro sul campo. Le idee di Mauss trovarono un’eco non solo presso coloro che volevano studiare la cultura indigena, ma anche presso semplici appassionati, filosofi e artisti. Gli intellettuali alla ricerca di nuove idee, come lo scrittore Georges Bataille, si rivolsero alle vene, numerose e ricche, che nutrivano la documentazione etnografica. Ciò che prima era stato confinato nella ricerca antiquaria, ora era considerato la quintessenza della modernità. Cominciarono gli scambi in ambedue le direzioni. Fuori dalle ore di lezione, Mauss e i suoi studenti si ritrovavano a parlare fino a notte fonda alla terrazza del Café de Flore, uno dei ritrovi favoriti dagli artisti e dai


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poeti d’avanguardia; al sabato si recavano agli spettacoli della danzatrice afroamericana Josephine Baker al Bal Nègre di rue Bonnet. Nella Parigi degli anni venti l’Africa – o una qualche sua versione francese metropolitana – diventò per la cultura una pietra di paragone. I music hall della Parigi della Belle Époque, come le Folies Bergères, il Casino de Paris e il Théâtre des Champs-Élysées, un tempo avevano ospitato un miscuglio di burlesque, numeri con animali, danza e teatro. Negli anni trenta le jazz band composte da soldati afroamericani fermatisi in Francia dopo la fine della Prima guerra mondiale, facevano il tutto esaurito. Lo scrittore surrealista ed etnografo Michel Leiris, di sette anni più anziano di Lévi-Strauss, ricordò di essere stato coinvolto in quell’esperienza: «il jazz era una chiamata a raccolta, una bandiera orgiastica nei colori del momento» disse. «Fu la prima manifestazione dei nègres, il mito dell’Eden nero che mi doveva condurre lontano, in Africa e, oltre l’Africa, all’etnografia.»5 Benché l’antropologia francese fosse ancora solo una suggestiva congerie di idee e tendenze, il rinnovato interesse per le culture native ispirò una riconsiderazione delle polverose collezioni del Palais du Trocadéro. Nel 1928 il sociologo Paul Rivet ebbe l’incarico del museo. Lo assisteva Georges-Henri Rivière, che ne era il curatore, oltre che musicista jazz a tempo perso. Assieme iniziarono il lavoro. Ripulirono gli spazi espositivi, rovistarono in mezzo a mucchi di manufatti, sistemandoli in teche di metallo collocate in una galleria semicircolare al primo piano. Aiutati da volontari dell’alta società – gentildonne dai tacchi alti e con molto tempo libero – ampliarono e modernizzarono la biblioteca, etichettarono i reperti da esibire. Rivet vi sistemò la collezione che aveva portato dal Messico, e tentò di dare una qualche coerenza al gran cumulo di oggetti esotici del xix secolo. Rivet e Rivière erano pieni di risorse, con un certo fiuto per la pubblicità e per le occasioni nelle quali avrebbero potuto trovare finanziamenti. Fecero da intermediari negli accordi con il Governatorato generale di Algeria e gli ufficiali coloniali del Nord Africa per organizzare l’Exposition du Sahara, che ebbe un largo successo e nella quale furono mostrati manufatti etnici provenienti dalla regione sahariana. All’inaugurazione del padiglione dell’Oceania invitarono le migliori modelle di Parigi per


