Il taccuino di Héctor Belascoaran

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Paco Ignacio Taibo II

Il taccuino di Héctor Belascoarán Traduzione di Roberta Bovaia


www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Fantasmi d’amore, © Paco Ignacio Taibo II, 1990 Prima edizione Marco Tropea Editore, Milano 2004 Titolo originale: Amorosos fantasmas Traduzione di Roberta Bovaia Sogni di frontiera, © Paco Ignacio Taibo II, 1990 Prima edizione Marco Tropea Editore, Milano 2004 Titolo originale: Sueños de frontera Traduzione di Roberta Bovaia Svaniti nel nulla, © Paco Ignacio Taibo II, 1991 Prima edizione Marco Tropea Editore, Milano 2007 Titolo originale: Desvanecidos difuntos Traduzione di Roberta Bovaia Per questa edizione: © il Saggiatore S.p.A., Milano 2012


Il taccuino di Héctor Belascoarán



Fantasmi d’amore



La città è il D.F., benché i personaggi siano di ordinaria invenzione. E il romanzo è dedicato a Miguel Bonasso, Ciro Gómez Leiva e Juan Hernández Luna, per motivi diversi, ma per indiscutibile amicizia.


Ma chi è il figlio di puttana che ha detto che Chopin è kitsch? Guillermo Cuevas


Capitolo 1

C’è chi dice che mi fermo al lato brutto della vita. Dio me ne scampi! Raymond Chandler

Héctor osservò il volto mascherato di un lottatore su cui scorreva una lacrima. Si stupì. Primo, i lottatori non piangono, è un assioma indiscutibile; secondo, c’era un problema tecnico: la maschera avrebbe dovuto ostacolare il naturale fluire delle lacrime. Eppure, malgrado le due obiezioni, quel tizio senza dubbio stava piangendo. Héctor si avvicinò rimangiandosi la precedente decisione di seguire il tutto da lontano. Al centro della strada, un gruppo di lottatori mascherati, con mantelli e costumi dai colori vivaci (arancione, giallo canarino, nero con inserti argentati) portava sulle spalle un grosso feretro grigio metallico. Dietro di loro, i mariachi attaccarono con il Son de la negra; a breve distanza i parenti normalmente e legittimamente in lacrime; una famiglia numerosa di origini popolari vestita a lutto, con amici, vicini, curiosi. Héctor si accese una sigaretta. Pioveva. Il corteo, riorganizzatosi all’ingresso del cimitero, intraprese la lenta marcia verso l’ultima dimora dell’Angelo. I mariachi terminarono il loro primo giro del Son de la negra e ricominciarono daccapo. Héctor si ricordò che una volta, quando lui era più giovane e la città era diversa, qualcuno gli aveva detto che non 11


ci si sceglie il posto in cui si nasce, e men che meno quello in cui si muore. Questa città in particolare non ti lasciava scegliere niente, né il posto né il modo; potevi solo condividerne la sorte. Non serviva dire questo sì e questo no. Tutto o niente. Prendere o lasciare. O te la tieni o ti infili sotto il letto perché non ti morda. E nel frattempo, non potevi evitare di sentirti continuamente spiazzato, perché anche conoscendo ogni angolo, ogni vicolo, ogni follia che la città potesse concepire, sarebbe sempre capitato qualche nuovo fatto macabro. La morte dell’Angelo non gli piaceva. I presenti accendevano ceri davanti ai ritratti del defunto lottatore e li appoggiavano accanto al feretro, mentre la terra si apriva per accoglierlo. I mariachi insistevano. Che l’Angelo avesse chiesto il Son de la negra come colonna sonora del suo addio terreno? Di sicuro il funerale avrebbe fatto impallidire d’invidia persino Jorge Negrete, ma l’Angelo non si meritava un’uscita di scena del genere. Quelli che gli erano sopravvissuti gli dovevano come minimo, secondo l’unilateralissima opinione di Héctor, la testa del suo assassino impacchettata nel cellofan e con un enorme fiocco rosa. La pioggia cominciò a inzuppargli l’impermeabile e sentì freddo. Carlos Vargas, suo compagno d’ufficio, lavorava a uno dei suoi mobili sventrati davanti alla scrivania del detective. Héctor lo guardava all’opera. Il tappezziere si era messo le cuffiette di un walkman e ballava al misterioso ritmo di una musica che Héctor non poteva sentire. Il detective passò gradualmente dalla curiosità allo stupore. Carlos si muoveva davanti al mobile squartato, con l’imbottitura sintetica che 12