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una sfilata tra le gallerie. Per raccogliere dei finanziamenti organizzarono perfino un evento in cui il peso piuma «africano» Al Brown (che in realtà era di Panama) fu sfidato da Marcel Mauss in persona.6 Lévi-Strauss sarebbe diventato una delle figure di maggiore spicco nate da questo terreno fertile per l’arte e le idee, tipico della tradizione francese, nel quale l’oggetto estetico e il manufatto africano sono messi in tensione; caratteristica, questa, che è recentemente riemersa nei dibattiti suscitati dall’apertura del Musée du quai Branly.7 Lévi-Strauss fu uno dei pochi antropologi francesi della prima generazione a non essere stato presente alle conferenze di Mauss. Tuttavia la sua formazione fu intrisa di passione per l’arte. In gioventù conobbe molti protagonisti del movimento surrealista, compreso André Breton. Anche se un po’ alla volta LéviStrauss sconfessò le sue radici avanguardistiche, in tutta la sua opera è riconoscibile un intreccio che è frutto di tali influenze precoci. Il suo percorso nell’antropologia sarebbe risultato perciò zigzagante. Come molti che scelsero quel campo, Lévi-Strauss intraprese un cammino fino a quel momento inesplorato, che lo avrebbe condotto lontano dalle strade battute dalla filosofia, senza dubbio la disciplina più importante nel sistema universitario francese. Da allora non smise più di procedere. Lévi-Strauss proveniva da una famiglia ebrea secolarizzata. Entrambi i rami familiari erano originari dell’Alsazia. Crebbe in un appartamento in rue Poussin, sito al confine del xvi arrondissement. La zona, delimitata dal Bois de Boulogne e dalla Senna, era semiurbanizzata. Alla fine della via c’erano alcune cascine, alcune brocantes affittate a poco prezzo e degli atelier d’artisti: allora era un angolo di Parigi relativamente povero. Lo stesso edificio in cui si trovava l’appartamento era stato costruito solo pochi anni prima. Gli unici particolari che ora lo distinguono dalle lunghe file di palazzi parigini della metà del xix secolo sono due dettagli neogotici: due viticci in ferro battuto nero, che si arrampicano sui battenti in ferro e vetro del portone d’ingresso, e le foglie ornamentali, in cemento, che sostengono i balconi semicircolari del palazzo. La famiglia non possedeva grandi mezzi. Lévi-Strauss crebbe ascoltando storie nostalgiche di un Ottocento perduto, di un mondo aristocratico fatto di orchestre e belle arti. Isaac Strauss, suo bisnonno, si era trasferito a Parigi da Strasburgo nel 1826, quando aveva vent’anni, e stu-


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diò violino al conservatorio della città. Iniziò la sua carriera di violinista al Théâtre-Italien, poi si fece un nome come direttore d’orchestra e compositore. Diresse l’orchestra delle terme di Vichy sotto Napoleone iii e i complessi per i balli imperiali alle Tuileries e all’Opéra di Parigi. Lavorò con Offenbach e il suo nome compare di sfuggita perfino nelle memorie di Berlioz. Durante i suoi viaggi in Europa acquistò mobilio e oggetti d’arte, per poi specializzarsi nei manufatti per il rito ebraico – le lampade del Sabbath, le scatole per le spezie e gli schermi di Esther – con cui arredò «Villa Strauss» a Vichy. Ciò che resta della collezione è ora visibile a Parigi nella Sala Strauss del Museo di Cluny. Con la generazione seguente e i rovesci economici degli anni ottanta del xix secolo, il patrimonio familiare si volatilizzò. Raymond, il padre di Lévi-Strauss, fu costretto a intraprendere un cammino più prosaico: studiò all’École des Hautes Études Commerciales e ottenne infine un impiego non qualificato alla Borsa di Parigi. Sposò la seconda cugina Emma Lévy (sembra che la grafia del cognome fu cambiata in Lévi in quell’occasione), che era figlia di un rabbino ed era stata mandata a Parigi per studiare dattilografia e stenografia. Uomo sensibile e appassionato d’arte, Raymond non riuscì a adeguarsi alla vita del piccolo funzionario. Frustrato a causa del suo lavoro alla Borsa, prese una decisione netta: si iscrisse all’École des Beaux-Arts e iniziò a dipingere ritratti per guadagnarsi da vivere. «Il suo mito era Maurice Quentin de la Tour» ricordò in seguito Lévi-Strauss, facendo riferimento al ritrattista rococò del xviii secolo. «Eseguì molte tele a pastello e ovviamente non fu al passo coi tempi.»8 Mentre Raymond svolgeva un lavoro su commissione a Bruxelles, il 28 novembre 1908 Emma diede alla luce il suo unico figlio, Gustave Claude Lévi-Strauss. Fino al giorno della sua morte Lévi-Strauss conservò come objet mémoire una delle opere di suo padre, nella quale è rappresentata la vista dalla finestra della camera dove nacque. Raymond non avrebbe smesso di dipingere tele in cui era ritratto il figlio. Tra queste ve n’è una in cui è raffigurato da bambino, in un grembiule a strisce su un cavallo a dondolo, e un’altra, a pastello, in cui è dipinto da giovane. Gli anni dell’infanzia non possono essere descritti come anni di stenti, però la scelta della carriera artistica da parte di suo padre significò che la famiglia avrebbe continuato a far parte di una piccola borghesia rampante e non di un solido ceto medio. Raymond ed Emma crebbero loro