straripava dalle ferite, inventando passi di danza, seguendo quel ritmo misterioso mentre inchiodava borchie nella parte superiore della tela, che piano piano aderiva alla struttura di legno come una nuova pelle. Il detective si era tolto le scarpe e, con i piedi sulla scrivania, beveva una bibita sfogliando una rivista sulla lotta in cui si rendeva l’ultimo omaggio all’Angelo. «Tu sei lì che fai una morsa» disse Héctor all’improvviso «qualcosa di semplice, per esempio, una doppia chiave Nelson, delle volgari forbici, senza l’intenzione di ferire nessuno, solo per allenarti... no?» Carlos Vargas annuì appena si rese conto, dall’atteggiamento del suo compare, che il detective gli aveva fatto una domanda; anche se era ovvio che non gliene poteva fregare di meno e che l’unica cosa che gli interessava era la sua musica. «Ed ecco che arriva un tizio qualunque e ti saluta, ti abbraccia calorosamente, come un vecchio amico, e ti punta una .38 special alla nuca...» Carlos cominciò proprio in quell’istante a eseguire i complicati passi di un danzón mentre continuava a prendere a martellate il mobile. «Mi sta ascoltando, signor dottore in tappezzeria Vargas?» chiese il detective scocciato. Vedendo l’espressione di Belascoaràn, il coinquilino e amico capì l’antifona e si tolse una delle cuffiette. «No, anche a me sembra una bastardata che abbiano aumentato il prezzo delle bibite» affermò Carlos Vargas serissimo. Héctor si arrese; con un gesto liquidò la questione e proseguì con il suo monologo. «Insomma, stai abbracciando un amico ed ecco che parte 13


il proiettile della .38 e ti fa saltare le cervella... Non vale. Un bacio di Giuda, non ti pare?» Héctor si alzò in piedi. Il tappezziere non era l’unico a saper scivolare nell’autismo, anche lui poteva diventare un attore del teatro espressionista. Abbracciò una persona inesistente, estrasse il revolver, fece il gesto di portarlo alla tempia dell’uomo che abbracciava e simulò lo sparo. «Un bacio di Giuda...» insistette Belascoaràn mettendosi a sedere. Carlos, senza dargli troppa retta, si mise a canticchiare: «Negra, negra consentida...». «Così sì che c’è gusto a fare due chiacchiere, quel che si dice una conversazione, altro che palle» concluse il detective parlando da solo. Squillò il telefono, facendo saltare Héctor sulla sedia. In fin dei conti non era poi così tranquillo come diceva di essere. Si allungò per rispondere. «No, adesso è occupato» guardò Carlos Vargas, sempre impegnato nel suo danzón da tappezziere, «gli lascio un appunto... Un divanetto a due posti in chiffon rosa... che doveva essere pronto mercoledì scorso...» Prese nota su un pezzo di giornale che trovò sul tavolo. Le lettere gli vennero tutte storte perché per scrivere doveva contorcersi. «Certo, signora...» Riagganciando, osservò il compagno d’ufficio e sorrise. «Dunque, tornando alla storia... Tu sei un lottatore e sei solo soletto sul ring, le luci accese solo per te; ti alleni fuori orario perché i muscoli non sono più quelli di una volta e ormai stai invecchiando, e a quel punto arriva un figlio di puttana, ti abbraccia...»

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Un lottatore con la maschera bianca (era una maschera famosa, l’Angelo tornava dalla tomba dimagrito dopo una lunga permanenza in purgatorio) si allenava in solitaria nell’immensità del ring, nell’enorme spazio vuoto dell’arena, che sembrava ancora più vuoto perché era stato concepito per riempirsi di facce ululanti. I riflettori cadevano sulla sua figura che danzava il balletto della lotta solitaria, i colpi sul tappeto a scandire il ritmo. L’illuminazione contribuiva a dare all’ambiente un tocco d’irrealtà. Héctor lo osservò. All’improvviso, qualcosa nell’aria gli fece girare la testa. Una presenza nuova in quella notte irreale. Accanto a lui un uomo delle pulizie si era fermato immobile con il mocho in mano, osservando a sua volta il lottatore. «Chi è?» chiese il detective. «Il figlio dell’Angelo, l’Angelo II ha due palle così, il ragazzo, a venire qui dopo quello che hanno fatto al suo vecchio la settimana scorsa...» «Forse è venuto proprio per questo, per ciò che hanno fatto al suo vecchio la settimana scorsa.» Il lottatore saltò nell’aria sferrando un calcio volante a un immaginario nemico. Si alzò. La faccia sudava sotto la maschera, gli occhi vitrei sembravano aver perso la capacità di mettere a fuoco. Héctor si avvicinò al ring. Il lottatore lo guardò, ma continuò l’esercizio di assestare calci volanti a un nemico inesistente, che si nascondeva in qualche punto remoto dei suoi pensieri. Héctor salì da uno degli angoli e si dondolò sulle corde. «Lei è l’amico di mio padre? Il detective?» chiese il lottatore ansimando. Héctor confermò accendendosi una sigaretta. «Si sa qualcosa di nuovo?» «Niente. Dicono che sia stata una rapina, o qualcuno 15