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figlio in un classico stile di vita borghese, con tanto di vacanze sulle spiagge della Normandia e della Bretagna durante i mesi estivi. Negli anni venti acquistarono perfino una proprietà in rovina nel sud della Francia, nelle Cévennes, dove si recavano per trascorrere l’estate. Tuttavia periodiche turbolenze finanziarie si susseguirono nei mesi difficili trascorsi senza che alcun lavoro fosse commissionato. La famiglia numerosa, con la quale avevano mantenuto solide relazioni, li aiutò a superare le crisi. I genitori di Lévi-Strauss erano secondi cugini e le famiglie avevano dei legami molti stretti, fino al punto che «sarebbe stato più preciso parlare di una sola famiglia invece che di due»� ricordò poi Lévi-Strauss. Ogni settimana si ritrovavano presso la casa di Léa Strauss, la nonna paterna. Una volta all’anno toglieva i panni che proteggevano il mobilio della sala da pranzo e la famiglia al completo mangiava riunita. Finito il pasto, facevano il giro dei cimiteri per visitare le tombe degli avi. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, il padre di Lévi-Strauss fu richiamato in servizio. Dato che era cagionevole di salute, fu impiegato come conducente d’ambulanza, un compito relativamente poco pericoloso. Emma, temendo che Parigi venisse occupata, partì con il figlio, che allora aveva cinque anni. Se ne andò prima in Normandia e quindi in Bretagna, dove si ricongiunse con le sorelle e i nipoti. Una volta scongiurato il pericolo, l’intero clan familiare fece ritorno a Versailles, per andare ad alloggiare nell’ampia casa del rabbino Lévy, non lontano da dove il padre di Lévi-Strauss stava prestando servizio. A Versailles Lévi-Strauss fece la sua prima, contraddittoria, esperienza legata alle sue radici ebraiche. Suo nonno, il rabbino, era un uomo timido ma di profonde convinzioni religiose. La sua casa, dalla pianta irregolare, era tanto un focolare domestico quanto un luogo di culto. In Tristi Tropici Lévi-Strauss rammenta la sensazione d’angoscia provata da bambino mentre percorreva un corridoio interno che conduceva alla sinagoga, passando dal calore di un ambiente profano alla freddezza del luogo sacro. Ricorda la sensazione di morte trasmessagli da quella stanza, ravvivata solo di tanto in tanto dai servizi del rabbino, e i pochi enigmatici riferimenti alla religione che segnarono il suo soggiorno: suo nonno mentre prega in silenzio prima di ogni pasto, sua nonna che digiuna durante lo Yom Kippur, un cartello religioso appeso al muro della sala da pranzo che recita: Masticate bene il vostro cibo, ne dipende la digestione.10