dell’ambiente, della lotta, che l’odiava; oppure una storia di donne... Stronzate belle e buone. Soldi addosso non ne aveva; se stava sul ring, dove poteva metterli, nei pantaloncini? E le donne? Il mio vecchio era divorziato, usciva con chi voleva; mia madre sono anni che se n’è andata da Città del Messico, con un gachupin, nel Sonora, di noi non gliene frega più niente, non scrive da anni. La lotta, poi, non può proprio essere: qui siamo tutti amici, e quelli che proprio amici non sono, sono comunque più o meno brava gente, un po’ coglioni, forse, ma mai stronzi. Qui non c’è mai stato un morto o un ferito, solo messinscena, show, calci assolutamente affettuosi. Se qualcuno si fa male è solo perché è un idiota, perché è venuto ubriaco, non si è scaldato per bene, non è stato attento...» Il figlio dell’Angelo si batté il palmo della mano con il pugno. Sentì che il colpo era stato leggerissimo, che non era servito a niente, che il dolore non gli arrivava alla testa. Lo fece di nuovo. Era inutile. Héctor tornò alla carica. Aveva una certa esperienza dei momenti in cui il dolore non serviva a cancellare il dolore. Era una vecchia storia. «Vedevi spesso tuo padre?» «Tutti i giorni. Ci allenavamo insieme. A volte combattevamo in coppia, andavamo sempre in giro noi due, cucinavamo persino insieme. Mi ha cresciuto lui, amico. Io ho preso tutto da lui. Mi ha insegnato a cadere e mi ha costretto a studiare chimica, ma ha anche lasciato che praticassi la lotta durante gli anni dell’università. Lei l’ha conosciuto, è vero che era così?, mi dica se non ho ragione.» «Era un tipo in gamba, ma allora chi è stato a ucciderlo?» L’Angelo II non aveva risposta e reagì nel solo modo che il corpo gli suggeriva, riprese il riscaldamento. Héctor insistette. 16


«Perché ieri non sei venuto ad allenarti con lui?» «Non mi ha detto che sarebbe venuto, ha detto che doveva vedere un vecchio amico, di prima che io nascessi; un vecchio amico che gli doveva dei soldi. Mi è sembrata una scusa, ho pensato che stesse uscendo con una tipa e per non dirmi niente...» Héctor fumò, cercando di guardare altrove mentre il ragazzo cominciava a piangere. Aveva altre domande, ma ovviamente l’Angelo non sapeva dargli le risposte. «Chi poteva volerlo morto? Chi aveva qualcosa contro di lui? Si era ficcato in qualche pasticcio? Chi erano i suoi amici qui, nel mondo della lotta?» «Non lo so. Per quanto ci pensi, non lo so. Non lo so proprio.» Stava piovendo ma Héctor aveva caldo. L’afa saliva fino alla finestra in nuvolette di vapore dall’asfalto che si bagnava dopo essersi surriscaldato per tutto il giorno. Héctor indossava solo i pantaloni del pigiama. Stava fumando la terza di quella che, immaginava, sarebbe stata una lunga sfilza di sigarette. Una notte insonne davanti alla finestra. Ogni tanto le luci delle automobili in corsa modificavano il paesaggio, mutandone l’illuminazione. Il vento cambiò direzione e la pioggia cominciò a picchiettare contro i vetri. Héctor andò nell’altra stanza per chiudere le finestre, stavolta con la sana intenzione di non far bagnare i libri. Attraversò il corridoio cercando di non fare caso all’arredamento: decine di foto della ragazza con la coda di cavallo inchiodate con puntine da disegno. Erano tante; davvero tante. A volte a Héctor sembravano troppe. In questo modo un’assenza si trasformava in una presenza, ma il costo era alto. Quando passò accanto al telefono, appoggiato sulle opere scelte di Steinbeck in due volumi, e quindi in equilibrio 17


precario, quello cominciò a squillare, come se avesse previsto i movimenti del detective. «Per favore, Héctor, accendi la radio!» disse Laura nell’apparecchio. Héctor appoggiò la cornetta e andò verso lo stereo. Immaginò Laura: cuffie alle orecchie, la destra appena sollevata per poter parlare al telefono, seduta davanti al microfono. Sembrava il ritratto di una di quelle intellettuali che il cinema di Hollywood dei primi anni sessanta tratteggiava così bene e allo stesso tempo così male, quelle laureate in filosofia che quando si scioglievano lo chignon in cui si erano raccolte i capelli si trasformavano in vampire sfrenate dalle labbra carnose. Chi di loro due era più vecchio? Laura, due giorni più di Héctor. La cosa lo rasserenò. La voce sorse dal fruscio di fondo, ma non era la solita voce sensuale di Laura. Guardò l’apparecchio con sospetto. «... E quando mi sono affacciata dalla finestra del cortile, ho visto solo i corpi, lunghi distesi laggiù. A lui usciva il sangue dalla tempia, signorina, ecco perché le ho mandato la cassetta che...» Laura interruppe la donna: «Grazie, signora Amalia. Qui, in diretta, Laura Ramos, in L’ora dei solitari, trasmessa dagli studi di avenida Revolución della xeka. Per chi si sia appena messo all’ascolto, ecco un riepilogo dei fatti». Héctor ringraziò Laura per il messaggio personale e cominciò a cercare le sigarette. Dove cazzo le aveva lasciate? Immaginò Laura che parlava al microfono come se fosse innamorata di lui, accarezzandolo. Forse per questo la sua voce era così sensuale, così maledettamente arrapante. La voce di una donna innamorata al microfono poteva fare miracoli. Le sigarette riapparvero sotto una vecchia copia della rivista Encuentro. 18


«Verso le nove di sera è arrivata nei nostri studi una cassetta che conteneva una dichiarazione d’amore; la cassetta era accompagnata da un biglietto della signora Amalia González, che spiegava di averla trovata sulle scale accanto all’appartamento numero 3 di calle Rébsamen numero 121, nella colonia Del Valle, dove era appena accaduto un fatto terribile. Contattando la polizia del D.F.1 ci siamo informati che proprio nell’appartamento 3 aveva appena avuto luogo quello che sembrava un duplice suicidio: si erano uccisi due giovani amanti...» Certe parole risultavano francamente fastidiose a Héctor che stava cercando di ricostruire la scena, immaginare con precisione la strada, l’appartamento 3, il numero sulla porta. Gli dava fastidio l’aggettivo «terribile». Cosa voleva dire? «Ci siamo informati.» Ma chi informava chi? Dalla radio la voce di Laura continuava a dipanare la storia: «... dopo aver stretto un patto d’amore, la cui prova pubblica era questo nastro... Con il terribile documento nelle nostre mani, abbiamo chiamato la signora Amalia González che ci ha confermato di aver trovato la cassetta in una busta indirizzata a questo programma, accanto alla porta dell’appartamento in cui si è verificato il fatto, e di essere stata lei a mandarcela. Se ci avete seguito fin dall’inizio della trasmissione, avrete sentito la signora Amalia raccontare come intorno alle nove di sera abbia sentito gli spari, poi abbia visto dalla finestra del cortile i cadaveri dei due adolescenti uniti nel patto mortale, e infine si sia accorta della cassetta, per terra sul pianerottolo, che ci ha fatto recapitare da un tassista amico suo». 1

D.F.: Distrito Federal, come solitamente gli abitanti chiamano Città del Messico. Il D.F. costituisce uno stato a sé della Confederazione messicana. [N.d.T.] 19


Héctor ricapitolò: una vicina impicciona, una cassetta in una busta gettata sul pianerottolo, due spari, cadaveri intravisti dalla finestra, un amico tassista. «Tra qualche istante, dopo una breve pausa pubblicitaria» proseguì Laura «vi faremo riascoltare questo strano documento. Abbiamo identificato la voce femminile come appartenente a Virginia Vali, che già in altre occasioni aveva mandato cassette a questo programma, e che è morta oggi intorno alle nove di sera insieme a Manuel J. Márquez... Fra poco vi parleremo di questi due giovani...» Quando cominciarono a passare gli spot Héctor tornò al telefono. «Héctor, hai sentito?» «Sì, tutto; cosa sta succedendo?» «Te lo dirò poi, hai segnato l’indirizzo?... È molto strano. Ascolta bene cosa dicono nel nastro e poi fa’ un giro da quelle parti, la radio mi autorizza a pagarti per lavorare per noi.» Héctor, che aveva il sospetto che cose del genere non succedessero nella realtà e si sentiva costretto a distinguere nettamente tra la realtà-realtà e la realtà di bugie in cui a volte si trasformava la sua vita, cercò di frenare Laura. «Ehi, aspetta...» Ma si ritrovò con il telefono che dava occupato tra le mani. Riagganciò. Dalla radio giunse la voce che da quel momento e per un bel pezzo avrebbe conosciuto come la voce di Virginia. «Mi chiamo Virginia, ho diciassette anni e non voglio morire...» Héctor accese il registratore. Un addio andava risentito parecchie volte perché diventasse reale. Senza rendersene conto stava cancellando l’ultimo live di Bob Dylan.

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Capitolo 2

Sto seduto sul bordo della strada, l’autista cambia la ruota. Non mi piace da dove vengo. Non mi piace dove sto andando. Perché guardo il cambio della ruota con impazienza? Bertolt Brecht