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Altri ricordi riguardano la madre. Nonostante fosse la figlia di un rabbino, aveva frequentato con le sorelle una scuola confessionale cattolica. Di tanto in tanto andava al parco, a mangiare di nascosto un sandwich al prosciutto, evitando così che il nonno si irritasse, mentre Lévi-Strauss e i cugini la osservavano di nascosto, dietro alcune statue. Dal lato paterno l’eredità ebraica fu meno marcata: uno zio, appassionato di esegesi biblica, si suicidò quando Lévi-Strauss aveva tre anni; un altro, con un atto di ribellione, si fece ordinare sacerdote, ma finì per ottenere un lavoro subordinato presso l’azienda del gas. Per i genitori di Lévi-Strauss, la religione non era che un rumore di fondo per una famiglia altrimenti secolarizzata. Non santificavano le feste, «ma ne parlavano».11 Nel periodo in cui furono a Versailles fecero dare a Lévi-Strauss il Bar Mitzvah, più che altro per compiacere il nonno. Intimamente erano dei francesi animati da spirito patriottico. A Versailles, incoraggiato dai genitori, il giovane Lévi-Strauss donò i suoi spiccioli per la causa bellica. Nel periodo dell’armistizio, Lévi-Strauss ricorda che suo padre lo portava a vedere le parate della vittoria da un edificio vicino all’Opéra, che era un punto d’osservazione favorevole. Comunque sia, l’identità ebraica, per quanto vagamente assunta, ebbe un ruolo decisivo per il resto delle loro vite. Lévi-Strauss imparò presto che cosa significava portare un nome ebreo in una cultura profondamente antisemita. A scuola fu aggredito dagli altri bambini che lo chiamavano «sporco ebreo». «Come reagì?» gli chiesero in un’intervista per Le Magazine Littéraire, negli anni ottanta: «con un pugno» (le coup de poing), replicò. L’aggressione diventò persecuzione durante la Seconda guerra mondiale, durante la quale la sua famiglia perse tutto e lui fu costretto a fuggire per salvarsi la vita. Lévi-Strauss era un bambino dalla viva immaginazione, che esprimeva nel gioco, nella confusione dell’appartamento-atélier di rue Poussin. L’appartamento era un magazzino che conteneva materiali grezzi, intellettuali e artistici: cavalletti, tele, tubetti di colore, una camera oscura in cui suo padre sviluppava le foto delle sue modelle, antichità e scaffali di libri. «Mio padre e due miei zii erano pittori» (compreso Henry Caro-Delvaille, pittore di successo della Belle Époque). «Mia madre e due sue sorelle sposarono dei pittori, io sono nato e cresciuto negli atélier d’artista […] per


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nulla in un ambiente accademico […] avevo matite e pennelli tra le mani quando imparai a leggere e scrivere» ricordò in seguito.12 Nel bel mezzo del bric-à-brac culturale del padre, il ragazzino rimuginò le sue fantasie eclettiche. Ascoltò dischi di spiritual americani sul grammofono di famiglia e spese le sue paghette per acquistare, in una bottega in rue des Petits-Champs, delle miniature di mobilio giapponese. Collocando degli oggetti delicati in una scatola ricoperta di tessuto giapponese donatagli dal padre, realizzò una versione in scala ridotta di una stanza orientale. Si appassionò a una versione abbreviata del Don Chisciotte di Cervantes che aveva una copertina venata di rosa: afferma di averla letta e memorizzata a soli dieci anni. I genitori, per divertire gli ospiti, gli facevano aprire il libro e leggere una pagina a caso, poi LéviStrauss continuava senza esitazioni.13 Durante i pranzi dal nonno, sedeva in un angolo a ridersela sotto i baffi, leggendo i drammi vaudeville ottocenteschi di Eugène Labiche.14 Raymond Lévi-Strauss diede al figlio un’invidiabile cultura di base, nonostante gli scarsi mezzi. Prenotava a teatro i posti più a buon mercato e con la visuale peggiore, pur di avviare il figlio al repertorio di Wagner fin dalla più tenera età. Ogni settimana si recavano ai concerti classici di Colonne e Pasdeloup al Théâtre du Châtelet, passavano lunghi pomeriggi al Louvre. Durante l’adolescenza Claude seguì delle lezioni di violino all’Opéra. Gli amici di suo padre – un vivace gruppo di critici, di scrittori e di artisti – affollavano l’appartamento durante le sere e i weekend. Molti si affezionarono al ragazzino, stimolarono la sua curiosità, gli consigliarono dei libri, la musica e la pittura. Spinto dal padre, il giovane Lévi-Strauss si cimentò in tutte le arti. «Con i pezzetti di pastelli che trovavo qua e là nello studio di mio padre, mi misi a fare quello che immaginavo essere cubismo […]. Ricordo ancora le mie composizioni ingenue: tutto era piatto, a due dimensioni, senza alcuna ricerca di volume.»15 Durante l’adolescenza scattò e sviluppò delle fotografie, ideò sceneggiature per film, dipinse set per il teatro e iniziò perfino a lavorare a un libretto d’opera, che però abbandonò dopo aver scritto il preludio. Dopo la Prima guerra mondiale, Lévi-Strauss fu iscritto al liceo Janson de Sailly, a pochi chilometri da casa sua. Vi studiò fino al conseguimento del baccalaureato. A differenza dell’ambiente bohémien di rue Poussin,