«Mi chiamo Virginia, ho diciassette anni, e non voglio morire... Ridicolo, vero? Suona come un messaggio degli alcolisti anonimi... Ma è vero che non voglio morire, neanche per idea, quando si hanno diciassette anni tutte le cose sono ancora da fare, persino quelle già fatte. Non so perché, ma credo che gli addii debbano essere pubblici, perciò registro questa cassetta che ti farò recapitare alla trasmissione in radio...» Héctor si fece largo tra poliziotti e barellieri, medici legali e giornalisti, vicini curiosi e ficcanaso; nessuno sembrava accorgersi di lui. C’era un casino incredibile nell’appartamento di calle Rébsamen. Sembrava che un branco di avvoltoi fosse calato sui resti di una festa. Héctor girò per le stanze: nella camera da letto lavoravano alcuni medici dal camice non troppo pulito. Sul letto giaceva una ragazza, distesa, coperta da un lenzuolo che lasciava liberi solo la testa e il collo; all’altezza del cuore una macchia di sangue. Il lenzuolo sembrava essere stato posato dopo la morte sul corpo nudo. Era un viso bellissimo da cui l’assenza di vita, il pallore, non avevano cancellato la serenità. Un misto tra la ragazza che non siamo mai riusciti a conquistare alle superiori e la figlia del vicino, che se 21


ci fossimo sposati in tempo adesso potrebbe essere figlia nostra e noi potremmo guardarla dormire augurandole tutto il meglio per il suo futuro, per i suoi amori, per le sue battaglie. Sempre più spesso veniva assalito da riflessioni paternalistiche; presto avrebbe cominciato a pensare alle donne con la mentalità del nonnino. Nell’altro angolo della stanza si indovinava un altro corpo nudo, quello del ragazzo, di cui si vedevano solo le braccia fuori dal lenzuolo. Héctor si accese una sigaretta. Stava fumando troppo, ma chi cazzo se ne fregava. La voce di Virginia gli fluttuava nella testa: «... gli addii debbano essere pubblici, perciò registro questa cassetta che ti farò recapitare alla trasmissione in radio... Sarà l’ultima che mando, per questo ti dico addio. Non me la sento più di parlare d’amore, perché a quanto pare per il momento non potrò conoscerlo. Dicono che oggi non ci si ama più come una volta, che i nostri amori sono sciocchi, sono banali, sono gli amori di una generazione triste, senza passioni. Non è vero. Se mai arriverai ad ascoltare questa cassetta significherà che tutto ciò è falso. Grazie dei momenti che ti ho rubato, Laura, e grazie anche a tutti gli ascoltatori del programma». Una mano coprì con il lenzuolo il viso della ragazza morta, facendola svanire come per un gioco di prestigio. Héctor gettò la sigaretta per terra e si mise a camminare avanti e indietro per la casa. * A volte sembra che un uomo sia assorto nei suoi pensieri anche se non è vero. Il vuoto è una cosa facile da simulare, anche senza volere. Gli idioti, i poeti laureati, i ministri praticano questa attività costantemente. Héctor aveva tutta l’aria di uno che sta pensando e invece era rimasto come intrappolato in 22


una piega del tempo, una pausa quasi interminabile da cui lo poteva distogliere solo il suono del campanello. Quando si produsse, il detective reagì lentamente. Realizzò: era solo, era giorno. Guardò dalla finestra: giù in basso un gruppo di strilloni giocava a calcio. Aprì la finestra. Salivano i rumori della strada, musica tropicale dai negozi di dischi. Sulla porta un giovane in giacca e cravatta con un album di fotografie in mano lo guardava. Héctor lo invitò a entrare con un gesto. «Dopo aver parlato con lei ieri, ci ho pensato un po’ sopra e mi è tornato in mente cosa ci siamo detti quella notte io e il mio vecchio.» Héctor, sconcertato, osservò il personaggio. Chi poteva essere? Trasse mentalmente le somme. «Sei il figlio dell’Angelo? Scusa, fratello, non ti avevo mai visto senza maschera.» L’Angelo II, senza maschera, fuori dal gioco, sorrise. Si rivelava imberbe, troppo giovane, eccessivamente formale. «Quella di ieri era la mia divisa per la lotta, oggi quella per insegnare chimica a scuola. A volte penso che i miei alunni e il mio pubblico gradirebbero se mi presentassi loro scambiando le divise.» «Ho la sensazione che i tuoi alunni ti adorerebbero. A me sarebbe piaciuto un sacco avere un professore di chimica mascherato.» L’Angelo II appoggiò l’album fotografico sul tavolo con molta cura. Restava pur sempre qualcosa del padre morto nascosto tra le copertine di cuoio verdognolo. «Il mio vecchio quella sera ci stava giocherellando, lo sfogliava. Lo vedi questo, diceva. Io e lui frequentavamo la stessa ragazza. Come se mi volesse dire qualcosa, ma non trovasse il coraggio.» «Puoi ricostruire esattamente com’è andata?» 23


Si chinarono sull’album delle foto. L’Angelo lo afferrò sfogliandolo rapidamente. Si fermò sulla foto di due ragazzi grossi, con un giubbotto addosso, che si abbracciavano come amici legati da un affetto fraterno che non subivano ancora le ingiurie della vita. «Ha cominciato parlandomi di questa foto, del suo amico Zamudio, che veniva dal suo stesso paese, un villaggio vicino a Guadalajara. Avevano fatto coppia per un po’, ma io non l’ho mai conosciuto. Nei primi ricordi che ho di mio padre sul ring combatteva sempre in solitaria, non gli piaceva lavorare in coppia finché non abbiamo cominciato a esibirci insieme noi due, e a quel punto ha smesso di combattere da solo; ma il tizio della foto era stato il suo primo partner, si chiamavano I Fantasmi. Eccoli qui.» Indicò una foto sull’album in cui due uomini mascherati e insanguinati dominavano il ring. Erano in una piccola arena di paese. «E cosa ti ha detto?» chiese Héctor. «Niente, parlava semplicemente dei vecchi tempi.» «E cosa ha detto della ragazza?» «Che l’avevano amata molto entrambi, e sfogliava l’album, ma non mi ha fatto vedere una sua fotografia.» «Sei sicuro che non abbia detto che doveva vedere quest’uomo, che gli aveva parlato, che era riapparso? Non hai avuto la sensazione che si sarebbero rivisti o qualcosa del genere? Poteva essere lui l’uomo che lo è andato a cercare all’arena il giorno dopo? O magari aveva un appuntamento con la donna.» L’Angelo II esitò, poi si decise e mise un dito sulla foto del compagno del padre. «No. Dalle cose che diceva, mi è sembrato che parlasse di lui come se fosse morto. Il suo amico morto...» 24


«Zamudio? Zamudio e poi?» chiese il detective. «Il “Fantasma” Zamudio... Non so altro.» Il sole splendeva. Héctor era seduto su una panchina, con accanto un ragazzino che cercava di far passare un camioncino giocattolo sopra i suoi piedi, cosa che il detective tentava di impedire. Laura gli passò di fianco correndo, indossava un paio di pantaloncini corti e una felpa, l’uniforme delle spose giovani e ancora senza figli che andavano a correre nei parchi, con la speranza sempre più remota di essere abbordate da un giardiniere municipale; ma la crisi aveva costretto i giardinieri municipali al doppio e persino triplo lavoro e ultimamente non scopavano granché, e passavano il tempo con la testa china sul prato, a strappare erbacce e maledire la cattiva sorte. Laura non portava gli occhiali che le davano la sua solita aria da intellettuale, piuttosto si pavoneggiava come una modella yankee della pubblicità di Miss Clairol, la chioma che ondeggiava al ritmo delle falcate. «Quanti giri ho fatto?» chiese Laura senza fermarsi. «Sette...» rispose Héctor e poi, alzando la voce, perché stava già scomparendo tra gli alberi: «E lei, come che la conoscevi?» «Era la figlia di un’amicaaaa...» Héctor studiò la corsa di Laura. Gli piaceva. Non offriva resistenza all’aria, fluttuava, guadagnava spazio in curva... «E lui? Conoscevi anche lui?» Ma Laura era ormai troppo lontana per poterlo sentire. Héctor optò per la pazienza. L’altra possibilità era correrle dietro, ma francamente diffidava del cigolio metallico che avrebbero prodotto le sue ossa. Quando sei più basso di un metro e venti, meglio che ti dichiari nano. Se la prese calma e si mise a fumare. Vecchi che leggevano il giornale (non se lo prestavano, ognuno portava il suo), bambine di un asilo 25


tutte con lo stesso maglioncino rosso che ballavano in cerchio. La fontana. Laura era un’eredità. Quando era sparito il Corvo, era apparsa Laura. Non era una cattiva eredità. Il Corvo un giorno aveva annunciato al pubblico della radio che avrebbe lasciato il suo programma notturno e una settimana dopo era apparsa, raggiante e con la voce vellutata, Laura Ramos. Lei lo aveva chiamato un paio di volte per raccontargli delle storie, altre due volte l’aveva chiamata Héctor per raccontarne altre a lei. Avevano preso qualche caffè insieme in un asettico Vip’s in Insurgentes. Era stata lei a riferirgli che il Corvo gli mandava un abbraccio e che si trovava nella Sierra di Puebla, a dirigere una stazione radio per le comunità indigene, a produrre programmi in nàhuatl; scomparso per tutti quelli che lo avevano conosciuto, in un altro paese, a migliaia di anni luce da questo. Aveva detto che sembrava contento, che un’aura di santità semiprimitiva gli circondava la testa; che era sempre più miope, che stava leggendo il Don Chisciotte. Insomma, Héctor aveva mandato mentalmente la migliore delle benedizioni al suo vecchio amico e aveva ricevuto in eredità Laura Ramos. «In teoria dovrei fare dieci giri, ma siccome ci sei tu qui mi fermerò all’ottavo» disse Laura con il fiatone, e si lasciò cadere ai piedi della panchina. «Non pensare di fare un favore a me. Sei al limite dell’infarto. Fumi più di me, vivi nel D.F., bevi birra Tecate come fosse succo di mela e poi pretendi di condurre una vita sana. L’unica cosa positiva nel fare otto giri di corsa è che nessuno stupratore oserebbe seguirti; in genere sono un po’ sfigati, preferiscono quelle da tre giri al massimo.» Laura con un cenno gli chiese una sigaretta. 26