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l’educazione al Janson fu rigida, l’atmosfera in classe era intrisa del formalismo tipico della vecchia società. L’inizio e la fine delle lezioni erano annunciati da un colpo di tamburo; i temi erano scritti «con angoscia», e i risultati, letti solennemente davanti alla classe dal direttore, accompagnato dal vice, «provocavano l’abbattimento o la gioia». La mancanza di disciplina era severamente punita.16 Il pomeriggio Lévi-Strauss passeggiava per Parigi, andando in esplorazione dei quartieri periferici, «come Jallez e Jerphanion nei romanzi di Jules Romains».17 Saltava sui bus e si sistemava sui predellini scoperti in fondo alle vetture, facendosi portare di qua e di là per la città. Diventato un po’ più grande, organizzava spedizioni con gli amici, per andare alla scoperta dei sobborghi più lontani: raggiunse così le cave di gesso di Cormeilles-en-Parisis, che distavano all’incirca sedici chilometri dal xvi arrondissement. Quando Lévi-Strauss raggiunse la maturità, l’avanguardia era fiorita. A una delle prime rappresentazioni delle Nozze di Stravinskij, al teatro dello Châtelet, ascoltò le semplici astrazioni, le mutevoli variazioni del coro, le percussioni e il piano che scandalizzarono il pubblico parigino, il giorno del debutto, nel 1923. Lévi-Strauss aveva quattordici anni e rimase sbalordito. La rappresentazione gli fece una tale impressione che tornò ad ascoltarla anche la sera seguente. Anni dopo scrisse nelle sue memorie che l’esperienza fece «crollare il mio precedente universo musicale».18 Arrivato alla mezz’età, quando scrisse Il crudo e il cotto, ancora sentiva l’impatto sconvolgente dell’ascolto delle Nozze e dell’opera simbolista di Claude Debussy Pélleas et Mélisande.19 Incominciò a fare pellegrinaggi fino alla galleria Rosenberg, in rue de La Boétie, nel xviii arrondissement, dove era esposto in vetrina l’ultimo Picasso. Descrisse poi la vista delle nature morte di Picasso, quelle della metà degli anni venti, come «l’equivalente di rivelazioni metafisiche».20 L’autorevole critico d’arte Louis Vauxcelles era un amico di famiglia. Quando suggerì a Lévi-Strauss di scrivere un articolo per la rivista di recensioni che cercava di lanciare, Claude gli propose «l’influenza del cubismo sulla vita quotidiana».21 Mentre stava facendo ricerche per il pezzo, Lévi-Strauss intervistò l’artista Fernand Léger. «Mi accolse con estrema gentilezza» ricordò. «L’articolo uscì? L’ho scordato.»22 Ciò che era fresco, irriverente e intellettualmente stimolante per il giovane Lévi-Strauss significava la rovina per suo padre. Raymond Lévi-