Héctor gliela diede. Fumarono in silenzio. Poi Laura cominciò a tossire. «Com’è che sei un esperto di stupratori?» «Leggo i fatti di cronaca sui giornali, la prima pagina, le inaugurazioni di opere pubbliche...» rispose Héctor, poi, cambiando argomento, chiese: «E lui? Chi era il ragazzo morto ieri notte?». «Lei aveva diciassette anni, lui diciannove e io non lo conoscevo, non sapevo neanche che esistesse. Tu cos’hai scoperto?» «Poca roba, quello che dicevano sul posto. Patto suicida tra due adolescenti, lui le ha sparato, lei è morta per prima, poi si è suicidato lui. Lei un colpo al cuore, lui alla tempia. Due proiettili, due cartucce. Test del guanto di paraffina positivo per la mano destra del ragazzo. Appartamento prestato. La padrona di casa, una professoressa d’inglese della scuola che i due frequentavano, è in vacanza a Houston o in qualche altro posto dove si vendono hot dog. Virginia non aveva avuto rapporti sessuali né quella notte né prima... Era vergine. Erano nudi...» «Come hai fatto a scoprire tante cose?» chiese Laura. «Ho chiesto, furba» rispose Héctor. «Chi si opponeva alla loro relazione, chi non voleva che diventasse ufficiale? È per questo che si fa un patto suicida, no?» Laura fece una smorfia, scagliò via la sigaretta. «I genitori di lui, immagino. Ma è una stupidaggine. Conosci adolescenti che si suicidano perché qualcuno ostacola i loro amori da diciassettenni? Lei non era così.» «Nessuno è così finché non dimostra il contrario. Cos’è, hai davvero qualche dubbio o la tua è semplicemente la reazione che hanno tutti davanti a un suicidio?» «Questa era la terza cassetta che Virginia mi mandava 27


in radio. Messaggi strani, monologhi, molta necrofilia, tanta disperazione adolescenziale: raccontava cose come manifestazioni studentesche intercalate da angosciose domande su come si combatte l’acne, descrizioni di leoni che fanno l’amore allo zoo mescolate a letture dei sonetti d’amore di Shakespeare. In nessuno dei nastri precedenti ha mai fatto il nome del fidanzato. Non so... Sono riuscita a ottenere dall’emittente i soldi per ingaggiare un detective per una settimana, hanno apprezzato molto l’idea, si sono sentiti moderni. Segui la storia, raccontamela. Chi era Virginia? Davvero si è uccisa?» Héctor fece la faccia di chi non ha la minima intenzione di comprarsi quel biglietto della lotteria, neppure se gli garantissero tutti i ricchi premi del mondo. «Che c’è? Non ti ho convinto? Non mi dire che hai troppo lavoro, da quando in qua hanno...» «Devo ancora risolvere il caso di un amico.» «Fai ancora favori?» Héctor annuì sorridendo. «Allora fammi questo.» Héctor ci mise un po’ a rispondere: «Ho visto la faccia della ragazza... da morta. Non che mi disturbino i patti suicidi, per me ciascuno può decidere di andarsene come e quando vuole... Non so, è quella mania di pensare che non ci si ami più come una volta, che nessuno più si spari per amore. Era distesa su un letto, completamente coperta da un lenzuolo, tranne il viso. Era una bellissima ragazzina morta». Laura studiò il detective con sguardo obiettivo. «Disastroso» poteva essere l’aggettivo adatto per descrivere il suo aspetto. Ma con Belascoaràn non si poteva mai dire. «Un detective romantico è ben peggio del padrone di un’emittente radiofonica. E se non ti dispiace, a me risul28


ta che la ragazza fosse molto più bella da viva» disse Laura prendendogli un braccio e stringendo. «Hai ancora i nastri che ti aveva mandato prima?» «E l’indirizzo di casa sua, e un biglietto per presentarti alla madre, e una lettera dell’emittente in cui si spiega che lavori per noi...» Prese un pacchetto dalla borsa che aveva lasciato sulla panchina accanto al detective e distribuì i foglietti sulle gambe di Héctor. «Che cos’è che ti fa andare avanti?» chiese Laura fissando il detective. «Non lo so, forse un miscuglio di inerzia, curiosità e salario minimo... Ultimamente mi sento molto strano. Capisco sempre meno la gente. È il male del D.F. Un cocktail di influenza e inquinamento. Mi sa che sto invecchiando.» Héctor si alzò, andò fino alla fontana e vi immerse una mano, l’acqua era tiepida, ma scorreva tra le dita. Laura dalla panchina fece l’occhiolino al detective: un saluto molto discreto da parte sua. Più tardi, ripensando alla conversazione con la conduttrice radiofonica, Héctor si disse che ultimamente si sentiva molto strano, davvero fuori fase. Che, certo, le sue motivazioni erano un miscuglio fra l’eterna e insaziabile curiosità, il calarsi nelle storie degli altri, il metterci il naso trasformato in mestiere; e poi, a volte addirittura lo pagavano. Ma la cosa non funzionava più perché sempre più spesso era uno spettatore che stentava a capire le persone; questo giovava al momento di affrontare un nuovo caso ma aiutava poco a risolverlo. Probabilmente non tutta la colpa era sua. Probabilmente, anche se a Laura l’aveva detto un po’ per scherzo, era vittima di una delle malattie comuni che negli ultimi tempi affliggevano Città 29


del Messico e cominciavano a essere chiamate, genericamente, mal chilango, lebbra del D.F., causata da catarri virali e dalla frequente inalazione della merda che c’era nell’aria. Héctor considerò anche un’altra possibilità: stava per compiere quarant’anni, stava invecchiando. Pensava a queste cose perché lentamente si diluiva nella sua testa l’impulso originario a fare giustizia a qualsiasi costo, mentre si depositava piano piano, come un sedimento solitario, l’eterna razione di curiosità. Un male concreto: la curiosità senza il desiderio di una vendetta riparatrice. Ciò nonostante, entrò nell’arena e perse metà del pomeriggio a far domande senza risposta. A quel punto realizzò che avrebbe dovuto cercare nei posti giusti, le rubriche telefoniche, le bibbie umane ambulanti, le memorie storiche corporative. Allora andò dritto dal personaggio che avrebbe avuto le risposte. Trovò Tesorino in un corridoio. Era in borghese, senza la chioma rosa e la maschera fluorescente con cui si era esibito negli ultimi anni. Sembrava molto più piccolo, coperto dalle cicatrici del vaiolo, smunto, vecchio, sereno. Il primo lottatore checca del D.F. Prima che gli omosessuali conquistassero il loro diritto all’esistenza pubblica alla luce del sole, Tesorino l’aveva imposto nelle arene a suon di calci nelle palle. «Mi racconti di Zamudio?» chiese il detective. «Ehi, prima si saluta, amico» disse Tesorino tendendogli una mano nodosa. Alle sue spalle si udivano le urla del pubblico che incoraggiava gli atleti delle eliminatorie. «Il mio più cordiale buona sera» disse il detective stringendogli la mano. «A dire il vero» disse Tesorino ritenendosi soddisfatto «Zamudio era conosciuto col nome di Fantasma solo quando combatteva in coppia con l’Angelo, per questo nessuno le parla di lui, perché lei fa confusione. Zamudio era il Diavolo 30


di Jalisco, e prima ancora il Ribelle Blu e prima, ma per poco tempo, quando ha combattuto per un paio di mesi in una piccola arena nella capitale, si faceva chiamare il Groviglio Mortale. Insomma, quello ha avuto più nomi di me.» «Perché, lei quanti ne ha avuti?» chiese Héctor. «Cinque, più un soprannome, ma il soprannome non glielo posso dire perché è una vera porcata. I cinque nomi erano il Furbo di Tecamachalco, lo Stilista Dorato, l’Arcangelo Grabiele...» «Gabriele...» «No, Grabiele. Gabriele è l’arcangelo vero. E poi sono stato il Cane delle Praterie, e finalmente, quando sono stato davvero me stesso...» «E il Fantasma Zamudio, che aveva anche altri nomi, che fine ha fatto?» Un boato particolarmente forte attirò l’attenzione del vecchio verso il ring. Uno degli atleti in gara stava sanguinando. «Ecco, Crispín ha avuto quello che si meritava. L’avevo avvisato. Quando si è cretini... Zamudio. No, Zamudio è scomparso nel ‘68 o nel ‘71, durante i movimenti studenteschi. Un giorno è uscito da un combattimento che aveva fatto in coppia con l’Angelo. All’epoca sì, li chiamavano I Fantasmi. È uscito e ha detto al suo second: “Torno subito, fratello, vado a dare un’occhiata a una di quelle manifestazioni degli studenti, lo sai che mi esaltano”. E non si è mai più visto. Né qui né da nessun altra parte.» «Cosa gli è successo?» Il vecchio lottatore non rispose perché si era interrotto per guardare la faccia del famoso Crispín, che gli passava accanto su una barella. Tendendo la mano con un gesto arrogante, fermò i barellieri. Héctor contemplò lo schifo a cui 31


l’avevano ridotto; il vecchio, affettuoso, lo picchiettò sulla testa. «Io te l’avevo detto, Crispín. Non bisogna aprire la bocca quando si fa una forbice.» Il ferito balbettò qualcosa di incomprensibile. I barellieri lo portarono via. Héctor, anche se quasi quasi gli interessava più la storia di Crispin del suo caso, tornò all’attacco. «Cos’è successo insomma al Fantasma Zamudio?» «Chi cazzo lo sa, è sparito, come un fantasma. Pensi che spiritoso, il Fantasma Zamudio è svanito... Forse era semplicemente molto innamorato. Succede, lo sa?» «Come sarebbe, molto innamorato?»


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