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Strauss era rimasto scioccato da ciò che aveva visto nelle esposizioni d’arte dopo il suo ritorno da Versailles, alla fine della guerra. Nel frattempo l’arte moderna si era spostata dalle frange avanguardiste alle più rinomate gallerie di tendenza in città. Incomprensibili tele fatte di forme scomposte e di colori smaglianti venivano acquistate da collezionisti come Daniel-Henry Kahnweiler, che il padre di Lévi-Strauss aveva incontrato negli anni in cui lavorò in Borsa. Il mutamento del gusto degli anni venti, unito allo sviluppo della fotografia di massa, significò che la richiesta di ritratti realisti sarebbe rapidamente crollata e che i proventi già incerti di Raymond Strauss si sarebbero presto ridotti. Non gli rimase che improvvisare, spesso con l’aiuto del figlio. Si dedicò così a un certo numero di commesse più o meno eterogenee, come Lévi-Strauss ricordò anni dopo: Per un certo periodo, in casa, ci siamo dedicati alla stampa dei tessuti. Si incidevano delle tavolette di linoleum, se ne spalmavano con colla le parti in rilievo e venivano pressate sulle stoffe affinché fossero pronte per farvi aderire delle polverine metalliche di vario colore che vi si spargevano sopra. […] C’è stato un altro periodo in cui mio padre fabbricava dei tavolini di finta lacca, in stile cinese. Ha anche fatto alcune lampade con delle stampe giapponesi di poco prezzo incollate su vetro. Tutto andava bene per arrivare alla fine del mese.23

Intellettualmente precoce, Lévi-Strauss iniziò a leggere presto i grandi maestri. Ancora quando frequentava il liceo Janson, scoprì il pensiero di Freud grazie a Marcel Nathan, un pioniere nella psicoanalisi freudiana in Francia e padre di Jacques, uno dei suoi compagni di scuola. Fu grazie ai suoi consigli che Lévi-Strauss lesse le traduzioni in francese dell’Introduzione alla psicoanalisi e dell’Interpretazione dei sogni. L’influenza di Freud si sarebbe rivelata lunga e durevole. Nella prima metà della sua carriera, Lévi-Strauss esplorò molti campi che per Freud ebbero un interesse teorico: il tabù dell’incesto, il mito di Edipo e il totemismo. Uno degli ultimi libri, La vasaia gelosa (La Potière jalouse) è un ampio dialogo con Freud, ammirato e criticato al tempo stesso. Nell’estate del 1925, Lévi-Strauss aveva sedici anni e un altro elemento si aggiunse alla sua formazione: la politica. Tramite amici di famiglia conobbe Arthur Wauters, un militante del Partito laburista belga. Quando


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Lévi-Strauss gli chiese di spiegargli le sue idee, Wauters, come se fosse un fratello più grande, lo prese sotto la sua ala e lo iniziò ai classici del pensiero socialista, da Karl Marx e Friedrich Engels, da Jean Jaurès a Pierre-Joseph Proudhon.24 Fece in modo che Lévi-Strauss trascorresse due settimane a Bruxelles, ospite del Partito laburista belga. Là apprese in che modo funzionavano le istituzioni del partito e vide come furono realizzate le idee socialiste, per mezzo delle affiliazioni dei sindacati dei lavoratori al partito. In seguito descrisse questa esperienza come una «rivelazione totale», «un nuovo mondo che mi si stava svelando, sotto il profilo intellettuale e sociale».25 Ritornato a Parigi lesse Das Kapital, durante lo studio della filosofia al liceo. «Naturalmente non lo capivo tutto. In realtà, in Marx io scoprivo anche delle altre forme di pensiero nuove per me: Kant, Hegel…».26 Dalla teoria politica all’avanguardia, le sue letture si arricchirono, unendo i classici francesi, come Rousseau e Chateaubriand, a Dickens, Dostoevskij e Conrad. Opere letterarie anche corpose non lo intimidivano, tant’è che a un certo punto si appassionò alla Comédie humaine di Balzac: diciassette volumi di storie intrecciate che forniscono un ritratto grosso modo etnografico della Francia tra la Rivoluzione e il regno di Luigi Filippo. Lo lesse dall’inizio alla fine dieci volte. Grande influenza ebbe anche Paludes di Gide, una satira letteraria del movimento simbolista da cui anche Lévi-Strauss fu attratto. Lévi-Strauss dava prova di essere una persona capace di comprendere con naturalezza qualsiasi cultura: era un ruminante inarrestabile che spaziava nei campi del sapere, dalla letteratura francese alla filosofia, alle avanguardie artistiche. Era notevolmente dotato ed era in grado di assimilare teorie, nuove idee e cultura, in un periodo che per Parigi era di grande cambiamento e creatività. Tuttavia, con l’avvicinarsi della fine della scuola, quell’intelligenza indagatrice non sapeva ancora dove si sarebbe orientata e di cosa sarebbe andata in cerca. «Ero troppo disorganizzato» confessò poi. Nell’autunno del 1925, dopo aver conseguito il baccalaureato, LéviStrauss prese la strada che in Francia conduce rapidamente verso l’élite intellettuale. Dal liceo Janson entrò al liceo Condorcet, iscrivendosi in «hypokhâgne», la classe di preparazione per l’esame d’ingresso alla prestigiosa École Normale Supérieure. Fondata dopo la Rivoluzione francese,


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l’École Normale Supérieure si trova in rue d’Ulm, nel v arrondissement di Parigi: era la Grande École per gli studi umanistici. I laureati – noti con il nome di normaliens – occupavano le posizioni di vertice nell’élite culturale francese. Gli accademici di alto profilo, i responsabili delle case editrici, i direttori dei musei e i dirigenti governativi ai gradini più alti del sistema educativo erano per la maggior parte membri dell’esclusivo club dell’École Normale Supérieure. Lévi-Strauss doveva trascorrere due anni al Condorcet a studiare un’ampia gamma di discipline per poter superare degli esami che erano tra i più difficili del sistema educativo francese. Ma dopo il primo anno ebbe delle battute a vuoto. Descrisse in seguito l’esperienza di non riuscire a tenere il passo dei suoi compagni di classe. La sensazione di essere circondato da futuri normaliens lo intimidiva. «Avevo la sensazione che non avrei fatto parte del loro rango» ricordò.27 In termini più pratici, non era capace di competere sul piano dello studio. Si scontrò con la matematica e andò male in greco, due materie necessarie per gli esami d’ammissione. Léon Caher, il suo professore di storia e di geografia, prese degli appunti sui suoi progressi, così come sulle sue lacune. In un affascinante colpo d’occhio, ci presenta così lo spirito di un Lévi-Strauss ancora diciottenne: Ha delle qualità, maturerà. Conosce molte cose. Intelligenza acuta, penetrante. Ma queste qualità vengono spesso compromesse da un rigore che è, di regola, quasi settario, affermazioni assolutistiche, tesi o bianche o nere, e talvolta il pensiero è espresso in uno stile quasi banale, privo di precisione e di sfumature.28

Nella primavera del 1926 su suggerimento di André Cresson, il docente di filosofia, Lévi-Strauss abbandonò l’idea di entrare all’École Normale Supérieure. Si iscrisse invece alla facoltà di giurisprudenza, i cui edifici con le colonne in stile neoclassico circondano il Panthéon.29 Contemporaneamente si iscrisse alla Sorbona, per ottenere una laurea in filosofia. Fu là che conobbe Dina Dreyfus, sua futura moglie, un’ebrea francese di origine russa, che in precedenza aveva trascorso degli anni in Italia. Donna dallo spirito forte e dalle capacità introspettive, anch’ella era, come LéviStrauss, convinta socialista e studentessa di filosofia.


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